Fulvio
Grimaldi per L’AntiDiplomatico
Dal
cartello Zeta alla Generazione Zeta
ANGELI
E DEMONI NEL MESSICO
https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE (si combina bene con la lettura)
https://youtu.be/n1S-1XCrSnM (qui s’impara anche lo spagnolo)
Di Zeta in Zeta
Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto
passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta
provando a buttare per aria un po’ di governi.
Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul
piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il
logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento
dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più
feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei
presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…
Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime
rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato,
amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai
narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre
incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un
movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del
Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che
si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle
vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800
primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della
prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore
quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali tanto sangue è stato fatto versare da farci
annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.
Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a
riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e
nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente
con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze
socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono
intollerabili.
Rivoluzione colorata Zeta
Passano pochi
giorni ed ecco che, puntuale, fa la sua epifania in Messico la Generazione
Zeta. Prima una serie di chiassate antigovernative – corruzione, troppa
violenza criminale, aver lasciato ammazzare un bravo sindaco anti-droga, Carlos
Manzo – poi la prova di forza il 15 novembre. L’assalto violento a Città del
Messico al Palazzo Presidenziale – 120 feriti, di cui 100 quasi inermi
poliziotti –con l’abbattimento delle barriere di protezione e tentativo di
penetrare nel palazzo. Decine di migliaia di “giovani Zeta” (Zeta come
coloro che, con lo stesso vessillo pirata, hanno buttato per aria il governo di
sinistra del Nepal e ci stanno provando con quello di Belgrado), di cui le
immagini mostrano però soprattutto facce attempate, tipi da agiato ceto medio.
Il che non toglie che all’evento dedichi il suo entusiastico commento la grande
stampa che sta in, e guarda a, un Occidente in marcia verso i suoi migliori
decenni della prima metà del ‘900, oggi condominio di Deep State, Trump,
Netaniahu e Ursula.
Punta di lancia Zeta in Messico, Carlos Bello, padrone della
prima TV messicana, “Azteca” e del Gruppo Salinas, potente aggregato di media,
telecomunicazioni, attività finanziarie e supermercati, inquisito per
un’evasione fiscale da 2,6 miliardi di dollari. Impunito, come usa da noi.
Bello è anche sostenitore del neo partito “Forza e cuore per il Messico”,
successore dei discreditati e sconfitti partiti di destra, PRI e PAN, che hanno
tenuto la barra nazional-coloniale privatista, liberista e narcotraffichista,
da cent’anni a questa parte.
Non potevano non annuire alle parole di Donald Trump, gli
ex-Vicente Fox (il cui capo della Sicurezza, Genaro Luna, fu condannato per
traffico di droga in combutta col cartello Sinaloa) e Felipe Calderon, vecchi
sodali di Clinton, Bush e Obama nel Palacio
Nacional, sempre pronti a spostarsi tra Neocon democratici, il secondo Bush
e il taumaturgo giallociuffato, a seconda di chi, dalla Casa Bianca, gli
intimava di stare sull’attenti e non disturbare né CIA, né DEA, nè i loro
narcoriferimenti messicani. Tra i quali nel Palacio si privilegiavano i
cartelli Sinaloa e, ristupitevi delle coincidenze, lo Zeta.
Tra Chiapas, Belgrado e
salvataggi in mare
Non è la prima
volta che un movimento, con forti appoggi internazionali multilaterali, mette
in discussione l’assetto istituzionale del paese. Nel 1998 mi accodo da
cronista del TG3 a una spedizione in Chiapas organizzata dal gruppo di Luca
Casarini, detto allora delle “Tute Bianche” e che si sarebbe fatto notare al G8
del 2001 a Genova. Lo avrei rivisto, segnato da analoga coloratura politica,
nella Serbia dell’attacco Nato, ospite di una radio-tv di George Soros, B 92,
impegnata contro il governo socialista di Milosevic. L’attualità lo vede
processato per reati legati al traffico di migranti e, finalmente, coccolato da
papa Bergoglio, per i meriti conseguiti con la supernave “Mediterranea, Saving
Humans”. Un’altra nave, la Mare Jonio, con lo stesso Casarini, fu poi
scoperta essersi fatta trasbordare 27 migranti, per 127mila dollari, da un
mercantile dell’armatore danese Maersk, suscitando un processo della Procura di
Ragusa, tuttora in corso, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Perché questa deviazione casariniana dalla spedizione delle
Tute Bianche in Messico? Perché non potei evitare di constatare come la
spedizione di Casarini tra gli indigeni Maya, mobilitati dal “Subcomandante
Marcos”, già studente dell’università autonoma di Città del Messico, UNAM,
fosse in qualche modo in sintonia politica con le altre sue imprese. E pure
questa benvista e sostenuta dalla Chiesa.
Dopo la clamorosa occupazione, da parte dell’EZLN (Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale), di San Cristobal de las Casas, capitale
del Chiapas, in segno di protesta contro l’appena approvato NAFTA, accordo
nordamericano di libero scambio, che consegnava l’economia messicana nelle mani
di Wall Street, il movimento zapatista fu da noi considerato una specie di
avanguardia anticapitalista. Arrivarono compagni entusiasti da mezzo mondo ad
abbeverarsi alle fonti rivoluzionarie de La Realidad, municipio zapatista nella
selva Lacandona.
Così noi con le Tute Bianche. Momento apicale e rivelatore
fu un incontro con il leader spirituale del movimento, Samuel Ruiz Garcia,
vescovo di S. Cristobal. Ci indirizzò a “liberare” la comunità oppressa del
villaggio di Taniperla. Scoprimmo all’arrivo che pure quelli erano Maya, pure
quelli autorganizzati, ma restii a inserirsi nel gruppo di Marcos. Motivo?
Erano convinti protestanti, mentre quelli del “Sub” erano rigorosamente
cattolici. Il nostro mandato era di aiutare Taniperla a tornare dalla parte dei
buoni.
L’indirizzo politico di Marcos,
segnato da un intransigente localismo indigenista che non gradiva commistioni
con quanto di pur valido si muoveva in ambito nazionale messicano, trascinò la
comunità maya a un’ostilità sempre più pronunciata verso le sinistre messicane.
Al punto di organizzare spedizioni propagandistiche in moto, a cavallo, in giro
per tutto il Messico, contro la candidatura di Andres Manuel Lopez Obrador,
amatissimo – da operai, proletari e mondo antimperialista - sindaco di Città
del Messico, leader del partito progressista “Morena” e candidato alla
presidenza. “Obrador? ”, chiedeva retoricamente, “ma se sono tutti
uguali!, parlano parlano, ma finiscono col fare le stesse cose dei liberisti”.
Collocava il politico, sostanzialmente zapatista e rivendicatore della
sovranità del Messico, a fianco di soggetti criminali come i narcopresidenti
Salinas de Gortari, Vicente Fox e Felipe Calderon.
Queste spedizioni di Marcos e dei suoi seguaci contribuirono
non poco a che Obrador fallisse alle elezioni presidenziali sia del 2004
(queste pesantemente manipolate), che del 2008. Ma non in quelle 2018, quando
Marcos si era ritirato dalla scena (ricomparirà brevemente, nel 2024, per
osteggiare la nomina di Claudia Sheinbaum, ingegnere, accademica, ecologista,
erede di Obrador, a candidata alla presidenza) e ogni opposizione e tentativo
di ripetere i trucchi del passato venne travolta da una marea incontestabile di
voti.
Messico, i demoni
Nei mesi da me trascorsi in Messico, tra 2008 e 2010, in un
paese militarizzato oltre ogni misura, si contano 30.196 morti ammazzati,
23.500 donne in media ogni anno, 3.200 desaparecidos. Il 93% di questi delitti
non viene indagato grazie all’intreccio omertoso e di interessi tra criminalità
e autorità Ogni anno arrivano dal Sud 600.000 migranti. 20.000 risultano poi
sequestrati, torturati, stuprati, uccisi, spesso decapitati, fatti sparire. Da
200 a 300 in media, sui due lati del confine USA, finiscono nelle mani di
tagliagole a questo scopo reclutati.
Nella “guerra al narcotraffico” e nella caccia al migrante
sono impiegati 180.000 effettivi, tra esercito, marina polizie federali e
locali, più gli “specialisti” allora spediti in appoggio da Obama. Il cartello
degli Zeta, il più efferato, è composto da ex-effettivi delle truppe d’èlite
messicane, addestrate a Fort Bragg, Carolina del Nord. Almeno metà dei.2.500
municipi messicani erano sotto il controllo dei cartelli della droga.
In 3000 miliardi di dollari sono calcolati gli utili annuali
del traffico di droga. Questo passa per i corridoi
Colombia-Centroamerica-Messico, via terra, mare o aria (parallelo a quello che
allora correva dall’Afghanistan, occupato dalla NATO, l’Iraq, pure occupato,
Kosovo, Calabria. Sicilia, Occidente. Ne sapeva qualcosa Buscetta. Soldi che
finiscono nelle disponibilità della finanza USA, a sostegno dell’economia più
indebitata del mondo. Destinazioni privilegiate: New York, Florida, Texas e
Arizona, stati che sostengono con donazioni l’80% delle campagne presidenziali.
Sono 5 trilioni i dollari sporchi entrati neri circuiti finanziari USA nel
primo decennio del secolo. Superavano tutti i trasferimenti da petrolio e armi.
Coca e Fentanyl servono qui come servì l’oppio alla Regina Vittoria contro la
Cina. Chi da noi se ne occupava con grande perizia e competenza era Pino
Arlacchi, vicesegretario dell’ONU e responsabile della lotta al narcotraffico.
Sono funzionari ONU che non hanno lasciato successori, come non li hanno
lasciati segretari indipendenti e decisi come Kurt Waldheim, o Boutros Ghali.
Maquiladoras
La terra, solo nel mio ieri, apparteneva al 97% a una
trentina di latifondisti che di tutto si curavano fuorchè dell’alimentazione di
base della popolazione. Il 3% restava a 400.000 piccolissimi contadini. 12
milioni di questi erano senza terra. Il 70% dei lavoratori erano sottoimpiegati
e sottopagati.
Tutto questo alla faccia della prima rivoluzione del ‘900,
quella di Emiliano Zapata e Pancho Villa, unici vincitori latinoamericani degli
USA sul terreno di battaglia, prima di Cuba. La dittatura di Porfirio Diaz,
solito fantoccio yankee, allora abbattuta, si ricostituì dopo un decennio.
Un’altra spallata fu tentata dagli studenti nel ’68, sull’onda del movimento
che in tutto l’Occidente, a partire dal Vietnam (oggi Palestina), prova a
minare le basi fondanti del capitalismo imperialista. E fu la strage della
Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, 400, forse 800 (il regime non li
volle contare) ragazzi massacrati da esercito e politizia. Oggi li ricorda un
museo cosparso di scarpe, borsette, libri, quaderni, bottiglie Molotov,
barriere carbonizzate, foto di morti e feriti, facce. Presidente Gustavo Diaz
Ordaz, dell’eterno PRI (Partido Revolucionario Istitucional).
Era questo il paese che attraversai dall’estremo sud, dove
Messico e Guatemala sono separati dal fiume Suchiate. Da questo enorme corso
d’acqua arrivava, attraversatolo su pneumatici di camion, l’alluvione dei
disperati delle Repubbliche delle Banane diretti nel “paradiso nordamericano”.
Quel “paradiso” promesso e oggi da Trump negato, aveva la sua anticamera nel
cimitero dei vivi di Chihuahua e Ciudad Juarez, terreno di cacciatori
statunitensi di teste, attestati sui due lati del confine. E lo zapatismo, ormai
ombra di se stesso, ridotto a viale dello “zapaturismo” a San Cristobal per
nostalgici e reduci di illusioni e sconfitte, ha provato a svolgere un ruolo in
occasione della rivoluzione colorata degli Zeta (intesi come movimento). Ha
riattivato in Chiapas una certa mobilitazione anticentralista, accompagnata
dalla solita condanna di tutte indistinte le forze politiche, “tutte uguali”,
anche quelle che stavano riscattando dignità e giustizia, diversamente dagli
attivisti Zeta degli assalti ai palazzi del governo a Città del Messico nella
prima metà di novembre.
Passa un treno merci. Sopra e ai lati, abbarbicati,
centinaia di migranti centroamericani. Al confine sono scampati alle pandillas,
le bande di giovani delinquenti che li spogliano di tutto, Qualcuno, a gambe
divaricate, pende sospeso tra un vagone e l’altro. Viaggiano così per giorni,
senza biglietto, assieme a sacchi di soia, zucchero, cemento. Qualcuno crolla e
finisce sotto le ruote. Il treno rallenta. Un signore in disarmo che dimostra
settant’anni, ma ne ammette 61, dice di andare in Nordamerica, da un nipote,
per trovare quel lavoro che a casa sua non gli danno più: “Dopo i 40 ti
buttano. Ma se non c’è speranza, non c’è più niente…”. Tanti che non ce
l’hanno fatta a prendere il treno, li ho visti, tra cani inscheletriti e neri
avvoltoi, rovistare tra i rifiuti della grande discarica di Tapachula, prima
città dopo il confine. Arrivano caporali in auto e li pagano per aver
ricuperato qualcosa di commerciabile. Al confine nord li aspettano i cacciatori
di teste.
Messico, angeli contro demoni
Sono a Oaxaca nel centrosud del paese, città e Stato della
perenne resistenza, sia indigena, degli indios Triqui, cui l’estrazione
nordamericana sottrae acqua e foreste, sia creola e bianca. Nel 2006, al cambio
tra i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon, una gigantesca rivolta di
popolo, studenti, giovani e soprattutto, come poi vedrò ovunque nel Messico,
donne. Calderon è stato insediato, grazie al fatto che aveva sottratto 1
milione di voti a Obrador, fatto provato dal Tribunale Supremo Elettorale. Ma
lasciato correre.
La lucha sigue. la lotta continua, mi assicurano, con
un termine che mi è famigliare, le donne, perlopiù operaie e insegnanti, che
animarono una rivolta per la conquista di diritti fondamentali, sociali e
ambientali, per l’istruzione e la sanità pubblica, contro la manomissione del
territorio da parte delle multinazionali minerarie. Una sollevazione che, tenne
in scacco le forze della repressione per settimane, Continuano a percorrere il
territorio, a invitare delegazioni fraterne straniere, sfidano minacce e
repressione.
Una repressione che, più a sud, Chiapas, è costata arresti e
maltrattamenti alla comunità agricola “Lopez Hernandez” di mezzo migliaio di
persone, parte della rete “Organizacion Campesina Emiliano Zapata”, che
nulla ha a che fare con gli zapatisti dell’ex-Marcos. La loro autonomia, che
aveva ridato vita e coltivazioni a 215 ettari di terre ancestrali, a suo tempo
sottratte da un unico latifondista al quale gli spagnoli avevano assegnato
1.600 ettari. Il regime gli negava riconoscimento, scuola, sanità, l’acqua
andava presa a 130 minuti di cammino. Quando gli uomini della comunità furono
tutti arrestati, sono state le donne a mandare avanti i lavori sui campi e
all’interno della comunità. La lucha sigue. Si capisce perché il Messico
fosse allora il paese a più alto tasso di femminicidi.
Il cuore dell’elaborazione politica e della lotta al sistema
totalitario che le presidenze PRI e PAN hanno continuato a rafforzare sono
sempre state le università, in testa l’UNAM, Universita’ Nazionale Autonoma del
Messico e l’UNAC, Università Autonoma di Ciudad Juarez. Nella prima incontro i
ragazzi del Comitato Cerezo, sono quattro fratelli e una sorella tra i 22 e i
30 anni, tutti con alle spalle chi 5 e chi 7 anni di galera, comprese le
torture, punizione di attività politiche nonviolente. Sono figli di una coppia
tuttora latitante che militava nell’ERP, Esercito Revolucionario del Pueblo,
una formazione guerrigliera marxista, diffusa in molti paesi latinoamericani in
risposta alle dittature installate dal colonialismo yankee. All’UNAM hanno
aperto uno sportello per l’assistenza agli studenti, in materia di corsi,
controversie burocratiche, carenze accademiche, conflitti con le autorità
dell’ateneo, o della città, o dello Stato. Continuano a rischiare, ma si
espongono ed esprimono la certezza che prevarrà quanto va crescendo nel paese,
attraverso anche la rivisitazione di rivoluzioni e riscatti passati e in
collegamento con nuove realtà alternative emerse nel mondo.
La loro fiducia mi viene confermata a Chihuahua e nella
città di confine Ciudad Juarez, dirimpetto a El Paso texano che, con i suoi 17
negozi di prodotti militari, è la generosa e semiufficiale fornitrice di armi
alle gang sull’altro lato del Rio Grande/Rio Bravo e della penetrabilissima
cortina USA di ferro e torrette che lo affianca. Allora qualcuno chiamava questa regione El
infierno del Norte. E a buon titolo.
Discesa all’inferno
Terra allora desertificata, abbandonata da dio e dagli
uomini che dovrebbero coltivarla e custodirla. Ricordo periferie vuote, case
mezze costruite, sterpaglie dappertutto. Ricordo un angolino di quartiere,
cento metri per venti, dove la gente si ritrovava a passeggiare, a far giocare
i bambini con dei grossi pupazzi gonfiati, a chiedere e dare l’elemosina alla
solita mamma india con due bimbetti appesi, ad ascoltare e fare musica, perfino
a ballare. E ricordo una madre cui avevano ammazzato la figlia e che davanti al
palazzo del governo protestava, protestava, finchè qualcuno non l’ha portata
via. Ora figura su una delle croci rosa che ricordano donne ammazzate e che
fioriscono dalla periferia di Chihuahua fino a quella di Ciudad Juarez, il
cimitero dei vivi, a nord, sul confine. E, entrandovi, il più bel monumento a
Don Chisciotte che abbia mai visto. Continua a lottare contro mulini a vento.
Qui ti devi muovere circospetto. Di giorno i padroni del
luogo, quelli del traffico tra qui e la El Paso delle banche e dei corrieri
verso l’interno degli States, impongono il coprifuoco per quando devono fare
grossi spostamenti, o retate di importuni. Quando vedi passare automobili
sfacciatamente senza targa, sai chi passa. C’è vita di notte, ombre seminude
lungo viali bui, locali dove si balla e, al piano di sopra, dei video
glorificano, davanti a maschi compiaciuti e sghignazzanti, le imprese dei
narcos. Prostituzione e droga. E ciò di cui si nutrono i padroni. Ecco perché i
femminicidi. Si rapisce, si abusa, di rifornisce la tratta, si uccide, si
butta. E’ anche questa la guerra dei
ricchi ai poveri.
Con Marisela, nella cui scuola insegnanti donne offrono ai
ragazzi vita, valori, soddisfazioni, alternativi a quelli per i quali i boss
provano a reclutarli, ci spostiamo in macchina. Dalla radio c’è il bollettino
del mattino su quanto è successo nella notte: di quartiere in quartiere, di
paese in paese, un interminabile rosario di morti, sparizioni, bagni di sangue.
Chi non si lascia intimidire, nel cimitero dei vivi, sono i
ragazzi dell’Università Autonoma di Ciudad Juarez. Leonardo Alvarado, loro
professore di informatica e capo di un Comitato di Lotta, parte del Fronte
Nazionale contro la Repressione che regolarmente sfida con manifestazioni i
guardiani del finto ordine, ci parla, attorniato da ragazze e ragazzi, di un “Cuore
della resistenza che batte, a dispetto degli emboli che gli spara il sistema”.
Maria Davila contesta il presidente Calderon
Ma chi non dimenticherò mai è una piccola donna, Maria
Davila di Ciudad Juarez, di una modestia pari alla sua granitica
determinazione. E’ lei il Messico. Riassumo il racconto che mi ha fatto. Il 31
gennaio 2010 una classe di ragazzi delle superiori festeggia un compleanno. La
polizia fa irruzione, spara a casaccio, ne uccide 17. Due erano figli di Maria.
Il clamore del massacro costringe il presidente a intervenire. Dal palco,
Felipe Calderon giustifica l’assurda mattanza accusando i ragazzi di aver fatto
parte di una banda di malviventi. Maria Davila non ci sente più, si erge
davanti al palco, da piccola diventa grandissima. Accusa il presidente di
mendacio per coprire i suoi sicari. Costringe Calderon a ritrattare e poi ad
allontanarsi sotto una grandine di fischi e improperi.
La lotta degli USA
ai narcos è come la loro lotta ai terroristi islamici: li creano, fingono di
combatterli attribuendoli agli Stati che hanno programmato di abbattere.
Il ritorno di Emiliano Zapata, subito “narcotrafficante”
anche lui
Lopez Obrador e Claudia
Sheinbaum
E così, dopo alcuni tumulti di preparazione, il 3,7,12 e 19
ottobre, essenzialmente destinati a impostare la narrativa dei media, ecco, il
15 novembre, gli Zeta assaltare il Palazzo, alla nepalese, serba, georgiana,
primavera araba, ucraina, alla Otpor, quando si trattava di finirla con la
Jugoslavia. Pretesti? I soliti stereotipi delle rivoluzioni colorate,buoni per
ogni occasione. corruzione, violenza, autoritarismo, qui anche l’assassinio
dell’anti-narcos sindaco di Uruapan Carlos Manzo, i
Il problema vero è che né Obrador, primo presidente di
sinistra dopo Lazaro Cardenas negli anni ’30, né Sheinbaum, per quanto avessero
fatto, in un mandato e un pezzetto, non erano riusciti ad estirpare del tutto
il cancro secolare che era servito a imporre alla società la sottomissione al
diktat del capitale nazionale e, soprattutto, nordamericano. Epperò, con la
proclamata “Quarta Trasformazione”, 4T, si erano permessi di rafforzare le
nazionalizzazioni (petrolio, elettricità), ripubblicizzare quanto era stato
privatizzato, la riduzione delle spaventose diseguaglianze sociali con
provvedimenti di ricupero sociale come l’aumento di tutte le prestazioni
sociali, il ripristino delle risorse idriche e forestali, la promozione di
infrastrutture come le ferrovie, provvedimenti per porre fine allo stillicidio
della violenza sulle donne, un piano ambientale radicale di 6 anni con la
fornitura di servizi idrici a tutte le abitazioni, la messa al bando della
plastica monouso. E, priorità assoluta, migliaia di arresti di esponenti e
manovalanza del narcotraffico, senza che ciò abbia significato la tradizionale
militarizzazione di società e territorio.
Le donne che ho
incontrato e quella che oggi regge le sorti di un Messico da restituire a
Emiliano Zapata ci fanno riconoscere che oggi l’America Latina è donna.
Tutto questo basta e avanza per galvanizzare i nostri media
a tratteggiare del Messico lo stesso quadro onesto, consapevole e rispettoso,
proposto per il Venezuela del “narcos Maduro” (vedi il disinformato Pino
Corrias sul Fatto Quotidiano del 27 novembre, un inconcepibile assist alle
cannoniere di Trump). Siamo bravissimi a farci riconoscere.