USA, non gliene va bene più una
Se è vero che, come insegnano i geopolitici da Lenin a Gladstone,
e come ci confermano gli imperi dal romano all’anglosassone, il colonialismo
trova la sua espressione più radicale nell’imperialismo di aggressione e
occupazione militare, è anche vero che quella dei Taliban afghani, integralismo
o non integralismo, è una lotta di liberazione nazionale. E avendo come tale il
supporto di una popolazione che, come tutte, ambisce a identità, storia e
autodeterminazione, tolto di mezzo l’apparato protettivo esterno di una cricca
indigena di manigoldi profittatori e vendipatria, avanza tutto travolgendo in
virtù di questo sostegno della stragrande maggioranza del popolo, tutte le
etnie comprese.
Per vent’anni, partendo da una megamenzogna, come nell’Iraq
delle inesistenti armi e come in Libia e Siria con l’uso colorato di terroristi
importati, USA e noi della NATO abbiamo calpestato, devastato, impoverito e
trucidato con le bombe i civili, le famiglie, i bambini, i matrimoni, le
scuole. Da perfetti colonialisti, come sempre di destra, imperiale, e sinistra,
umanitaria. A corona di tutto questo, i media hanno fornito l’appoggio di una
propaganda di diffamazione del paese e della resistenza, menzognera quanto il
pretesto per l’aggressione e l’occupazione. Operazione costata al cittadino USA
e Nato oltre un trilione di dollari, mentre le plebi italiane si sono dovute
rassegnare a rimetterci 8 miliardi e mezzo di euro e 54 vite di soldati. Una
bazzecola dolorosa, idiota e criminale, rispetto all’oceano di sangue e di
macerie che ora la fuga dei masskiller e dei loro pali si lascia dietro.
Dal momento che Bin Laden, operativo degli ausiliari jihadisti dell’Impero, era andato a insediarsi in Afghanistan, sebbene del tutto scisso dall’organizzazione Taliban, ecco che l’attentato alle Torri Gemelle, a lui attribuito, diventava la copertura anti-terrorismo per collocarsi nel cuore dell’Asia, alle spalle della Russia e dei suoi alleati ex-sovietici, e ai piedi della Cina.
E, inevitabilmente, come in Iraq, Libia e Siria, al
bersaglio “terrorista” Bin Laden si dovettero unire quelli, sommamente
coinvolgenti, dei diritti umani. Le donne e il burka divennero, nella
propaganda atlantista e dei suoi portavoce di “sinistra”, l’ideale fogliona di
fico a nascondimento dei milioni di donne, magari nemmeno in burka, liberate
della loro casa, famiglia e vita nelle guerre parallele intanto condotte in
Medioriente.
Il casus belli per un progetto di lunga
data
La petrolifera americana Unocal, parimenti cara a Bush e
Obama, si era vista negare dal governo Taliban un suo oleodotto dall’Asia
centrale, attraverso l’Afghanistan, fino a un porto in Pakistan. Oleodotto che
sarebbe dovuto divenire parte di un sistema regionale a controllo USA,
destinato a raccogliere il petrolio degli oleodotti di Turkmenistan, Kazakistan
e Uzbekistan (da allontanare dalla Russia mediante i soliti moti arcobaleno).
Il rifiuto dei Taliban divenne la goccia che ha fatto tracimare un vaso che i
Neocon, fin da prima del loro 11 settembre, avevano riempito di propositi di
guerra a sei paesi del Medioriente, Iraq e Afghanistan compresi. Propositi
falliti da un capo all’altro della regione.
Non si può comunque dire che i vent’anni di sterminii
pianificati siano costati al contribuente americano montagne di soldi a danno
di welfare, ospedali, scuole, ambiente, senza che la classe dirigente di quel
paese ne abbia ricevuto ampi benefici. Tradizionale produttore e fornitore di
oppio, a sostituzione di quello cinese, la cui distruzione era costata ai
cinesi ben due guerre dei britannici narcotrafficanti, l’Afghanistan dei
Taliban, puritani anche in questo, aveva concordato e attuato con l’ONU il
completo sradicamento delle sue coltivazioni. Sacrificando una vitale fonte di
reddito dei contadini, nel 2001, il loro governo era riuscito a ridurre la
produzione da 3000 tonnellate all’anno a 185. Praticamente niente. Oggi, grazie
a vent’anni di occupazione americana-Nato e alla banda di collaborazionisti
installati a Kabul, la produzione è di oltre 9000 tonnellate, che valgono il
93% della produzione mondiale è il 70% del consumo statunitense di eroina.
Droga per la globalizzazione
Ne sanno qualcosa i quattro o cinque colossi USA di Big Pharma, recentemente condannati a miliardi di multe e risarcimenti per aver reso decine di milioni di cittadini dipendenti da oppiacei in funzione analgesica. Probabilmente pensano di rifarsi dell’eventuale traffico perduto, grazie ai vaccini. Ne sanno altrettanto le banche statunitensi che, trasferendo dai consumatori di quel mercato, il più vasto per eroina e cocaina al mondo, decine di miliardi di dollari ai sicuri rifugi dei paradisi fiscali, guadagnano mezzi da utilizzare per concretizzare il dominio globalizzato del bio-tecno-capitalismo. Ma per un Afghanistan che se ne va, c’è una Colombia che resta e che vale il paese asiatico in termini di cocaina. E da lì, per adesso, con sette basi USA a controllo del territorio e del fantoccio governativo locale, il flusso resta assicurato. Senza contare che per l’eroina si stanno attrezzando sia la stessa Colombia, sia alcuni vassalli nel Centroamerica.
Siccome pare brutto, molto brutto, pensare che la potenza
guida del mondo civile faccia i soldi con stupefacenti che avviliscono e
ammazzano, ecco che l’apparato mediatico si occupa del rovesciamento della
frittata. Già la vulgata mediatica sulla Colombia aveva spostato sulle FARC,
forze rivoluzionarie armate di opposizione al narcogoverno di Uribe, Santos e
soci, una coltivazione ed esportazione di cocaina interamente in mano ai
cartelli in combutta con la DEA statunitense. Perché non ripetere la manovra in
Afghanistan, per il quale oggi il quotidiano “La Verità”, peraltro unico
giornale mainstream che osi criticare l’aberrazione Covid, vanta un primato di
frittate rovesciate, attribuendo ai Taliban, che l’oppio l’avevano azzerato,
tra le altre nequizie sanguinarie, il progetto di costituirsi in massimo narcostato
del pianeta.
Lascito di Trump
L’uomo esecrato dalla
“sinistra” sedicente progressista, ma culturalmente colonialista fino al
midollo, Donald Trump, aveva tentato di porre fine a quelle che definiva “le
guerre infinite e inutili”. E, nello sconcerto di opinioni occidentali,
progressiste nella misura che detestano il burka, ma non fiatano sullo
sterminio di donne nella polverizzazione di nazioni disobbedienti, con
l’Afghanistan c’era riuscito. E a Biden, per mantenere un minimo di credibilità
“progressista” a fronte di una sua corte di neocon e guerrafondai obamiani, è
toccato proseguire e confermare il ritiro firmato a Doha da Washington e
Taliban.
Ma in cauda venenum,
che dai saggi latini i saggi italiani hanno tradotto con “il diavolo è nei
dettagli”. Non si può che gioire alla vista della ripetizione a Kabul della
fuga dell’esercito più potente del mondo dai tetti di Saigon. I Taliban distano
meno di 15 chilometri e gli yankees se ne vanno, portandosi appresso i non
sacrificabili collaborazionisti. In mancanza della vendetta propagandistica, come
rappresentata dal Boat People vietnamita, che intenerì l’Occidente con
le barche piene di gente che, sotto i regimi installati dall’occupante
americano, avevano prosperato, ci sarà ora quel milione di profughi afghani di
cui vaneggiano coloro cui va di traverso la cacciata di un occupante e dei suoi
giannizzeri. E che alimenteranno, per tutto il tempo occupato dall’attesa della
rivincita, i racconti delle nefandezze del nuovo regime Taliban.
C’è chi resta
Altro dettaglio. Se il veleno
sta nella coda, la coda resta in Afghanistan. E la coda ha tra le sue spire
l’ISIS. Negli ultimi tentativi di screditare i Taliban un ruolo decisivo fu
assegnato all’importazione, da Siria e Turchia, di migliaia di elementi dello
Stato Islamico. La Stampa colonialista, tra “manifesto” e “La Verità”, per
citare presunti opposti, attribuiva ai Taliban la serie recente di stragi di
civili compiute e anche rivendicate dall’Isis. Scuole femminili fatte saltare
per aria, mercati colpiti da kamikaze, ospedali colpiti da missili. Operazioni
sanguinarie, mai compiute dai Taliban in vent’anni di guerra che avevano visto
un’attività mirata esclusivamente a obiettivi militari e di regime. Ma come a
suo tempo, nel 2001, per giustificare l’aggressione, si mescolavano in un unico
schieramento elementi del tutto inconciliabili, Osama Bin Laden e il Mullah
Omar, Al Qaida e i Taliban, così oggi si prova a mettere in testa ai Taliban il
turbante del terrorismo jihadista di matrice USA.
Nessuno ha parlato di ritiro
dell’ISIS dall’Afghanistan. E, per aggiungere paglia a un fuoco che dovrebbe,
se non ricuperare, almeno lasciarsi del paese alle spalle solo le ceneri ,
nessuno ha parlato del ritiro dei contractors al servizio degli USA. Di
combattenti bene addestrati e armati delle famigerate ditte di sicariato
militare, tipo Blackwater, poi Academy, in Afghanistan ce ne sono decine di
migliaia. Qualcuno ha parlato di un esercito mercenario potenzialmente di
400.000 uomini. Resterà? E resterà la megabase di Bagram, gemella di quella di
Bondsteel in Kosovo, due poli a sostegno del traffico di droga e delle
operazioni di guerra strisciante?
Torna la soluzione B: il caos
Quando l’Impero manca
l’opzione A, quella del possesso fisico di un territorio, Stato, popolo, opta
per la B, quella del caos. Una strategia del resto scientificamente formulata
nei saggi degli esperti di un colonialismo senza gli stendardi dell’impero.
L’Afghanistan non sarà più la base per la rapina del petrolio dell’Asia
centrale, non servirà a stringere d’assedio Cina e Russia, forse si perderanno
i proventi e gli effetti sociali della droga. Ma se non servirà a noi, non
servirà neanche a se stesso e ai suoi nuovi amici, tipo quelli della Via della
Seta. Dilaniato da conflitti, sabotaggi, tumulti, tribalismi, infiltrazioni e
corruzione – a questo potranno servire ISIS, Academy e ONG - il paese non sarà
di utilità a nessun altro, né potrà svolgere il ruolo che gli spetta
nell’ambito geopolitico.
Nel Vietnam da cui si sono
visti scappare in elicottero i maggiorenti statunitensi e i loro quisling e di
cui ho visto le stragi perpetuate nel tempo dal lascito chimico di Napalm e
Agente Orange, l’imperialismo capitalista si è preso una bella rivincita.
Perduto il confronto delle armi, ha vinto quello tra i modelli sociali ed
economici. Il Vietnam socialista di Ho Ci Minh e del generale Giap è oggi
l’avamposto della penetrazione delle multinazionali in estremo oriente. Saigon,
un misto di Las Vegas e Detroit. Una scala sociale dalla base alla fame e dal
vertice di arricchiti senza scrupoli. Una vetrina del neoliberismo consumista e
spietato. I primi passi – gli dei non vogliano - in quella direzione pare
compierli anche la Cuba, paralizzata nella sua incapacità di sottrarsi alla
dipendenza economica da investimenti e soccorsi altrui. Quale struttura sociale
abbiano in mente i Taliban, a vent’anni da un loro esperimento non riuscito, è
da vedere.
Dipenderà dal grado di
coesione tra l’avanguardia politico-militare Taliban e la società afghana patriottica,
dalla maturità che gli studenti coranici avranno acquisito nel lungo scambio
con la popolazione e le aspettative delle sue varie componenti, specie giovani,
se la strategia del Caos potrà funzionare. Senza parlare dell’accortezza in
questa fase di transizione richiesta ai suoi due grandi vicini.
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