Mentre succede di tutto, in America….
Mentre l’impunito Israele bombarda la Siria un giorno sì e l’altro pure, nel compiacimento
generale e con i russi zitti,;
mentre forse l’accordo tra Usa e Taliban, che taglia fuori i fantocci corrotti
del teatrino di Kabul, pone fine (malvista dal “manifesto”: “le donne!”)
a 19 anni di stragi Usa-Nato di civili afghani e di maxi-produzione di eroina
per l’Occidente; mentre non passa giorno che gli Usa non facciano stragi di
civili in Somalia, “effetti collaterali” dei bombardamenti sugli Shabaab;
mentre le milizie Isis allevate da Usa, Israele, Erdogan e petrotiranni terrorizzano Siria, Egitto, Libia, Africa,
Europa; mentre l’Occidente sostiene il regime golpista di Al Serraj in Libia, tenuto
in piedi dalla peggiore feccia jihadista di Misurata, garante anche del
traffico Ong di sradicati africani, ma caro alle nostre sinistre imperiali e di
destra; mentre un virus, trasformato da normale influenza in peste bubbonica,
serve a satanizzare la Cina, bloccare la Via della Seta, sperimentare stati d’assedio
e di neutralizzazione sociale… mentre succede tutto questo qualcuno inizia a
fare il tifo per l’uno o l’altro candidato nelle primarie del Partito
Democratico statunitense.
Burattini di Bilderberg sul campo
Ci si divide tra un supermiliardario, 9° al mondo per ricchezza,
Bloomberg, che le primarie e, forse, la presidenza, se le compra a suono di
milionate, a dispetto delle sue performance tv da brocco azzoppato, e una “liberal”,
Warren, che però è simpatica al Pentagono e da Wall Street è la più foraggiata.
Oppure tra uno scaturito sindaco di un villaggio dell’Indiana, Buttigieg che
sembra un fumetto da Cocco Bill epperò, per tutta la vita ha bazzicato più i
servizi segreti che non il saloon del paese e quindi ha i voti della CIA, e un totalmente rincoglionito malvivente, Biden,
che ricattava, lui sì, il governo ucraino perché non processasse il figliolo
lestofante, e però gode del consenso afroamericano, dato che è stato vice di un
presidente nero.
Pian piano i nostri sinistri imperialisti di destra, “manifesto”
in testa, devono – il distintivo esibito lo impone– rassegnarsi ad abbandonare
queste ipotesi, pur viste finora con simpatia, e schierarsi con il sinistro vero,
socialdemocratico, forse addirittura socialista, sconfitto nel 2016 da Hillary
a forza di trucchetti sporchi del Comitato Nazionale Democratico (DNC). Che non
è altri che il 77enne Sanders. Bernie, per i fan.
Sanders, il neocon sociale!
Dice, ma come? Ma se questo Sanders, dopo aver
chiesto sanità per tutti e aumenti salariali, s’è detto pronto (al New York
Times) ad appoggiare un attacco preventivo a Iran e Corea del Nord? Ma come, se
ha concluso, con Pompeo e tutti i neocon, che Putin è un farabutto e che ha
messo le zampe sulle elezioni americane di ieri e di oggi e fa da sgabello a
Trump? Ma come, se, pur dopo aver affermato che Netaniahu é uno zotico, dichiara
che tutto il resto di Israele gli sta bene e che l’ambasciata Usa deve restare
trasferita a Gerusalemme?
Cosa rispondono i sinistri imperiali su questo vecchietto
in piena sintonia con
l’imperialismo neocon e dello Stato Profondo? Ma cosa
devono rispondere, se la pensano come lui! Dopo il ticket Bloomberg-Hillary, allucinazione
apocalittica di cui qualcuno però già vocifera e lei non smentisce, cosa ci
sarebbe di meglio del “socialista” Sanders?
Tulsi Gabbard, l’innominabile
Ma c’è un’altra concorrente alle primarie, anche se non va
ai battibecchini tv. L’avete mai sentita nominare? Si chiama Tulsi Gabbard, senatrice
dell’Alaska, è giovane e bella, ma è già una veterana di ripetute missioni
militari in Iraq da ufficiale della Guardia Nazionale. Dalle quali ha tratto l’unica
posizione anti-guerra e antimperialista di tutto il cucuzzaro
democratico-repubblicano che concorre alla presidenza. Ha compiuto l’indicibile:
è andata da Bashar al Assad, presidente della Siria in resistenza da 10 anni e
ha detto che ha ragione. Ha detto che è una vergognosa mistificazione chiamare
i terroristi Isis e Al Qaida “ribelli” e cianciare di “guerra civile”. Ha detto
che tutte le guerre e tutti gli ammazzamenti Usa devono finire.
E ha
sbagliato ancora una volta definendo il vecchio compare degli Usa nell’allevamento
dei ratti terroristi e neo alleato in Nato grazie ai massacri compiuti in Idlib,
”dittatore turco aggressivo, integralista ed espansionista” e intimando
a Trump di “non farsi trascinare in una guerra contro la Russia”. Tutto
il contrario di quanto da parte degli altri bravi candidati si auspica.
Non ha perso l’attimo, Hillary, per sentenziare, per questo
da Tulsi querelata, che la senatrice Gabbard non è altro che un arnese dei
russi. Come tutti quelli fuori dal giro euro-atlantico. Soros l’ha definita la
massima sciagura che possa capitare agli Usa e al mondo. Una garanzia per noi.
E non volete che campioni del giornalismo indipendente, come New York Times,
Washington Post e CNN, non abbiano subito rilanciato l’infamante, incapacitante
anatema?
Ora sapete perché in Italia non se ne parla. Men che mai
sul “manifesto”.
Di Battista: dall’Iran con amore (e qualche
riserva mia)
Ho già detto quanto apprezzo i reportage di Alessandro Di
Battista, rivelatosi acuto, profondo, sensibile e competente osservatore sul “Fatto
Quotidiano”, prima, dei paesi devastati dagli Usa in America Centrale e, ora,
di un Iran di cui, in tutti questi anni, la stampa caporale di giornata
dell’arsenale mediatico imperialista non ci ha dato che una raffigurazione
deformata, falsa, strumentale, del tutto bugiarda. Che si trattasse sia degli
odiatissimi cosiddetti “conservatori” (gli intransigenti dell’antimperialismo e
di una politica per le classi popolari, come quella del laico Ahmadinejad), sia
dei “moderati”, o “riformisti”, termini che già ci dicono tutto sulla linea
compromissoria, legata agli interessi dell’alta borghesia, con gli ayatollah
Rafsanjani, Khatami, Rouhani).
Dibba ci offre, al solito, un quadro umano, perciò
veritiero e, dunque, intriso di attenzione e simpatia per questo paese. Una
delle culle della civiltà che, da 70 anni, subisce le vessazioni degli Usa, di
Israele e di un’Europa tafazzista e codina (il colpo di Stato USA-UK contro
Mossadeq, la dittatura dello Shah, le sanzioni genocide, il terrorismo dei
mercenari MEK – Mouhajeddin del Popolo - la diffamazione). Si dilunga anche
sull’evento che, come racconta, avrebbe fondato e rafforzato il patriottismo,
il coraggio, la resistenza di questa gente: la guerra con l’Iraq, dal 1980 al
1988.
Il mio apprezzamento è al netto di un dissenso su come
questo coscienzioso giornalista e bravo politico interpreta le varie “rivolte
verdi”, assegnandogli troppo facilmente la patente di “buone ragioni”
(piuttosto le sanzioni Usa) nelle proteste contro l’attuale governo iraniano (e
negandogli la matrice, ultraprovata, di tutte le “rivoluzioni colorate”
istigate da Soros, Otpor, Cia, contro paesi disobbedienti). Lascio da parte
anche l’osservazione, rilevante, ma non corredata da motivazioni, che
l’imperialismo, giocandosi il Coronavirus, ha potenziato la sua mega-campagna
d’odio contro la Cina e la sua Via della Seta (quella, sì, contro i nostri
interessi nazionali), per cui gli strumenti imperialistici della “russofobia
e islamofobia spingeranno Tehran e Mosca sempre più tra le braccia di Pechino, questo
è contro i nostri interessi”. Contro gli interessi dell’Occidente
colonialista, non i nostri, per favore.
Di Battista sulla guerra Iraq-Iran. Vista dall’Iran
Estesa e dettagliata è la parte che concerne lo scontro
Iran-Iraq, però visto dal punto da cui lo vedono gli iraniani. Il che, nel caso
di due campane, rischia di essere non del tutto equilibrato. Non vorrei, a
proposito di Saddam Hussein, tornare sul difficile, ma decisivo argomento che
ho già sollevato sul termine di “dittatore”, magari sanguinario, utilizzato da
Di Battista per Gheddafi, anche dopo il suo linciaggio sotto le risate di
Hillary Clinton. Dato che ci vuole conoscenza e rispetto per storia,
tradizioni, culture, limiti temporali, immaginari collettivi, archetipi,
diversi da quelli che da noi hanno prodotto le cosiddette democrazie (in
effetti plutocrazie e mediacrazie), ho sempre cercato di far capire che è una
pretesa colonialista, in chiave subalterna, quella di castigare paesi, oltre
tutto sotto accanito assedio, perché non avrebbero dato alle loro società gli
assetti, tanto gradevoli e positivi…. , delle nostre borghesie post-1789.
Saddam viene impiccato dagli Usa per mano dell’ayatollah Moqtada al Sadr, dopo
un processo-scandalo alla Norimberga. Khomeini muore nel suo letto. E ne sono
contento.
Ma qui, tra due versioni non dissimili di organizzazioni
statali, sebbene una clericale e l’altra laica, la bilancia di Di Battista
pende davvero troppo da un lato, quando assegna le colpe del conflitto solo a
un Iraq attaccante e i meriti esclusivamente all’Iran che si difende. Occhio, questa
è anche stata negli ultimi decenni la vulgata dei disinformatori occidentali,
per i quali l’Iraq laico, panarabo, costituiva allora una minaccia molto più
attuale dell’Iran. E lo si è diffamato, anche attribuendogli un’alleanza con
gli Usa e forniture militari americane che non ci sono mai state, come dimostra
la sola presenza di vecchio armamentario sovietico sui campi di battaglia del
1991 e del 2003. Nelle guerre turpitudini e atrocità succedono da tutte le parti.
Ricordiamoci anche dei ragazzi iraniani mandati sui campi minati con al collo
una chiave che gli avrebbe assicurato l’accesso al paradiso.
Bisogna stare attenti, e mi prendo il diritto di spiegarlo
perché sono uno dei pochissimi colleghi di Di Battista che l’Iraq l’hanno
frequentato, conosciuto e, per i suoi incredibili risultati di indipendenza,
dignità, prosperità, giustizia sociale, creatività culturale, anche amato. E ho
potuto ricavare da documenti e testimonianza, tra le altre menzogne, la
smentita del presunto eccidio di oltre centomila curdi, in una sollevazione
guidata dal manutengolo curdo della CIA, Masud Barzani. Fu operazione di guerra
con alcune centinaia di morti. Ma da Srebrenica, e non solo, siamo abituati
alle cifre immaginifiche scolpite nel falsario della Storia dai vincitori.
Dal 1977, inviato dell’autorevole “The Middle East”, e poi
corrispondente da Roma dei quotidiani “Baghdad Observer” e “Ath Thaura”, sono
stato in Iraq quasi ogni anno, fino all’occupazione Usa-Nato del 2003, vissuta
in prima persona, e al giorno in cui la prima colonna di tank entrata nella
capitale ha centrato il nostro Palestine Hotel, dove erano i giornalisti
“disobbedienti” che avevano sfidato l’ordine di Bush di non stare a Baghdad ad
ascoltare il nemico. Ne morì il collega spagnolo Josè Couso, mentre, ore prima,
avevano ucciso un mio caro amico di Al Jazeera, Tareq Ayoub. Primo saluto
yankee alla Stampa libera.
Baghdad, come filmata il 20 marzo 2003 dalla mia finestra nell’Hotel
Mansour. Vedi documentari in fondo.
Iraq-Iran, come sono andate le cose
Nel periodo che va dalla rivoluzione islamica di Khomeini,
1978, allo scoppio della guerra, settembre 1980, non c’è stato momento in cui
tutte le emittenti iraniane, radio, televisive, megafoni posti sul confine, la
stampa, Khomeini in persona, non invitassero il popolo iracheno ad abbattere il
regime e liberarsi del tiranno apostata. Arrivavano sabotatori e provocatori. Saltavano
in aria persone e sedi del Baath. Pochi mesi prima della guerra, con mia moglie
Sandra, arrivammo sulle montagne curde al confine tra i due paesi, a est di
Irbil, vedemmo villaggi in macerie cannoneggiate dagli iraniani e sentimmo di
notte il rombo di quell’artiglieria. A quel punto, il casus belli, chi davvero
avesse aperto il fronte, conta poco.
Concludo, modificando gli allineamenti geopolitici
verificatisi nell’occasione e da Di Battista ripresi dal racconto che va per la
maggiore. Gli Usa, con Kissinger, manovravano perché i due paesi si
dissanguassero entrambi, uno dei quali, l’Iraq, era già stato annegato
nell’uranio impoverito nel 1991. Ma Washington incoraggiò Israele a sostenere
l’Iran. Vaste forniture di armi israeliane vennero allo scoperto grazie allo scandalo
Iran-Contras: con i fondi ricavati da quelle vendite a Tehran, la CIA finanziò
i banditi anti-Nicaragua. Israele inflisse poi il colpo decisivo all’Iraq, non
all’Iran, bombardando e distruggendo la centrale nucleare irachena di Osiraq. Le
sanzioni Usa all’Iraq iniziarono con la rivoluzione degli anni’60 e furono
costantemente intensificate, fino ai bombardamenti di Bill Clinton, per tutti
gli anni ’90.
Del resto, gli Usa non avevano
mai cessato di vedere nell’Iraq e in Saddam, dopo Nasser, il nemico principale
nella regione, dato che fulcro di un progetto panarabo, nazionalista,
socialista in atto. Quando scoppiò il confronto con l’Iran confessionale, i
dirigenti del PC iracheno si dichiararono a favore di Khomeini. Glielo aveva
intimato l’URSS di Brezhnev, che teneva di più a tenersi buono un grande paese
ai suoi confini, vicino delle sue repubbliche a maggioranza islamica. E non
fornì più a Baghdad un solo Kalachnikov. Così stavano le cose per le alleanze!
Punizione anche a un Iraq di Saddam che era
stato il massimo sostenitore della Palestina in tutti quegli anni, altro che
compare degli Usa. Lasciai Baghdad ai primi di aprile 2003, dopo alcuni giorni
di occupazione statunitense, con Saddam ancora in città ad avviare una
resistenza patriottica che è durata un’altra mezza dozzina d’anni e riprende
oggi e costò agli americani 4.500 caduti. Quella bandiera è stata ripresa dalle
“Unità di mobilitazione popolare” che hanno sconfitto l’Isis e oggi, insieme al
parlamento, premono per il ritiro degli occupanti americani. Sulla strada che
porta ad Amman, nell’unico, semidistrutto posto ristoro, presi un tè insieme
agli autisti di un pullmino in viaggio verso la Palestina. Nonostante
l’occupazione, i due dipendenti del governo di Saddam erano partiti con gli
ultimi dollari che il governo consegnava a chi da Israele aveva avuto un
martire, o una casa distrutta: 20.mila dollari nel primo caso, 10mila nel
secondo. Patriottismo anche questo, non vi pare?
Possiamo benissimo amarli tutti e due, anzi dobbiamo, Iran
e Iraq. E difenderli. Come loro ci hanno difesi e ci difendono.
Questi documentari si possono richiedere all'indirizzo visionando@virgilio.it
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