Dopo la prima edizione,
esaurita in 15 giorni, escono la seconda edizione italiana, ampliata di un buon terzo, e la prima tedesca,
onorate dalla prefazione di Vladimiro Giacchè e tormentate dal mio disordine
cronologico, geografico e tematico, di un racconto di vita tra rivoluzione,
controrivoluzione, stagnazione, combattenti, amici del giaguaro e utili idioti.
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Un invito della
Bundesrepublik all’eversore
E’ il cinquantesimo - mezzo secolo e pare ieri, ma anche un
altro evo, altro pianeta – del fenomeno storico chiamato “Sessantotto”, “’68”,
ma che abbraccia un intero decennio, 1968-1977, almeno in Italia dove è stato
il più longevo. Se uno alla lettura di questo lancio lunghetto preferisce la
volatile ma rapida soluzione audio, ecco il link dell’intervista fattami da
Radio Cusano Campus: http://www.tag24.it/podcast/fulvio-grimaldi-il-68/. E al seguente link c’è
anche una generosa recensione di Stefano Zecchinelli: http://www.linterferenza.info/cultura/un-sessantotto-lungo-vita/
Succede che alla vigilia dell’epocale
ricorrenza ricevo l’altamente sospetto invito della “Bundeszentrale fuer Politische Bildung”, organismo della
Bundesrepublik che si definisce dedito alla “formazione della cultura
politica”. Mi chiedono, nella mia
qualità, che per un governo neoliberista e Nato avrei dovuto credere invisa, di
esponente del ‘68, neanche di primissimo piano, di scrivere un contributo per
una raccolta di testi di testimoni dei vari paesi coinvolti: “Ci racconti il suo Sessantotto, una
cinquantina di pagine… Insieme a quelle di militanti, analisti, storici,
tedeschi e di altri paesi, formeranno una raccolta che accompagnerà una grande
mostra ad Aquisgrana, da aprile ad agosto 2018, intitolata “Bagliori del futuro, l’arte dei
sessantottini, ovvero il potere dei senza potere”.
Forse la scelta della mia persona è dovuta al fatto gli sarà
capitata sotto gli occhi copia del quotidiano “Lotta Continua”, di cui sono
stato direttore dal 1972 al 1975. E magari le cronache giudiziarie dei miei
circa 150 processi o denunce per reati di stampa: record assoluto in Europa. Comunque trovo iltitolo azzeccato, quello
della mostra di Aquisgrana, per niente denigratorio, anzi proprio bello, ma che
non ha dissolto i sospetti che non potevano non nutrirsi sulla genuinità degli
intenti, la correttezza storica, l’imparzialità della valutazione politica di
un governo che del ’68 è l’antitesi. Era, dopotutto, l’iniziativa di uno Stato
che aveva “suicidato” in carcere i capi della RAF, Rote Armee Fraktion, gente della cui autenticità è stata prova,
insieme ad altre, proprio quella esecuzione. Finale diverso da quello di chi,
da noi, se l’è cavata e oggi pontifica da schermi e giornali ad avallo della
colossale mistificazione di uno Stato complice.
Ma mi sono dovuto ricredere. Il mio testo, da reduce per
niente pentito, abbastanza elogiativo nei confronti del movimento, intanto non
è stato censurato e mi ha guadagnato i complimenti, direi quasi partecipi, del
responsabile dell’intero progetto. La mostra di arti figurative, per le quali
la raccolta fungeva da catalogo, aveva un carattere evocativo segnato da
rispetto, addirittura ammirazione e rimpianto, per qualcosa di prezioso
amaramente perduto. E tali erano anche
gli interventi dei politici del Land e della Repubblica Federale. Furbizia?
Generosità nei confronti dei vinti? Spazi di imparzialità imposti da una
tradizione di storici dignitosi? In ogni modo, nell’insieme, un’operazione
democratica. Da noi inconcepibile.
In Italia, invece, sul cinquantenario si sono buttati a pesce
pochi titolati e molti abusivi. Forse, se per il ’68 italiano hanno scelto me,
anziché un Sofri, un Bologna, un Fofi, una Castellina, un Viale, un Mordenti,
un Capanna, un Boato, un Erri De Luca che, insieme alle Alpi, scala le vette
del sionismo, oppure altri, fasulli e millantatori, promossisi militanti o esperti
ex-post per approfittare dell’ondata editoriale, è dovuto al fatto che, forse, qualcuno della “Bundeszentrale” è incappato in una delle
trasmissioni, interviste, tavole rotonde, del popolare giornalista e politologo
Ken Jebsen. Jebsen, odiatissimo dalle truppe radical-trendy, russofobe e di
complemento al sistema capital-globalista, è giornalista di riferimento in Germania
per l’opinione antimperialista, antiliberista e sovranista. Ne sono stato
ripetutamente ospite. E i vagliatori dei reduci del ’68 si saranno resi conto
che, diversamente da molti dei sopra citati e di tanti altri, il sottoscritto
non aveva cambiato casacca, trincea, amici e nemici, e che questa continuità
poteva perciò essere più aderente a un progetto storico obiettivo, rispetto a
chi da eversore si era fatto grillo parlante, da incendiario pompiere e perfino
manganello dell’establishment.
Chi c’era e chi ci
faceva
Rapidamente. Dall’intesa tra la “Bundeszentrale” e Zambon, editore di altri miei libri, il contributo
alla raccolta dei vari sessantottini si evolve in libro: ““68 ein Leben lang”. Dal quale, visto la superfetazione di
pubblicazioni, seminari, convegni, inserti, raduni vintage, abbiamo pensato,
Zambon, il suo collaboratore Fabio ed io, non sarebbe stato inopportuno trarre
anche un’edizione italiana. Più lunga di quella tedesca, visto anche che per
caratteristiche di durata, molteplicità dei soggetti, spessore
dell’elaborazione teorica e ricchezza di quella pratica, il Movimento in Italia
supera per importanza storica e politica quello più effimero di Francia,
Germania, paesi anglosassoni e, semmai, trova paralleli nelle resistenze
latinoamericane, nelle lotte anticoloniali del Terzo Mondo, in Palestina e nel
nazionalismo arabo, nell’antimperialismo del Vietnam, nelle rivolte civili.
Dove perlopiù, tra le varie organizzazioni italiane, eravamo presenti da
comunicatori e partecipanti. Nostri fratelli erano i Tupamaros, l’ERP, i
fedayin, l’Ira, Irlanda del Nord, Palestina e Libano, Che Guevara, il
Portogallo dei Garofani. Il PCI su queste cose si ingarbugliava e poi bloccava.
L’onesto Berlinguer, scegliendo Nato e DC, gli aveva sparato la pera tossica
finale. Il “manifesto” di Rossanda, Castellina e altri della tribù, ciurlava
nel manico, calmierava, obnubilava il proletariato con una sovracultura astrusa
e inaccessibile, destinata a farci sentire tutti inadeguati, cretini.
Quando Sofri e la sua conventicola presero a blaterare di
socialimperialismo, concetto balordo e infondato, vollero inserire nella nostra
galleria pure i Solidarnosc polacchi, mobilitati dal Papa guerrafondaio in
Jugoslavia e finanziati da italiani, europei e americani embedded con la Cia,
checchè si volesse dire del generale Jaruzelzki e dei sovietici, la crepa
aperta nel movimento prese a sanguinare e
si sarebbe allargata fino al dissanguamento. Con i detriti di Solidarnosc il Nostro allestisce oggi
rievocazioni spurie del ’68, dipanando un filo che, fin dal salto della quaglia
da Lotta Continua a Pannella e Craxi, ai jihadisti ceceni, lo ha reso cantore,
sulla pubblicistica berlusconiana e debenedettiana, di ogni operazione
imperialista made in globalizzazione e russofobia. Altri del suo “giro”, si
sono inguattati nelle alcove di lusso delle presstitute, con ovunque
quell’esposizione e rilevanza che premia i venduti e offre soddisfazioni ai loro
acquirenti.
Noterete che non c’è campagna di distrazione di massa dai
temi che dovrebbero mobilitare quelli che stanno sotto, perlopiù gestite e
finanziate da Soros e dai suoi apparati, che non veda in prima fila un “ex”:
identificazione di paesi da radere al suolo perché guidati da “dittatori”;
migranti da accogliere purchè sguarniscano di forze i paesi d’origine, si
prestino alle nuove forme di schiavitù e abbattano i diritti dei lavoratori in
quelli d’arrivo; tutta l’ossessiva panoplia dei cosiddetti diritti civili, dai matrimoni
unisex alle adozioni da uteri in affitto, alla criminalizzazione di un genere
in quanto tale e la divinizzazione dell’altro in quanto tale, a fini di frammentazione sociale e di ostilità indotte
tra gruppi che perdono di vista il nemico comune.
Fin dalle prime battute il decennio insurrezionale ha visto
chi, più che esserci, ci faceva. Serpeggiavano tra le file dei nostri soggetti
rivoluzionari: operai, studenti, intellettuali, precari, sottoproletari,
inquadrati in strutture autoritarie come esercito e polizia, combattenti contro
la devastazione del patrimonio ambientale. Spesso mandati a estremizzare. Al
momento giusto sparivano. Un’infima minoranza, ma di gente molto in vista,
anche perché fatta emergere apposta e
bene attrezzata. Parte del merito della vittoria della controrivoluzione e
della “restaurazione progressista”, le va riconosciuto. Insieme alla
militarizzazione dello scontro affidato agli apparati dello Stato, a cominciare
dal mai defunto Gladio, dai servizi esteri, dagli infiltrati che oggi il
Sistema manda a imbrogliarci dagli schermi con versioni degne di quelle
rifilateci sull’11 settembre.
Costoro, insieme a entusiasmi strabordanti la realtà,
sbandate velleitarie, fanciullesche ingenuità, astute mistificazioni e brutale
cinismo del nemico interno ed esterno, ci hanno scavato la fossa. Solo che
fossa non era, ma cavità di un flusso carsico che si vede riemergere in altri
tempi e altri luoghi, in forme e linguaggi diversi, ma che in comune con il
nostro decennio hanno il gigantesco NO all’esistente che punta a diventare un
gigantesco SI per il futuro. Una volta o l’altra riemergerà anche da noi. Nel
recente voto il NO è già ricomparso. Ora si tratta di garantirci un SI come si
deve.
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