martedì 23 settembre 2025

Mai così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele --- --- UNA, CENTO, MILLE FLOTTIGLIE

 

Ringrazio l’Antidiplomatico per la correttezza professionale basata sull’apertura a mie posizioni di vergenti da altre che, pure, rivestono un ruolo importante nella testata. Complimenti. In amicizia.

 

Fulvio Grimaldi per L’ANTIDIPLOMATICO

Mai così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele

UNA, CENTO, MILLE FLOTTIGLIE 

Come l'AntiDiplomatico annunciamo con grande piacere la ripresa dell'editoriale a settimana di un grande giornalista come Fulvio Grimaldi nel suo spazio "Attenti al Lupo". Pur restando profondamente convinti della nostra trasmissione presente tutti i giovedì sul nostro canale Youtube e aperti ad un dibattito onesto e costruttivo sulla tematica, accogliamo con grande rispetto le critiche avanzate nel testo su "Radio Gaza"

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__mai_cos_al_centro_del_mondo_la_palestina_mai_cos_in_crisi_israele_una_cento_mille_flottiglie/58662_62721

Se la fenomenale mobilitazione in ben 80 città, promossa dai meritevolissimi sindacati di base, è stata definita “Scorta morale agli attivisti della Global Sumud Flotilla”, questo è la mia partecipazione alla scorta.

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Per suscitare una buona disposizione alla lettura di questo mio testo, lo introduco con un furto indecente alla testata “Sinistrai rete”, dove mi ha colpito una visione davvero originale del fenomeno “Flovilla”, nostro tema ordierno. Ve ne riproduco qui un capoverso. Poi scendiamo ai piani prosaici dell’articolo mio.

Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio, di Paolo Lago

Le navi della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi antichi creatrici di storie…. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico dell’Occidente capitalista…  Flotilla è anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario, apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del pensiero.

Incominciamo. Mi corre l’obbligo… come direbbe colui a cui l’italiano pare bello com’era e come sarebbe senza la fregola di anglicizzarlo, al pari di cent’anni fa quando c’era, per figurare in società, quella di francesizzarlo.

Mi corre l’obbligo di parlare un tantino di me. Ma solo in quanto assurto – o disceso – al ruolo di uno cui è capitato di finire in prima fila, insieme alla sua compagna, in una batracomiomachia che ha imperversato per buona parte della stagione.

L’AntiDiplomatico è stato il campo di battaglia privilegiato in cui si è svolta la disputa, sia perché ospita alcuni dei contendenti più impegnati nella pugna, sia perché, per sue doti di saggezza, equilibrio e lungimiranza, all’un fronte come all’altro ha dato piena libertà di suonare le proprie trombe. Eliminando gli orpelli dialettici, si tratta di chi della Flottiglia Global Sumud ha una buona idea, e chi no; di chi della Palestina e Gaza ritiene di dover evidenziare i tratti umanitari imposti dalla condizione di atroce vittima, e chi ritiene urgente fare emergere l’essenzialità della sua natura politica e di resistenza combattente. Ovviamente le divergenze così descritte daranno la stura a nuove rettifiche e contrapposizioni, ma per ora lì stiamo e da lì proseguiamo.

Per chi, rientrando al lavoro giornalistico dopo la consueta sospensione estiva, volesse esordire, a rafforzamento della memoria che non è mai abbastanza, con un quadro riassuntivo delle situazioni e degli eventi succedutisi tra giugno e settembre, magari in termini meno cronachistici e più epistemologici, si troverebbe ad avere un bel da fare. Un tempo, i giorni tra fine giugno e metà settembre riempivano di sole, viaggi, vacanze, spensieratezza, e, soprattutto, gossip e sospensione degli accadimenti importanti, locali ed esteri, quella che gli arguti britannici chiamavano la silly season, la stagione sciocca, vuota di cose serie.

Silly Season, o catastrophic season

La silly season ce la siamo giocata insieme alla pace, alla democrazia, alla cura delle istituzioni per noi stessi e per chi ci è caro, alla lentezza, alla contemperazione dell’interesse dei pochi con quello dei tanti, chiamando tutto questo “progresso”. Da un po’ in quà pare addirittura che la silly season, caratterizzata dal dolce succeder niente, sia diventata stagione del succedere più forsennato e, addirittura drammatico, perfino epocale. Lo fanno, quelli che le cose le fanno, perché pensano di trovarci distratti.? Non so, comunque stare dietro alla baraonda di colpi di scena, drammi, tragedie, perfino a pandemie di violenze infantili e travolgimenti stradali, è diventato impresa titanica.

Pensate soltanto a quanto un cronista avrebbe dovuto affrontare, notiziare, commentare, analizzare, nello scorcio dell’anno in considerazione. Alla rinfusa: spettacolari False Flag  tra droni russi, ricomposti in Ucraina e lanciati in bocca a chi non vede l’ora di far saltare per aria tutto, e ritardi dei voli di Ursula, per noi tutti abituali, che diventano attentato hackerista russo; Israele (tutto, non solo Netaniahu!) che, allargando a 7 le sue guerre al mondo, per uccidere coloro con i quali dovrebbe negoziare, bombarda, toppando, l’alleato principale nel Golfo del suo principale alleato; Il risveglio in Cina del mondo raziocinante nel vertice dello SCO che sorride ai BRICS. Lo squallore infinito dei galli castrati in lotta tra loro nelle regionali. Alcaraz che trionfa sul tirolese colonizzato che dichiara di essere “orgoglioso di essere italiano”. I ricchi che cospirano contro di noi a Cernobbio. Un ponte che non starà mai in piedi, ma che si materializza nelle polluzioni notturne di Salvini e nei vaticini  di bilancio di Webuild, mentre da Palermo a Messina, o da Taranto a Reggio Calabria, ci si mette di più del viaggio di Jules Verne attorno al mondo; 150.000 fascisti inneggianti al fascismo schiamazzanti a Londra, in parallelo con esercito e Marines spediti da Trump nelle maggiori città USA a rastrellare migranti stanziali da decenni e manifestanti pro-Palestina; la fregola belluina e bellica di quasi tutti i capiregime d’Occidente che, con Trump, esaltano la prospettiva dell’apocalisse ribattezzando “di Guerra” il ministero della Difesa; tutto questo in significativa coincidenza con la ribadita dimostrazione di Seymour Hersh che il Nord Stream è stato fatto saltare dai sub del Pentagono per forzare gli europei alla guerra contro il loro garante di benessere energetico (altro che gentile depistaggio meloniano, col malcapitato ucraino, per esonerare chi ci sta costringendo a martellarci il patrimonio riproduttivo comprando gas liquido USA a cinque volte tanto); e, come antidoto a tutto questo, per i momenti del buonumore nostro e dei BRICS, il vertice in Cina dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO. Vi sembra poco?

Tocca al Venezuela?

Basta? Vogliamo metterci il lutto internazionale per Armani e domestico per Emilio Fede?  O magari, andando sul sodo, la vendetta dei revanscisti con l’epocale sgombero del Leoncavallo? Potrei continuare per dieci delle mie puntate sull’Antidiplomatico. Ma ne aggiungo una, che ha fatto vibrare l’intero subcontinente, Caraibi compresi. Bulimico di scazzi che gli garantiscano introiti, ora il bimbominchia ha rilanciato il concetto “Cortile di casa” da applicare all’America Latina. Quella delle più grandi riserve di idrocarburi, ossigeno e acqua, litio e tutto quanto deve garantire l’obesità industriale e militare degli USA.

Una flotta di navi da guerra, con incrociatori lanciamissili, sommergibili, navi da sbarco, appoggio aereo davanti alle coste venezuelane. Tre aggressioni, in acque venezuelane ad altrettante imbarcazioni del paese della rivoluzione bolivariana. 11 vittime, poi altre 3.. Taglia di 50 milioni per chi cattura, o fa catturare, o uccide, il presidente Nicolàs Maduro, definito narcotrafficante e capo di un fantomatico Cartello dei Soli (l’ex-vice segretario dell’ONU e responsabile antidroga, Pino Arlacchi valuta il Venezuela capofila degli Stati eliminatori di coltivazione e traffico di droga), intensificazione delle sanzioni, incursioni terroristiche di bande di para militari e narcos dalla Colombia. Il Venezuela descritto da Trump e Rubio “minaccia esistenziale agli Stati Uniti”. Un tentativo di riprendersi i più ricchi giacimenti di idrocarburi del mondo, che si vedrà fino a che punto potrà essere contrastato dalla mobilitazione in atto delle forze armate bolivariane (FANB) e delle milizie popolari.

Tutto questo, un’intera cartella, scompare, o va in riserva, di fronte a un’urgenza postami dagli stessi amici dell’Antidiplomatico e che mi vede d’accordo, anche perché coinvolto in prima persona: La Global Sumud Flotilla, mentre scrivo ancora in navigazione verso le sponde della Palestina, o Gaza, o comunque Palestina occupata. E la diatriba nata da divergenti valutazioni dell’impresa.

Il mezzo è il messaggio

Diceva Marshall McLuhan “Il mezzo è il messaggio”, intendendo che la struttura e la forma del mezzo di comunicazione hanno un impatto più profondo sulla società e sull'individuo rispetto al contenuto che veicola. Il vero messaggio è costituito da come il mezzo stesso modifica la percezione della realtà e le relazioni umane, influenzando chi siamo e come interagiamo con il mondo.

L’intuizione del grande studioso della comunicazione, se ancora ce ne fosse bisogno, ha trovato abbagliante espressione nella Global Sumud Flotilla: una cinquantina di imbarcazioni che, in partenza da tanti porti del Mediterraneo con a bordo gente da tutto il mondo, carica di generi di soccorso, in parte raccolti dai portuali e sui cui alberi, vele e prue svettano le bandiere della Palestina. Lo ha capito subito Israele quando si è affrettata a promettere che tratterà i naviganti da “terroristi”, dunque destinati a esecuzione, o incarcerazione senza fine. Di conseguenze bombe incendiarie su due imbarcazioni in partenza da Tunisi. Un accredito migliore la Flottiglia non poteva riceverlo..

Nel momento in cui scrivo, la flottiglia è ancora in alto mare, ma dell’impresa e delle sue immagini tracimano i mezzi d’informazione e l’attenzione pubblica dell’intero pianeta. I precedenti tentativi di singole imbarcazioni di portare sulle sponde di Gaza l’oceano di solidarietà, morale, politica e materiale che da due anni alluviona l’umanità si sono infranti contro la brutalità dell’intervento militare israeliano, costato anche nove turchi ammazzati dagli israeliani sulla nave Mavi Marmara, maggio 2010. Dimostrazione di quanto i genocidi temino la visibilità che questa impresa, espressione di un immenso sentire collettivo, dà alla sofferenza e alla resistenza dei palestinesi e, in simultanea, all’abominio dei loro oppressori.

Timore, perfino panico, israeliano che i droni contro le barche in partenza hanno ribadito. La riduzione dell’immagine di “vittima”, dietro al quale lo Stato Sionista ha potuto nascondere quasi cent’anni di nefandezze colonialiste, razziste, di genocidio strisciante e poi totale, si è ridotta alle infime proporzioni che i suoi portatori d’acqua affannosamente difendono. Il consenso planetario, quanto meno delle opinioni pubbliche, ma anche di un numero insospettato di governi, suscitato dalla flottiglia, ha decretato un isolamento di Israele, inimmaginabile fino almeno a quando Hamas, il 7 ottobre, ha rimesso la Palestina davanti agli occhi e alle coscienze dei più distratti.

Meglio compatire che navigare? Due modi per occuparsi di Gaza

Sono state espresse, riserve, critiche, se non addirittura ripulse nei confronti dell’impresa. Si è vociferato di presenze sospette, “impure”, si sono citati sostenitori e partecipanti di dubbia coerenza e integrità, quali Greta, la Cgil, il ministro della Cultura Giuli, quelli del PD, antipatici vari, addirittura Soros. Si è degradato l’impegno e il rischio assunto da centinaia di volontari a esibizionismo, a “puro valore simbolico” (ce ne fossero!), a spreco di soldi, “tanto i soccorsi non arriveranno mai” e tante altre varianti del tipo “chissà cosa c’è dietro”, e sui portuali il rimbrotto micidiale: “ma perché non lo hanno fatto prima?”. Una categoria di cacasenno e grilli parlanti cui la frustrazione o, peggio, l’intento di boicottaggio, ovviamente e a fin di bene, hanno dato grande spolvero.

Basterebbe, a proposito di sprechi e simboli, rilevare come, in assenza di armi e forze per Gaza come per Zelensky, non rimane che rendere visibile questa vicenda. Renderla impossibile da non vedere. Per Israele l’urgenza prima è quella di far sparire la Palestina dalla scena. All’umanità il compito di costringere tutti, perfino i governanti, a prendere atto che la Palestina c’è e ci sarà. Dal fiume al mare. Per farlo, 270 giornalisti, gazawi e non, sono stati uccisi, spesso insieme alle loro famiglie. Lo hanno fatto le centomila manifestazioni proPal in ogni angolo del pianeta.  Lo ha fatto Hamas con l’operazione del 7 ottobre (da vedere scevra delle menzogne israeliane in cui è stata avvolta). Quelli della flottiglia lo stanno facendo prendendo in mano il testimone. Si sono fatti droneggiare, con tanto di contributo italiota: vedi l’andirivieni di aerei israeliani a Sigonella in quei giorni. Come non dirgli: bravi?

La testata che, onorandomi, permette al mio volontariato giornalistico di allargare il suo raggio d’intervento, è quanto di più lucido ed utile si trovi oggi ai banchetti della comunicazione libera. Tanto libera e inclusiva da aver offerto, con Radio Gaza di Michelangelo Severgnini, suoi spazi a un’iniziativa di comunicazione che a me è parsa divergente dalla linea della testata sulla questione palestinese. Quel podcast si è fatto megafono degli scettici, dei contrari e degli astenuti rispetto alla Flotilla, con toni, però, via via attenuati davanti al diluvio di consensi internazionali. Quanto a Gaza, è sostenitore di un approccio esclusivamente assistenziale a una realtà che, invece, rivendica il suo preminente carattere politico-

Radio Gaza di Michelangelo Severgnini. Trasmissioni radio in cui si succedono tre o quattro voci anonime, tutte comprensibilmente disperate, che descrivono una tragedia come si articola sotto le bombe, negli sfollamenti forzati, tra le macerie e nelle tende, tra prezzi insostenibili e ricerca di scampo. Si concludono sistematicamente con una richiesta di soldi che dà al podcast un imbarazzante carattere di mendicità. Sono peraltro storie che ci sono proposte in termini identici da molti media, ma con riconoscibili nomi e cognomi e immagini dei luoghi. L’IDF spara a casaccio a tutti, ma non specificamente a chi lamenta la propria condizione. Incongruo pare, in questo contesto, il titolo del podcast “Voci della resistenza”.

Al tempo stesso, la testata ha dato diritto di replica al sottoscritto e a coloro che si sono presi la briga di sollecitare firme a sostegno di un documento di critica a quella comunicazione.

Cosa non ci torna con Radio Gaza

Sembrerebbe essere tornati ai tempi infausti della pandemia e alle conseguenti lacerazioni. Come valutare la pandemia, come confrontarsi con il vaccino. Anche stavolta non è questione di lana caprina. L’iniziativa che centinaia di persone hanno condiviso impegnando tempo, soldi, rischi alla propria libertà e incolumità, è stata giudicata uno spreco di soldi e di energie per nessun aiuto concreto, dato il sicuro blocco israeliano, con il limite di “distrarre l’attenzione da Gaza, dove stanno i palestinesi, verso la flottiglia, dove stanno gli occidentali”. Parrebbe eurocentrismo a rovescio.

Nei sessant’anni in cui ho partecipato in prima persona alle varie forme di lotta di liberazione palestinese e l’ho raccontata in articoli, documentari e libri, ho constatato che vale sempre la regola per cui conviene attenersi al giudizio di coloro che la sanno più lunga: i protagonisti di una vicenda che per generazioni l’hanno vissuta sulla propria pelle, i palestinesi. Storia e cronaca confermano che, al netto degli inevitabili quisling, strategicamente non hanno sbagliato mai.

Radio Gaza di Michelangelo Severgnini mi fa ascoltare notizie da Gaza attribuite ad anonimi personaggi di cui non è dimostrata né la verità, né la falsità, delle rispettive identità gazawi e della collocazione nella Striscia. Sono voci che della flottiglia denunciano l’inanità e addirittura il carattere controproducente, che insistono sulle condizioni disperate sul piano alimentare e abitativo, accompagnate da insistenti richiese di denaro. Per questi versamenti, per i quali esistono da decenni fonti collaudate e fidate, accreditate dai palestinesi, tipo l’Onlus La Gazzella, si indicano entità e percorsi assolutamente inediti e della cui trasparenza ed efficienza ci si chiede di fidarci. Ovviamente nessuno di noi ha gli strumenti e motivi per negarne, o affermarne la credibilità. Anzi, ci auguriamo che anche questi contributi siano numerosi e raggiungono i loro destinatari. Da questo approccio è escluso qualsiasi riferimento alla resistenza palestinese.

La risposta spontanea e logica a queste richieste sarebbe che canali collaudati e comprovati per gli aiuti ai palestinesi, corretti e funzionanti, esistono da decenni e sono quelli dell’ONU, di riconosciute organizzazioni sanitarie e umanitarie internazionali operanti da anni a Gaza e nei territori occupati. Molti di questi volontari hanno pagato con la vita il proprio impegno, a partire da MSF, UNRWA, Emergency e 43 altre organizzazioni accreditate presso le autorità palestinesi, oltre a quelle che fanno capo ai rappresentanti ufficiali della diaspora palestinese e islamica in Italia.

Credo che il diritto a esprimere una valutazione credibile implichi il rapporto diretto con la Palestina e quindi spetti a nessuno più che alle organizzazioni di palestinesi in Italia, che quel filo diretto lo hanno da decenni. Il 14 settembre scorso, a Roma, si è svolta la conferenza nazionale di tutte le organizzazioni palestinesi in vista della manifestazione nazionale del 4 ottobre e di altre successive, già indette. Hanno partecipato anche le realtà organizzate che in Italia denunciano il genocidio israeliano e sostengono la causa palestinese.

Unanime vi è stata, in quattro ore di interventi, il sostegno alla resistenza palestinese, in tutte le sue forme, compreso quella, molto applaudita, della flottiglia. Con tutta la partecipazione all’immensa sofferenza inflitta al popolo di Gaza, è stata centrale l’insistenza sul carattere in prima linea politico dello scontro tra colonizzatori e colonizzati, a dispetto dell’approccio umanitario e assistenziale di Radio Gaza, come quello dei tanti generosi compassionanti che caratterizzano il nostro ambiente partitico e mediatico.

Penso che abbia indiscutibile fondamento la certezza che quanto i palestinesi organizzati della diaspora esprimono non possa essere divergente dai pensieri e sentimenti della popolazione che soffre e lotta nei territori occupati. Il legame, che è ombelicale, dovrebbe portarci a dubitare di posizioni nettamente divergenti. Ora anche sulla Global Sumud Flotilla.

Facciamo pure passare per sterili simbolismi (eppure senza simboli saremmo solo che disanimati), per inutili gesti esibizionistici quelli dei portuali dei porti mediterranei, di coloro che hanno raccolto tonnellate di aiuti che verranno affondati dagli assalitori israeliani, di tutti quelli che hanno speso un sacco di soldi per le barche, mollato lavoro, famiglia, sicurezza personale (vedi le bombe incendiarie sulla flottiglia in Tunisia, ricorda i 9 martiri della Mavi Marmara) e sanno che subiranno carcere e angherie per un’impresa che le “voci da Gaza”, pervenute a Radio Gaza, definiscono inutile, dannosa, vanagloriosa.

C’è chi vince

Gaza non è popolata da mendicanti. Lo evidenziano le enormi forze e tecnologie che da due anni “il più potente esercito del Medioriente”, con il sostegno cruciale degli USA, deve impiegare per avere ragione di una striscia di 10x41 km; le perdite materiali e umane, perlopiù inconfessate, che gli vengono inflitte da Hamas e dalle altre unità della Resistenza; la fuga dei riservisti, l’epidemia di suicidi e di stress post-traumatico che sta falciando l’IDF; le lacerazioni interne alla società israeliana che passa buona parte della vita nei bunker, la fuga degli investitori, la remigrazione che supera gli arrivi, una crisi economica drammatica attenuata solo dai contributi USA, lo spaventoso discredito a livello di opinioni pubbliche mondiali determinato da una follia aggressiva contro chiunque capiti a tiro. Discredito morale che produce un isolamento planetario (fatta qualche diserzione di complici e sicari) a cui nessuno Stato del mondo potrebbe sopravvivere e che hanno costretto governi ignavi a proclamare riconoscimenti che, però, andrebbero sostituiti da disconoscimenti. Non degli ebrei di buona volontà, per quanto coloni, ma dello Stato terminator fascio-razzista di Sion.

 

 

 

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