Ringrazio l’Antidiplomatico per la correttezza professionale
basata sull’apertura a mie posizioni di vergenti da altre che, pure, rivestono
un ruolo importante nella testata. Complimenti. In amicizia.
Fulvio Grimaldi per L’ANTIDIPLOMATICO
Mai
così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele
UNA,
CENTO, MILLE FLOTTIGLIE
Come l'AntiDiplomatico annunciamo con grande piacere la ripresa
dell'editoriale a settimana di un grande giornalista come Fulvio Grimaldi nel
suo spazio "Attenti al Lupo". Pur restando profondamente convinti
della nostra trasmissione presente tutti i giovedì sul nostro canale Youtube e
aperti ad un dibattito onesto e costruttivo sulla tematica, accogliamo con
grande rispetto le critiche avanzate nel testo su "Radio Gaza"
Se
la fenomenale mobilitazione in ben 80 città, promossa dai meritevolissimi
sindacati di base, è stata definita “Scorta morale agli attivisti della Global
Sumud Flotilla”, questo è la mia partecipazione alla scorta.
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Per
suscitare una buona disposizione alla lettura di questo mio testo, lo introduco
con un furto indecente alla testata “Sinistrai rete”, dove mi ha colpito una
visione davvero originale del fenomeno “Flovilla”, nostro tema ordierno. Ve ne
riproduco qui un capoverso. Poi scendiamo ai piani prosaici dell’articolo mio.
Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio, di Paolo Lago
Le navi
della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi
antichi creatrici di storie…. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a
un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo
occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati
dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico
dell’Occidente capitalista… Flotilla è
anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario,
apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del
pensiero.
Incominciamo.
Mi corre l’obbligo… come direbbe colui a cui l’italiano pare bello com’era e
come sarebbe senza la fregola di anglicizzarlo, al pari di cent’anni fa quando c’era,
per figurare in società, quella di francesizzarlo.
Mi
corre l’obbligo di parlare un tantino di me. Ma solo in quanto assurto – o
disceso – al ruolo di uno cui è capitato di finire in prima fila, insieme alla
sua compagna, in una batracomiomachia che ha imperversato per buona parte della
stagione.
L’AntiDiplomatico
è stato il campo di battaglia privilegiato in cui si è svolta la disputa, sia
perché ospita alcuni dei contendenti più impegnati nella pugna, sia perché, per
sue doti di saggezza, equilibrio e lungimiranza, all’un fronte come all’altro
ha dato piena libertà di suonare le proprie trombe. Eliminando gli orpelli
dialettici, si tratta di chi della Flottiglia Global Sumud ha una buona idea, e
chi no; di chi della Palestina e Gaza ritiene di dover evidenziare i tratti
umanitari imposti dalla condizione di atroce vittima, e chi ritiene urgente
fare emergere l’essenzialità della sua natura politica e di resistenza
combattente. Ovviamente le divergenze così descritte daranno la stura a nuove
rettifiche e contrapposizioni, ma per ora lì stiamo e da lì proseguiamo.
Per
chi, rientrando al lavoro giornalistico dopo la consueta sospensione estiva,
volesse esordire, a rafforzamento della memoria che non è mai abbastanza, con
un quadro riassuntivo delle situazioni e degli eventi succedutisi tra giugno e
settembre, magari in termini meno cronachistici e più epistemologici, si
troverebbe ad avere un bel da fare. Un tempo, i giorni tra fine giugno e metà
settembre riempivano di sole, viaggi, vacanze, spensieratezza, e, soprattutto,
gossip e sospensione degli accadimenti importanti, locali ed esteri, quella che
gli arguti britannici chiamavano la silly season, la stagione sciocca,
vuota di cose serie.
Silly
Season, o catastrophic season
La silly
season ce la siamo giocata insieme alla pace, alla democrazia, alla cura delle
istituzioni per noi stessi e per chi ci è caro, alla lentezza, alla
contemperazione dell’interesse dei pochi con quello dei tanti, chiamando tutto
questo “progresso”. Da un po’ in quà pare addirittura che la silly season, caratterizzata
dal dolce succeder niente, sia diventata stagione del succedere più
forsennato e, addirittura drammatico, perfino epocale. Lo fanno, quelli che le
cose le fanno, perché pensano di trovarci distratti.? Non so, comunque stare
dietro alla baraonda di colpi di scena, drammi, tragedie, perfino a pandemie di
violenze infantili e travolgimenti stradali, è diventato impresa titanica.
Pensate
soltanto a quanto un cronista avrebbe dovuto affrontare, notiziare, commentare,
analizzare, nello scorcio dell’anno in considerazione. Alla rinfusa:
spettacolari False Flag tra droni russi,
ricomposti in Ucraina e lanciati in bocca a chi non vede l’ora di far saltare
per aria tutto, e ritardi dei voli di Ursula, per noi tutti abituali, che
diventano attentato hackerista russo; Israele (tutto, non solo Netaniahu!) che,
allargando a 7 le sue guerre al mondo, per uccidere coloro con i quali dovrebbe
negoziare, bombarda, toppando, l’alleato principale nel Golfo del suo
principale alleato; Il risveglio in Cina del mondo raziocinante nel vertice
dello SCO che sorride ai BRICS. Lo squallore infinito dei galli castrati in
lotta tra loro nelle regionali. Alcaraz che trionfa sul tirolese colonizzato
che dichiara di essere “orgoglioso di essere italiano”. I ricchi che cospirano
contro di noi a Cernobbio. Un ponte che non starà mai in piedi, ma che si
materializza nelle polluzioni notturne di Salvini e nei vaticini di bilancio di Webuild, mentre da Palermo a
Messina, o da Taranto a Reggio Calabria, ci si mette di più del viaggio di
Jules Verne attorno al mondo; 150.000 fascisti inneggianti al fascismo
schiamazzanti a Londra, in parallelo con esercito e Marines spediti da Trump
nelle maggiori città USA a rastrellare migranti stanziali da decenni e
manifestanti pro-Palestina; la fregola belluina e bellica di quasi tutti i
capiregime d’Occidente che, con Trump, esaltano la prospettiva dell’apocalisse
ribattezzando “di Guerra” il ministero della Difesa; tutto questo in
significativa coincidenza con la ribadita dimostrazione di Seymour Hersh che il
Nord Stream è stato fatto saltare dai sub del Pentagono per forzare gli europei
alla guerra contro il loro garante di benessere energetico (altro che gentile
depistaggio meloniano, col malcapitato ucraino, per esonerare chi ci sta
costringendo a martellarci il patrimonio riproduttivo comprando gas liquido USA
a cinque volte tanto); e, come antidoto a tutto questo, per i momenti del
buonumore nostro e dei BRICS, il vertice in Cina dell’Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai, SCO. Vi sembra poco?
Tocca
al Venezuela?
Basta?
Vogliamo metterci il lutto internazionale per Armani e domestico per Emilio
Fede? O magari, andando sul sodo, la
vendetta dei revanscisti con l’epocale sgombero del Leoncavallo? Potrei
continuare per dieci delle mie puntate sull’Antidiplomatico. Ma ne aggiungo una,
che ha fatto vibrare l’intero subcontinente, Caraibi compresi. Bulimico di
scazzi che gli garantiscano introiti, ora il bimbominchia ha rilanciato il
concetto “Cortile di casa” da applicare all’America Latina. Quella delle più
grandi riserve di idrocarburi, ossigeno e acqua, litio e tutto quanto deve
garantire l’obesità industriale e militare degli USA.
Una
flotta di navi da guerra, con incrociatori lanciamissili, sommergibili, navi da
sbarco, appoggio aereo davanti alle coste venezuelane. Tre aggressioni, in
acque venezuelane ad altrettante imbarcazioni del paese della rivoluzione
bolivariana. 11 vittime, poi altre 3.. Taglia di 50 milioni per chi cattura, o
fa catturare, o uccide, il presidente Nicolàs Maduro, definito narcotrafficante
e capo di un fantomatico Cartello dei Soli (l’ex-vice segretario dell’ONU e
responsabile antidroga, Pino Arlacchi valuta il Venezuela capofila degli Stati
eliminatori di coltivazione e traffico di droga), intensificazione delle
sanzioni, incursioni terroristiche di bande di para militari e narcos dalla
Colombia. Il Venezuela descritto da Trump e Rubio “minaccia esistenziale agli
Stati Uniti”. Un tentativo di riprendersi i più ricchi giacimenti di idrocarburi
del mondo, che si vedrà fino a che punto potrà essere contrastato dalla
mobilitazione in atto delle forze armate bolivariane (FANB) e delle milizie
popolari.
Tutto
questo, un’intera cartella, scompare, o va in riserva, di fronte a un’urgenza
postami dagli stessi amici dell’Antidiplomatico e che mi vede d’accordo, anche
perché coinvolto in prima persona: La Global Sumud Flotilla, mentre scrivo
ancora in navigazione verso le sponde della Palestina, o Gaza, o comunque
Palestina occupata. E la diatriba nata da divergenti valutazioni dell’impresa.
Il
mezzo è il messaggio
Diceva
Marshall McLuhan “Il mezzo è il messaggio”, intendendo che la struttura
e la forma del mezzo di comunicazione hanno un impatto più profondo sulla
società e sull'individuo rispetto al contenuto che veicola. Il vero
messaggio è costituito da come il mezzo stesso modifica la percezione della realtà
e le relazioni umane, influenzando chi siamo e come interagiamo con il mondo.
L’intuizione
del grande studioso della comunicazione, se ancora ce ne fosse bisogno, ha
trovato abbagliante espressione nella Global Sumud Flotilla: una cinquantina di
imbarcazioni che, in partenza da tanti porti del Mediterraneo con a bordo gente
da tutto il mondo, carica di generi di soccorso, in parte raccolti dai portuali
e sui cui alberi, vele e prue svettano le bandiere della Palestina. Lo ha
capito subito Israele quando si è affrettata a promettere che tratterà i
naviganti da “terroristi”, dunque destinati a esecuzione, o incarcerazione
senza fine. Di conseguenze bombe incendiarie su due imbarcazioni in partenza da
Tunisi. Un accredito migliore la Flottiglia non poteva riceverlo..
Nel
momento in cui scrivo, la flottiglia è ancora in alto mare, ma dell’impresa e
delle sue immagini tracimano i mezzi d’informazione e l’attenzione pubblica
dell’intero pianeta. I precedenti tentativi di singole imbarcazioni di portare
sulle sponde di Gaza l’oceano di solidarietà, morale, politica e materiale che
da due anni alluviona l’umanità si sono infranti contro la brutalità
dell’intervento militare israeliano, costato anche nove turchi ammazzati dagli
israeliani sulla nave Mavi Marmara, maggio 2010. Dimostrazione di quanto i
genocidi temino la visibilità che questa impresa, espressione di un immenso
sentire collettivo, dà alla sofferenza e alla resistenza dei palestinesi e, in
simultanea, all’abominio dei loro oppressori.
Timore,
perfino panico, israeliano che i droni contro le barche in partenza hanno
ribadito. La riduzione dell’immagine di “vittima”, dietro al quale lo Stato
Sionista ha potuto nascondere quasi cent’anni di nefandezze colonialiste,
razziste, di genocidio strisciante e poi totale, si è ridotta alle infime
proporzioni che i suoi portatori d’acqua affannosamente difendono. Il consenso planetario,
quanto meno delle opinioni pubbliche, ma anche di un numero insospettato di
governi, suscitato dalla flottiglia, ha decretato un isolamento di Israele,
inimmaginabile fino almeno a quando Hamas, il 7 ottobre, ha rimesso la
Palestina davanti agli occhi e alle coscienze dei più distratti.
Meglio
compatire che navigare? Due modi per occuparsi di Gaza
Sono
state espresse, riserve, critiche, se non addirittura ripulse nei confronti
dell’impresa. Si è vociferato di presenze sospette, “impure”, si sono citati
sostenitori e partecipanti di dubbia coerenza e integrità, quali Greta, la
Cgil, il ministro della Cultura Giuli, quelli del PD, antipatici vari, addirittura
Soros. Si è degradato l’impegno e il rischio assunto da centinaia di volontari
a esibizionismo, a “puro valore simbolico” (ce ne fossero!), a spreco di soldi,
“tanto i soccorsi non arriveranno mai” e tante altre varianti del tipo “chissà
cosa c’è dietro”, e sui portuali il rimbrotto micidiale: “ma perché non lo
hanno fatto prima?”. Una categoria di cacasenno e grilli parlanti cui la
frustrazione o, peggio, l’intento di boicottaggio, ovviamente e a fin di bene, hanno
dato grande spolvero.
Basterebbe,
a proposito di sprechi e simboli, rilevare come, in assenza di armi e forze per
Gaza come per Zelensky, non rimane che rendere visibile questa vicenda.
Renderla impossibile da non vedere. Per Israele l’urgenza prima è quella di far
sparire la Palestina dalla scena. All’umanità il compito di costringere tutti,
perfino i governanti, a prendere atto che la Palestina c’è e ci sarà. Dal fiume
al mare. Per farlo, 270 giornalisti, gazawi e non, sono stati uccisi, spesso
insieme alle loro famiglie. Lo hanno fatto le centomila manifestazioni proPal
in ogni angolo del pianeta. Lo ha fatto
Hamas con l’operazione del 7 ottobre (da vedere scevra delle menzogne
israeliane in cui è stata avvolta). Quelli della flottiglia lo stanno facendo
prendendo in mano il testimone. Si sono fatti droneggiare, con tanto di
contributo italiota: vedi l’andirivieni di aerei israeliani a Sigonella in quei
giorni. Come non dirgli: bravi?
La
testata che, onorandomi, permette al mio volontariato giornalistico di
allargare il suo raggio d’intervento, è quanto di più lucido ed utile si trovi
oggi ai banchetti della comunicazione libera. Tanto libera e inclusiva da aver
offerto, con Radio Gaza di Michelangelo Severgnini, suoi spazi a un’iniziativa
di comunicazione che a me è parsa divergente dalla linea della testata sulla questione
palestinese. Quel podcast si è fatto megafono degli scettici, dei contrari e
degli astenuti rispetto alla Flotilla, con toni, però, via via attenuati
davanti al diluvio di consensi internazionali. Quanto a Gaza, è sostenitore di
un approccio esclusivamente assistenziale a una realtà che, invece, rivendica
il suo preminente carattere politico-
Radio
Gaza di Michelangelo Severgnini. Trasmissioni radio in cui si succedono tre o
quattro voci anonime, tutte comprensibilmente disperate, che descrivono una
tragedia come si articola sotto le bombe, negli sfollamenti forzati, tra le
macerie e nelle tende, tra prezzi insostenibili e ricerca di scampo. Si concludono
sistematicamente con una richiesta di soldi che dà al podcast un imbarazzante
carattere di mendicità. Sono peraltro storie che ci sono proposte in termini
identici da molti media, ma con riconoscibili nomi e cognomi e immagini dei
luoghi. L’IDF spara a casaccio a tutti, ma non specificamente a chi lamenta la
propria condizione. Incongruo pare, in questo contesto, il titolo del podcast
“Voci della resistenza”.
Al
tempo stesso, la testata ha dato diritto di replica al sottoscritto e a coloro
che si sono presi la briga di sollecitare firme a sostegno di un documento di critica
a quella comunicazione.
Cosa
non ci torna con Radio Gaza
Sembrerebbe
essere tornati ai tempi infausti della pandemia e alle conseguenti lacerazioni.
Come valutare la pandemia, come confrontarsi con il vaccino. Anche stavolta non
è questione di lana caprina. L’iniziativa che centinaia di persone hanno
condiviso impegnando tempo, soldi, rischi alla propria libertà e incolumità, è
stata giudicata uno spreco di soldi e di energie per nessun aiuto concreto,
dato il sicuro blocco israeliano, con il limite di “distrarre l’attenzione
da Gaza, dove stanno i palestinesi, verso la flottiglia, dove stanno gli
occidentali”. Parrebbe eurocentrismo a rovescio.
Nei
sessant’anni in cui ho partecipato in prima persona alle varie forme di lotta
di liberazione palestinese e l’ho raccontata in articoli, documentari e libri,
ho constatato che vale sempre la regola per cui conviene attenersi al giudizio
di coloro che la sanno più lunga: i protagonisti di una vicenda che per
generazioni l’hanno vissuta sulla propria pelle, i palestinesi. Storia e
cronaca confermano che, al netto degli inevitabili quisling, strategicamente non
hanno sbagliato mai.
Radio
Gaza di Michelangelo Severgnini mi fa ascoltare notizie da Gaza attribuite ad
anonimi personaggi di cui non è dimostrata né la verità, né la falsità, delle
rispettive identità gazawi e della collocazione nella Striscia. Sono voci che della
flottiglia denunciano l’inanità e addirittura il carattere controproducente,
che insistono sulle condizioni disperate sul piano alimentare e abitativo,
accompagnate da insistenti richiese di denaro. Per questi versamenti, per i
quali esistono da decenni fonti collaudate e fidate, accreditate dai
palestinesi, tipo l’Onlus La Gazzella, si indicano entità e percorsi
assolutamente inediti e della cui trasparenza ed efficienza ci si chiede di
fidarci. Ovviamente nessuno di noi ha gli strumenti e motivi per negarne, o
affermarne la credibilità. Anzi, ci auguriamo che anche questi contributi siano
numerosi e raggiungono i loro destinatari. Da questo approccio è escluso
qualsiasi riferimento alla resistenza palestinese.
La
risposta spontanea e logica a queste richieste sarebbe che canali collaudati e
comprovati per gli aiuti ai palestinesi, corretti e funzionanti, esistono da
decenni e sono quelli dell’ONU, di riconosciute organizzazioni sanitarie e
umanitarie internazionali operanti da anni a Gaza e nei territori occupati.
Molti di questi volontari hanno pagato con la vita il proprio impegno, a
partire da MSF, UNRWA, Emergency e 43 altre organizzazioni accreditate presso
le autorità palestinesi, oltre a quelle che fanno capo ai rappresentanti
ufficiali della diaspora palestinese e islamica in Italia.
Credo
che il diritto a esprimere una valutazione credibile implichi il rapporto
diretto con la Palestina e quindi spetti a nessuno più che alle organizzazioni
di palestinesi in Italia, che quel filo diretto lo hanno da decenni. Il 14
settembre scorso, a Roma, si è svolta la conferenza nazionale di tutte le
organizzazioni palestinesi in vista della manifestazione nazionale del 4
ottobre e di altre successive, già indette. Hanno partecipato anche le realtà
organizzate che in Italia denunciano il genocidio israeliano e sostengono la
causa palestinese.
Unanime
vi è stata, in quattro ore di interventi, il sostegno alla resistenza
palestinese, in tutte le sue forme, compreso quella, molto applaudita, della
flottiglia. Con tutta la partecipazione all’immensa sofferenza inflitta al
popolo di Gaza, è stata centrale l’insistenza sul carattere in prima linea
politico dello scontro tra colonizzatori e colonizzati, a dispetto
dell’approccio umanitario e assistenziale di Radio Gaza, come quello dei tanti generosi
compassionanti che caratterizzano il nostro ambiente partitico e mediatico.
Penso
che abbia indiscutibile fondamento la certezza che quanto i palestinesi
organizzati della diaspora esprimono non possa essere divergente dai pensieri e
sentimenti della popolazione che soffre e lotta nei territori occupati. Il
legame, che è ombelicale, dovrebbe portarci a dubitare di posizioni nettamente
divergenti. Ora anche sulla Global Sumud Flotilla.
Facciamo
pure passare per sterili simbolismi (eppure senza simboli saremmo solo che
disanimati), per inutili gesti esibizionistici quelli dei portuali dei porti
mediterranei, di coloro che hanno raccolto tonnellate di aiuti che verranno
affondati dagli assalitori israeliani, di tutti quelli che hanno speso un sacco
di soldi per le barche, mollato lavoro, famiglia, sicurezza personale (vedi le
bombe incendiarie sulla flottiglia in Tunisia, ricorda i 9 martiri della Mavi
Marmara) e sanno che subiranno carcere e angherie per un’impresa che le “voci
da Gaza”, pervenute a Radio Gaza, definiscono inutile, dannosa, vanagloriosa.
C’è chi vince
Gaza non è popolata
da mendicanti. Lo evidenziano le enormi forze e tecnologie che da due anni “il
più potente esercito del Medioriente”, con il sostegno cruciale degli USA, deve
impiegare per avere ragione di una striscia di 10x41 km; le perdite materiali e
umane, perlopiù inconfessate, che gli vengono inflitte da Hamas e dalle altre
unità della Resistenza; la fuga dei riservisti, l’epidemia di suicidi e di
stress post-traumatico che sta falciando l’IDF; le lacerazioni interne alla
società israeliana che passa buona parte della vita nei bunker, la fuga degli
investitori, la remigrazione che supera gli arrivi, una crisi economica drammatica
attenuata solo dai contributi USA, lo spaventoso discredito a livello di
opinioni pubbliche mondiali determinato da una follia aggressiva contro
chiunque capiti a tiro. Discredito morale che produce un isolamento planetario
(fatta qualche diserzione di complici e sicari) a cui nessuno Stato del mondo
potrebbe sopravvivere e che hanno costretto governi ignavi a proclamare
riconoscimenti che, però, andrebbero sostituiti da disconoscimenti. Non degli
ebrei di buona volontà, per quanto coloni, ma dello Stato terminator
fascio-razzista di Sion.
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