domenica 10 marzo 2019

“BUCHI NERI DELLA SIRIA”. O BUCHI NERI DEL GRANDE GIORNALISTA?




Pubblico un mio commento ai due articoli sulla Siria inviatimi da un amico di provata competenza.

Non ho mai capito come esperti di geopolitica e attenti osservatori delle questioni mediorientali, di cui si occupa il giornalista citato nei due commenti che riporto, abbiano potuto dare a esso credito di indipendenza e alterità rispetto alla stampa main stream. Sempre interno ai media di regime, prima al “Sole24Ore” e ora al “manifesto”, questo esperto di politica estera è un autentico campione della rappresentazione della realtà in chiave di vero/falso, di quelli particolarmente abili, ma anche trasparenti all’occhio collaudato. Il credito viene dal saper mescolare verità scontate con elementi spuri. A questi  si è portati a credere perchè, appunto, affiancate da verità riconosciute.

Nel pezzo sul “manifesto”, richiamato dall’amico Jure, solito campionario di ambiguità e di rappresentazioni in chiave di vulgata ufficiale, i passaggi rivelatori sono parecchi. Non per nulla il vicedirettore del quotidiano, Tommaso Di Francesco, riprende ed esalta il pezzo di Negri nella prima pagina del numero successivo. Atto dovuto per uno che ha rappresentato il meglio del “manifesto” al tempo della Jugoslavia, quando  lacrimava sui bombardamenti Nato e, al tempo stesso, gli spianava la strada parlando, alla tedesca e americana, di “Milosevic despota” e di “ultranazionalismo serbo”, accentuando poi la mistificazione con l’accredito offerto all’infame menzogna di Srebrenica.

Curdi? I bravi ragazzi della pulizia etnica
Si inizia con riferimento alle FDS (Forze Democratiche Siriane), mercenariato degli Usa al 90% curdo, con irrilevanti presenze assoldate da minoranze della zona. A definirle “curdo-arabe” gli si vorrebbe dare una legittimazione inter-nazionale e occultarne il ruolo, vuoi di ascari degli invasori occidentali, incaricati di rimpiazzare l’Isis nello squartamento della Siria, vuoi di unici buoni sulla scenain quanto, rispetto al “regime”, “progressisti”,  “femministi”, “federalisti”, “ecologici”, “democratici” (nulla di più delle caratteristiche proprie, ma vere, delle forze patriottiche siriane). Nulla è detto della pratica di queste formazioni di espellere  dai centri abitati arabi coloro che non si piegano al loro potere, all’occupazione di case ed edifici pubblici, alla presa in possesso e allo sfruttamento degli impianti petroliferi e delle coltivazioni di Stato siriano e privati.
 
 
Si prosegue con la notizia di “6 miliziani delle forze scite” fatte fuori dall’Isis nella vicina Makmour, in Iraq, quando si tratta delle “Forze di Mobilitazione Popolare” irachene, a composizione totalmente inter-etnica, che sono state decisive nell’affiancare l’esercito di Baghdad nella disfatta dell’Isis (a dispetto del costante, documentato aiuto in materiali e armi fornito ai jihadisti dagli Usa e denunciato ripetutamente dalle FMP e dagli stessi parlamentari di Bagdad). Questi “miliziani” (termine che li dovrebbe apparentare ai terroristi) sono definiti “sciti” nell’intento propagandistico che vuole ridurre l’intero tentativo di ridisegnare il Medioriente in chiave colonialista a uno scontro religioso tra sfera scita e sfera sunnita.

L’aviazione della coalizione a guida Usa prepara il terreno ai curdi bombardando senza posa la zona ad est dell’Eufrate, come aveva fatto radendo al suolo Raqqa, provocando migliaia di vittime civili e distruggendo ogni vestigia storica, civile, infrastrutturale, con lo stesso scopo di ridurre all’inoffensività dell’età della pietra e allo spopolamento umano perseguito da Churchill sulla Germania della Seconda Guerra Mondiale. Di queste stragi degne, secondo l’ONU, della definizione di genocidio, non v’è parola nel pezzo dell’illustre analista. In compenso si evidenzia un’ “aviazione siriana che da giorni martella a Khan Shaykhun e Jisr Shughur, a sud e a ovest di Idlib”.  Brutti e cattivi bombaroli i siriani che lottano per far sloggiare il terrorismo turco-jihadista dal proprio territorio; taciuti  e dunque degni di silenzio, comprensione e attenuanti, gli invasori imperiali che spazzano via, più che i mercenari obsoleti, per insediare quelli moderni e presentabili, intere parti umane e materiali della Siria.

I curdi, ci informa Negri, alla luce delle incertezze sul restare o partire dei prosseneti americani, chiedono una forza internazionale di interposizione. Effettuata la pulizia etnica degli arabi siriani e allargato di cento volte il proprio territorio iniziale, sapendo che non saprebbero resistere nemmeno 24 ore allo scontro con l’Esercito Arabo Siriano, invocano i caschi blù, o qualcosa di simile, magari ascari del Golfo, per garantirsi la conquista e la frammentazione della Siria, progetto iniziale del colonialismo, mai abbandonato

 
Kurdistan siriano ieri e oggi


Non poteva mancare, nel racconto di Negri, la ribadita natura di “rivolta popolare contro il regime alauita” (notare: “popolare” e “regime”), che poi si sarebbe “trasformata in una guerra di procura contro l’influenza dell’Iran, vero motivo strategico del conflitto”. Ecco così purificata in rivolta popolare contro il regime una cospirazione imperial-colonialista, progettata da decenni, contro un paese laico, progressista, bastione antisionista e antimperialista, sopravvissuto alla distruzione di Libia e Iraq. Macchè, si trattava, per Negri, oltrechè di giusta rivolta popolare, di contenere l’espansionismo, detto “influenza”, dell’Iran. Un Iran assediato e minacciato da anni, in crisi umanitaria grave per via di sanzioni sociocide, che in Siria è intervenuto legittimamente, su richiesta di un paese aggredito da mezzo mondo, e solo dopo tre anni dall’inizio dell’assalto.

In tutto questo quadro non vi è una sillaba, neanche un pensierino nascosto tra le righe, sul fattarello che fin dal primo giorno della crisi, in Siria operava la marmaglia jihadista di Al Qaida, poi al Nusra, poi Isis, rastrellata in Libia, Marocco, Tunisia, Cecenia, Xinjang, repubbliche asiatiche, finanziata dagli illuminati governanti democratici di Saudia e Golfo, addestrata in Turchia e Giordania da turchi e marines, fornita di armi e assistenza sanitaria da Israele, arricchita dal furto di petrolio siro-iracheno tramite intermediari di Erdogan. E, naturalmente, spaventato il colto e l’inclita con l’affermazione, del tutto priva di fondamento, che oramai hanno vinto l’autocrate Putin, il regime di Assad insieme all’Iran, e ulteriormente terrorizzatolo con la denuncia che l’ideologia e le affiliazioni dell’Isis si sono diffuse ben oltre i confini del Medioriente, dall’Asia all’Africa, competenza, esperienza, e deontologia vietano ad Alberto Negri di ricordare che si tratta pur sempre di una fauna fiorita nelle serre seminate, coltivate dall’Occidente, da questo innaffiate, potate e portate a nuove fioriture. In caso contrario, che ne sarebbe mai dalla “guerra al terrorismo”, strumento indispensabile per la realizzazione del Nuovo Ordine Mondiale?

Ciò che invece al nostro attentissimo analista è incredibilmente sfuggito è proprio la notiziona del giorno. Quella che da 24 ore gira sulla rete ed è stata addirittura ripresa, a volte con malcelato orgoglio, dalla stampa occidentale, questa sì di regime. Ci siamo indignati perché i britannici si sono appropriati dei miliardi depositati dalla Libia nei loro caveau?  E poi, recentemente, che gli stessi illustrissimi banchieri della City abbiano requisito tonnellate di oro del fondo sovrano venezuelano? Gangsterismo? Ma no, pratica legittima, a protezione dei dirtti umani, delle democrazie colonialiste, dai tempi della Compagnia delle Indie e dello sbarco di Cristoforo Colombo “scopritore”.

Gangster e ladri
Ciò su cui l’esperto del “manifesto” ha sorvolato è di dimensioni ancora più grosse. Un sogno di Al Capone. Gli occupanti Usa in Siria hanno sottratto a quello Stato ben 50 tonnellate di oro. Lo affermano, non smentite, fonti dell’una e dell’altra parte. Comprese quelle locali. E’ successo nella provincia di Deir Ez Zor, a est dell’Eufrate, dove imperversava l’Isis e ora imperversano basi e forze speciali Usa e mercenari curdi.10 tonnellate erano stata rastrellate qua e là, dalle banche dei centri via via occupati. Ma ben 40, insieme a milioni di dollari in banconote, erano custoditi nell’ultimo presidio Isis ad al Baghuz. Il malloppo è stato consegnato ai militari statunitensi e portato via su elicotteri. In cambio, quelli dell’Isis e le loro famiglie hanno avuto quel salvacondotto che ha portato all’evacuazione da tutti vista nei notiziari dei tg. Ai curdi delle SDF sarebbe stato concesso una mazzetta, guiderdone per i servizi prestati.


Davvero un’altra tacca sul fucile dell’YPG, unità curde, e del giornalismo alla “manifesto”.

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La guerra infinita nella Siria dei «buchi neri»
Alberto Negri Il Manifesto
EDIZIONE DEL09.03.2019
PUBBLICATO8.3.2019, 23:58

Questa è la Siria dei «buchi neri», un conflitto con un campo gravitazionale così intenso che non se ne vede la fine. La guerra siriana proprio non si esaurisce all’orizzonte del modesto villaggio di Al Baghouz, sull’Eufrate.
Dove le forze curdo-arabe hanno assediato l’ultima sacca di un Califfato che a un certo punto controllava migliaia di chilometri quadrati a cavallo tra Iraq e Siria e la vita di quasi nove milioni di persone.
Al culmine della sua potenza ho potuto vedere sventolare la bandiera nera a 15 chilometri dal centro di Damasco, a 70 da quello di Baghdad, a 40 minuti di auto dalla capitale curda irachena di Erbil, a Makmour, dove proprio ieri l’Isis ha fatto fuori 6 miliziani delle forze sciite. E nella roccaforte dei curdi siriani a Kobane, nell’ottobre 2014, il vessillo di Al Baghdadi era di fronte, dall’altra parte della strada.
Dal buco nero di Al Baghouz vediamo emergere, insieme a centinaia di cadaveri di donne e vittime yazide nelle fosse comuni, i prigionieri dell’Isis e le loro famiglie. Le mogli dei jihadisti accusano ad alta voce gli americani di essere i veri massacratori del popolo siriano.
Qualche cosa di diverso mi racconta Lamya Haji Bashar la giovane yazida, premio Sakharov, ridotta in schiavitù dai jihadisti. «Le donne dell’Isis sono state quasi peggio degli uomini che mi hanno stuprato. Sono stata venduta cinque volte – racconta Lamya – e ogni volta picchiata, violentata e torturata dai miei aguzzini: gli uomini mi stupravano, le donne mi trattavano come un animale che striscia per terra». Il volto di Lamya porta le cicatrici di una granata esplosa mentre tentava la fuga ma i segni dentro la sua anima sono ben più profondi. «Vedo che oggi escono dall’assedio e chiedono di tornare a casa, mi domando se questa sia davvero giustizia: forse dovrebbero affrontare un processo alla Corte penale internazionale».
La guerra non finisce in questo lembo di terra siriana si Al Baghouz affacciata sul governatorato iracheno di Al Anbar – dove si stima ci siano ancora 5-7mila combattenti – per i seguenti motivi che elenchiamo:
1) A Idlib e nel Nord siriano _ 2,5 milioni di abitanti – ci sono ancora decine migliaia di jihadisti affiliati di Al Qaida, con stime variabili da 20mila a 40mila. La loro resa o ricollocazione è affidata all’accordo tra Russia, Turchia e Iran, ma non c’è ancora niente di deciso neppure dopo il vertice trilaterale di Sochi del 14 febbraio. L’aviazione siriana da giorni martella a Khan Shaykhun e Jisr Shughur, rispettivamente a sud e a ovest di Idlib, dove sono asserragliate anche le milizie filo-turche.
2) Continua il conflitto tra curdi e la Turchia. I curdi, considerati da Ankara dei «terroristi», chiedono una forza internazionale di interposizione mentre Erdogan insiste per ampliare la sua «fascia di sicurezza» dopo essersi impossessato del cantone curdo di Afrin: qui nelle scuole si insegna il turco e Ankara ha imposto la sua economia.
Il presidente turco ieri ha ribadito la minaccia di invasione e al contempo ha confermato la sua sfida a Usa e Nato con l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400 e per gli S-500 di prossima generazione. È chiaro che vuole il via libera di Putin, il quale nicchia, mentre tiene sulla corda gli americani.
3) Permane il vero motivo strategico del conflitto che nel 2011, da rivolta popolare contro il regime alauita, si è trasformato in una guerra per procura contro l’influenza dell’Iran, l’alleato storico di Assad, con il coinvolgimento della Turchia delle monarchie del Golfo e delle potenze occidentali che pur di abbattere il regime hanno sostenuto i jihadisti, come del resto ha affermato di recente il colonnello francese François-Régis Legrier nell’intervento sulla Revue de la Défense nationale, con grande disappunto delle Forze Armate.
4) Israele, che gli Stati uniti si ritirino o meno, continuerà i raid in Siria contro i pasdaran iraniani. Azioni militari che coinvolgono inevitabilmente gli Hezbollah, alleati di Teheran in Libano. Gli israeliani sono stati investiti da Washington del ruolo di guardiani della regione mentre anche Putin, che finora ha contato sugli iraniani, deve arrivare a un accordo sia con l’Iran che con Netanyahu che ha incontrato la scorsa settimana a Mosca.
Chi «tradirà» chi? Putin è il vincitore della guerra, insieme all’Iran e al regime di Assad, ma ha anche grandi interessi politici ed economici con Israele, la Turchia e le monarchie del Golfo: deve far fruttare, con la ricostruzione, una vittoria militare di prestigio ma assai costosa.
5) La fine territoriale dell’Isis non è la fine del jihadismo: continueranno azioni di guerriglia e l’insurrezione sunnita, tra Siria e Iraq, non è sepolta perché le rivendicazioni settarie restano sia in Siria che tra la minoranza sunnita dell’Iraq. Come non è certo evaporata sull’Eufrate l’ideologia dell’Isis che si è diffusa con le sue affiliazioni ben oltre i confini del Medio Oriente, dall’Asia all’Africa.


Una questione si lega all’altra, una guerra si lega all’altra. La fine dell’Isis, nel gioco degli specchi mediorientali, riflette il netto contorno di una sconfitta militare ma anche il destino tragico e precario di interi popoli e nazioni.


Aram Mirzaei for the Saker blog

Trump declares “victory” over ISIS but Washington’s foul plans in Syria are far from over

https://thesaker.is/trump-declares-victory-over-isis-but-washingtons-foul-plans-in-syria-are-far-from-over/

At the eve of the 8 year anniversary of the Syrian war, the battle for one of the last ISIS strongholds in Syria is still raging. The so called “caliphate” is on its last knees as US president Trump declares that “100 percent of ISIS ‘caliphate’ has been taken back.

Trump was of course only referring to the US coalitions “efforts” and didn’t even bother to mention that it is Syria and her allies that have done most of the heavy lifting. Nevertheless, he was right about ISIS losing all of the territories they occupied in Syria, but what happens now?

The US has for long declared that their presence (occupation) in Syria is mainly to fight ISIS, while sometimes also claiming to “prevent Iran from entrenching itself” in Syria. Of course any serious observer who has the slightest interest in Middle Eastern politics understands that this is a lie.

The US’ top priority has been from the beginning to save its masters in Israel from their day of reckoning. In the long run this objective is and has always been linked to the much greater plan of destroying the Islamic Republic, the only true threat to Israel’s continued existence. For years Washington has deceived and fooled a vast majority of the world’s population and “analysts” into believing that its presence in Syria is tied to “fighting ISIS”, while hiding their intentions to overthrow the Syrian government and destroying the Resistance Axis. Now, Washington’s true objective will resurface for everyone to see.

This goal has not been linked to a specific US administration but has been a very longstanding policy for decades no matter who’s the president.

Despite Trump’s bogus declaration back in December that the US is pulling out of Syria, Washington recently backtracked and declared it won’t fully withdraw its troops from Syria but will leave “400 peacekeeping forces”, making these soldiers an official occupation force as the last ISIS stronghold is about to be destroyed. This new situation leaves the US and European allies without any cloak of legality since the pretext of “counterterrorism” is no longer plausible.

But this should not come as a surprise to anyone. Only a fool would believe that the US has spent so much time and money on training and arming Kurdish militias to grab as much land as possible east of the Euphrates, just to let the Syrian government take all the land back in a deal with the Kurdish militias.

The continued US occupation makes any kind of reconciliation between the Kurdish militias and Damascus impossible. Now that the ISIS terrorists are gone, the future of the Kurdish militias remain very much at the hands of Washington. Where will they be used next?

Turkey has for long threatened to invade north eastern Syria as Turkish president Erdogan vowed to create a “safe zone” along the Syrian-Turkish border after a phone call between him and Trump. At the same time Trump has threatened Turkey to refrain from attacking its Kurdish proxies in that region. This contradictory situation became even messier when Moscow declared that it will not accept such a “safe zone” without Damascus approval, a highly unlikely outcome as relations between Damascus and Ankara remain very hostile.

To the northwest, jihadist group Hayat Tahrir Al-Sham has outmanoeuvred and taken over most of the other “rebel groups’” positions and now remains the sole powerhouse in the Idlib province. Turkey’s inability or rather lack of interest to remove these terrorists has opened up the possibility for a new Syrian Army offensive on the region. If history is to repeat itself, we should expect Washington to threaten Damascus to refrain from launching this offensive.

Meanwhile, voices are being raised in neighbouring Iraq, demanding US forces stationed near the Syrian border to leave the country. Despite the unlikelihood of US troops withdrawing from Iraq, such a scenario would give Washington even more incentive to hold on to its foothold in Syria.

Washington has recently showed a great obsession with Iran and will do its utmost to destroy the Iranian-Syrian alliance and to isolate Iran, making the Islamic Republic an easy target for Washington’s next planned “humanitarian intervention”. This is manifested through Washington’s strategic occupation of eastern Syria and the Al-Tanf region, located right next to the Iraqi border and close to the Golan Heights. This was further proven after President Assad’s surprise visit to Iran where Iranian officials revealed that Washington had offered Assad to back his presidency in exchange for him breaking ties with Tehran.

Terrorist forces in Syria may be on the verge of defeat, but their sponsors in Washington remain as dangerous as ever. The last chapter of the Syrian war is yet to be written.






1 commento:

Alex1 ha detto...

A proposito di certa informazione sulla Siria, mi chiedo che fine abbia fatto tale Quirico, il reporter sequestrato dai "ribelli" il quale affermava a suo tempo la rivolta essere genuina democratica e popolare contro un regime oppressivo, salvo poi, confluire sotto l'ala di Al Nushra e dell 'Isis perché non aiutata dall' occidente. E chiedere conto alle Goracci di turno delle loro fotografie insieme a boia avvolte nella tristemente nota bandiera nero bianco verde. Così solo per sentire la loro opinione.