martedì 30 settembre 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali --- EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

 

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico

Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali

EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

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In una stagione estiva più tumultuosa del solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo. I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo. Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo, l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.

Tutto appare chiaro come l’inchiostro. Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.

Con l’assassinio (mancato) dei leader di Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli (ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?

Tra Doha e Orem, Utah

C’entra, se si considera cosa rappresentano l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra persone e Stati. Quel mondo di regole faticosamente imposta ai potenti e grazie alla quale siamo sopravvissuti, bene o male, all’assalto storico dei pochi ai tanti. Israele ha ribadito con il massimo clamore come ciò che conta non sia il diritto, ma solo la forza. Una condizione alla quale, bastonando ma fingendosi vittima, ha reso tolleranti i governanti del mondo (e una buona, ma decrescente, parte dei loro sudditi), alla faccia di cent’anni di terrorismo, illegalità, superchierie. Trump, dopo averne beneficiato per coltivare il consenso di massa al culto della prestabilita superiorità, immune e impunibile, dalla morte di Kirk e dalle cerimonie funerarie, ha tratto il via libera al trumpismo totale: terroristi tutti coloro che non si trumpizzano, a partire dalla nebulosa degli “Antifa”.

Resta da puntare lo sguardo verso una zona più tenebrosa e nella quale, al momento, solo il cui prodest, a chi è convenuto, può gettare sprazzi di luce, E di congetture. Israele dalle bombe su Doha ha tratto l’ulteriore conferma che Trump gli si fa scendiletto ovunque sia in gioco l’interesse della comunità sionista. Che ciò dipenda o meno dai trascorsi – con pubblicazione sospesa – del presidente con il compagno di giochi, Jeffrey Epstein, rimane un solido sospetto.

A essere maliziosi resta da rilevare che negli ultimi tempi, Kirk era passato da appassionato sionista a rispettoso frequentatore di oppositori di Israele, arrivando a condividerne addirittura alcune critiche in merito a Gaza. Ponendo questo dato sullo sfondo delle reiterate dichiarazioni di Netaniahu di non aver avuto nulla a che fare con l’assassinio dell’influencer, spunta spontaneo il detto dei padri latini “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Il discolparsi non richiesto, comporta un’accusa. Del resto lo sceriffo Bibì non è forse the fastest gun in town, la più veloce pistola in città?

Tra Doha e Orem, Utah, si è sancito il nuovo ordine mondiale. Conta la forza, punto.  Quanto a cosa tocca a noi, avrete notato come la famula trumpista della Garbatella si sia subito immedesimata nel corso fuorilegge (aiutata dalla tradizione della conventicola), facendosi insieme vittima e menade invasata, per riproporre alla convention del suo battaglione giovanile lo stesso meccanismo di vittoria dell’archetipo con cresta gialla. Siamo vittime dell’odio, il che ci esime dall’osservanza della legge. Vamos a pelear.

Qatar

Basta arzigogoli. Ci siamo proposti di occuparci di tre oggetti misteriosi in Medioriente. Siamo partiti bene, poi abbiamo dirazzato. Torniamo al dunque, il Qatar, quello della dinastia degli Al Thani, monarchia assoluta protetta dal fornitore-cliente USA e compagno di merende, con Bahrain e gli Emirati, di Israele e UE (ricordare i mondiali di calcio, la falcidie degli operai nella costruzione degli stadi, la benevolenza di Bruxelles garantita dal Qatargate. Lezione mai imparata, se è vero che proprio in questi giorni il nostro ministro degli Interni Piantedosi ha concluso con questo Qatar un incredibile accordo perché lo sceiccato, proprio esso, ci fornisca servizi di intelligence e sicurezza per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina!)). 3 milioni di abitanti, dei quali un paio di migliaia di Al Thani (il numero esatto è segreto), alcune migliaia di famigli, 15% di arabi, ex-beduini del deserto, il resto forza lavoro immigrata, perlopiù asiatica.

Condizioni di semischiavismo ideali per lo stabilimento, nella penisola del Golfo arabo-persico, di una delle più grandi basi militari USA del mondo, oltrechè del Medioriente, Al Udeid. Quella colpita dall’Iran in risposta alla pirateria bombarola israelo-statunitense e quella in cui alcune centinaia di marines hanno recentemente sentito rimbombare le esplosioni che avrebbero dovuto uccidere la resistenza palestinese.

Da quelle esplosioni avreste pensato che si sarebbe innescato il lungamente atteso “risveglio arabo”. In effetti c’è stata lì, all’indomani, la Lega Araba: una fiction, vuota retorica. Gli Stati arabi, totalmente dipendenti da entità esterne per i patrimoni delle classi dirigenti e per la loro sicurezza interna ed esterna, sempre a rischio di destabilizzazione, hanno lo spazio di manovra di un coniglio nella tana, con dietro e davanti il muso del mio bassotto Ernesto.

Dunque il Qatar. Sul piano regionale, grande rivale dell’Arabia Saudita per il primato nel Golfo, al punto da rischiare, un paio di volte, lo scontro armato. La sua esistenza si basa sull’investimento in un sistema di sicurezza fondato sull’affidabilità USA e sulla moderazione israeliana. Due pilastri del regno che con l’attacco del 9 settembre sono collassati. Essersi fatti compromettere la sovranità da Washington, avere aperto un ufficio diplomatico-commerciale per una ricca attività di scambi a ogni livello con Tel Aviv, non è servito a trattenere l’incontrollabile e strutturale aggressività israeliana. Alla faccia dei miliardi spesi dagli Al Thani per sostenere l’esoso apparato di strutture e personale militari USA.

Intanto, a fini di equilibrio e disconoscimento dei dati di fatto, Al Jazeera copriva questa condizione di integrazione-asservimento assurgendo a più prestigiosa emittente televisiva araba, con tanto di impegno per i palestinesi e di denuncia degli orrori israeliani a Gaza e in Cisgiordania. Impegno pagato, come sappiamo, con lo sterminio, spesso assieme alle loro famiglie, dei propri corrispondenti a Gaza. Senza che l’emiro avesse neppure da bofonchiare,

Ora tutta la situazione degli Al Thani, solida finchè la protezione militare USA garantisce la tenuta del coperchio sopra il pentolone ribollente della frustrazione sociale, è compromessa dalla volatilità dell’impegno americano al tempo di Trump. Il quale Trump, sebbene abbia rivendicato di aver avvertito in tempo i qatarioti dell’incursione israeliana, da Doha è stato smentito: lo avrebbe fatto solo per finta, ad attacco in pieno corso. Perché spendere milioni per la sicurezza, quando il sistema installato non protegge dagli attacchi di un alleato del protettore al quale è data carta bianca per fare carne di porco di chiunque? Come s’è visto nel giro di mesi con Iraq, Siria, Libano, Palestina, Tunisia (flottiglia), Iran, Yemen e, indi, Qatar.

L’idea di potersi mantenere in equilibrio tra retorica nazionalista araba, legami pragmatici con Israele, benevolenza ampiamente foraggiata dell’UE e affidamento alla protezione militare araba, è svaporata nel rituale riunirsi di potentati arabi e musulmani e nei conseguenti vuoti proclami. Dai quali ai popoli della regione, palestinesi in testa, non arrivano che spunti per sarcasmi e indignazione. Che, presto o tardi, dovranno pure produrre risultati. La colonna qatariota dell’architettura sionista programmata per il Medioriente ha piedistalli fragili.

Turchia

Travolta dal rifiuto di massa in Egitto, con la caduta, 2013, del presidente Morsi nel giro di un anno di soperchierie sociali e integraliste, abbattuta in Tunisia dall’analoga insofferenza popolare per il leader di Ennahda, Rāshid Ghannūshī, fallito un affine regime change in Algeria, la Fratellanza Musulmana ha subito una serie di debacles che ne hanno isolato gli ultimi due esponenti al governo di un paese: Gli Al Thani in Qatar e Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E’ il ripiegamento della forza politico-confessionale, creata a Londra negli anni 20 dello scorso secolo, col concorso di interessi feudali arabi e coloniali britannici, per contrastare il nascente movimento panarabo nazionalista, anticolonialista, laico.

Mentre scrivo riecheggia ancora nel Medioriente l’anatema lanciato dall’autocratico sultano turco contro Benjamin Netanyahu: “E’ come Hitler e gli toccherà lo stesso destino”. Questa equiparazione con Hitler inizia a essere un po’ stantìa, visto che da Putin a Milosevic, da Arafat a Chavez, da Gheddafi a Saddam, ne ha risparmiato pochi di individui che in Occidente si ritenevano da rimuovere. Solo che, in bocca a uno come Erdogan, l’invettiva risulta poco convincente. Anche perchè lanciata a Doha, in quel contesto di pronunciamenti ad aria calda che sopra abbiamo ricordato.

Per alcuni miei colleghi, con una lunga frequentazione della Turchia di Erdogan, quel paese avrebbe assunto il ruolo di guida e luce dei popoli della regione asiatico-mediorientale in occasione del vertice di Astana del 2022. Una quindicina di paesi asiatici, in buona parte turcofoni e islamici, si sono riuniti per costituire una forza geopolitica capace di contribuire a determinare eventi e sorti della regione.

Ma l’iniziativa è stata presto oscurata dai ben più robusti, geopoliticamente e geoeconomicamente meglio definiti, consessi dello SCO (Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione di Shanghai) e dei BRICS. Ad Ankara però è rimasto il ruolo, da molti accreditato, da pochi messo in discussione, di indipendente elemento di mediazione ed equilibrio all’interno delle turbolenze che agitano il Medioriente e l’Eurasia. Elemento risaltato a Istambul nei ripetuti incontri tra esponenti russi ed ucraini e mediatori vari.

Tutto questo è il frutto di un abile giocatore di poker, spesso baro, sempre doppiogiochista, granitico in casa nella repressione di contestatori, molto ondivago negli indirizzi geopolitici. Erdogan sa manovrare nelle acque tempestose della sua regione, come del mondo intero, dove ci tiene a figurare da attore di primo piano, alla pari dei più grandi e spesso riesce a convincere di una sua credibilità che, poco dopo, risulta fondata su basi opposte. Ha qualcosa del Trump, in questo. Massima potenza Nato, quindi integrata nel sistema politico-militare occidentale, è anche una delle maggiori potenze islamiche, con forte influenza sugli Stati turcofoni dell’Asia Centrale. Fino a provocare agitazioni eversive nella minoranza islamica dello Xinjang cinese.

Si proietta nell’arena del conflitto ucraino facendo l’Arlecchino servitore (nel caso, amico) di due padroni, senza che, peraltro, nessuno glielo rimproveri. Si vede che c’è, comunque, da profittarne per tutti. Superato indenne l’abbattimento, nel novembre 2015, del Sukhoi Su-24, è stato premiato con la consegna del sofisticato sistema di difesa aerea russo S-400 (negato all’Iran). Non aderisce alle sanzioni contro Mosca, ma sostiene politicamente e militarmente (droni e armamenti) Kiev e chiude alle navi militari russe il Bosforo e i Dardanelli. Assume un’immagine umanitaria facilitando l’accordo per l’esportazione verso l’Africa del grano ucraino attraverso il Mar nero.  

Torniamo all’invettiva di Erdogan contro Netaniahu e Israele, non la prima in questi anni di sterminio dei palestinesi. Invettiva inevitabile, data il ruolo che Hamas, non ufficialmente membro, ma sostenuto, ricopre nella costellazione della Fratellanza Musulmana, con una sua componente di vertice che guarda al Qatar e l’altra, a Gaza, che preferisce rapportarsi all’Egitto e anche all’Iran (vedi l’ex- capo di Hamas a Haza, Hanijeh, ucciso da Israele a Tehran,. Ma l’uscita del presidente turco  sembra lasciare il tempo che trova, se si considera la sempre annunciata, ma mai attuata, rottura dei rapporti commerciali con lo Stato ebraico. Dichiarata più volte, questa rottura pare contraddetta dal mai sospeso export di cemento, monopolio turco, cruciale per la colonizzazione israeliana. Parimenti non è mai stato smentita la notizia che petrolio e gas, sottratti da USA e curdi alla Siria, venivano veicolati da mezzi turchi fino ai porti di Israele.

Aggiungiamo il supporto militare, includente armamenti israeliani, che Ankara ha fornito all’Azerbaijan, quando questo socio intimo degli USA ha strappato all’Armenia filorussa il Nagorno Karabakh e oggi trasferisce le stesse armi all’Ucraina. Per i 14 anni di aggressione alla Siria, Ankara ha assunto un ruolo determinante occupando militarmente la provincia siriana di Idlib e foraggiandovi il mercenariato terrorista di Al Qaida. Non è inseribile in nessun gioco di equilibrio la posizione di Erdogan quale complice-concorrente di USA e Israele nello squartamento della Siria. Qui la doppiezza di Erdogan si è rivelata definitivamente un tanto mistificato, quanto sostanziale, allineamento agli interessi occidentali.

Egitto

L’Egitto non gode di buona stampa in Occidente. Le ragioni immediate sono la sconfitta, nel 2013, grazie a una rivolta popolare concretizzatasi nella presa di potere da parte dei militari del generale Abdel Fattah Al Sisi, del Fratello Musulmano, Mohamed Morsi. Un presidente cacciato dopo appena un anno di governo, a seguito dell’imposizione del divieto di sciopero, della sharìa e di altre formule integraliste coercitive, aliene alla tradizione laica della popolazione, e dell’invito ai suoi attivisti di dar fuoco alle chiese copte, templi dei cristiani che degli oltre 100 milioni di egiziani rappresentano il 12 per cento e si annoverano tra le categorie più colte.

A coltivare queste antipatie non può non aver contribuito la disinvoltura mostrata da Al Sisi nei rapporti internazionali, con aperture alla Russia (ripetuti gli scambi di visite dei rispettivi leader) e alla Cina, con parallelo interesse per i BRICS. Ha anche inflluito il sostegno egiziano al parlamento libico di Bengasi, fautore della riunificazione nel segno del ricupero della identità e sovranità nazionale, contro quello di Tripoli, trafficante di migranti, installato dai distruttori del paese.

Quanto all’Italia, resta decisivo l’episodio indimostrato, ma solidificato nei media e nell’opinione pubblica, della presunta uccisione di Giulio Regeni, ovviamente nientemeno che ordinata da Al Sisi. Il dato che il giovane, maturato nelle elitarie Scuole del Mondo Unito, con le quali il fondatore tedesco, Kurt Hahn, si era ripromesso, come assicurato al direttore della CIA Alan Dulles, di allevare giovani attivisti della politica occidentale antisovietica, fosse venuto in Egitto avendo alle spalle, a Londra, i suoi servizi all’impresa di spionaggio industriale Oxford Analytica di John Negroponte (quello degli squadroni della morte) e avendo per tutor esponenti della Fratellanza Musulmana, resta ignorato.

Mediatore sul conflitto israelo-palestinese insieme a Qatar e Arabia Saudita, l’Egitto, muovendosi con grande cautela, non partecipa alle ipotesi di soluzione che via via scaturiscono dalla sostanziale concordia tra emirati del Golfo, Stati Uniti e Israele, comportando la sostanziale sparizione della Palestina e l’eliminazione di Hamas. Ultimamente le storiche tensioni tra il Cairo e Tel Aviv sono culminate nello schieramento di un formidabile contingente di truppe egiziane nel Sinai, immediatamente a ridosso della Gaza occupata dall’IDF. Comprende 2000 carri armati, unità missilistiche, aerei e, al largo, unità della flotta militare.

Dalla presidenza a tutte le formazioni politiche egiziane, alcune delle quali ho potuto intervistare al Cairo, si afferma che il tentativo di deportare la popolazione di Gaza nel Sinai e, comunque, di costringerla a entrare via terra o via mare in Egitto, costituisce una linea rossa oltre la quale balena la guerra.

Alla storica solidarietà con la causa palestinese, qui si aggiunge un’emergenza materiale: l’Egitto ospita e sostenta due milioni di profughi da vari paesi africani, Sudan in testa. La crisi economica e sociale determinata da questo onere è poi accentuata dalla riduzione del vitale flusso del Nilo, fortemente ridotto dopo l’inaugurazione, settimane fa, della Grande Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia proprio sul confine sudanese e che mette in mano ad Addis Abeba il rubinetto che fa vivere o perire l’agricoltura e tutta l’economia dell’Egitto. La gravità della crisi non ha impedito che il popolo egiziano, con la sua Mezzaluna rossa, fosse da 700 giorni il massimo fornitore di aiuti a Gaza, con 39 carovane “Zad al-Izza”, ognuna delle quali recante oltre 2.500 tonnellate di aiuti alimentari e sanitari. Il 90% di quanto arriva ai valichi di Gaza. Ho avuto l’opportunità di visitare al Cairo gli ospedali che di Gaza ospitano bambini, feriti, malati e in cui operano, includendo gli ospedali da campo, 35.000 volontari e 2000 medici

Crisi che il governo contava di risolvere grazie alla disponibilità, al largo delle coste egiziane, di Zohr, il più grande giacimento di idrocarburi del Mediterraneo, scoperto dall’ENI e di conseguenza da quella compagnia gestito. Oggi si denuncia un presunto asservimento del Cairo a Israele, vista la conclusione di un accordo per la fornitura all’Egitto di gas ricavato dal giacimento israeliano (per la verità palestinese).  In seguito allo schieramento delle forze armate del Cairo nel Sinai, Tel Aviv ha sospeso questo accordo, lasciando l’Egitto a secco.

Si direbbe, quello dell’acquisto di gas dal nemico, un cedimento. Ma si dovrebbe sorvolare sul boicottaggio operato dalle compagnie europee, ENI e BP, che gestiscono le riserve egiziane. Da Zohr dovevano essere estratti 4,4 miliardi di piedi cubi di gas. ENI ne fornisce  all’Egitto appena 1,6 miliardi. La BP è scesa da un impegno per 2 miliardi a meno di 500 milioni. Fornitori alternativi del Golfo, “fratelli arabi”, chiedono 14 dollari per piede cubo. Il prezzo di Israele è di 7,25 dollari. Il tentativo di Al Sisi di rivolgersi a fornitori russi e iraniani ha provocato la minaccia di Trump “di affondare l’economia egiziana”.

Un comportamento che ripete quello del Capo di AFRICOM, Comando Africa delle forze armate USA. Saputo che l’Egitto aveva concluso con i cinesi un contratto per l’acquisto di caccia J-20 e J-35, ha minacciato la totale sospensione delle forniture di armi USA e, soprattutto, delle vitali parti di ricambio, senza le quali non potrebbe esistere una valida forza militare egiziana.

Gli elementi da aggiungere sarebbero tanti. Resta da precisare cosa succede a Rafah, il valico tra Egitto e Gaza, al quale tanti attivisti e giornalisti hanno atteso il nulla osta per entrare nella Striscia. A me era riuscito nel 2008-2009, in occasione dell’operazione “Piombo Fuso”, una specie di prova generale per il genocidio oggi in atto.  Nel corso dell’attuale offensiva, Israele ha occupato anche il valico. Ma l’accusa di non fare entrare aiuti, o di non lasciare entrare e uscire alcuno o alcunchè, viene rivolta all’Egitto.

Al Cairo si trovano gli uffici di 9 organizzazioni della resistenza palestinese. Pur essendo stato in questa città protagonista dei negoziati per una tregua, Hamas non c’è. Il governo ha dovuto trovare una sistemazione diversa, ovviamente segreta, per l’organizzazione di Sinwar. E prima ancora dei tentati assassinii di Doha. Dalla scoperta e cattura di una rete di spie druse e siriane, facente capo al Mossad, i servizi egiziani hanno saputo che il Qatar aveva indicato a Israele dove alloggiavano i rappresentanti di Hamas.

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