martedì 2 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta --- ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

 

 

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico

Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta

ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__dal_cartello_zeta_alla_generazione_zeta_angeli_e_demoni_nel_messico/58662_63941/

 

https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE  (si combina bene con la lettura)

https://youtu.be/n1S-1XCrSnM  (qui s’impara anche lo spagnolo)

 

Di Zeta in Zeta

Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta provando a buttare per aria un po’ di governi.  Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…

Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato, amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800 primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali  tanto sangue è stato fatto versare da farci annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.

Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono intollerabili.

Rivoluzione colorata Zeta

Così Trump, sistemato il Venezuela con l’attivazione del killeraggio CIA, la minaccia aeronavale dell’imminenza di un intervento e con 50 milioni di dollari di taglia su suo “narcopresidente “Maduro, boss del cartello “Dei soli”, peraltro inesistente, dichiara qualche settimana fa, tra una buca di golf e l’altra: “ Ho dato un’occhiata a Città del Messico. Ci sono dei grossi problemi laggiù… Non sono affatto contento del Messico. Lancerò delle operazioni contro il Messico per fermare la droga? Mi sta bene. Qualsiasi cosa, pur di fermare la droga”.

Passano pochi giorni ed ecco che, puntuale, fa la sua epifania in Messico la Generazione Zeta. Prima una serie di chiassate antigovernative – corruzione, troppa violenza criminale, aver lasciato ammazzare un bravo sindaco anti-droga, Carlos Manzo – poi la prova di forza il 15 novembre. L’assalto violento a Città del Messico al Palazzo Presidenziale – 120 feriti, di cui 100 quasi inermi poliziotti –con l’abbattimento delle barriere di protezione e tentativo di penetrare nel palazzo. Decine di migliaia di “giovani Zeta” (Zeta come coloro che, con lo stesso vessillo pirata, hanno buttato per aria il governo di sinistra del Nepal e ci stanno provando con quello di Belgrado), di cui le immagini mostrano però soprattutto facce attempate, tipi da agiato ceto medio. Il che non toglie che all’evento dedichi il suo entusiastico commento la grande stampa che sta in, e guarda a, un Occidente in marcia verso i suoi migliori decenni della prima metà del ‘900, oggi condominio di Deep State, Trump, Netaniahu e Ursula.

 

Punta di lancia Zeta in Messico, Carlos Bello, padrone della prima TV messicana, “Azteca” e del Gruppo Salinas, potente aggregato di media, telecomunicazioni, attività finanziarie e supermercati, inquisito per un’evasione fiscale da 2,6 miliardi di dollari. Impunito, come usa da noi. Bello è anche sostenitore del neo partito “Forza e cuore per il Messico”, successore dei discreditati e sconfitti partiti di destra, PRI e PAN, che hanno tenuto la barra nazional-coloniale privatista, liberista e narcotraffichista, da cent’anni a questa parte.

Non potevano non annuire alle parole di Donald Trump, gli ex-Vicente Fox (il cui capo della Sicurezza, Genaro Luna, fu condannato per traffico di droga in combutta col cartello Sinaloa) e Felipe Calderon, vecchi sodali  di Clinton, Bush e Obama nel Palacio Nacional, sempre pronti a spostarsi tra Neocon democratici, il secondo Bush e il taumaturgo giallociuffato, a seconda di chi, dalla Casa Bianca, gli intimava di stare sull’attenti e non disturbare né CIA, né DEA, nè i loro narcoriferimenti messicani. Tra i quali nel Palacio si privilegiavano i cartelli Sinaloa e, ristupitevi delle coincidenze, lo Zeta.

C’è da meravigliarsi che in tutto questo abbiano svolto un ruolo di sostegno e “approvvigionamento” enti caritatevoli come CIA, Fondazione Ford, Open Society di George Soros, l’Atlas Network, una rete di centinaia di Think Tank pro-libero mercato, legata al Dipartimento di Stato (che finanziò pure il golpe anti-Chavez del 2002), il portale “Animal Politico” generosamente finanziato dalla National Endowment for Democracy (NED), braccio del regime USA per le iniziative di regime change?

Tra Chiapas, Belgrado e salvataggi in mare

Non è la prima volta che un movimento, con forti appoggi internazionali multilaterali, mette in discussione l’assetto istituzionale del paese. Nel 1998 mi accodo da cronista del TG3 a una spedizione in Chiapas organizzata dal gruppo di Luca Casarini, detto allora delle “Tute Bianche” e che si sarebbe fatto notare al G8 del 2001 a Genova. Lo avrei rivisto, segnato da analoga coloratura politica, nella Serbia dell’attacco Nato, ospite di una radio-tv di George Soros, B 92, impegnata contro il governo socialista di Milosevic. L’attualità lo vede processato per reati legati al traffico di migranti e, finalmente, coccolato da papa Bergoglio, per i meriti conseguiti con la supernave “Mediterranea, Saving Humans”. Un’altra nave, la Mare Jonio, con lo stesso Casarini, fu poi scoperta essersi fatta trasbordare 27 migranti, per 127mila dollari, da un mercantile dell’armatore danese Maersk, suscitando un processo della Procura di Ragusa, tuttora in corso, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Perché questa deviazione casariniana dalla spedizione delle Tute Bianche in Messico? Perché non potei evitare di constatare come la spedizione di Casarini tra gli indigeni Maya, mobilitati dal “Subcomandante Marcos”, già studente dell’università autonoma di Città del Messico, UNAM, fosse in qualche modo in sintonia politica con le altre sue imprese. E pure questa benvista e sostenuta dalla Chiesa.

Dopo la clamorosa occupazione, da parte dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), di San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas, in segno di protesta contro l’appena approvato NAFTA, accordo nordamericano di libero scambio, che consegnava l’economia messicana nelle mani di Wall Street, il movimento zapatista fu da noi considerato una specie di avanguardia anticapitalista. Arrivarono compagni entusiasti da mezzo mondo ad abbeverarsi alle fonti rivoluzionarie de La Realidad, municipio zapatista nella selva Lacandona.

Così noi con le Tute Bianche. Momento apicale e rivelatore fu un incontro con il leader spirituale del movimento, Samuel Ruiz Garcia, vescovo di S. Cristobal. Ci indirizzò a “liberare” la comunità oppressa del villaggio di Taniperla. Scoprimmo all’arrivo che pure quelli erano Maya, pure quelli autorganizzati, ma restii a inserirsi nel gruppo di Marcos. Motivo? Erano convinti protestanti, mentre quelli del “Sub” erano rigorosamente cattolici. Il nostro mandato era di aiutare Taniperla a tornare dalla parte dei buoni.

L’indirizzo politico di Marcos, segnato da un intransigente localismo indigenista che non gradiva commistioni con quanto di pur valido si muoveva in ambito nazionale messicano, trascinò la comunità maya a un’ostilità sempre più pronunciata verso le sinistre messicane. Al punto di organizzare spedizioni propagandistiche in moto, a cavallo, in giro per tutto il Messico, contro la candidatura di Andres Manuel Lopez Obrador, amatissimo – da operai, proletari e mondo antimperialista - sindaco di Città del Messico, leader del partito progressista “Morena” e candidato alla presidenza. “Obrador? ”, chiedeva retoricamente, “ma se sono tutti uguali!, parlano parlano, ma finiscono col fare le stesse cose dei liberisti”. Collocava il politico, sostanzialmente zapatista e rivendicatore della sovranità del Messico, a fianco di soggetti criminali come i narcopresidenti Salinas de Gortari, Vicente Fox e Felipe Calderon.

Queste spedizioni di Marcos e dei suoi seguaci contribuirono non poco a che Obrador fallisse alle elezioni presidenziali sia del 2004 (queste pesantemente manipolate), che del 2008. Ma non in quelle 2018, quando Marcos si era ritirato dalla scena (ricomparirà brevemente, nel 2024, per osteggiare la nomina di Claudia Sheinbaum, ingegnere, accademica, ecologista, erede di Obrador, a candidata alla presidenza) e ogni opposizione e tentativo di ripetere i trucchi del passato venne travolta da una marea incontestabile di voti.

 

 

 

 

Messico, i demoni

Mi ritrovai in Messico per un nuovo documentario una dozzina d’anni dopo, regnante Felipe Calderon, da tutti considerato vicino al cartello Sinaloa – ma neanche tanto lontano dagli altri cartelli, Juarez, Tijuana, Beltrán Leyva, del Golfo, Caballeros Templarios - e vicinissimo al Dipartimento di Stato che qui aveva dislocato alcune unità di forze speciali. Non certo per disturbare la sinergia tra cartelli, polizia messicana e DEA (ente USA “’per la lotta al narcotraffico”), visto che sono oltre 100 miliardi i dollari che entrano ogni anno nel sistema bancario USA, ma per dare una mano alle forze di sicurezza nazionali nel disciplinamento di eventuali rigurgiti antagonisti. Che c’erano, irriducibili.

Nei mesi da me trascorsi in Messico, tra 2008 e 2010, in un paese militarizzato oltre ogni misura, si contano 30.196 morti ammazzati, 23.500 donne in media ogni anno, 3.200 desaparecidos. Il 93% di questi delitti non viene indagato grazie all’intreccio omertoso e di interessi tra criminalità e autorità Ogni anno arrivano dal Sud 600.000 migranti. 20.000 risultano poi sequestrati, torturati, stuprati, uccisi, spesso decapitati, fatti sparire. Da 200 a 300 in media, sui due lati del confine USA, finiscono nelle mani di tagliagole a questo scopo reclutati.

Nella “guerra al narcotraffico” e nella caccia al migrante sono impiegati 180.000 effettivi, tra esercito, marina polizie federali e locali, più gli “specialisti” allora spediti in appoggio da Obama. Il cartello degli Zeta, il più efferato, è composto da ex-effettivi delle truppe d’èlite messicane, addestrate a Fort Bragg, Carolina del Nord. Almeno metà dei.2.500 municipi messicani erano sotto il controllo dei cartelli della droga.

In 3000 miliardi di dollari sono calcolati gli utili annuali del traffico di droga. Questo passa per i corridoi Colombia-Centroamerica-Messico, via terra, mare o aria (parallelo a quello che allora correva dall’Afghanistan, occupato dalla NATO, l’Iraq, pure occupato, Kosovo, Calabria. Sicilia, Occidente. Ne sapeva qualcosa Buscetta. Soldi che finiscono nelle disponibilità della finanza USA, a sostegno dell’economia più indebitata del mondo. Destinazioni privilegiate: New York, Florida, Texas e Arizona, stati che sostengono con donazioni l’80% delle campagne presidenziali. Sono 5 trilioni i dollari sporchi entrati neri circuiti finanziari USA nel primo decennio del secolo. Superavano tutti i trasferimenti da petrolio e armi. Coca e Fentanyl servono qui come servì l’oppio alla Regina Vittoria contro la Cina. Chi da noi se ne occupava con grande perizia e competenza era Pino Arlacchi, vicesegretario dell’ONU e responsabile della lotta al narcotraffico. Sono funzionari ONU che non hanno lasciato successori, come non li hanno lasciati segretari indipendenti e decisi come Kurt Waldheim, o Boutros Ghali.

Maquiladoras

E anche questo stato di cose che garantisce che il 19% più ricco superasse negli USA di 50 volte quello del 10% più povero, mentre il 60% dei messicani viveva sotto il livello di povertà. L’1% possedeva il 50% della ricchezza nazionale, il 70% raggiungeva a malapena i 2 dollari al giorno. Zero previdenza e assistenza sanitaria per metà della popolazione. Un dato quest’ultimo che riguardava anche le migliaia di operaie che, con contratti di mese in mese, anche per 10 anni, cacciate al primo errore e spesso consegnate ai boia narcos se provavano a protestare o sindacalizzarsi, impiegate nella maquiladoras, la catena di stabilimenti che le grandi industrie USA avevano dislocate a Chihuahua, nel nord del Messico. E che Trump aveva promesso di riportare a casa. Prima di preferire di dedicarsi alle guerre geopolitiche.

La terra, solo nel mio ieri, apparteneva al 97% a una trentina di latifondisti che di tutto si curavano fuorchè dell’alimentazione di base della popolazione. Il 3% restava a 400.000 piccolissimi contadini. 12 milioni di questi erano senza terra. Il 70% dei lavoratori erano sottoimpiegati e sottopagati.

Tutto questo alla faccia della prima rivoluzione del ‘900, quella di Emiliano Zapata e Pancho Villa, unici vincitori latinoamericani degli USA sul terreno di battaglia, prima di Cuba. La dittatura di Porfirio Diaz, solito fantoccio yankee, allora abbattuta, si ricostituì dopo un decennio. Un’altra spallata fu tentata dagli studenti nel ’68, sull’onda del movimento che in tutto l’Occidente, a partire dal Vietnam (oggi Palestina), prova a minare le basi fondanti del capitalismo imperialista. E fu la strage della Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, 400, forse 800 (il regime non li volle contare) ragazzi massacrati da esercito e politizia. Oggi li ricorda un museo cosparso di scarpe, borsette, libri, quaderni, bottiglie Molotov, barriere carbonizzate, foto di morti e feriti, facce. Presidente Gustavo Diaz Ordaz, dell’eterno PRI (Partido Revolucionario Istitucional).

 

Era questo il paese che attraversai dall’estremo sud, dove Messico e Guatemala sono separati dal fiume Suchiate. Da questo enorme corso d’acqua arrivava, attraversatolo su pneumatici di camion, l’alluvione dei disperati delle Repubbliche delle Banane diretti nel “paradiso nordamericano”. Quel “paradiso” promesso e oggi da Trump negato, aveva la sua anticamera nel cimitero dei vivi di Chihuahua e Ciudad Juarez, terreno di cacciatori statunitensi di teste, attestati sui due lati del confine. E lo zapatismo, ormai ombra di se stesso, ridotto a viale dello “zapaturismo” a San Cristobal per nostalgici e reduci di illusioni e sconfitte, ha provato a svolgere un ruolo in occasione della rivoluzione colorata degli Zeta (intesi come movimento). Ha riattivato in Chiapas una certa mobilitazione anticentralista, accompagnata dalla solita condanna di tutte indistinte le forze politiche, “tutte uguali”, anche quelle che stavano riscattando dignità e giustizia, diversamente dagli attivisti Zeta degli assalti ai palazzi del governo a Città del Messico nella prima metà di novembre.

Passa un treno merci. Sopra e ai lati, abbarbicati, centinaia di migranti centroamericani. Al confine sono scampati alle pandillas, le bande di giovani delinquenti che li spogliano di tutto, Qualcuno, a gambe divaricate, pende sospeso tra un vagone e l’altro. Viaggiano così per giorni, senza biglietto, assieme a sacchi di soia, zucchero, cemento. Qualcuno crolla e finisce sotto le ruote. Il treno rallenta. Un signore in disarmo che dimostra settant’anni, ma ne ammette 61, dice di andare in Nordamerica, da un nipote, per trovare quel lavoro che a casa sua non gli danno più: “Dopo i 40 ti buttano. Ma se non c’è speranza, non c’è più niente…”. Tanti che non ce l’hanno fatta a prendere il treno, li ho visti, tra cani inscheletriti e neri avvoltoi, rovistare tra i rifiuti della grande discarica di Tapachula, prima città dopo il confine. Arrivano caporali in auto e li pagano per aver ricuperato qualcosa di commerciabile. Al confine nord li aspettano i cacciatori di teste.

Messico, angeli contro demoni

Sono a Oaxaca nel centrosud del paese, città e Stato della perenne resistenza, sia indigena, degli indios Triqui, cui l’estrazione nordamericana sottrae acqua e foreste, sia creola e bianca. Nel 2006, al cambio tra i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon, una gigantesca rivolta di popolo, studenti, giovani e soprattutto, come poi vedrò ovunque nel Messico, donne. Calderon è stato insediato, grazie al fatto che aveva sottratto 1 milione di voti a Obrador, fatto provato dal Tribunale Supremo Elettorale. Ma lasciato correre.

La lucha sigue. la lotta continua, mi assicurano, con un termine che mi è famigliare, le donne, perlopiù operaie e insegnanti, che animarono una rivolta per la conquista di diritti fondamentali, sociali e ambientali, per l’istruzione e la sanità pubblica, contro la manomissione del territorio da parte delle multinazionali minerarie. Una sollevazione che, tenne in scacco le forze della repressione per settimane, Continuano a percorrere il territorio, a invitare delegazioni fraterne straniere, sfidano minacce e repressione.

Una repressione che, più a sud, Chiapas, è costata arresti e maltrattamenti alla comunità agricola “Lopez Hernandez” di mezzo migliaio di persone, parte della rete “Organizacion Campesina Emiliano Zapata”, che nulla ha a che fare con gli zapatisti dell’ex-Marcos. La loro autonomia, che aveva ridato vita e coltivazioni a 215 ettari di terre ancestrali, a suo tempo sottratte da un unico latifondista al quale gli spagnoli avevano assegnato 1.600 ettari. Il regime gli negava riconoscimento, scuola, sanità, l’acqua andava presa a 130 minuti di cammino. Quando gli uomini della comunità furono tutti arrestati, sono state le donne a mandare avanti i lavori sui campi e all’interno della comunità. La lucha sigue. Si capisce perché il Messico fosse allora il paese a più alto tasso di femminicidi.

Il cuore dell’elaborazione politica e della lotta al sistema totalitario che le presidenze PRI e PAN hanno continuato a rafforzare sono sempre state le università, in testa l’UNAM, Universita’ Nazionale Autonoma del Messico e l’UNAC, Università Autonoma di Ciudad Juarez. Nella prima incontro i ragazzi del Comitato Cerezo, sono quattro fratelli e una sorella tra i 22 e i 30 anni, tutti con alle spalle chi 5 e chi 7 anni di galera, comprese le torture, punizione di attività politiche nonviolente. Sono figli di una coppia tuttora latitante che militava nell’ERP, Esercito Revolucionario del Pueblo, una formazione guerrigliera marxista, diffusa in molti paesi latinoamericani in risposta alle dittature installate dal colonialismo yankee. All’UNAM hanno aperto uno sportello per l’assistenza agli studenti, in materia di corsi, controversie burocratiche, carenze accademiche, conflitti con le autorità dell’ateneo, o della città, o dello Stato. Continuano a rischiare, ma si espongono ed esprimono la certezza che prevarrà quanto va crescendo nel paese, attraverso anche la rivisitazione di rivoluzioni e riscatti passati e in collegamento con nuove realtà alternative emerse nel mondo.

La loro fiducia mi viene confermata a Chihuahua e nella città di confine Ciudad Juarez, dirimpetto a El Paso texano che, con i suoi 17 negozi di prodotti militari, è la generosa e semiufficiale fornitrice di armi alle gang sull’altro lato del Rio Grande/Rio Bravo e della penetrabilissima cortina USA di ferro e torrette che lo affianca.  Allora qualcuno chiamava questa regione El infierno del Norte. E a buon titolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Discesa all’inferno

La prima cosa con cui, arrivando a Chihuahua, capitale dello Stato omonimo, ci si scontrava, con tanto di trambusto emotivo, era un monumento. Monumento raffazzonato come da chi lo mette su in fretta, guardandosi alle spalle, forse inseguito, disperato. Una specie di quadro gigante, in faccia al grande palazzo barocco governativo, dalla cornice e base color sangue, costellata di chiodi, stracci di vesti intime insanguinate, manichini nudi spezzati e arti sparsi. E’ il monumento, non so se c’è ancora, al femminicidio. Quella strategia dell’intimidazione e del terrore che, assieme alle teste mozzate dei rivali nella lotta per il controllo degli stupefacenti, serviva ai poteri di allora – e dalle nostre parti anche adesso – per tenere in ceppi di paura i sudditi.

Terra allora desertificata, abbandonata da dio e dagli uomini che dovrebbero coltivarla e custodirla. Ricordo periferie vuote, case mezze costruite, sterpaglie dappertutto. Ricordo un angolino di quartiere, cento metri per venti, dove la gente si ritrovava a passeggiare, a far giocare i bambini con dei grossi pupazzi gonfiati, a chiedere e dare l’elemosina alla solita mamma india con due bimbetti appesi, ad ascoltare e fare musica, perfino a ballare. E ricordo una madre cui avevano ammazzato la figlia e che davanti al palazzo del governo protestava, protestava, finchè qualcuno non l’ha portata via. Ora figura su una delle croci rosa che ricordano donne ammazzate e che fioriscono dalla periferia di Chihuahua fino a quella di Ciudad Juarez, il cimitero dei vivi, a nord, sul confine. E, entrandovi, il più bel monumento a Don Chisciotte che abbia mai visto. Continua a lottare contro mulini a vento.

Qui ti devi muovere circospetto. Di giorno i padroni del luogo, quelli del traffico tra qui e la El Paso delle banche e dei corrieri verso l’interno degli States, impongono il coprifuoco per quando devono fare grossi spostamenti, o retate di importuni. Quando vedi passare automobili sfacciatamente senza targa, sai chi passa. C’è vita di notte, ombre seminude lungo viali bui, locali dove si balla e, al piano di sopra, dei video glorificano, davanti a maschi compiaciuti e sghignazzanti, le imprese dei narcos. Prostituzione e droga. E ciò di cui si nutrono i padroni. Ecco perché i femminicidi. Si rapisce, si abusa, di rifornisce la tratta, si uccide, si butta.  E’ anche questa la guerra dei ricchi ai poveri.

Ed ecco perché non dimenticherò mai Miriam Valdiviero, operaia, Marisela Ortiz, direttrice di una scuola, Irene Miramontes, Norma Ledezma, Norma Andrade, Virginia Berthaud: tutte madri di figlie perdute, scoperte, a volte dopo anni, senza vita e senza vesti, o mai ritrovate, ancora attese. Tutte impegnate in organizzazioni per la lotta al femminicidio, al sistema, al governo, a Felipe Calderon, presidente fellone. Associazioni che fanno elenchi, ricerche, denunce, mostre di foto con storie di donne, ma anche informazione, cultura, convegni, musica, manifestazioni. Si chiamano “Justicia para nuestras fijas”, ““Nuestras fijas del regreso a casa” e in tanti altri modi.

Con Marisela, nella cui scuola insegnanti donne offrono ai ragazzi vita, valori, soddisfazioni, alternativi a quelli per i quali i boss provano a reclutarli, ci spostiamo in macchina. Dalla radio c’è il bollettino del mattino su quanto è successo nella notte: di quartiere in quartiere, di paese in paese, un interminabile rosario di morti, sparizioni, bagni di sangue.

Chi non si lascia intimidire, nel cimitero dei vivi, sono i ragazzi dell’Università Autonoma di Ciudad Juarez. Leonardo Alvarado, loro professore di informatica e capo di un Comitato di Lotta, parte del Fronte Nazionale contro la Repressione che regolarmente sfida con manifestazioni i guardiani del finto ordine, ci parla, attorniato da ragazze e ragazzi, di un “Cuore della resistenza che batte, a dispetto degli emboli che gli spara il sistema”.

 Maria Davila contesta il presidente Calderon

Ma chi non dimenticherò mai è una piccola donna, Maria Davila di Ciudad Juarez, di una modestia pari alla sua granitica determinazione. E’ lei il Messico. Riassumo il racconto che mi ha fatto. Il 31 gennaio 2010 una classe di ragazzi delle superiori festeggia un compleanno. La polizia fa irruzione, spara a casaccio, ne uccide 17. Due erano figli di Maria. Il clamore del massacro costringe il presidente a intervenire. Dal palco, Felipe Calderon giustifica l’assurda mattanza accusando i ragazzi di aver fatto parte di una banda di malviventi. Maria Davila non ci sente più, si erge davanti al palco, da piccola diventa grandissima. Accusa il presidente di mendacio per coprire i suoi sicari. Costringe Calderon a ritrattare e poi ad allontanarsi sotto una grandine di fischi e improperi.

Siamo all’oggi, agli altri Zeta, a Claudia Sheinbaum, prosecutrice del riscatto lanciato nel 2018 da AMLO, Andres Manuel Lopez Obrador, quando finalmente i maneggi elettorali e di Marcos non sono riusciti a sottrargli la vittoria. I militari USA, che, fingendosi anti-narcos, contribuivano a mantenere l’ordine costituito, sono stati rimandati a casa. E subito Trump, come con Venezuela e Colombia, ha tuonato contro il paese, da sempre considerato appendice del grande vicino, attribuendo al suo governo il ruolo di capo narcotrafficante.

La lotta degli USA ai narcos è come la loro lotta ai terroristi islamici: li creano, fingono di combatterli attribuendoli agli Stati che hanno programmato di abbattere.

 

Il ritorno di Emiliano Zapata, subito “narcotrafficante” anche lui

Lopez Obrador e Claudia Sheinbaum

E così, dopo alcuni tumulti di preparazione, il 3,7,12 e 19 ottobre, essenzialmente destinati a impostare la narrativa dei media, ecco, il 15 novembre, gli Zeta assaltare il Palazzo, alla nepalese, serba, georgiana, primavera araba, ucraina, alla Otpor, quando si trattava di finirla con la Jugoslavia. Pretesti? I soliti stereotipi delle rivoluzioni colorate,buoni per ogni occasione. corruzione, violenza, autoritarismo, qui anche l’assassinio dell’anti-narcos sindaco di Uruapan Carlos Manzo, i

Il problema vero è che né Obrador, primo presidente di sinistra dopo Lazaro Cardenas negli anni ’30, né Sheinbaum, per quanto avessero fatto, in un mandato e un pezzetto, non erano riusciti ad estirpare del tutto il cancro secolare che era servito a imporre alla società la sottomissione al diktat del capitale nazionale e, soprattutto, nordamericano. Epperò, con la proclamata “Quarta Trasformazione”, 4T, si erano permessi di rafforzare le nazionalizzazioni (petrolio, elettricità), ripubblicizzare quanto era stato privatizzato, la riduzione delle spaventose diseguaglianze sociali con provvedimenti di ricupero sociale come l’aumento di tutte le prestazioni sociali, il ripristino delle risorse idriche e forestali, la promozione di infrastrutture come le ferrovie, provvedimenti per porre fine allo stillicidio della violenza sulle donne, un piano ambientale radicale di 6 anni con la fornitura di servizi idrici a tutte le abitazioni, la messa al bando della plastica monouso. E, priorità assoluta, migliaia di arresti di esponenti e manovalanza del narcotraffico, senza che ciò abbia significato la tradizionale militarizzazione di società e territorio.

E, particolarmente odiosi per il grosso vicino, fin dai tempi di Biden, i rapporti fattivi, o di solidarietà e condivisione, con entità invise ai Stelle e Strisce, come Palestina, Russia, Cina, Iran, BRICS. La vicinanza concreta con lo schieramento sovrano e antimperialista dell’America Latina, da Cuba al Nicaragua, dal Venezuela alla Colombia e all’Honduras. Sheinbaum, ebrea, dichiara di riconoscere lo Stato di Palestrina, accoglie il primo ambasciatore palestinese in Messico, stigmatizza il genocidio di Gaza. Da sindaco aveva reso irriconoscibile la capitale, disinquinandola e decongestionandola con corridoi preferenziali per autobus elettrici e l’ammodernamento della metro e la moltiplicazione di alloggi popolari, in una metropoli dagli affitti irraggiungibili. Oggi Claudia Sheinbaum ha il torto di godere di un indice di approvazione di oltre il 70%, in alcuni settori e stati federali, dell’80%.

Le donne che ho incontrato e quella che oggi regge le sorti di un Messico da restituire a Emiliano Zapata ci fanno riconoscere che oggi l’America Latina è donna.

Tutto questo basta e avanza per galvanizzare i nostri media a tratteggiare del Messico lo stesso quadro onesto, consapevole e rispettoso, proposto per il Venezuela del “narcos Maduro” (vedi il disinformato Pino Corrias sul Fatto Quotidiano del 27 novembre, un inconcepibile assist alle cannoniere di Trump). Siamo bravissimi a farci riconoscere.

domenica 30 novembre 2025

LETTERA A MARCO TRAVAGLIO

 

LETTERA A MARCO TRAVAGLIO

Caro e, per l’alternativa che ci offri alla degenerazione mediatica, stimato Direttore. In virtù della quale vitale alternativa possiamo di buon grado, sebbene a volte con disappunto, passare sopra certe clamorose divergenze strategiche tra te e alcuni tuoi collaboratori. Fin quando non si superi il limite. O, come nel caso del paginone di Pino Corrias su Nicolas Maduro, presidente del Venezuela, pubblicato dal FQ il 27 novembre, la freccia sul bersaglio sbagliato.

Tutti i mali del Venezuela sono caricati su Maduro, a fianco di una vignetta che, con un Maduro mostrificato, urlante con la bava alla bocca, fa torto al bravissimo caricaturista. Come il testo del libello fa torto a Corrias, che sappiamo arguto e pungente scrittore satirico, in grado di affondare chi se lo merita.

Non è il caso di Maduro. Ma questo Corrias non lo ha voluto sapere ed è grave. Non tanto perché non credo abbia mai messo piede in Venezuela – o, se lo ha fatto, non si sia guardato in giro - e quindi non ne abbia idea. Per quanto adeguata conoscenza ne sia acquisibile con un minimo impegno. Parlo di informazioni che ovviamente non originino da coloro che ora piazzano cannoniere in bocca a paesi presunti protagonisti di narcotraffico (ultimo il Messico, sulla cui neopresidente Sheinbaum, visto che ha perso l’occasione con Obrador, ci potremo ora attendere un’analoga tirata diffamatoria). Narcotraffico che, quanto al Venezuela, le competenti agenzie dell’ONU hanno da sempre escluso da ogni coinvolgimento, a partire da quel Pino Arlacchi che, con grande beneficio per i lettori, validamente ospiti sulle tue pagine.

Basterebbe il primo capoverso del pezzo di Corrias per scoprire il tentativo, corroborato da nulla se non dall’hasbara NED o CIA, di delegittimare un presidente, che, secondo sondaggi indipendenti gode del consenso dell’80% della sua popolazione, come confermano le innumerevoli elezioni giudicate corrette da istanze internazionali. Delegittimazione che odora, non solo di nozioni manipolate della materia trattata, storica e attuale, ma anche di punti di vista preconcetti e involontariamente colonialisti.

Non una parola di Corrias sulle sanzioni USA e poi UE che, dall’avvento di Chavez alla fine del secolo scorso, hanno imposto la tagliola di terribili privazioni a un paese che si stava riscattando da decenni di ingiustizia e iniquità imposte da dittature e presidenze al servizio del principio del “cortile di casa yankee”. Sanzioni che uno squinternato manigoldo, pervenuto equivocando alla Casa Bianca, ha accentuato in morsa mortale. Dal suo primo mandato, gli si possono attribuire buona parte dei 40.000 morti a seguito di carenze dovute alle sanzioni.

A dispetto di tale assedio, di grotteschi tentativi di golpe impersonati da grotteschi personaggi in ricorrente visita a Washington e al soldo della CIA, come Guaidò e Corina Machado (la quale ora invoca invasioni di Marines), il governo e la classe dirigente di Maduro hanno tenuto dritta la barra della prevalenza del pubblico sul privato, su quanto assicura eguaglianza sociale e sovranità nazionale. La coalizione di paesi che difendono la propria sovranità contro l’imperialismo e tentano via di giustizia sociale, ha tuttora come riferimento il Venezuela.

Non credo che ci siano, in Corrias, ragioni condivise con chi assegna Nobel della Pace, per meriti di guerre o di golpe, a Begin, Kissinger, Obama. O che abbia in uggia, di Maduro, il suo ruolo di operaio alla guida di autobus. Che però vagamente irride. Ma prima di fare di tali suoi moti del cuore e della coscienza un assist per l’ennesima demolizione di uno Stato e la relativa devastazione di terra e popolo, facendosi inconsapevole strumento della forza sul diritto, della menzogna sulla verità, il bravo Pino Corrias riveda la scelta dei bersagli che con tanta perizia trafigge. Non tragga le relative nozioni da chi, ogni minuto del nostro tempo, ci trasforma la realtà nel suo opposto.

Per inciso, chi scrive frequenta il Venezuela dal primo colpo di Stato, nel 2002, quando Chavez, allora rimosso su ordine di servizio del Bush Minore, tornò, entro 48 ore, al palazzo presidenziale di Miraflores sull’onda di una sollevazione di popolo. Caro Travaglio, quella sollevazione garantisce ancora oggi che la nazione bolivariana abbia 22 università pubbliche, mantenga il tasso di alfabetizzazione al 97%, organizzi in tutto il paese mercati dai prezzi calmierati per tutti i generi di consumo di base, dove si ottengono esami del sangue gratis, abbia assistenza sanitaria e istruzione gratuite, assicuri l’autosufficienza alimentare, non abbia ceduto al saccheggio estrattivo che va distruggendo la ricchezza naturale di molti paesi latinoamericani. E, soprattutto, non abbia mai ospitato né un Marines, né una base USA.

E tanto meno una piantagione di coca. Come quelle di cui quei marines custodivano la produzione in Afghanistan. Prima dei Taliban.

Fulvio Grimaldi, giornalista

30 novembre 2025

 

martedì 25 novembre 2025

La musica è finita, gli amici se ne vanno (https://youtu.be/Sy6aw6FjzG) --- SIRIA, NAZIONICICIDO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITA’ --- E le stelle stanno a guardare https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-

 

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Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il nemico. (Berthold Brecht)

Nell’aprile venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione, avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di negazione e spoliazione.

Nella primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco, dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine. Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic.

Primavera araba, o terrorista?

Le autorità riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria repressione del “dittatore Bashar el Assad”. Opportunità lungamente vagheggiata, preparata e qui immediatamente utilizzata, come di norma per tutte le “primavere arabe”, dalla Tunisia, dove prevalsero, alla Libia, dove ne impedì la disfatta l’intervento degli amici di Gheddafi da lui finanziati, Sarkozy e Berlusconi, all’Egitto, dove fallirono.

Dissero nei nostri media che la dittatura non consentiva alla stampa estera di entrare nel paese e seguire gli eventi. Sentivo questo dalle tv straniere che a Damasco tutti potevano liberamente seguire, pure la RAI, sebbene esentati dal canone. Cosa di cui il corrispettivo era negato a casa nostra. Strano corto circuito della libera informazione nel mondo libero, riflettevo, mentre mi trovavo su un pullmino, accanto a un collega della Franklfurter Allgemeine e a una cinquantina di altri inviati di media internazionali. Eravamo diretti a OMS, nel cuore del paese.

Lo strumento jhadista

Al Sharaa da Al Jolani

Ci riceve il governatore e ci spiega una situazione che, dopo una serie di episodi terroristici, con bande armate di jihadisti di Al Qaida che avevano fatto irruzione in città provenendo dalla vicina Turchia, era stata riportata dalle forze dello Stato alla normalità. Relativa, visto che, visitando poco dopo un ospedale in pieno centro, veniamo fatti bersaglio dalla strada di raffiche di mitra che, passate per le finestre, fanno buchi nelle pareti sopra le nostre teste. Evento ricorrente, commentano compassati i sanitari.

In una grande palestra scolastica, scortato da ragazzi dell’organizzazione giovanile del partito Baath (Partito Arabo del Risorgimento Socialista), incontriamo una cinquantina di cittadini di Oms, donne, uomini, ragazzi. Ci raccontano ciò che, tradotto solo a sprazzi da un accompagnatore, si riferisce a una serie di episodi di violenza subiti da congiunti e amici. Le immagini video sono raccapriccianti: vi si vede di tutto, quanto a ferocia, brutalità, orrore. Persone impiccate, annegate in gabbie, bruciate vive, scuoiate, accecate, buttate nei fiumi, ammanettate e bendate, dall’alto del ponte, appese vive agli alberi e fatte segno di spari, soldati siriani prigionieri, stesi a terra, legati, poi fulminati a uno a uno con colpi in testa. Attorno alle vittime, festanti, gli esecutori con le bandiere nere di Al Qaida.

La cosa più tremenda è come i video siano arrivati nelle mani di queste persone, madri, figli, amici. Glieli hanno spediti via cellulare gli stessi autori.

Comprendendo nel bottino di Al Jolani-Al Sharaa anche qualche bomba e qualche sicario Nato, specie turco, stanno nel conto siriano di questo delegato di NATO e Israele 600.000 morti, 7 milioni di sfollati interni e 5 milioni di rifugiati in campi profughi in Turchia. Non tutti manodopera qualificata, sbolognata via Turchia nelle industrie tedesche. Il resto trattenuto a vegetare lì in cambio di 1 miliardo di euro dall’UE

Quello che racconto è tutto in rete, scaricabile qui https://fulviogrimaldi.gumroad.com/l/iurxx 

Da tagliagole a interlocutore istituzionale.

Il loro capo aveva poi rinominata Al Nusra l’organizzazione storica e, infine, per togliersi ogni stigma terrorista, si era fatto leader dell’opposizione rispettabile, sotto la sigla di Hay'at Tahrir al-Sham, Tuttavia sempre con in testa la corona di 10 milioni di taglia con cui gli USA, assieme a Turchia, Israele e Arabia Saudita, facevano finta di disconoscerne la paternità. Si era dato il nome di battaglia di Abu Mohamed al Jolani. Oggi ha ricuperato il nome vero, Ahmed Al Sharaa.

E’ presidente della Siria, almeno della capitale e dintorni, almeno di quanto basta per perpetuare gli stessi orrori dei 14 anni di guerra, oggi selezionando le componenti della popolazione non gradite al jihadismo: alauiti sciti, cristiani, drusi, curdi, altre minoranze più ridotte. A ottobre si contavano 9000 vittime, ora, a novembre, altre 180. Sgraditi sterminati dopo la presa del potere. Tuttora li prendono, uno per uno. Mentre Israele prosegue nelle sue annessioni a pezzi precedute da incursioni con stabilimenti di presidi militari e posti di blocco, 60 nelle ultime 10 sett6imane.  E le stelle stanno a guardare: la “nuova Siria” ricondotta nell’alveo democratico.   

Ormai privo di taglia, ma tuttora munito di scure, il tagliagole è stato riconosciuto e ricevuto con tutti gli onori, tappeti rossi e sorrisi, a Mosca e a Washington. Gli mancano Prevost, Mattarella e Meloni. Capiterà. Resta sul piedistallo eretto dalla massima virtù del nostro Zeitgeist, spirito del tempo: la realpolitik.

 

Nel dicembre del 2024 la Siria soccombe. Per il suo presidente, Bashar el Assad, raccoglitore di vastissimi consensi in tutte le consultazioni elettorali, anche quelle in guerra riconosciute corrette dagli osservatori ONU, ho potuto constatare l’adesione e l’amore del popolo. Da quando, nel 2000, è succeduto al padre, Hafez, sono state innumerevoli le manifestazioni di sostegno, intensificate nei momenti di pressioni estere, che ho visto percorrere il paese nel corso di anni segnati da uno sviluppo impetuoso, non impedito dalle solite pesanti sanzioni.

Non hanno lasciato traccia nella coscienza della popolazion le manipolazioni propagandistiche sciorinate da aggressori e complici che, peraltro, mai avrebbero notato qualcosa di anormale nella “democratica opposizione ad Assad”. Era destinata al pubblico occidentale la giustificazione di questa ennesima operazione coloniale, affidata al peggiore dei mercenariati imperiali, con l’invenzione di una successione di nefandezze: come i gas utilizzati contro oppositori a East Ghouta, mai poi riscontrati dalla relativa Agenzia ONU, o la testimonianza di un transfuga, “Caesar”, su esecuzioni di massa nelle carceri siriane (foto di cadaveri che poi risultarono di militari siriani caduti in battaglia).

Bashar el Assad

Non bastava la guerra

Il nazionicidio della Siria si compie nell’inverno del 2024. Un paese, che, aggredito nel 2011, dal 2015 aveva potuto valersi del sostegno militare della Russia, si è ritrovato improvvisamente abbandonato, al colmo di una crisi economica resa catastrofica, più che dalle distruzioni belliche, dal sequestro che gli occupanti USA avevano imposto dei territori nel nord-est. Territori occupati dalle truppe americane anche grazie al sostegno di un collaborazionismo curdo, molto magnificato dalle sinistre in Occidente. Forze curde, di un enclave che pure aveva goduto, come ogni minoranza, degli stessi diritti di tutti i cittadini siriani, collegate al PKK in Turchia, approfittarono del loro sponsor a stelle e strisce per espandere la presa su terre e città arabe. Protetti dagli USA, i curdi invasero terre arabe, occuparono le strutture pubbliche, ne cacciarono gli abitanti. Il nord-est era la regione da cui provenivano il petrolio e i prodotti agricoli necessari alla vita della popolazione e al funzionamento dell’economia. Da lì il governo traeva i mezzi per mantenere in piedi l’esercito. Che, in assenza, privato della paga e di ogni sostentamento, senza più l’appoggio aereo di Mosca, provato e decimato da 14 anni di combattimenti, non poteva che sfaldarsi.

A compiere l’opera di distruzione del paese venne, nel febbraio del 2023, un terremoto che devastò gran parte della regione centro-settentrionale. Una Siria che, nelle guerre arabo-israeliane, era stata l’avversario più combattivo e temuto dello Stato sionista, si ritrovava, già minata nella tenuta umana e nella funzionalità delle infrastrutture, dei trasporti, dei rifornimenti, saccheggiata dalle sanzioni USA e UE, impoverita dalla rapina delle sue materie prime. Il tutto aggravato dalla mancanza di soccorsi che di solito la “comunità internazionale” riserva alle vittime di simili tragedie. I governi europei e quello turco (salvo nelle zone sotto controllo suo e del terrorismo islamista) rifiutarono ogni aiuto.

Se si tiene conto del quadro geopolitico segnato dal ritiro dei russi dalla contesa, e di chi costituiva il fronte avverso alla sopravvivenza della Siria, sulla quale la triplice Turchia-Israele-curdi nutriva annosi appetiti territoriali, o integralisti religiosi (wahabiti), l’esito, dopo 14 anni di resistenza, non poteva che essere scontato. Il terrorismo jihadista, guidato dai qaedisti Al Baghdadi e Al Jolani, finanziato da sauditi e qatarioti, addestrato in Giordania e Turchia dai marines, integrato da quadri militari turchi, si era insediato al confine con la Turchia, nella provincia di Idlib. Qui per anni aveva gestito, sotto supervisione politico-militare turca, una milizia fondamentalista islamica, governando tutte le funzioni e gli affari di un para-Stato a detrimento della popolazione siriana di oltre venti milioni, espropriata di diritti e attività. Comunità autoctona che ogni tanto si ribellava e veniva duramente repressa.

L’operazione, parte il 24 novembre e si assicura la presa quasi immediata di Aleppo, prodigio archeologico e culturale del paese, da sempre sognata dai turchi capitale di una sua nuova regione. E’ coronata a Natale dall’insediamento a Damasco del nuovo potere battezzato nell’oceano di lacrime e sangue fatti versare a 20 milioni di siriani. Una successione quasi incredibile di eventi, ma la cui origine, causa e dinamica, sono spiegati dai vari interventi di attori esterni. Abbiamo già detto della continuità del terrorismo jihadista dal tempo dell’aggressione criminale NATO, da noi eufemizzata in “guerra civile”, a quello della “liberazione dalla dittatura di Assad” e dell’instaurazione della “democrazia”.

Parola d’ordine, disunire ciò che unisce

Il progetto, affidato alla brutalità di contractors subumani che conosce l’eguale storico soltanto in quanto oggi si va compiendo su Gaza, ha il compimento strategico, ma probabilmente non politico, né geografico, con la spartizione della Siria tra Israele, Turchia, curdi e un ridotto jihadista a Damasco, finora tollerato a fini di proiezione dell’illusione di uno Stato rimesso in sesto nominalmente democratico. Tanto per far capire che l’esito definitivo non è quello di un Israele che, fin da quando curava i jihadisti feriti nelle sue cliniche del Golan, considerava questo terrorismo il mezzo, non il fine. Il che spiega i suoi bombardamenti, “di avvertimento”, sui palazzi del neoregime a Damasco, l’avanzata delle truppe israeliane dalle falde del Golan, altura fondamentale per il controllo di Libano e Siria rubata alla Siria fin dal 1967, e l’occupazione della regione di Sweida, a sud. Il pretesto era quello della difesa dei drusi, alleati anche nella Palestina occupata, contro presunti abusi di beduini sunniti protetti dal nuovo regime.

Dal versante nord, l’appropriazione della storicamente ambita Aleppo, gioiello di un passato arabo da turchizzare, e di tutta l’area fino al la centrale Oms, si inserisce in un neoimperialismo ottomano che si estende dall’Asia Centrale e Occidentale al Nordafrica e abbraccia tutto il Mediterraneo orientale. La convivenza di due poteri senza scrupoli di diritto internazionale e dell’altrui sovranità, espansioniste nella stessa area statale, succede alla connivenza e alla cointeressenza alla distruzione del caposaldo della forza e della dignità araba, ma resta fragile alla luce dei caratteri egemonici che caratterizzano le ambizioni delle due entità.

La fetta curda

 Area storica curda in Siria –  area appropriata oggi

Al momento l’attrito maggiore, nella pausa dello scontro tra filo-israeliani e i gangster di Al Sharaa, è quello tra Damasco e la nuova realtà fattasi largo sotto protezione statunitense nel nord-est della Siria. I curdi, usciti grazie a quella tutela, interessata a minare alla base l’unità pluralista e inclusiva della Siria, dalla loro area nell’estremo nord-est, al confine con il Kurdistan iracheno, si sono appropriati di una vasta area comprendente le maggiori risorse minerarie e agricole siriane. La stessa che ospita le basi e 2.500 militari USA. Una regione che va da Afrin, sul confine turco, alla capitale Raqqa e a Deir Ezzor, già sottratte all’ISIS (più dai bombardamenti USA, per la verità, che dai combattenti delle sedicenti Forze Democratiche Siriane. In effetto integralmente curde).

 Manifestazione curda in Siria con bandiere israeliane

Con riferimento all’annoso conflitto interno tra secessionisti (o autonomisti) curdi e Ankara, la presenza curda in larga parte della Siria risulta ad Ankara altrettanto intollerabile quanto quella su suolo turco. Intolleranza che si esprime in occasionali attacchi armati e bombardamenti turchi, ma che resta contenuta dalla protezione americana e israeliana di cui questa minoranza gode.

 

 

La mia Siria

Arrivai in Siria, subito dopo essere stato espulso da Israele, alla fine della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967. Con Iraq, Egitto di Nasser e. pro tempore, di Sadat, Libia, Libano, la Siria era l’insuperabile e, dal punto di vista israeliano, il più vicino e tosto, intralcio all’eliminazione della Palestina e alla espansione verso il Grande Israele. Era, questo, il cuore della grandezza storica e moderna araba.

A partire da Palmira, il gioiello urbano dalla triplice tradizione, aramaica, fenicia, greca e romana, devastato dai mercenari NATO dell’ISIS nel solco della necessità imperiale di annientare qualsiasi segno di identità. Fu Al Jolani a fra trucidare Khaled al Asad, il direttore del sito, martire per non aver voluto rivelare dove erano stati custoditi i reperti più preziosi. Insieme a Omar al Khayyam, la grande moschea degli Omayyadi, il souq (mercato) di Al-Hamidiyah che al tempio conduce come una freccia, un lungo viale dai mille colori e suoni, costellato di botteghe che odorano di Medioevo. Vi ho comprato tutte le mie kefieh. E poi tante antiche città e castelli storici, come Bosra, Palmira, Aleppo, Krak des Chevaliers e Qalʿat Salah al-Din, Patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO.

Il tutto popolato da una gente, in maggioranza giovane e istruita, consapevole della sua storia e identità nazionale e araba, formata da un’istruzione assicurata a tutti e garantita da una sanità di altissimo livello, pure gratuita. Giovani dei due generi che non differivano da quelli che potevi incontrare a Londra o Amsterdam, comprensivi di tutte le componenti confessionali ed etniche di un paese mosaico da millenni.

Ebbi la fortuna di intervistare Nūr al-Dīn al-Atāsī, da poco presidente della Siria, cui succedette nel 1970 Hafez el Assad, entrambi esponenti della rivoluzione nazionale e socialista del Baath, l’organizzazione fondata da Michel Aflak. Un intellettuale cristiano  che aveva studiato alla Sorbona e il cui partito divenne protagonista della liberazione dal dominio francese e della conquista dell’indipendenza nel 1946. Si fece poi  garante anche della libertà del Libano contro le incursioni israeliane e le rivendicazioni dell’antico padrone coloniale francese.

La vendetta contro quella rivoluzione è stata perseguita incessantemente dai colonialismi europei, sionisti e statunitensi, fino all’epilogo consumatosi nell’inverno del 2024. Il racconto che al-Atāsī mi fece della Siria e che cosa volesse che diventasse la sua società, una volta liberatasi dell’onere di dover contenere l’infezione neocoloniale e sionista, assomigliava a quanto da noi ci si riprometteva che fossimo al momento della liberazione dal nazifascismo.

La Siria prima di Al Sharaa, prima della Sharìa, prima del velo.

 

Siria e Israele destini paralleli e contrari

Si potrà individuare un equilibrio tra passo e contrappasso, confrontando il suicidio israeliano con il nazionicidio della Siria. Da un lato l’avventura militare risoltasi in genocidio senza vittoria e con la perdita secca in termini umani (suicidi, diserzioni, rifiuti, migrazione al contrario), economici (i costi della guerra, la perdita di quadri professionali, la scomparsa di investimenti esteri), di credibilità e legittimazione. Ma è nel destino di uno Stato, nato, cresciuto e morituro fuorilegge, compiere la missione che s’è dato: oggi, avendoli definiti terroristi, lo Stato fuorilegge decreta che i suoi prigionieri, combattenti della libertà, attualmente 10mila nelle carceri della tortura verificata, debbano essere condannati a morte. Dopo Marzabotto, le Fosse Ardeatine. E in Cisgiordania il genocidio strisciante va assumendo i caratteri totali di Gaza. Uno Stato deciso a non morire da solo.

E le stelle stanno a guardare.

Dall’altro lato, l’annichilimento di una realtà identitaria, culturale, di comunità sovranazionale, di valore strategico regionale e ben oltre, segnata dal felice sposalizio di antico e moderno, laicità, pluralismo, fiducia nell’uomo. Chi ci rimette, ma in misura rimediabile, sono i giusti. Chi di più, gli ingiusti. Perché i giusti, come hanno sempre prevalso sull’oscurità, prevarranno anche stavolta. I fascismi, sotto qualsiasi forma si propongono, alla fine soccombono. Tempo al tempo. Ma la Storia sta dalla parte dell’umanità.