Enrico Mentana, informato, logorroico, a volte spiritoso
mio collega in Rai degli ’80-’90 e ora, da tempo, a La7 come direttore del tg,
passa per essere tra i pochi giornalisti cui andrebbe tributata la qualità di
obiettivo e corretto. E’ il riconoscimento che ci si illude possa essere
attribuito a quelli che, anziché ratti di fogna, sono topini di dispensa:
sempre al formaggio sono attaccati. Altra metafora vede gli uni come McDonalds
e gli altri come Nouvelle Cuisine, sempre di discutibile alimentazione si
tratta.
Specialisti tv dell’odio anti-odio
Mentana sta in un’emittente, quella di Urbano Cairo, patron
del Torino di colpo assurto a notorietà e potere con l’acquisto del Corriere
della Sera. La sua rete tv si era guadagnata un certo credito tra i disperati e
frustrati delle tv di regime per quella scapigliatura e quell’anticonformismo
che si esprimeva in trasmissioni come quelle di Sabina Guzzanti (addirittura) e
di Gianluigi Paragone (doppio addirittura). Non è più così e se oggi c’è una tv
di propaganda del pensiero unico, tanto disciplinato quanto assoluto, è La7.
Pensate all’ininterrotta gragnuola di colpi con cui i bombaroli
di Cairo, tutti usciti da una virtuale “Scuola delle Americhe” per giornalisti,
con Master negli istituti di alta formazione a Tel Aviv, radono al suolo chi
sta con i 5 Stelle (quelli di un tempo), chi non lubrifica gli scivoli per
migranti, chi esprime perplessità su quanto si va facendo a Libia, Siria,
Venezuela o Bolivia. Sono i Navy Seals di Cairo e dell’establishment:
Gruber con l’elmetto a punta del Kaiser, Formigli alto sacerdote delle Ong, il
sadico Floris con la stella fissa Fornero, il più multicolore “difensore
civico” Giletti, il ridanciano, ma respingente, Diego Bianchi “Zoro”, con Marco
da Milano, del fu-L’Espresso, una specie di Lilli Gruber al maschile e alla
matriciana…
Un non-più mitraglietta a salve
Qualcuno diceva che il non più giovane, ma sempre
riccioluto, Mentana, già “mitraglietta” e ora esitante ripetitore di
intercalari da smarrimento di concentrazione – eee… eee… eee…- per imparzialità
e multilateralismo si elevasse sopra questa muta di odianti denunciatori di
odio. Se non altro per educazione e apparente equilibrio. L’altra sera,
abbandonati gli ossessivi richiami a un antisemitismo che non c’è, ma che
maschera efficacemente le malefatte di un certo Stato, e di cui si occuperà a
larghissimo raggio la neo-Commissione Segrè, finalizzata a riunire nel Lager
tutti gli odiatori, siano antisemiti, razzisti, xenofobi, omofobi,
intolleranti, novax, laziali, o complottisti, si è esibito in un tip tap di
indignazione alternata a riprovazione da far vibrare gli schermi. Era mai
possibile, esclamava con espressione di chi assiste a una danza del ventre di
Salvini con mojito mentre pretende i pieni poteri, che l’intera stampa e
diplomazia mondiale, tv e giornali e pulpiti, taccia i crimini che la Cina va
commettendo contro i “ragazzi” di Hong Kong? Un silenzio tombale, delittuoso e
osceno quanto quei crimini, sospirava.
E, come non bastasse tanta riprovazione, ha chiamato a
rinforzare lo sdegno la nota Gabanelli, ora impegnata in un “Data Room” che
però non disdegna il soccorso ai bisognosi, in questo caso al Mentana Furioso. E
a tutti coloro che detestano la Cina comunista al punto da vagheggiarne la fine
già inflitta al Celeste Impero, corredata di una nuova strage di 20 milioni tra
cittadini e soldati, come quella riuscita ai britannici nelle due guerre per l’oppio.
Il racconto della venerata signora del giornalismo coraggioso era talmente
preciso che quasi quasi pareva fosse in mezzo alla turbolenza. Sgherri trucidi
e sanguinari contro bimbetti sognanti che sui bruti non facevano che lanciare
fiori. Li vedete nelle immagini, dopo aver fatto a pezzi il parlamento, l’aeroporto,
la metropolitana, negozi filocinesi, banche cinesi, poliziotti honkonghesi.
Fenomenale davvero. Non so se l’equilibrato, o
equilibrista, Mentana – che al contempo non ha saputo dire niente sul golpe
fascio-statunitense in Bolivia e relativi eccidi di resistenti indios e
impunità assicurata dalla Guaidò locale agli assassini in divisa – s’informa
solo su “Topolino” o “Settimana Enigmistica” (peraltro leggermente più
professionale dei main stream). Perché raramente una copertura mediatica
è stata più tonitruante e unanimistica di quella dei bravi nostalgici della
regina Vittoria e delle sue guerre di sterminio a favore dell’oppio. I lanciatori
di frecce d’acciaio, di massi da catapulta, di ordigni incendiari, che linciano
chi li rimprovera di sabotare l’isola e la sua economia, hanno avuto un coro tipo
“cavalcata delle Walkirie”.
Al confronto, i Gilet gialli, al 53° evento in un anno, si
sono dovuti accontentare di un rantolo svociato alla Loredana Bertè di oggi. Ci
hanno assordato di peana agli eroici democratici con bandiera britannica e
americana e di anatemi a poliziotti che, senza aver fatto feriti in mesi e mesi
di teppismo devastatore dell’intera città, se non un manifestante che si
avventava con mazza da baseball su un agente, si fossero trovati a Los Angeles
(1992) vestiti da Guardia Nazionale, avrebbero già fatto 63 morti, 2.383 feriti
e 12.000 arresti.
Torti e ragioni sulla bilancia tarata dai bottegai
di Washington
Ma non si tratta solo di quantità. La qualità è esplicitata
dalla distribuzione di torti e ragioni secondo gli standard di valutazione che
vengono indicati dagli editori locali, a loro volta imbeccati dagli azionisti
di maggioranza in Nato e servizi segreti. Ce lo ha insegnato, con temerarietà
poi pagata duramente, il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, documentando due
giornalisti europei su tre assoldati dalla Cia (ucciso nel 2017 “da un
infarto”, a 56 anni e in perfetta salute, due anni dopo la pubblicazione del
suo libro “Giornalisti comprati”, mai uscito negli Usa).
Non è difficile indovinare che i torti sono di pochi.
Essenzialmente dei facinorosi indios boliviani, sostenitori di un caudillo
indio che voleva darsi a un lusso sfrenato sfruttando, in proprio e in
cooperazione con russi, cinesi e svizzeri, il più vasto giacimento di litio del
mondo (cellulari, macchine elettriche, elettronica di ogni tipo). Il litio è il
minerale senza il quale la quarta rivoluzione industriale, quella tecnologica,
con cui i potenti pensano di sbarazzarsi definitivamente delle plebi del mondo,
o almeno dei loro cervelli, fa semplicemente puff. Perché non servisse a
riempire di diamanti e ville le cortigiane che affollavano i festini del
corrotto Morales, per il bene del popolo l’incaricato d’affari Usa a La Paz,
Bruce Williamson, aveva consegnato un milione di dollari ai capi delle varie
armi e mezzo milione ai dirigenti della polizia.
Torti enormi anche e soprattutto dei Gilet Gialli, a loro
volta con 11 morti, 2.448 feriti, 23 accecati e 5 mutilati, 10.000 arrestati,
3.100 condannati, 600 in galera (roba da far vergognare i poliziotti di Hong
Kong), in esattamente un anno di lotta contro il buongoverno del co-imperatore
europeo Macron e dei suoi predecessori.
Le ragioni, invece, sono di tanti, quasi tutte da
riconoscere ai manifestanti contro “regimi” (mai “governi”) anacronistici nel
loro rifiuto di globalizzazione e Usa. Ragioni equamente distribuite tra coloro
che protestano contro chi non si adegua ai valori civili, politici, economici e
sociali che hanno reso felice, sereno e pacifico l’Occidente
democratico-liberale. E parliamo oggi di Hong Kong, Iraq, Libano, Iran, ieri di
Algeria, Egitto, Sudan, Nicaragua, Venezuela. Ci proviamo un po’
affannosamente, ma con la migliore buona volontà, con la Russia basta un
fuoriditesta sulla Piazza Rossa per annunciare l’imminente fine dello “zar”
Putin. Finiamo con l’esaltarci di Extinction Ribellion, fomentatori
semiviolenti della New Green Economy, sacrosanti teppisti nelle
patrie della democrazia e dei diritti umani e perciò messi in piedi e
finanziati da protettori del clima e della salute planetaria. Ci sono tutti i
trilionari del mondo: George Soros, Ted Turner, Rockefeller, Bloomberg, Getty,
Kennedy, Buffet, e la Global Business Coalition finanziata da Bill Gates, più
molti altri paperoni comodamente alloggiati nella parte alta della classifica
“Fortune” dei miliardari.
A fiancheggiare questa nuova e più grande primavera dei
colorati, o stagione arcobaleno, non può mancare il pifferaio nostrano che
guida quel che resta dell’armata Brancaleone pseudo-sinistra. Va ammesso che
sulla Bolivia il “manifesto” esce dal seminato ammettendo colpo di Stato e
repressione, ma ci rientra subito, compensando tale audacia con gli attacchi
delle femministe boliviane a un Morales diversamente fascista. La vocina del
Deep State è costretta a camminare sul filo del cerchiobottismo, avendo già
perso una barca di elettori per aver detto sul Nicaragua le stesse cose della
Cia e dei preti che, sotto l’occhio benevolo di Bergoglio, incendiavano
commissariati, poliziotti e sedi istituzionali.
Una bella pagina del “manifesto”
Ho sott’occhio un paginone del “manifesto” del 19 novembre.
Una pagina che, dalla prima all’ultima riga, non può non provocare, giubilo,
brindisi e stelle filanti negli ambienti che curano le stagioni arcobaleno. E’ la
sublimazione del ruolo del giornale nel farsi carico di tutte le campagne
xenofobe e d’odio che il Deep State persegue, a cominciare da Russia,
Cina e altri riottosi. Parte Amnesty International, Agenzia PR del
Dipartimento di Stato e grande guida della claque umanitarista negli spettacoli
dell’odio globalista. Dopo aver lanciato l’offensiva contro un Assad vincente
con un “report” che gli attribuisce 13mila morti ammazzati nelle sue prigioni,
di sua mano o quasi, al solito senza documenti e con tanto di testimoni anonimi,
e uno altrettanto fasullo sul Venezuela, ora a Tehran incalza, attribuendo 106
manifestanti uccisi in 21 città e tre giorni, garantiti da testimonianze
oculari di chi però sta a migliaia di chilometri dall’Iran, al sicuro nelle
marche dell’Impero. Per “il manifesto” è tutto credibile, quanto lo è
“l’imparziale” BBC, sostenitrice di tutte le guerre Usa-Nato, ma unica a far
sapere agli iraniani cosa succede nel loro paese.
Sottotono o del tutto assenti, qui e nel resto dei nostri
vangeli di verità, il riferimento alle sanzioni Usa, cui tutti a loro spese si
piegano, con cui da decenni si prova a radere al suolo una società nella
speranza che si ribelli ai suoi governanti. Già sotto Ahmadinejad, il migliore
presidente che il paese abbia avuto e perciò rabbiosamente inviso al
“manifesto”. ho visto gli iraniani decimati dalle sanzioni di Obama, gente che
moriva per il bando Usa ai farmaci salvavita e oncologici, sanzioni poi
decuplicate in ferocia dopo che Trump aveva disdetto l’accordo infausto
inflitto da Obama a Rouhani, che privava l’Iran del diritto alla ricerca
nucleare a fini pacifici. Quindi, con chi sta il giornale anticomunista?
Sta con la solita torma di manifestanti addestrati e pagati
da NED, Soros e USAID, che ogni due per tre invadono qualche piazza iraniana,
per poi spegnersi nel giro di qualche settimana. Sta con Pompeo, l’erede di
coloro che nel 1953, con un golpe Cia, si sbarazzarono di Mossadeq, il
nazionalizzatore del petrolio iraniano. Anche lui, seguendo la nobile usanza
dell’ingerenza negli affari interni altrui, ha giurato ai dimostranti “per la
democrazia” che gli “Usa sono con voi”. L’innesco della “rivolta”? Come
in Iraq, in Siria, in Libano, in Bolivia. Stavolta un aumento del carburante di
ben 11 centesimi rispetto ai precedenti 10, prezzo più basso del mondo, e la
riduzione del consumo personale da 250 a 60 litri al mese. Il provvedimento,
imposto dalle sanzioni che hanno ridotto la produzione iraniana da 2,4 milioni
di barili al giorno a 300mila e i cui proventi servono per sussidi ai più
colpiti dalle sanzioni, salvaguarda il basso consumo delle famiglie, mentre
danneggia i grandi trasportatori.
Iraq. Il più odiato, l’esperimento di genocidio
più insistito.
La bella paginona del “manifesto” si affianca al segretario
di Stato Usa anche per quanto riguarda altre due performance imperiali che
meritano una claque vasta e qualificata. Hong Kong, un pezzo di quella Cina,
sulla quale si esercita con non contenuta avversione il suo sinofobo di prima
classe, e Iraq. Sull’equilibrio con cui Mentana e altri illustri paladini
dell’indipendenza mediatica si commuovono per i pacifici dimostranti di Hong
Kong, all’ombra della benevolenza dei rispettivi “editori democratici di
riferimento”, s’è già detto. A me preme in particolare l’Iraq, paese a me più
vicino, del cui destino insistono ad occuparsi i migliori globalisti
antinazionalisti (in altri termini, colonialisti) fin da quando Churchill lo
bombardò con gas venefici nel 1922.
Quello che non è mai stato perdonato all’Iraq è quel che è
diventato dalle rivoluzioni anticoloniali degli anni ’60 fino alla presa del
potere di Saddam Hussein. Un paese che, quanto a ricchezza (da petrolio) diffusa
equamente, modernizzazione dell’apparato produttivo, infrastrutture, diritti
sociali (scuola, sanità, pensioni, maternità), emancipazione delle donne,
numero di studenti mandati con borse di studio a formarsi all’estero, ricchezza
culturale, creatività artistica, protezione dell’immane patrimonio storico
risalente ai sumeri, sostegno politico ed economico ai palestinesi e all’unità
araba, difesa e promozione delle varie confessioni, cristiana in testa,
autostima e orgoglio, primeggiava tra tutti i paesi della regione e superava le
condizioni di parecchi del primo mondo, detti sviluppati.
Per i razzisti, xenofobi, antisemiti (ricordando che semiti
sono 450 milioni di arabi), cioè per tutti gli odiatori che si sono fatti
protagonisti del colonialismo d’antan, come di quello di ritorno oggi, era
intollerabile che una nazione si emancipasse a tal punto da mettere in ombra
nientepopòdimeno che la nostra imperfettibile civiltà. Ed è stata guerra, di
tutti i generi, di diffamazione-satanizzazione, bombe, sanzioni invasione,
occupazione, depredazione, genocidio da uranio. Per prima cosa l’invasore Usa
ha depredato il museo nazionale, bruciato la Biblioteca Nazionale e raso al
suolo con i cingoli Babilonia e altri siti millennari. Fino al complotto imperialista estremo:
l’Isis.
Quattromila anni di civiltà da bruciare viva.
Ci sono arrivato, da inviato di “The Middle East”, nel 1978,
e ci sono tornato molte volte, riuscendo a conoscerlo tutto abbastanza bene, da
Mosul e Niniveh, da Ur a Bassora. Ho fatto il corrispondente da Roma per il
quotidiano arabo “Al Thaura”, con un grande direttore, il palestinese
Nasif Awad, e del giornale in lingua inglese “Baghdad Observer”, diretto
da un amico, Naji al Hadithi, conosciuto quando era il direttore del Centro
Culturale iracheno a Londra, poi ultimo ministro degli Esteri con Saddam. Da
Iraq, Siria e Libia, mi sono arrivati doni di consolazione per la sofferenza condivisa
con i palestinesi. Ho visto il popolo e la sua dirigenza resistere in maniera eroica
allo strangolamento tra le due guerre d’aggressione, 1991 e 2003: sanzioni
micidiali e bombe di Clinton su tutto quanto permetteva la vita. 1,5 milioni di
morti, di cui i 500mila bambini, rivendicati dalla neocon clintoniana Madeleine
Albright. Poi l’Iraq, contro il sabotaggio dei prezzi del petrolio ordinato
all’emiro dagli Usa per strangolare l’Iraq, Saddam si è ripreso il Kuweit,
provincia che i britannici avevano separato dalla grande Nazione per
garantirsi, con un satrapo fantoccio, uno dei più vasti giacimenti di petrolio
del mondo.
Bagdad ieri e l'altro ieri
Ai tre milioni di morti, il 15% della popolazione, Usa e
Nato arrivano con la guerra di conquista del 2003. Dalla mia finestra al
Mansour Hotel, poi dal Palestine, sempre per un pelo scampato ai missili con
gli altri colleghi, a noi che secondo Bush non dovevamo stare lì, poi girando
la città, ho filmato gli accecanti bagliori, i tremendi impatti, poi le
macerie, il fosforo su Fallujah, i pianti di un paese in stracci ma in piedi, che
l’invasore non riusciva a sottomettere. La forza di resistere per anni. Doveva
subito essere squartato in tre pezzi, scita, sunnita, iracheno. Non ci sono
riusciti. L’Iran poteva prendersi il suo pezzo scita, ha dato una mano in
difesa dell’unità, a dispetto del collaborazionismo dei contrabbandieri e
narcotrafficanti curdi sostenuti da Cia e Israele.
Un Iraq che, a forza di proconsoli e vicerè Usa, di
distruzione di ogni struttura statale e del disfacimento dell’esercito, della
pugnalata alle spalle dei turchi che gli hanno tagliato il Tigri e l’Eufrate,
della rapina del suo massimo bene, gli idrocarburi, miracolosamente era
riuscito a contrastare l’assalto dello Stato islamico, inventato e scatenato
dai nemici di sempre. Perfino ha sconfitto la sua presa del territorio, grazie
anche all’enorme valore delle milizie popolari, “Unità di Mobilitazione”, di cui
gli amanti del mercenariato Usa attribuiscono il merito ai peshmerga curdi,
interessati unicamente a strappare agli arabi Kirkuk e il suo petrolio. Resta,
come in Siria, la strategia del terrorismo, anche quella sempre della stessa
matrice, per impedire ogni normalizzazione. Il ricordo dell’Iraq di prima, la
paura che suscita ancora la coesione, l’irriducibilità, la vitalità di un
popolo martirizzato come nessun altro, alimentano anche questa nuova congiura
anti-irachena. La si attribuisce al malgoverno, alla corruzione. Certamente vera
per i fantocci installati dagli occupanti negli anni passati. Ma si occulta spudoratamente
la demolizione sistematica, da trent’anni, di una nazione. Senza i proventi di
un petrolio rubato dalle multinazionali, non c’è ricostruzione. Le reti idrica,
fognaria ed elettrica, l’apparato industriale, agroindustriale, sanitario (un
tempo tra i più efficienti del mondo), dell’istruzione, restano a pezzi. Due
generazioni sono state distrutte.
Facile dare del corrotto al premier Abdul Mahdi. Facile
dire, con il Fatto Quotidiano, giornale assolutamente impresentabile per la sua
poltiica esteera, quanto “il manifesto”, che l’Iran tiene in ostaggio l’Iraq.
Facile incolpare Baghdad di affidarsi alle sue milizie Ashd al Shabi, al mitico
generale dei Pasdaran Qassem Soleimani che le ha guidate e ne ha accompagnato
la vittoria. L’Iraq deve ancora pagare. Perché c’era Saddam (senza il quale non
ci sarebbe stato quell’Iraq). Perché c’è la malapianta Iran (senza la quale non
ci sarebbe nemmeno l’Iraq di oggi).
Nel quale si è andata accendendo una “primavera araba” dei
soliti colori nel preciso momento in cui il parlamento, non smentito dal primo
ministro, ha chiesto agli Usa di ritirare i suoi militari, le milizie popolari
hanno denunciato e documentato le complicità Usa-Isis e la massima autorità
spirituale del paese, l’Ayatollah Al Sistani, ha protestato contro le responsabilità “di certi paesi” per i mali
dell’Iraq. Forse il titolo del mio ultimo documentario sull’Iraq non era
sbagliato.
3 commenti:
Maledetti...e adesso stanno tentando lo stesso gioco di morte nel Libano multiconfessionale.
Sempre più simile al blog di un hater qualsiasi. Peccato perché qui si leggono tante verità,a parte le solite minchiate anti-antifasciste e il Manifesto creato dalla Cia (sic).
ormai siamo in aperta caccia alle streghe. non c'è bisogno più di censure, confino, olio di ricino e tutto l'armametario del novecento; oggi c'è il main stream mediatico foraggiato dai filantropi per azzittire ogni forma di resistenza al pensiero unico del neoliberismo.
i filantropi hanno fatto il capolavoro: assoldare al loro scopo le anime belle; la manovalanza fascistoide non aveva la stessa affidabilità.
saluti
Alberto
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