lunedì 25 settembre 2017

Un ’68 lungo una vita


Questo testo viene pubblicato in Germania nel catalogo della Mostra del ‘68

Per qualche settimana sarò impegnato nel montaggio del nuovo docufilm “O LA TROIKA O LA VITA – Epicentro Sud” e dovrò rinunciare a qualche intervento sull’attualità politica e geopolitica. Nel frattempo lascio ai miei interlocutori questo lungo testo su quello che considero il periodo più significativo nella storia del nostro paese, il decennio ’68-’77. Un decennio di cui non si dovrebbe perdere la memoria e di cui si devono contrastare le analisi strumentali, quelle fatte con il facile senno di poi, spesso denigratorie, o mettendo al centro le scelte opportuniste e il degrado politico e morale di alcuni personaggi allora molto in vista. Si tratta anche di una mia esperienza personale di grandissima intensità e che alle radici molto lontane nel tempo aggiunge un retaggio che non muore.

1945. Sparare dalla parte sbagliata contro la parte giusta

Quella dal ’68 in poi è una storia di contestazione, rifiuto, rivolta, nuovo modo di vivere e stare insieme. La mia storia “contro lo stato di cose presente” preso inizialmente, molto inizialmente, un indirizzo diverso, sbagliato, a giudicare dagli esiti storici. E’ che stare nello Jungvolk, l’organizzazione della NSDAP per i ragazzetti tra i 10 e i 14 anni (poi si passava alla Hitlerjugend, se si faceva in tempo prima del Bunker), a me era piaciuto. Si era in compagnia di coetanei, si aveva una bella divisa – pantaloncini blù, camicia kaki, fazzolettone nero e, nientemeno un pugna- letto al cinturone. Si facevano un sacco di giochi, battaglie tra romani e germani intorno ai ruderi del Vallo di Adriano nell’Odenwald, palle, palloni, escursioni, cameratismo, canzoni esaltate ed esaltanti. E, soprattutto, si marciava attraverso il paese, banda in testa, con la gente che sorrideva (o ghignava) da finestre e lati della strada. In più, si credeva di avere un ideale e lo si cantava a gola spiegata.

Che ci faceva un ragazzetto italiano nello Jungvolk?  Scherzi del destino. Papà sotto le armi nell’esercito del re, mamma, sorella ed io in vacanza in Baviera. Eravamo alleati, ospiti graditi. Ma scattano il 1943 e l’8 settembre e passiamo da alleati a nemici, peggio, traditori. Non più graditi e perciò costretti dal Gauleiter al domicilio coatto in una bellissima cittadina della Franconia. Dal momento che ci siamo dovuti restare fino al 1946, costretti prima dal Gauleiter e, poi, dal comandante americano, Ci ho fatto le medie inferiori e, quando i tank americani si sono presentati all’imbocco della statale, gli ho pure sparato addosso. Addosso, per dire. C’erano armi dappertutto, abbandonate dalla Wehrmacht allo sbando. Con amici più grandi rimediammo una Maschinengewehr Messerschmidt e, da dentro al bosco, tirammo sulla colonna in arrivo. Non ho idea di dove fosse finita quell’unica raffica. Ma ricordo che, in risposta, ci fu uno schianto e un boato dietro di noi, e terra e rami che piovevano. Scappammo come quei gatti  alla cui coda si usava appendere micette. Ma avevamo difeso “l’onore della Germania”

Una questione personale
Avevo anche una ragione più personale per fare quella cazzata nobilissima. Eravamo sul finire del 1944, frequentavo la seconda media. Venivamo bombardati e mitragliati, per quanto fossimo una piccola cittadina, strategica forse solo perché c’era un ponte sul Meno. Era stato convocato il Volksturm, l’estremo tentativo di Hitler di mobilitare quel che restava di un popolo già decimato, affamato, evacuato. Partirono tutti i maschi, tra i 14 e i 65 anni, qualche volta con le vanghe in spalla come arma. Partì il lattaio un po’ matto, partì il libraio pelato con tanto di pancetta e il capottone. Partirono i compagni delle medie superiori. Unici maschi rimasti, quelli sotto i 14 anni, facevamo da protezione civile. Quando suonava l’allarme aereo e tutti si precipitavano nei rifugi o in cantina, dovevamo correre al centro raccolta dello Jungvolk e da lì partivamo a spegnere gli incendi e a raccogliere i feriti, a togliere le macerie dalle strade.

C’era un insediamento di profughi dalla Colonia distrutta, sistemati in baracche al di là del fiume. Un giorno, mentre ancora suonava la sirena, quelle baracche presero a fumare. Accorremmo, ovviamente in uniforme. C’erano corpi dappertutto, le baracche incenerite e fumanti. C’erano cavalli con la pance squarciate. C’era un mio compagno di classe. Steso davanti alla sua casetta di legno. Tanta gente,  ma non si sentiva un suono, un lamento. Solo quel rombo degli aerei che andavano e venivano. E l’ormai inutile urlo della sirena.  Il mio amico aveva i calzoncini corti, gli occhi spalancati sul cielo, le gambe piegate e le viscere sparse sull’erba. Ho pensato a lui quando spingemmo il pulsante della raffica sui carri americani.

Breve marcia di ideologia in ideologia. Un po’ grazie al militare, un po’ grazie a Swinging London
Prima di uscire da un’idea contro che mi avrebbe procurato nel tempo un sacco di improperi e illazioni maligne, dopo tutto ero un bambino, ci misi un po’. In piccolissimo parevo un po’ il Malaparte dalla parte dei vinti. Se Totò parlava di uomini e caporali, stavolta i caporali erano i miei compagni, nella Genova tutta partigiana, che mi sfottevano per l’acquisito accento tedesco. Pensare che i miei compagni tedeschi mi davano del “Badoglio” e spesso finiva a cazzotti. Credo che la svolta vera capitò quando ero di leva, nel corpo dei bersaglieri. Li avevo scelti perché erano quelli di Porta Pia e della fine dello Stato Pontificio, quelli delle battaglie vittoriose contro gli austriaci  Feci una grande, indimenticabile amicizia con Marcello, carrista, studente di architettura e comunista. La violenza prevaricatrice del sistema e della sua gerarchia ottusamente autoritaria dettero una mano per il cambio di paradigma. Però devo dire che, dopo tutti quegli anni in Germania, diventai anche più italiano: la Leva era l’occasione per mescolarsi agli altri diversi per regione, dialetto, classe. E di conoscerli e di conoscere il paese.


Un’altra spintarella verso un conflitto con il nuovo esistente, capitalista, me lo diede, eminentemente sul piano del costume e della distruzione di certi tabù autocastranti, la Swinging London e la sedicente rivoluzione hippy degli anni ’60. C’ero capitato, a Londra, avendo vinto un concorso per la radio BBC World Service . L’istinto di bastian contrario, forse legato a cromosomi, forse alle botte di mia madre,  forse alle risse con i compagni, si politicizzò meglio quando presi a lavorare come corrispondente da Londra per un quotidiano di sinistra romano che dava addosso, con grande baldanza, al regno democristiano e a chi, di là dall’Atlantico, sminuzzava il paese e il popolo del Vietnam.

Dentro le guerre, annusando rivoluzioni
Qualcosa di drastico e, a quanto risulta, di definitivo, è legato a tre missioni di inviato di guerra per giornali italiani vari. In Palestina, quando vidi la Guerra dei Sei Giorni bruciare villaggi di contadini; in Irlanda del Nord, dove pacifici, allora, ma affamati e discriminati proletari repubblicani che manifestavano venivano massacrati da poliziotti unionisti e bande fasciste, prima, e poi sparati dai soldati di Sua Maestà; in Eritrea dove, dai primi anni ’60, un intero popolo lottava in armi per la sua liberazione dal colonialismo etiopico e io ci marciai insieme tra le fiamme e le bombe e le gazzelle abbattute per un boccone di carne.

La rivolta di Berkeley, settembre 1964, prima scintilla di uno Zeitgeist che avrebbe incendiato mezzo mondo per molti anni, quando la Guardia Nazionale sparò, ferì e uccise, aveva subito dato alla contestazione giovanile ed intellettuale di quegli anni ancora in fasce una connotazione internazionalista e terzomondista, con al centro il Vietnam. Parole d’ordine antimperialiste che echeggiavano anche sopra la strage della piazza delle Tre Culture, a Tlatelolco, in un Messico impoverito e umiliato, quando l’esercito sparò sugli studenti alla vigilia della solita festa olimpionica dell’ordine capitalista, facendo centinaia di morti (il numero esatto è sempre stato occultato). Il seme era germogliato già prima, con la solidarietà delle sinistre mondiali alle lotte di liberazioni anticoloniali che per vessillo e modello avevano l’Algeria di Ben Bella. La guerra dei Sei Giorni, 1967, e poi quella del Kippur (1973), avevano acceso e poi alimentato la fiamma della resistenza palestinese, prima dei guerriglieri Fedayin, poi delle varie Intifada dei sassi.


A questi appuntamenti un sessantottino e, perlopiù, uno specialista degli affari internazionali in Lotta Continua non poteva mancare. Sostenendo i viaggi e i materiali non certo con i contributi di Lotta Continua, che non pagava un soldo, ma con gli articoli che mi pubblicavano i settimanali “Giorni Vie Nuove” e “ABC” e con le fotografie che distribuivo alle agenzie internazionali, ho potuto frequentare anche l’epopea dei combattenti palestinesi, prima con le incursioni nei territori occupati partite dalla Giordania, poi nella lunga battaglia in Libano contro la destra filo-israeliana dei Falangisti di Gemayel e Chamoun.

Fe-fe-Fedayin!
La base del fedayin del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, dove, con tanto di autorizzazione del leader Nayef Hawatmeh, trascorsi l’intera primavera del 1970, è in una caverna nei monti che guardano da est la valle del Giordano, a un tiro di Kalachnikov dal fiume. E’, naturalmente, una base internazionalista: accanto ai figli della deportazione del 1948, ci sono egiziani, giordani, algerini, francesi, britannici e questo italiano. Di giorno si pensa ai rifornimenti, ai pasti, alle letture, al montaggio e smontaggio delle armi. Di sera almeno un paio d’ore sono impegnate nel dibattito politico, su imprescindibile base marxista-leninista, con innesti di Mao, dato che, anche qui tra gli autoctoni, soprattutto di contadini si tratta, in qualche caso diventati studenti. Qualcuno suona, qualcuno canta. Il capo, un palestinese di poche, utili parole, gentile, che emana consapevolezza e autorevolezza da ogni quadratino della sua kefiah, si chiama Mehdi. Se l’’è portato via il Settembre Nero.

Alle ore piccolissime del nuovo giorno si parte per l’appuntamento con le pattuglie israeliane che percorrono le terre lungo il Giordano. A volte si guada il fiume, si pongono mine, o si allestisce l’imboscata. Altre, ci si annida tra i cespugli sulla riva sinistra e si attende il passaggio del blindato. In quel caso, appena i fedayin hanno scaricato il caricatore e, io, il rullino della fotocamera, senza che si intromettesse un frammento di minuto, dall’altra parte arriva l’inferno. Ci tirano addosso di tutto, mitragliatrici, mortai, cannoni senza rinculo, razzi. Il trucco sta nell’istante, mille volte provato, dell’acrobatico balzo, carpiato con torsione all’indietro, dall’appiattimento proni sotto il cespuglio alla posizione pancia a terra sul terreno libero, per subito strisciare col passo del leopardo, sgomitando tra le zolle, verso la copertura del bananeto a un centinaio di metri e, poi, del canalone secco ad altri cento. Freneticamente, prima che, nel giro di minuti, si alzino gli elicotteri israeliani e inevitabilmente ci facciano secchi. Per tutto il tempo della mia villeggiatura nelle grotte sul Giordano, c’ è sempre andata bene.

Poi venne il Settembre Nero. Re Hussein obbedisce alle intimazioni dei pratici di genocidi, massacra le organizzazioni della Resistenza, che si rifugiano in Libano, e migliaia di civili palestinesi. Di operazioni dei fedayin in Giordania non si parlò più.
E venne il 30 gennaio 1972, Bloody Sunday. Di nuovo inviato di guerra per “Giorni Vie Nuove” e “ABC”, nel Nordirlanda dell’insurrezione. Per i più elementari dei diritti civili, per la liberazione dell’ultima colonia in Europa, per l’unità dell’isola celtica squartata dai britannici. Era bellissimo, a Belfast e a Derry come nella Comune di Parigi. Una rivolta di popolo, che marciava, cantava, accoglieva, sparava. Ne parlo dopo.

Siamo operai, compagni, braccianti e gente dei quartieri / siamo studenti, pastori sardi, divisi fino a ieri!
Bello gasato, di ritorno da Derry, Nord Irlanda, capitai all’università di Roma in un concerto di tale Pino Masi. Era il cantore di Lotta Continua, prima e massima organizzazione rivoluzionaria italiana di quella fase in cui studenti, operaie e donne pensavano di dover riprendere il discorso della lotta partigiana contro il nazifascismo, ma anche contro l’establishment capitalista e contro l’imperialismo. E fu la musica a darmi il tocco magico, a farmi risuonare dentro strumenti sconosciuti. Lotta Continua, tra le tante cose belle e le tante cazzate, era il motore di una cultura alternativa. Più di altri gruppi produceva cultura, letteratura, arte, musica, cinema, canzoni che, come succede nei bei periodi della storia dei cambiamenti, raccontavano la vicenda in corso, quella sofferta, quella sperata. Individuavano i buoni e i cattivi, sparavano idee ed emozioni. Fu amore a prima vista.

Rimasi per un po’ a fare il cronista di Paese Sera, che ebbe la malaccortaggine di mandarmi a seguire le manifestazioni studentesche e operaie del ’68-‘69. Cioè degli anni turbolentissimi della prima contestazione, più tardi truculentissimi. Ma non eravamo più noi. A manipolare l’impasto si era infiltrata una manina spuria.

Un po’ per volta, più che andare ad annotare cosa succedeva tra manifestazioni, presidi, assemblee universitarie, barricate, pestaggi della polizia e la sempre più robusta risposta di popolo, mi succedeva di starci dentro, di partecipare, di condividere, di fare amicizia con gli esponenti in vista, di ospitarli in casa, protetti dal mio status di giornalista, quando le retate della polizia gli davano la caccia. Il che si rifletteva inevitabilmente nei miei resoconti che divenivano via via meno sobri, meno distaccati, e più solidali con chi  le prendeva di più e le dava di meno, pur avendo, nel sistema sclerotico, corrotto, autocratico, dalla famiglia al lavoro, dalla scuola alla fabbrica,  tutte le ragioni del mondo.

E questo al mio giornale non tornava tanto. Il partito al quale faceva riferimento e che, sulle prima aveva pensato di sostenere e, più che altro cavalcare, l’ondata di protesta di tutta una generazione, con al fianco il meglio dell’intellighenzia nazionale ed europea, tutt’a un tratto si rese conto che la cosa gli stava sfuggendo di mano, che gli obiettivi del movimento erano di mille lunghezze avanti ai suoi, che minacciava di sorgere e crescere qualcosa alla sinistra del PCI, cosa che nessun partito comunista, per quanto normalizzato e integrato, avrebbe mai potuto tollerare. Il PCI divenne un nostro nemico, “burocrati revisionisti che facevano da cane di guardia al capitale”. E quanto avevamo ragione! Il ministro degli interni, Pecchioli, menava peggio di Rumor. Sotto la sede nazionale del partito, a Roma, Via delle Botteghe Oscure, si transitava intonando al segretario beffe e insulti: “be-be-be-Berlinguer”.

Qui c’erano operai del Sud, che ieri erano contadini spossessati e strangolati da mafia e Stato e oggi erano operai rinserrati nelle baracche ai margini della Fiat o della Pirelli. Qui c’erano studenti che mettevano in discussione un apparato e metodo dell’istruzione, della magistratura, della stampa, ereditato pari pari dal fascismo, peggio, dai Borboni, peggio, dai Savoia, come pari pari era stata recuperata l’intera amministrazione mussoliniana dello Stato. Qui c’erano donne che se la prendevano col patriarcato che ne riduceva gli spazi pubblici, economici, sociali, politici, a meno di un terzo di quello degli uomini. Qui c’era un ambiente ridotto a pascolo di speculatori, cementifica tori, inquinatori.

L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita…
Qui c’erano le periferie degli espulsi dalla montagna, dalla campagna, dal mare e, infine, anche dalla città che gli chiedeva di accontentarsi di fornire manodopera a saldi, quando andava bene. Il celebrato boom degli anni ’60 aveva fatto schizzare in alto una cerchia di redditieri, parassiti, o astuti imprenditori dal respiro corto (glielo avrebbe poi mozzato definitivamente il mercato dei beni industriali italiani messo su dagli Andreatta, Draghi, Amato, Prodi, D’Alema, Bersani). Qui c’erano ragazze e ragazzi che si lasciavano alle spalle preti, indissolubilità del matrimonio, delitti d’onore, illibatezza, padronanza clericale sul proprio corpo, padri e mariti padroni, superstizioni e menate varie, onanismo in testa, e passavano alla conoscenza reciproca, alle demistificazione e deretoricizzazione dei sentimenti, dalla melassa al buon vino.

Culi caldi e morti al freddo
E fu fisiologicamente il passaggio da Paese Sera alla libera professione e di quello che un po’ narcisisticamente, ma con molta convinzione, chiamavamo  “rivoluzionario di professione”, la militanza a tempo pieno. Militavo in LC e scrivevo per qualunque foglio o radio, e allora mille fiori erano fioriti, che accettasse le intemperanze, le passioni, le esplosioni di collera, le esagerazioni, che succhiavo dal sangue di quel decennio. Un decennio che fu il terzo risorgimento italiano, dopo quello per l’unità  nazionale e quello della liberazione dal nazifascismo. Roba che mi è rimasta attaccata e che mi pare tenga insieme le mie sinapsi, a barricata contro tempo e riflussi. Come mi sono rimasti attaccati certi nomi, certe facce: Saverio Saltarelli, Mariano Lupo, Tonino Miccichè,  Walter Rossi, Francesco Lorusso…. Tanti tantissimi. Uccisi dal padrone o dai fascisti, dicevamo. Uccisi da uno Stato che stava già diventando di Polizia. Diversamente da altri, sono morti sepolti in una memoria  in coma.

Rispetto alle altre organizzazioni antagoniste europee, marxiste, leniniste, maoiste, anarchiche, trotzkiste, hippiccheggianti, Lotta Continua era quella con maggiore seguito numerico, ma anche la più versatile e creativa, con un’inedita ma vivace mescolanza di marxismo dei Grundrisse, scuola di Francoforte, terzomondismo alla Fanon e Malcolm X, spontaneismo. Questo la portava ad allargare l’azione politica oltre i tradizionali confini della classe operaia. Furono coinvolti sottoproletari dei campi e delle periferie, i senzatetto con le occupazioni, i carcerati, i soldati di leva, perfino i poliziotti. L’intervento si allargò da fabbrica, scuola, università, all’universo mondo. Un nuovo programma si chiamava “Prendiamoci la città” e contemplava studi, analisi, mobilitazioni a 360 gradi su tutte le problematiche della vita urbana. Si ragionava in termini gramsciani delle casematte da conquistare.


Lavoravo a tempo pieno nella redazione esteri del quotidiano omonimo di LC. E, dato il mio curriculum di esperienze internazionali e il patrimonio di lingue, venivo spedito di qua e di là, dalla guerra civile del Libano alla rivolta nordirlandese, alle sedi di LC all’estero. E ne riferivo in articoli, libri e documentari filmati. Tipo Francoforte, da dove un nostro nucleo, in coabitazione con i tedeschi, faceva intervento politico tra le decine di migliaia di operai italiani e stranieri nelle fabbriche della Ruhr. A Roma avevo casa nel centro storico, a Trastevere, vicino alla sede del giornale, che era anche quella della direzione. Il che faceva sì che a me si chiedesse di ospitare chiunque che, nel gran traffico di scambi con i compagni stranieri, capitasse a visitare l’organizzazione. E tutti venivano, dormivano, la sera cantavano (avevamo formato un gruppo e componevo canzoni rivoluzionarie che strepitavamo in giro), mangiavano, scopavano. Nessuno che avesse mai lavato i piatti o rifatto il letto.

Compagni a passo di gambero
Mi capitò anche un non molto gradevole, ma molto preso di sè, Daniel Cohn Bendit, “Danny il rosso” (si confermò rosso di pelo, ma presto smentì radicalmente il rosso politico), che ricordo masticare pasticcini all’hashish e bere tè alla marijuana e, quando gli ricambiai una volta la visita a Francoforte, girare nudo per un grande appartamento di boiserie grattandosi le palle. Suscitavamo molta simpatia tra intellettuali intelligente, anche stranieri. Ci sostenevano regalandoci quadri, facendoci concerti, intervenendo a convegni, offrendo donazioni. Con uno di questi, particolarmente esimio, diventammo amici per anni. Uno dei massimi scrittori americani, critico al vetriolo della degenerazione yankee: Gore Vidal.
Un altro con cui a pelle non mi ci trovavo era l’allora già osannato e poi santificato tout court (probabilmente dagli amici del giaguaro) Alex Langher, ebreo altoatesino convertito a un cattolicesimo di rigido buonismo. Nella cupola capeggiato dal principe della supponenza soperchieria (dove tale qualità porta s’è visto), Adriano Sofri,  aveva il ruolo del Fouché, ministro di polizia. Allestiva processi popolari. Fui processato anch’io. Un cupo suqallidoneNon ricordo più se fu questione di spinelli o di donne. Si riciclò, come molti suoi soci nell’azionariato rivoluzionario, da verde. Verdissimo. Predicava lentezza, gentilezza, pace. Quando il papa, Berlino e i fascisti croati incominciarono ad azzannare la Jugoslavia, fu prontissimo a invocare, senza tanta lentezza, gentilezza, pace, bombardamenti Nato sulla Serbia. Finì con l’impiccarsi. Un ipocrita. C’era di meglio tra noi.

Bloody Sunday
 
 Mie
Mie foto della Domenica di Sangue

Capitai nuovamente a Derry in un momento stellare, a cavallo tra 1971 e 1972, quando la protesta civile di cattolici repubblicani stava assumendo, sotto la violenza repressiva, forme un tantino più energiche. Era ricomparsa l’IRA e noi eravamo con essa. Momenti esaltanti come la cacciata dal ghetto di Derry, a furor di popolo e di Molotov, degli occupanti britannici e la costituzione della Free Derry, emula della Free Belfast, piccole riproduzioni della Comune di Parigi. Momenti drammatici come la Domenica di Sangue, Bloody Sunday, il 30 gennaio 1972. Un pacifico corteo per i Civil Rights, con tutto il popolo del ghetto, 20mila tra donne, uomini, bambini, aggredito alle spalle, su evidente ordine di Londra, dal 1° Battaglione Paracadutisti di Sua Maestà. Ammazzarono a freddo 14 persone, ne ferirono decine. Ero l’unico giornalista straniero sul posto e fotografai e registrai su nastro quelle che erano nient’altro che esecuzioni extragiudiziali di innocenti inermi. Tutta la stampa convenuta per l’evento del corteo, era stata tenuta lontana dalle barriere dell’esercito. Da povero cronista, abitando già nel ghetto, mi ero trovato dalla parte giusta. E fu lo scoop. E un mio sguardo nell’abisso della nequizia del potere. Tale da conoscerlo per sempre.

Con quella feroce provocazione, Londra intendeva trasformare il conflitto civile in armato, contando di vincerlo in quattro e quattrotto. Ma l’Ira crebbe, ebbe dietro di sé la totalità della minoranza e una vera e proprio guerra anticolonialista, l’ultima in Europa, durò fino al 1998. Fu in quell’anno con un accordo a perdere, quello del “Venerdì Santo”, da Gerry Adams, che avevo conosciuto comandante dell’Ira, l’organizzazione storica della resistenza irlandese, accettò il cessate il fuoco, l’accordo per un governo provinciale delle Sei Contee sotto tutela di Londra e la consegna delle armi. Consegna che non fu chiesta alle organizzazioni paramilitari protestanti e unioniste. Bobby Sands e i suoi nove compagni, uccisi dalla Thatcher per sciopero della fame, morti invano?

Recenti visite in Nordirlanda, per testimoniare alle inchieste che il Regno Unito, sotto pressione popolare, dovette condurre sul massacro di Derry, mi confermarono che lassù nulla è risolto e che il fuoco continua a covare sotto la cenere. Al di là di ogni “compromesso storico”. A riunificarsi gli irlandesi non hanno rinunciato per tre secoli e milioni di morti. Non si vede perché dovrebbero adesso.

Le mie foto e registrazioni della mezz’ora di stragismo britannico costituivano un materiale che avrebbe messo i responsabili con le spalle al muro. Il comando inglese diede ordine, via radio, di fermarmi in ogni modo e prelevare quanto portavo addosso. Ragazzi dell’Ira che avevano intercettato la comunicazione, mi presero in carico, mi nascosero nel cuore del ghetto e, la notte stessa, per vie solo a loro note, mi trasferirono nella Repubblica dove, a Dublino, la mattina dopo, potei fornire a televisione, radio e stampa le mie immagini e le mie voci di verità. Verità che, intanto, nelle trasmissioni dei canali britannici avevo sentito raccontare così dai comandanti sul campo: “Un nostro reparto a Derry ha dovuto rispondere a un’imboscata dell’Ira che ci ha sparato dai tetti. Ci risultano alcune vittime”. Una volta per tutte mi ero reso conto di chi  siano i maestri massimi di fake news. Tutto questo lo riversai in due libri “Un Vietnam in Europa”, “Blood in the street” e in un docufilm, che Marco Ferreri, il grande regista, mi montò e che LC diffuse. Tutte le copie confiscate dalle varie polizie interessate, disperse, perdute. Ci ne sapesse qualcosa, me lo faccia sapere.

Direttore di giornale: 150 processi
L’assassinio, nel 1972, di Mario Calabresi, il commissario di polizia di Milano che aveva puntato sugli anarchici e su tutto il movimento di quegli anni e che la controinformazione ritenne responsabile dell’uccisione dell’anarchico Giuseppe Pinelli, volato da una finestra della questura, provocò un editoriale di Adriano Sofri, leader di LC, che definì l’uccisione giustizia popolare e le conseguenti dimissioni  di una scandalizzata direttrice responsabile del quotidiano, la scrittrice Adele Cambria. Successore di questa, ma anche di Pier Paolo Pasolini e altri più illustri di me, assunsi io la direzione responsabile e ne ricavai un bombardamento di denunce e processi. Non tanto per quanto il giornale stampava, o tantomeno per quanto io scrivevo di Palestina, Irlanda, Vietnam, lotte anticoloniali, Cuba. Piuttosto per le follie di manifesti, volantini e dazebao che inconsulti, onanistici e irresponsabili compagni diffondevano localmente invitando a impiccare Gianni Agnelli, a sparare sugli ufficiali, a dar fuoco all’ambasciata Usa. O almeno questo era il pretesto dell’Ufficio Politico della Questura.

A tal punto crebbe la montagna dei rinvii a processo che, a un certo punto, inizio del 1973, si sentì aria di mandato di cattura. Già era stato arrestato il direttore del giornale di Potere Operaio. Si ritenne, non di liberarmi del fardello da capro espiatorio, ma di farmi per un po’ sparire dalla circolazione. Rimasi fuori fino al 1975. Prima a Londra, ambiente familiare, e poi a Bruxelles, per sopravvivere (avevo una compagna e un figlioletto): riuscii a farmi prendere come interprete dalla Commissione Europea. Non fecero la benché minima ricerca sul latitante!

Londra: Lotta Continua diventa “Fight On”
A Londra fu molto bello. Non c’era niente di paragonabile a Lotta Continua. Così, approfittando dell’ospitalità, collaborazione e sede di un simpatico  gruppo di anarchici, insieme a diversi espatriati politicizzati, fondammo “Fight On”, cioè Lotta Continua di Gran Bretagna. Nientemeno. E ci demmo da fare, mica no. Eravamo una trentina e, più esperti degli inglesi nello scasinare, avevamo l’impatto di dieci volte tanti. Il nostro quartiere, Ladbroke Grove, contiguo a Notting Hill, formicolava di poveri, immigrati, squatter, tutti molto giovani. Il ciclostile dei compagni anarchici lavorava fino all’incandescenza. Organizzammo occupazioni di case, assemblee di quartiere, su tasse, trasporti, repressione, colonialismo, discriminazioni, imperialismo, formammo un gruppo canterino e tradussi in inglese le nostre canzoni. Non mi fu mai chiaro se le facce attonite del nostro pubblico in piazza esprimevano meraviglia, ammirazione, o sgomento.

Facevamo decine di chilometri per volantinare addirittura a Dagenham, la più grande fabbrica di automobili, Ford, dell’Inghilterra. E, se su tutto il resto la Special Branch, polizia britannica addetta agli insubordinati politici, sembrava aver sorvolato, la nostra penetrazione in un ambito di classe più strategico, dove ci affiancavamo ad altri con attività e obiettivi affini, prefigurava qualcosa di fastidioso. Una gola profonda ci avvertì del girolonzolio intorno alla nostra abitazione (occupata) di elementi sospetti. Aria pesante. La sacra famigliola aveva appena fatto in tempo a levare i suoi quattro stracci e a prendere il traghetto per Ostenda, che fummo avvertiti dell’irruzione della Special Branch nell’alloggio abbandonato. Fìuuuu!

Un latitante alla Commissione Europea
A Bruxelles riuscii ad arruolarmi nella Comunità Economica Europea, da interprete,. cambiando solo il nome (di cognomi Grimaldi ce ne sono quanti i grani di sabbia). Sguazzai nell’impunità e in un tardivo sussulto di vita goliardica per quasi due anni. Da squattrinato totale, mi ritrovai con belli eurosoldini in tasca. Da motociclista divenni automobilista  e per un po’ il mondo mi fece l’occhiolino.

Parve che a metà 1975 il famigerato mandato di cattura al direttore responsabile del quotidiano Lotta Continua, e irresponsabile dei supplementi al giornale pubblicati altrove, fosse stato ritirato. Tornammo e ripresi il mio posto al giornale, agli esteri, non più come direttore. 150 processi per reati di stampa erano bastati. Era il tempo degli ultimi fuochi di una grande speranza di riscatto dei deprivati e offesi. Si era già diffuso l’obnubilamento di una  militarizzazione suicida, perché del tutto anacronistica e fuori contesto. Ovviamente indotta e manipolata. Al di là di una manovalanza, quanto meno onesta, che vi si smarrì. Il giornale, diretto da Enrico De Aglio, si addomesticò spontaneamente. O perché glielo raccomandò il nuovo nume tutelare, Claudio Martelli, braccio destro di Craxi. Chissà.

1977, tra indiani senza tomahawk e gente con la P38
Il ’77 vide la comparsa di nuove forme di organizzazione di opposizione radicale. Gli Indiani Metropolitani, situazionisti e luddisti, un po’ tardiva swinging London, un po’ Sioux da pellicola. E Autonomia Operaia, erede dei precedenti Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Lotta Continua e altri, vagamente più rozzi, con un guru ideologicamente poco classificabile, ma molto ambiguo, il filosofo Toni Negri da Padova. Un altro di quelli che Pannella tirò fuori dai guiai. Eppoi c’erano ancora cospicui resti di irriducibili lottacontinuisti. Tra cui il sottoscritto. Di quella effimera fase, che comunque si trascinò negli anni con esiti sempre più solipsisti, il momento per me più alto fu quello della cacciata dall’Università, dove aveva tentato di insediare i suoi al posto degli universitari in lotta, di Luciano Lama, segretario del massimo sindacato italiano, la  CGIL. Uno che si tingeva i capelli tra il color fragola e il castagna.

Erano lontani i tempi, chiamati dell’ ’”Autunno Caldo”, 1969-1970, troncati con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura a Milano, la “Strage di Stato”, come rivelò una fantastica inchiesta di Lotta Continua. Tempi in cui il sindacato era stato costretto dalla mobilitazione di massa dei movimenti ad abbandonare le posizioni consociative mantenute per lunghi anni, in subordine ai padroni, e aveva guadagnato nuovi diritti, come lo Statuto dei Lavoratori, nuovi rapporti di forza in fabbrica e nella pubblica istruzione, provvedimenti contro la rendita fondiaria. Da sempre cinghia di trasmissione dei partiti di sinistra, il sindacato di Lama era ripiegato sulle antiche usanze e si poneva oggettivamente come forza di normalizzazione. Ebbe la temerarietà di allestire un comizio nel piazzale della maggiore università italiana, presidio delle sinistre radicali da sempre, la Sapienza di Roma. Ebbe modo di dare sfogo alla classica retorica parolaia di tanti sindacalisti solo per pochi attimi. Poi si scatenò la baraonda. Indiani Metropolitani intesta, tutti gli altri dietro. Palco rovesciato, Luciano Lama, circondato dai suoi guardiaspalle, in indecorosa fuga. Non so se a ragione, ma allora mi parvero soddisfazioni. E anche adesso.

Giorgiana e Cossiga
12 maggio del 1977, ci fu una grande manifestazione di tutti noi, intendo quelli nati politicamente nel ’68, a Valle Giulia, alla Sapienza, a Mirafiori, alla Pirelli, a San Basilio. Era la ricorrenza del divorzio, ma era anche una protesta contro il governo Andreotti, un primo ministro poi trovato connivente con la mafia. Era anche il mio compleanno. Nella zona di Campo dei Fiori, Roma, la polizia attaccò brutalmente, senza ragione. La consegna era far fuori quanto restava di un movimento di massa giusto e rispettabile e ridurre ogni cosa allo scontro tra Stato e partito armato. Fare anni di piombo. Un po’ come a Derry.

Gli scontri proseguirono per tutto il pomeriggio, fino a notte inoltrata e si dipanarono per i vicoli di quello storico quartiere e poi, oltre, a Trastevere. A Campo de’ Fiori mi beccai di rimbalzo un candelotto lacrimogeno sul ginocchio. Riuscii a trascinarmi fino al di là del Tevere, verso casa. Il Ponte Garibaldi divenne una specie di trincea. Dal lato Trastevere erano tornati a raccogliersi i manifestanti. Sul lato opposto la polizia, i carabinieri e una novità. Inventata dal capo dello Stato più vicino a all’idea di chi non si vorrebbe mai come capo di Stato: i “Falchi”, poliziotti travestiti da dimostranti con licenza di sparare. E uccidere. E spararono. E uccisero. Giorgiana Masi, 17 anni, all’imbocco del ponte. Sono passati 40 anni è ancora l’assassino non è noto. La questura incolpò gli autonomi. Ma io ero a pochi metri da Giorgiana e da queste parti, giuro, non c’era nessuno che sparasse. C’era chi tirava bocce, Molotov, e sassi. Basta. Del resto, se lo sparatore fosse stato uno di noi, vuoi che non lo avrebbero preso? Prendevano anche quelli che sparavano chewing gum.

Nuova fuga: Yemen
Con quel ginocchio gonfio come un cocomero, il giorno dopo evitai gli ospedali, infestati di agenti. Mi feci visitare da un urologo, non c’era di meglio e poi era un compagno. SI chiamava Giorgio Alpi ed era il padre di quella che sarebbe poi stata la mia collega in RAI, al TG3, Ilaria, trucidata con il suo operatore in Somalia, inviata di guerra, da coloro di cui aveva scoperto i traffici di armi e rifiuti.

Giorgio mi consigliò di darmela a gambe, con tanto di ginocchione. E finìì in Yemen. Per 18 mesi. Paese bellissimo, ospitale, intelligente, antico e consapevole di ciò. Con una grande presidente-poeta, nasseriano, Ibrahim El Hamdi, con il quale divenimmo amici, a chiederci reciprocamente delle rispettive rivoluzioni e degli amori letterari. I sauditi gli fecero un colpo di Stato e lo ammazzarono. Feci corrispondenze per vari giornali, ebbi modo di visitare e conoscere parti dei Medioriente che non avevo ancora frequentato. Paesi decolonizzati, a cui più tardi la propria autodeterminazione non sarebbe stata perdonata: Iraq, Sudan, Siria. Divenni corrispondente anche di giornali del meraviglioso Iraq di Saddam. Dopo il rovesciamento di El Hamdi, dal generale golpista fui dichiarato persona non grata ed espulso dal paese. Tornai a Roma.  Qui tutto tranquillo.

 Ma qualcosa era cambiato in profondità. Dal rosso si era passati al rosa. Erano apparsi gli Indiani Metropolitani e ll baricentro era diventato, da una militanza rivoluzionaria per cambiare il mondo, a qualcosa di come goderselo, il mondo. La durezza dello scontro era stato lasciato ai gruppi armati, prima nati da una genuina convinzione che dal movimento di massa si dovesse sviluppare la lotta armata, poi presto pesantemente infiltrati dallo Stato avviato alla piena restaurazione, dai suoi propri servizi e da quelli delle potenze da sempre padrine e padrone del paese. Svolta esemplificata dal rapimento e dall’uccisione di Moro, dalla contrapposizione “estremisti di sinistra-estremisti di destra”, nella strategia statale della tensione.

Il vento non fischia più, ma c’è chi lo fiuta
Fiutato il vento, la direzione, da sempre clanica, di Lotta Continua, riunita attorno al “carismatico” Adriano Sofri, ora inseguito dall’accusa e poi dai processi di mandante dell’omicidio Calabresi, indifferente a qualche decina di compagni falciati dalla polizia o dai fascisti delle varie organizzazioni gestite dai servizi segreti, indifferente a un’intera generazione lasciata senza direzione, progetto, futuro,  se la diede a gambe. Chiuse formalmente l’esperienza dell’organizzazione nel corso di un memorabile, lacerante congresso finale, Rimini, novembre 1976, Sofri e tutto il clan transitarono sotto la tutela del Partito Radicale di Marco Pannella, profondamente atlantico e filo-israeliano, per poi accasarsi in casa Craxi e soprattutto nei grandi media di regime. Dove ricevettero ampi spazi e remunerazioni, come spettano a coloro che all’establishment trionfante rendono il disonore del pentimento e del cambio di cavallo.

Tre erano state le personalità apicali della più grande organizzazione rivoluzionaria d’Europa. Adriano Sofri, ideologo e capopopolo, che dopo una serie interminabile di processi, fu condannato a una ventina d’anni per il caso Calabresi, ma se ne uscì molto prima per assurgere a testa d’uovo del nuovo corso amerikano e a penna di punta del quotidiano La Repubblica; Giorgio Pietrostefani, addetto all’organizzazione e al servizio d’ordine, condannato anche lui, ma contumace e tranquillo a Parigi, dove per lunghi anni ha gestito la flotta aerea di Mimmo Cardella, un delinquente fuggito in Nicaragua e poi  trapassato che, per coprire affari sporchissimi di armi e rifiuti, gestiva una “Comunità per tossici” a Trapani; Mauro Rostagno, il leader movimentista e un po’ luddista del movimento, responsabile del passaggio dal leninismo di ferro alla psichidelia arancione e, infine, membro del gruppo Cardella a Trapani, dove venne ucciso. Secondo alcuni investigatori, per diatribe interne al gruppo criminale, secondo altri, che prevarranno nei processi, per aver irritato la mafia con i suoi interventi in una radio privata.

La vicenda personale di questi personaggi passati, insieme ad altri del clan originario, da una faccia della luna a quella opposta, scura, non coincide, anzi contrasta, con quella delle decine di migliaia di giovani e meno giovani che, molti per oltre 10 anni, hanno speso per l’impegno quotidiano e la prospettiva di un mondo opposto a quello esistente, tra mediocre, corrotto e prevaricatore, una larga fetta della loro vita. Molti il posto di lavoro, gli studi, la casa, la famiglia. Diversi la vita. Forse sbagliando molte cose, ma facendone anche di sublimi e, soprattutto, mai viste più. E, diversamente da quanto si vede oggi, girando lo sguardo a 360 grandi, credendoci. Non è lecito che la storia imbratti la loro nobiltà, il loro sacrificio, spesso il loro suicidio, con la penosa vicenda di una cosca di opportunisti.

Anche, per quanto alcuni protagonisti lo abbiano rinnegato, perché quel decennio resta il migliore, il più dignitoso, il più vivo, nel tanto bene, nell’inevitabile male dei folli, della desolante storia della Repubblica. E, come ho detto sopra, si allaccia in ideale continuità ai momenti alti della rinascita del paese, dal Risorgimento alla liberazione partigiana. Se dallo squallore drammatico di un  presente in disfacimento morale, intellettuale, sociale, dovesse mai risorgere un sentimento di alterità radicale, di recupero dello smarrito, di progetto umano, saranno i semi del ’68 ad averlo nutrito.

Ce ne fossero!





17 commenti:

luca ha detto...

Mi hai commosso. Grande Fulvio! ..l'amor mio non muore. Un abbraccio luca

innaziu ha detto...

" ...Tempi in cui il sindacato era stato costretto dalla mobilitazione di massa dei movimenti ad abbandonare le posizioni consociative mantenute per lunghi anni...".

e si, chiedevamo un sindacato unico, ci fregarono elegantemente (copiando dalla religione) con la Confederazione unica e trina e noi idioti ad accontentarci.
Ciao Fulvio, e bello vedere ogni tanto un "cervello pensante", grazie.

Anonimo ha detto...

......l'ho letto tutto d'un fiato, .............ti voglio bene Fulvio

Fulvio Grimaldi ha detto...

Luca e anonimo@
Vi ringrazio e vi sento fratelli in spirito.

alex1 ha detto...

Poi commenterò questo bello e sentito post. Per intanto cito Dacia Maraini abile ed arruolata pronta a oliare i cannoni e lubrificare i carri armati contro il nuovo piccolo impero del male.
http://www.corriere.it/opinioni/17_settembre_26/i-deliri-kim-jong-un-l-urgenza-fermarlo-b681bc50-a202-11e7-b0fb-3ce1a382cc56.shtml

Maria Emanuela ha detto...

Commossa

rossoallosso ha detto...

Toccante,il resoconto di una vita vissuta in prima linea,come armi una penna ed una macchina fotografica che ogni giornalista degno di questo nome dovrebbe fare suo.

Grazie di tutto.Ad Maiora Fulvio!!

Ileno Verga ha detto...

Prima di tutto, grazie di aver vissuto, lottato, sofferto e pianto o qual altra, epica o meno, possiamo immaginare.
In secondo luogo grazie di ricordarcelo, di riportarlo in vita, di non lasciarlo alle sabbie del tempo, di ricomporci un quadro non chiaro, chiarificare.
Infine, per completezza della terna, atto teatrale o sintesi o termine del sillogismo, grazie e basta, a tutti quelli che La seguono, nella non riposta speranza che, con la certezza che non sia stato invano, queste gocce che siamo saranno ancora fiume in piena.

Mauro Murta ha detto...

Fulvio, come sempre i tuoi scritti sono preziosi ed esorto ancora una volta i compagni lettori a propagandarne la lettura altrove, come faccio io sul blog del Fatto Quotidiano.
Mi soffermerei sulla tua esperienza di “giovane nazista”, come ti apostroferebbero certamente i democratici al ketchup che avessero la ventura di leggerti. A qualcuno è mai venuto in mente quale immenso sforzo costasse essere antifascisti-antinazisti a quei tempi? Non c’era altro, l’informazione alternativa non esisteva, erano regimi che bene o male avevano portato una parvenza sia pure malata di ordine e prosperità. E, soprattutto, cosa avrebbero avuto da imparare dalle “democrazie occidentali”? USA, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio gestivano imperi coloniali con brutalità inaudita. Ma i loro sottomessi non erano né bianchi né europei né tantomeno Eletti, quindi “giorni della memoria” nisba. E il cittadino medio non trovava niente di strano nel farsi fotografare davanti a un nero linciato in Texas o nel mutilare bambini del Congo Belga. Tu hai sparato agli americani, se ti fossi trovato ad affrontare i sovietici avresti certamente sparato anche a loro. Ma i tuoi proiettili, fortunatamente, hanno colpito (spero) quella parte che li meritava non meno della “tua”.
Due giorni fa, sul pullman navetta che mi portava all’aeroporto di Monaco, un ciccione che trasudava grasso di Big Mac presumibilmente diretto all’Oktoberfest pontificava compiaciuto sull’impossibilità della Corea del Nord di contrastare un attacco americano. Asseriva con prosopopea da fine politologo che Kim Jong Un lo avrebbero “fatto fuori” i suoi prima che facesse qualche sciocchezza. Oggi l’informazione alternativa c’è, ma a chi interessa? Allora ci davano i film con Amedeo Nazzari o con John Wayne, ora ci danno quelli con Gal Gadot. Allora erano quattro gatti a non ingoiare la pillola, e quattro gatti siamo rimasti. Più un bassotto.

Fulvio Grimaldi ha detto...

Mauro Murta@
Che simpatico e intelligente commento. Con gran finale!
A proposito del grande sforzo che si doveva fare... Io poi ero un bambino e, finalmente, bravo tra i bravi! Visto che mi avevano sbertucciato da "Badoglio".

Anonimo ha detto...

forse una ventina di anni fà questo articolo mi avrebbe infervorato.
invece provo solo mestizia nel costatare come sono cambiate radicalmente le cose, come il potere tecno-borghese è riuscito a inghiottire e digerire la ribellione spontanea dei giovani di allora.
e questo dimostra la superiorità intellettuale della tecno-borghesia rispetto a un proletariato solo fuorviato da una malsana e scorretta interpretazione di marx.

in ogni caso, la vita di fulvio è realmente da invidiare, per coerenza, per umanità, per spirito di sacrificio e di consapevolezza di buttare il cuore oltre l'ostacolo e invano.
oggi siamo nelle pastoie di una potere che pone sull'altare il dio-merce osannato liturgicamente dai sacerdoti del mercato corroborati dal rincoglionimento delle masse con i cervelli chini sullo smartphone, metafora della sottomissione culturale delle masse al potere tecnocratico-borghese.

per ora non c'è spazio di riemersione, dobbiamo restare ancora in apnea per molto tempo fino alla vista della luce, un pò come gli ingombranti cetacei che per trovare un pò di pace hanno preferito cercare gli abissi del mare e ogni tanto risalire in superficie per prendere una boccata d'aria.

noi siamo i moby dick, incalzati dal capitano achab (la tecno-borghesia) che ci caccia senza sapere in cuor suo che la libertà del mostro, sua proiezione alienata, è anche la fine della sua contraddizione.

ma sappiamo come finì achab...........e il mostro è redivivo..........

Fulvio Grimaldi ha detto...

Anonimo@


ma sappiamo come finì achab...........e il mostro è redivivo..........
Grazie davvero del commento.

Critica ha detto...

Molto interessante.Grazie.

Anonimo ha detto...

sono fuori tema ma vorrei fare questo collegamento.
http://www.voltairenet.org/article198103.html

Fulvio Grimaldi ha detto...

Anonimo@
Già letto. Ricevo direttamente Voltaire. Molto significativo che ci sia dentro Soros: era logico.

Anonimo ha detto...

l'articolo seppur nasce dalle esperienze di Grimaldi...parla soprattutto di una generazione che ha tentato veramente di cambiare il mondo, di fatti importanti seppur scritti dal punto di vista personale, di eventi che sono stati importanti per molti....a volte ho anche criticato Fulvio per suo verbosisimo che ritengo a volte difficile seppur intenso e carico di idee ma questo articolo è sinceramente avvincente e profondo e facile da leggere
e da un senso vero a cosa ha provato a fare una generazione e non pochi suoi figli per migliorare le cose e quanti hanno solo pensato a distruggere qualsiasi germe per cambiare il mondo in il meglio
credo che tutti noi abbiamo avuto opportunità per essere umani e migliori, ma una generazione e movimenti così veramente accadono non spesso e sono una benedizione per tutti
ovviamente trovo tristissimo che tanti idioti con violenze inaudite abbiano solo pensato a fermare una generazione devastandola per fermare il cambiamento
ora ci ritroviamo in un mondo terribile e invivibile per molti versi
con non pochi "intellettuali" per modo di dire che altro non sanno fare che baciare i piedi dei potenti, giornalisti che scrivono come vuole la Cia e una classe dirigente tutta che sta buttando milioni e milioni di italiani nella disperazione e nella stupidità trash da tv di basso profilo

Anonimo ha detto...

Bellissimo, intenso ed unico. Grazie per la tua vita di grande reporter, per la tua umanità, la tua passione, la tua forza, grazie per questi tuoi immensi racconti, grazie di cuore Fulvio.

Max