Fulvio
Grimaldi per L’Antidiplomatico
Tra
Est e Ovest, Fratellanze e generali
EGITTO,
TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.
In una stagione estiva più tumultuosa del
solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per
Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente
allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto
internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e
ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo.
I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo.
Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con
quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo,
l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce
mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.
Tutto appare chiaro come l’inchiostro.
Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di
classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando
di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente
arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando
alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori
israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il
rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.
Con l’assassinio (mancato) dei leader di
Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli
(ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si
era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione
definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa
della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?
Tra Doha e Orem, Utah
C’entra, se si considera cosa rappresentano
l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono
trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da
gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra
persone e Stati. Quel mondo di regole faticosamente imposta ai potenti e grazie
alla quale siamo sopravvissuti, bene o male, all’assalto storico dei pochi ai
tanti. Israele ha ribadito con il massimo clamore come ciò che conta non sia il
diritto, ma solo la forza. Una condizione alla quale, bastonando ma fingendosi
vittima, ha reso tolleranti i governanti del mondo (e una buona, ma
decrescente, parte dei loro sudditi), alla faccia di cent’anni di terrorismo,
illegalità, superchierie. Trump, dopo averne beneficiato per coltivare il
consenso di massa al culto della prestabilita superiorità, immune e impunibile,
dalla morte di Kirk e dalle cerimonie funerarie, ha tratto il via libera al
trumpismo totale: terroristi tutti coloro che non si trumpizzano, a partire
dalla nebulosa degli “Antifa”.
Resta da puntare lo sguardo verso una zona
più tenebrosa e nella quale, al momento, solo il cui prodest, a chi è
convenuto, può gettare sprazzi di luce, E di congetture. Israele dalle bombe su
Doha ha tratto l’ulteriore conferma che Trump gli si fa scendiletto ovunque sia
in gioco l’interesse della comunità sionista. Che ciò dipenda o meno dai
trascorsi – con pubblicazione sospesa – del presidente con il compagno di
giochi, Jeffrey Epstein, rimane un solido sospetto.
A essere maliziosi resta da rilevare che
negli ultimi tempi, Kirk era passato da appassionato sionista a rispettoso
frequentatore di oppositori di Israele, arrivando a condividerne addirittura
alcune critiche in merito a Gaza. Ponendo questo dato sullo sfondo delle
reiterate dichiarazioni di Netaniahu di non aver avuto nulla a che fare con
l’assassinio dell’influencer, spunta spontaneo il detto dei padri latini “excusatio
non petita, accusatio manifesta”. Il discolparsi non richiesto, comporta
un’accusa. Del resto lo sceriffo Bibì non è forse the fastest gun in town,
la più veloce pistola in città?
Tra Doha e Orem, Utah, si è sancito il nuovo
ordine mondiale. Conta la forza, punto.
Quanto a cosa tocca a noi, avrete notato come la famula trumpista della
Garbatella si sia subito immedesimata nel corso fuorilegge (aiutata dalla
tradizione della conventicola), facendosi insieme vittima e menade invasata,
per riproporre alla convention del suo battaglione giovanile lo stesso
meccanismo di vittoria dell’archetipo con cresta gialla. Siamo vittime
dell’odio, il che ci esime dall’osservanza della legge. Vamos a pelear.
Qatar
Basta arzigogoli. Ci siamo proposti di
occuparci di tre oggetti misteriosi in Medioriente. Siamo partiti bene, poi
abbiamo dirazzato. Torniamo al dunque, il Qatar, quello della dinastia degli Al
Thani, monarchia assoluta protetta dal fornitore-cliente USA e compagno di
merende, con Bahrain e gli Emirati, di Israele e UE (ricordare i mondiali di
calcio, la falcidie degli operai nella costruzione degli stadi, la benevolenza
di Bruxelles garantita dal Qatargate. Lezione mai imparata, se è vero che
proprio in questi giorni il nostro ministro degli Interni Piantedosi ha
concluso con questo Qatar un incredibile accordo perché lo sceiccato,
proprio esso, ci fornisca servizi di intelligence e sicurezza per le Olimpiadi
invernali di Milano-Cortina!)). 3 milioni di abitanti, dei quali un paio di
migliaia di Al Thani (il numero esatto è segreto), alcune migliaia di famigli,
15% di arabi, ex-beduini del deserto, il resto forza lavoro immigrata, perlopiù
asiatica.
Condizioni di semischiavismo ideali per lo
stabilimento, nella penisola del Golfo arabo-persico, di una delle più grandi
basi militari USA del mondo, oltrechè del Medioriente, Al Udeid. Quella colpita
dall’Iran in risposta alla pirateria bombarola israelo-statunitense e quella in
cui alcune centinaia di marines hanno recentemente sentito rimbombare le
esplosioni che avrebbero dovuto uccidere la resistenza palestinese.
Da quelle esplosioni avreste pensato che si
sarebbe innescato il lungamente atteso “risveglio arabo”. In effetti c’è stata
lì, all’indomani, la Lega Araba: una fiction, vuota retorica. Gli Stati arabi,
totalmente dipendenti da entità esterne per i patrimoni delle classi dirigenti
e per la loro sicurezza interna ed esterna, sempre a rischio di
destabilizzazione, hanno lo spazio di manovra di un coniglio nella tana, con
dietro e davanti il muso del mio bassotto Ernesto.
Dunque il Qatar. Sul piano regionale, grande
rivale dell’Arabia Saudita per il primato nel Golfo, al punto da rischiare, un
paio di volte, lo scontro armato. La sua esistenza si basa sull’investimento in
un sistema di sicurezza fondato sull’affidabilità USA e sulla moderazione
israeliana. Due pilastri del regno che con l’attacco del 9 settembre sono
collassati. Essersi fatti compromettere la sovranità da Washington, avere
aperto un ufficio diplomatico-commerciale per una ricca attività di scambi a
ogni livello con Tel Aviv, non è servito a trattenere l’incontrollabile e
strutturale aggressività israeliana. Alla faccia dei miliardi spesi dagli Al
Thani per sostenere l’esoso apparato di strutture e personale militari USA.
Intanto, a fini di equilibrio e
disconoscimento dei dati di fatto, Al Jazeera copriva questa condizione di
integrazione-asservimento assurgendo a più prestigiosa emittente televisiva
araba, con tanto di impegno per i palestinesi e di denuncia degli orrori
israeliani a Gaza e in Cisgiordania. Impegno pagato, come sappiamo, con lo
sterminio, spesso assieme alle loro famiglie, dei propri corrispondenti a Gaza.
Senza che l’emiro avesse neppure da bofonchiare,
Ora tutta la situazione degli Al Thani,
solida finchè la protezione militare USA garantisce la tenuta del coperchio
sopra il pentolone ribollente della frustrazione sociale, è compromessa dalla
volatilità dell’impegno americano al tempo di Trump. Il quale Trump, sebbene
abbia rivendicato di aver avvertito in tempo i qatarioti dell’incursione
israeliana, da Doha è stato smentito: lo avrebbe fatto solo per finta, ad
attacco in pieno corso. Perché spendere milioni per la sicurezza, quando il
sistema installato non protegge dagli attacchi di un alleato del protettore al
quale è data carta bianca per fare carne di porco di chiunque? Come s’è visto
nel giro di mesi con Iraq, Siria, Libano, Palestina, Tunisia (flottiglia),
Iran, Yemen e, indi, Qatar.
L’idea di potersi mantenere in equilibrio tra
retorica nazionalista araba, legami pragmatici con Israele, benevolenza
ampiamente foraggiata dell’UE e affidamento alla protezione militare araba, è
svaporata nel rituale riunirsi di potentati arabi e musulmani e nei conseguenti
vuoti proclami. Dai quali ai popoli della regione, palestinesi in testa, non
arrivano che spunti per sarcasmi e indignazione. Che, presto o tardi, dovranno
pure produrre risultati. La colonna qatariota dell’architettura sionista
programmata per il Medioriente ha piedistalli fragili.
Turchia
Travolta dal rifiuto di massa in Egitto, con
la caduta, 2013, del presidente Morsi nel giro di un anno di soperchierie
sociali e integraliste, abbattuta in Tunisia dall’analoga insofferenza popolare
per il leader di Ennahda, Rāshid Ghannūshī, fallito un affine
regime change in Algeria, la Fratellanza Musulmana ha subito una serie di
debacles che ne hanno isolato gli ultimi due esponenti al governo di un paese:
Gli Al Thani in Qatar e Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E’ il ripiegamento
della forza politico-confessionale, creata a Londra negli anni 20 dello scorso
secolo, col concorso di interessi feudali arabi e coloniali britannici, per
contrastare il nascente movimento panarabo nazionalista, anticolonialista,
laico.
Mentre
scrivo riecheggia ancora nel Medioriente l’anatema lanciato dall’autocratico
sultano turco contro Benjamin Netanyahu: “E’ come Hitler e gli toccherà lo
stesso destino”. Questa equiparazione con Hitler inizia a essere un po’
stantìa, visto che da Putin a Milosevic, da Arafat a Chavez, da Gheddafi a
Saddam, ne ha risparmiato pochi di individui che in Occidente si ritenevano da
rimuovere. Solo che, in bocca a uno come Erdogan, l’invettiva risulta poco
convincente. Anche perchè lanciata a Doha, in quel contesto di pronunciamenti
ad aria calda che sopra abbiamo ricordato.
Per
alcuni miei colleghi, con una lunga frequentazione della Turchia di Erdogan,
quel paese avrebbe assunto il ruolo di guida e luce dei popoli della regione
asiatico-mediorientale in occasione del vertice di Astana del 2022. Una
quindicina di paesi asiatici, in buona parte turcofoni e islamici, si sono
riuniti per costituire una forza geopolitica capace di contribuire a
determinare eventi e sorti della regione.
Ma
l’iniziativa è stata presto oscurata dai ben più robusti, geopoliticamente e
geoeconomicamente meglio
definiti, consessi dello SCO (Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione di
Shanghai) e dei BRICS. Ad Ankara però è rimasto il ruolo, da molti accreditato,
da pochi messo in discussione, di indipendente elemento di mediazione ed
equilibrio all’interno delle turbolenze che agitano il Medioriente e l’Eurasia.
Elemento risaltato a Istambul nei ripetuti incontri tra esponenti russi ed
ucraini e mediatori vari.
Tutto questo è il frutto di un abile
giocatore di poker, spesso baro, sempre doppiogiochista, granitico in casa
nella repressione di contestatori, molto ondivago negli indirizzi geopolitici.
Erdogan sa manovrare nelle acque tempestose della sua regione, come del mondo
intero, dove ci tiene a figurare da attore di primo piano, alla pari dei più
grandi e spesso riesce a convincere di una sua credibilità che, poco dopo,
risulta fondata su basi opposte. Ha qualcosa del Trump, in questo. Massima
potenza Nato, quindi integrata nel sistema politico-militare occidentale, è
anche una delle maggiori potenze islamiche, con forte influenza sugli Stati
turcofoni dell’Asia Centrale. Fino a provocare agitazioni eversive nella
minoranza islamica dello Xinjang cinese.
Torniamo all’invettiva di Erdogan contro
Netaniahu e Israele, non la prima in questi anni di sterminio dei palestinesi.
Invettiva inevitabile, data il ruolo che Hamas, non ufficialmente membro, ma
sostenuto, ricopre nella costellazione della Fratellanza Musulmana, con una sua
componente di vertice che guarda al Qatar e l’altra, a Gaza, che preferisce
rapportarsi all’Egitto e anche all’Iran (vedi l’ex- capo di Hamas a Haza,
Hanijeh, ucciso da Israele a Tehran,. Ma l’uscita del presidente turco sembra lasciare il tempo che trova, se si
considera la sempre annunciata, ma mai attuata, rottura dei rapporti
commerciali con lo Stato ebraico. Dichiarata più volte, questa rottura pare
contraddetta dal mai sospeso export di cemento, monopolio turco, cruciale per
la colonizzazione israeliana. Parimenti non è mai stato smentita la notizia che
petrolio e gas, sottratti da USA e curdi alla Siria, venivano veicolati da
mezzi turchi fino ai porti di Israele.
Aggiungiamo il supporto militare, includente
armamenti israeliani, che Ankara ha fornito all’Azerbaijan, quando questo socio
intimo degli USA ha strappato all’Armenia filorussa il Nagorno Karabakh e oggi
trasferisce le stesse armi all’Ucraina. Per i 14 anni di aggressione alla
Siria, Ankara ha assunto un ruolo determinante occupando militarmente la
provincia siriana di Idlib e foraggiandovi il mercenariato terrorista di Al
Qaida. Non è inseribile in nessun gioco di equilibrio la posizione di Erdogan
quale complice-concorrente di USA e Israele nello squartamento della Siria. Qui
la doppiezza di Erdogan si è rivelata definitivamente un tanto mistificato,
quanto sostanziale, allineamento agli interessi occidentali.
L’Egitto non gode di buona stampa in Occidente. Le ragioni immediate
sono la sconfitta, nel 2013, grazie a una rivolta popolare concretizzatasi
nella presa di potere da parte dei militari del generale Abdel Fattah Al Sisi,
del Fratello Musulmano, Mohamed Morsi. Un presidente cacciato dopo appena un
anno di governo, a seguito dell’imposizione del divieto di sciopero, della
sharìa e di altre formule integraliste coercitive, aliene alla tradizione laica
della popolazione, e dell’invito ai suoi attivisti di dar fuoco alle chiese
copte, templi dei cristiani che degli oltre 100 milioni di egiziani
rappresentano il 12 per cento e si annoverano tra le categorie più colte.
Quanto all’Italia,
resta decisivo l’episodio indimostrato, ma solidificato nei media e
nell’opinione pubblica, della presunta uccisione di Giulio Regeni, ovviamente
nientemeno che ordinata da Al Sisi. Il dato che il
giovane, maturato nelle elitarie Scuole del Mondo Unito, con le quali il
fondatore tedesco, Kurt Hahn, si era ripromesso, come assicurato al direttore
della CIA Alan Dulles, di allevare giovani attivisti della politica occidentale
antisovietica, fosse venuto in Egitto avendo alle spalle, a Londra, i suoi servizi
all’impresa di spionaggio industriale Oxford Analytica di John Negroponte
(quello degli squadroni della morte) e avendo per tutor esponenti della
Fratellanza Musulmana, resta ignorato.
Dalla presidenza a tutte le formazioni
politiche egiziane, alcune delle quali ho potuto intervistare al Cairo, si
afferma che il tentativo di deportare la popolazione di Gaza nel Sinai e,
comunque, di costringerla a entrare via terra o via mare in Egitto, costituisce
una linea rossa oltre la quale balena la guerra.
Alla storica solidarietà con la causa
palestinese, qui si aggiunge un’emergenza materiale: l’Egitto ospita e sostenta
due milioni di profughi da vari paesi africani, Sudan in testa. La crisi
economica e sociale determinata da questo onere è poi accentuata dalla
riduzione del vitale flusso del Nilo, fortemente ridotto dopo l’inaugurazione,
settimane fa, della Grande Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia proprio
sul confine sudanese e che mette in mano ad Addis Abeba il rubinetto che fa
vivere o perire l’agricoltura e tutta l’economia dell’Egitto. La gravità della
crisi non ha impedito che il popolo egiziano, con la sua Mezzaluna rossa, fosse
da 700 giorni il massimo fornitore di aiuti a Gaza, con 39 carovane “Zad
al-Izza”, ognuna delle quali recante oltre 2.500 tonnellate di aiuti alimentari
e sanitari. Il 90% di quanto arriva ai valichi di Gaza. Ho avuto l’opportunità
di visitare al Cairo gli ospedali che di Gaza ospitano bambini, feriti, malati
e in cui operano, includendo gli ospedali da campo, 35.000 volontari e 2000
medici
Crisi che il governo contava di risolvere
grazie alla disponibilità, al largo delle coste egiziane, di Zohr, il più
grande giacimento di idrocarburi del Mediterraneo, scoperto dall’ENI e di
conseguenza da quella compagnia gestito. Oggi si denuncia un presunto
asservimento del Cairo a Israele, vista la conclusione di un accordo per la
fornitura all’Egitto di gas ricavato dal giacimento israeliano (per la verità
palestinese). In seguito allo
schieramento delle forze armate del Cairo nel Sinai, Tel Aviv ha sospeso questo
accordo, lasciando l’Egitto a secco.
Si direbbe, quello dell’acquisto di gas dal
nemico, un cedimento. Ma si dovrebbe sorvolare sul boicottaggio operato dalle
compagnie europee, ENI e BP, che gestiscono le riserve egiziane. Da Zohr
dovevano essere estratti 4,4 miliardi di piedi cubi di gas. ENI ne
fornisce all’Egitto appena 1,6 miliardi.
La BP è scesa da un impegno per 2 miliardi a meno di 500 milioni. Fornitori
alternativi del Golfo, “fratelli arabi”, chiedono 14 dollari per piede cubo. Il
prezzo di Israele è di 7,25 dollari. Il tentativo di Al Sisi di rivolgersi a
fornitori russi e iraniani ha provocato la minaccia di Trump “di affondare
l’economia egiziana”.
Un comportamento che ripete quello del Capo di
AFRICOM, Comando Africa delle forze armate USA. Saputo che l’Egitto aveva
concluso con i cinesi un contratto per l’acquisto di caccia J-20 e J-35, ha
minacciato la totale sospensione delle forniture di armi USA e, soprattutto,
delle vitali parti di ricambio, senza le quali non potrebbe esistere una valida
forza militare egiziana.
Gli elementi da aggiungere sarebbero tanti.
Resta da precisare cosa succede a Rafah, il valico tra Egitto e Gaza, al quale
tanti attivisti e giornalisti hanno atteso il nulla osta per entrare nella Striscia.
A me era riuscito nel 2008-2009, in occasione dell’operazione “Piombo Fuso”,
una specie di prova generale per il genocidio oggi in atto. Nel corso dell’attuale offensiva, Israele ha
occupato anche il valico. Ma l’accusa di non fare entrare aiuti, o di non
lasciare entrare e uscire alcuno o alcunchè, viene rivolta all’Egitto.
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