martedì 30 settembre 2025

Assassini seriali disperati, paura eh?--- LA RESISTENZA VIVE, VIVA LA RESISTENZA

 


Assassini seriali disperati, paura eh?

LA RESISTENZA VIVE, VIVA LA RESISTENZA

https://www.youtube.com/watch?v=c8lmkRDBHKc

https://youtu.be/c8lmkRDBHKc

 

Serata tv, lunedì 29 settembre 2025, il piu’ scadente spettacolo del circolo dell’orrore messo in scena dal colonialismo

2 vanne marchi, travestite da capo di stato e capo di governo, ci hanno impestato di roboante fuffa, mentre dagli schermi colavano i liquami di un prodotto andato a male, guasto, ammuffito, marcio. Chiamato “22 punti per la pace eterna”, quella dei padroni fatti becchini.

Con questo piano dei 20 punti infami i due ciarlatani illusionisti hanno provato a nettarsi del sangue di 680.000 morti, come rilevati da ricerche indipendenti, tra bombe, fame, scomparsi sotto le macerie, malattie, in maggioranza donne e bambini specificamente mirati dall’esercito “più morale del mondo”. Piano al quale hanno poi chiamato a concorrere un altro criminale di guerra e assassino seriale, il britannico Tony Blair, premier dei 3 milioni di assassinati in Iraq da guerra e occupazione, con la scusa che avevano inesistenti armi di distruzione di massa.

C’è chi si eccita davanti a oscenita’, violenze, volgarita’. Il che spiega l’esaltazione della funzione erettile dei nostri telecicisbei, a cominciare dal sionista al profumo di violetta, Enrico Mentana – “svolta epocale, nuova era, pace eterna” – che riecheggiava l’isteria plaudente dei leader politici e relativi servi mediatici di mezzo mondo. A partire dal miserabile quisling di Ramallah, Abu Mazen, inchiodato alla poltrona dal 2006 per non aver più concesso elezioni (allora stravinte da Hamas) e dai monarchi assoluti del Golfo, ancora non spazzati via da qualcosa di ineluttabile, tipo rivoluzione francese, o russa, o insurrezione partigiana.

Che sono invece quegli incidenti storici ai quali l’oscenita’ dei due zimbelli dei ricchi (Blackrock, Big Tech, Big Armi, Big Pharma, Big Bank) muniti di denti a sciabola, provano a reagire.

20 punti da farla finita con quel pericolo mortale per i padroni che, a partire dall’impresa di Hamas del 7 ottobre contro il potere stragista coloniale, è diventata la Palestina, con tutti quelli che nei cinque continenti ha raccolto attorno a se’

20 punti dai quali la democrazia occidentale ha espunto il soggetto del quale si tratta e su quei punti si esercitano: la Palestina e dunque la sua esistenza, e dunque la sua resistenza e dunque Hamas e compagni. Niente gli va fatto chiedere, niente gli va fatto dire, niente gli va concesso, niente elezioni, niente referendum che riguardi la propria sorte. Se ne permetterà a qualche dozzina di rimanere lì. Ma che stiano zitti e portino i cocktail agli ospiti della Riviera.

Se non disarmano e non se ne vanno, in cambio di amnistia (Amnistia per cosa? Per quali reati?)  si va alla prosecuzione dell’olocausto. Questo, il pensiero manifesto dei timonieri del Piano, Netaniahu, Ben Gvir, Smotrich, 900.000 coloni e un 80% della popolazione (confermato dai sondaggi).

A governare ci penseranno lo stesso Trump, l’uomo che NON ha fermato 7 guerre, ma ha rinominato il Ministero della Difesa Ministero della Guerra e in questa veste il proxy di Netaniahu, e il masskiller inglese Tony Blair, con tanto di gendarmi arabi e mercenariato vario a fare da pretoriani contro quanto ancora, tra i sopravvissuti, dovesse pretendere un nome e avere una faccia. In ogni caso chi dovrebbe occuparsi della “sicurezza” a Gaza? Ma come dubitarne? Il collaudatissimo IDF.  A curare, tra macerie - e cadaveri - da rimuovere e grattacieli e bungalow da costruire, affittare, vendere, spiagge da arredare, giardini da piantare là dove crescevano arance e grano, questa splendida accumulazione privata capitalimperialista, ci penseranno gli addetti allo sfruttamento privato della rendita, gli immobiliaristi. E chi, per restare, come suole oggi, in famiglia, meglio del genero del superboss mafioso, Jared Kushner, che già si è fatto valere come autore dello splendido rendering del resort Gaza, con tanto di Netaniahu e Trump, a pancia esposta, con Spritz in mano e sdraio che ogni tanto, nella sabbia, si incagliano su ossa.

La piu’ spudorata operazione neocolonialista mai proclamata, da quando il colonialismo europeo, a meta’ del secolo scorso, prima del soccorso USA, era stato cancellato dai movimenti di liberazione dei popoli in armi. Il sogno di una grande remontada che, grazie a Hamas e alla resistenza umana, minaccia di andare in vacca. Disperato tentativo degli ex padroni del mondo di riavvolgere la storia e sfuggire alla propria eclisse.

Cio’ che i due figuri non si rendono conto di aver rappresentato, il 29 sera alla Casa Bianca, e’ una disperata accelerazione a cui sono stati costretti dal movimento di contrapposizione e rivendicazione mondiale. Un’ affannosa corsa a come bloccare, e soprattutto svuotare di sacrosante ragioni, quelle centinaia di milioni che ormai da anni riempiono le piazze e assediano i palazzi del potere, costringendoli a pagare almeno un piccolo pegno, ovviamente falso, a riconoscimento degli impossibili due stati. Milioni con avanguardia i giovani, che ci si augurava di aver spento per sempre tramite pandemia, clima e paure varie.

Corsa a fermare il vento che riempie le vele della piu’ imbarazzante flotta di pericolosissimi inermi mai vista in un qualsiasi mare. Vento che, più che fenomeno atmosferico, e’ il soffio dello spirito umano rimasto integro.

Corsa a come impedire che la difesa del diritto alla resistenza, proclamato da milioni di voci nel mondo, riempia di armi le schiere dei combattenti della resistenza palestinese e dimostri tutta la fragilita’ dell’esercito più potente – e immorale - della regione.

Corsa a come evitare che si compia il suicidio dello stato genocida e fuorilegge dell’apartheid, suicidio assistito dai suoi capi e compari in preda a fanatismo psicotico. Suicidio a forza di discredito, disprezzo, avversione globali, frantumazione sociale interna, rottura di vitali rapporti imprenditoriali, bancari, accademici, militari, scomparsa degli investimenti esteri, diserzione dei riservisti, suicidi e psicopatologie in serie dei militari, vite che i valorosi yemeniti costringono nei bunker, fuga dei coloni verso i paesi d’origine.

A questo doveva servire lo spettacolo, tra l’osceno e il balordo, del 29 settembre a Washington. a esorcizzare quanto i pochi in alto da sempre temono e conoscono come l’inizio della fine: la resistenza dei tanti, magari armati solo di fionda. Proprio come David. Vedi gli scherzi della storia….

E gli applausi arrivati da complici, sicari, clientes e sottoposti vari, non coprono le trombe del giudizio. Che stavolta non suonano dall’alto. ma dal basso dei miliardi di esseri, rimasti umani.

Resta un impegno di tutti noi: quello dell’onore e della riconoscenza da tributare alla Flotilla che, mentre scrivo, è alla vista dell’illegale, sfrontata prepotenza di Israele come espressa nell’illegittimo blocco navale (legale e legittimo perché “autorizzato dall’ONU” solo secondo quell’ eccellenza della nostra scienza giuridica che è il tappetino del sionismo, Maurizio Molinari, da molti ritenuto giornalista). L’ONU non autorizza blocchi navali finalizzati a far morire una popolazione. Autorizza invece (anche se non mette in pratica) e, con essa, lo fa il diritto internazionale, la violazione di un blocco illegale da parte di spedizioni non violente, finalizzate a soccorrere genti minacciate.

La Flotilla, dalla quale sono ora scesi, in seguito all’assist fornito ai genocidi israeliani dai nostri governanti con le pressioni ricattatorie indirizzate ai giusti anziché agli ingiusti, i parlamentari del PD, senza che ciò ci sorprendesse. Gli altri rischiano, ma continuano ciò che i palestinesi e i resistenti del mondo si aspettano da loro.

Non abbiamo Hamas. Ma abbiamo la Flotilla. E presto un grande 4 ottobre.



Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali --- EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

 

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico

Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali

EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__tra_est_e_ovest_fratellanze_e_generali_egitto_turchia_qatar_chi_sono_che_fanno/58662_62820/

In una stagione estiva più tumultuosa del solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo. I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo. Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo, l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.

Tutto appare chiaro come l’inchiostro. Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.

Con l’assassinio (mancato) dei leader di Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli (ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?

Tra Doha e Orem, Utah

C’entra, se si considera cosa rappresentano l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra persone e Stati. Quel mondo di regole faticosamente imposta ai potenti e grazie alla quale siamo sopravvissuti, bene o male, all’assalto storico dei pochi ai tanti. Israele ha ribadito con il massimo clamore come ciò che conta non sia il diritto, ma solo la forza. Una condizione alla quale, bastonando ma fingendosi vittima, ha reso tolleranti i governanti del mondo (e una buona, ma decrescente, parte dei loro sudditi), alla faccia di cent’anni di terrorismo, illegalità, superchierie. Trump, dopo averne beneficiato per coltivare il consenso di massa al culto della prestabilita superiorità, immune e impunibile, dalla morte di Kirk e dalle cerimonie funerarie, ha tratto il via libera al trumpismo totale: terroristi tutti coloro che non si trumpizzano, a partire dalla nebulosa degli “Antifa”.

Resta da puntare lo sguardo verso una zona più tenebrosa e nella quale, al momento, solo il cui prodest, a chi è convenuto, può gettare sprazzi di luce, E di congetture. Israele dalle bombe su Doha ha tratto l’ulteriore conferma che Trump gli si fa scendiletto ovunque sia in gioco l’interesse della comunità sionista. Che ciò dipenda o meno dai trascorsi – con pubblicazione sospesa – del presidente con il compagno di giochi, Jeffrey Epstein, rimane un solido sospetto.

A essere maliziosi resta da rilevare che negli ultimi tempi, Kirk era passato da appassionato sionista a rispettoso frequentatore di oppositori di Israele, arrivando a condividerne addirittura alcune critiche in merito a Gaza. Ponendo questo dato sullo sfondo delle reiterate dichiarazioni di Netaniahu di non aver avuto nulla a che fare con l’assassinio dell’influencer, spunta spontaneo il detto dei padri latini “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Il discolparsi non richiesto, comporta un’accusa. Del resto lo sceriffo Bibì non è forse the fastest gun in town, la più veloce pistola in città?

Tra Doha e Orem, Utah, si è sancito il nuovo ordine mondiale. Conta la forza, punto.  Quanto a cosa tocca a noi, avrete notato come la famula trumpista della Garbatella si sia subito immedesimata nel corso fuorilegge (aiutata dalla tradizione della conventicola), facendosi insieme vittima e menade invasata, per riproporre alla convention del suo battaglione giovanile lo stesso meccanismo di vittoria dell’archetipo con cresta gialla. Siamo vittime dell’odio, il che ci esime dall’osservanza della legge. Vamos a pelear.

Qatar

Basta arzigogoli. Ci siamo proposti di occuparci di tre oggetti misteriosi in Medioriente. Siamo partiti bene, poi abbiamo dirazzato. Torniamo al dunque, il Qatar, quello della dinastia degli Al Thani, monarchia assoluta protetta dal fornitore-cliente USA e compagno di merende, con Bahrain e gli Emirati, di Israele e UE (ricordare i mondiali di calcio, la falcidie degli operai nella costruzione degli stadi, la benevolenza di Bruxelles garantita dal Qatargate. Lezione mai imparata, se è vero che proprio in questi giorni il nostro ministro degli Interni Piantedosi ha concluso con questo Qatar un incredibile accordo perché lo sceiccato, proprio esso, ci fornisca servizi di intelligence e sicurezza per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina!)). 3 milioni di abitanti, dei quali un paio di migliaia di Al Thani (il numero esatto è segreto), alcune migliaia di famigli, 15% di arabi, ex-beduini del deserto, il resto forza lavoro immigrata, perlopiù asiatica.

Condizioni di semischiavismo ideali per lo stabilimento, nella penisola del Golfo arabo-persico, di una delle più grandi basi militari USA del mondo, oltrechè del Medioriente, Al Udeid. Quella colpita dall’Iran in risposta alla pirateria bombarola israelo-statunitense e quella in cui alcune centinaia di marines hanno recentemente sentito rimbombare le esplosioni che avrebbero dovuto uccidere la resistenza palestinese.

Da quelle esplosioni avreste pensato che si sarebbe innescato il lungamente atteso “risveglio arabo”. In effetti c’è stata lì, all’indomani, la Lega Araba: una fiction, vuota retorica. Gli Stati arabi, totalmente dipendenti da entità esterne per i patrimoni delle classi dirigenti e per la loro sicurezza interna ed esterna, sempre a rischio di destabilizzazione, hanno lo spazio di manovra di un coniglio nella tana, con dietro e davanti il muso del mio bassotto Ernesto.

Dunque il Qatar. Sul piano regionale, grande rivale dell’Arabia Saudita per il primato nel Golfo, al punto da rischiare, un paio di volte, lo scontro armato. La sua esistenza si basa sull’investimento in un sistema di sicurezza fondato sull’affidabilità USA e sulla moderazione israeliana. Due pilastri del regno che con l’attacco del 9 settembre sono collassati. Essersi fatti compromettere la sovranità da Washington, avere aperto un ufficio diplomatico-commerciale per una ricca attività di scambi a ogni livello con Tel Aviv, non è servito a trattenere l’incontrollabile e strutturale aggressività israeliana. Alla faccia dei miliardi spesi dagli Al Thani per sostenere l’esoso apparato di strutture e personale militari USA.

Intanto, a fini di equilibrio e disconoscimento dei dati di fatto, Al Jazeera copriva questa condizione di integrazione-asservimento assurgendo a più prestigiosa emittente televisiva araba, con tanto di impegno per i palestinesi e di denuncia degli orrori israeliani a Gaza e in Cisgiordania. Impegno pagato, come sappiamo, con lo sterminio, spesso assieme alle loro famiglie, dei propri corrispondenti a Gaza. Senza che l’emiro avesse neppure da bofonchiare,

Ora tutta la situazione degli Al Thani, solida finchè la protezione militare USA garantisce la tenuta del coperchio sopra il pentolone ribollente della frustrazione sociale, è compromessa dalla volatilità dell’impegno americano al tempo di Trump. Il quale Trump, sebbene abbia rivendicato di aver avvertito in tempo i qatarioti dell’incursione israeliana, da Doha è stato smentito: lo avrebbe fatto solo per finta, ad attacco in pieno corso. Perché spendere milioni per la sicurezza, quando il sistema installato non protegge dagli attacchi di un alleato del protettore al quale è data carta bianca per fare carne di porco di chiunque? Come s’è visto nel giro di mesi con Iraq, Siria, Libano, Palestina, Tunisia (flottiglia), Iran, Yemen e, indi, Qatar.

L’idea di potersi mantenere in equilibrio tra retorica nazionalista araba, legami pragmatici con Israele, benevolenza ampiamente foraggiata dell’UE e affidamento alla protezione militare araba, è svaporata nel rituale riunirsi di potentati arabi e musulmani e nei conseguenti vuoti proclami. Dai quali ai popoli della regione, palestinesi in testa, non arrivano che spunti per sarcasmi e indignazione. Che, presto o tardi, dovranno pure produrre risultati. La colonna qatariota dell’architettura sionista programmata per il Medioriente ha piedistalli fragili.

Turchia

Travolta dal rifiuto di massa in Egitto, con la caduta, 2013, del presidente Morsi nel giro di un anno di soperchierie sociali e integraliste, abbattuta in Tunisia dall’analoga insofferenza popolare per il leader di Ennahda, Rāshid Ghannūshī, fallito un affine regime change in Algeria, la Fratellanza Musulmana ha subito una serie di debacles che ne hanno isolato gli ultimi due esponenti al governo di un paese: Gli Al Thani in Qatar e Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E’ il ripiegamento della forza politico-confessionale, creata a Londra negli anni 20 dello scorso secolo, col concorso di interessi feudali arabi e coloniali britannici, per contrastare il nascente movimento panarabo nazionalista, anticolonialista, laico.

Mentre scrivo riecheggia ancora nel Medioriente l’anatema lanciato dall’autocratico sultano turco contro Benjamin Netanyahu: “E’ come Hitler e gli toccherà lo stesso destino”. Questa equiparazione con Hitler inizia a essere un po’ stantìa, visto che da Putin a Milosevic, da Arafat a Chavez, da Gheddafi a Saddam, ne ha risparmiato pochi di individui che in Occidente si ritenevano da rimuovere. Solo che, in bocca a uno come Erdogan, l’invettiva risulta poco convincente. Anche perchè lanciata a Doha, in quel contesto di pronunciamenti ad aria calda che sopra abbiamo ricordato.

Per alcuni miei colleghi, con una lunga frequentazione della Turchia di Erdogan, quel paese avrebbe assunto il ruolo di guida e luce dei popoli della regione asiatico-mediorientale in occasione del vertice di Astana del 2022. Una quindicina di paesi asiatici, in buona parte turcofoni e islamici, si sono riuniti per costituire una forza geopolitica capace di contribuire a determinare eventi e sorti della regione.

Ma l’iniziativa è stata presto oscurata dai ben più robusti, geopoliticamente e geoeconomicamente meglio definiti, consessi dello SCO (Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione di Shanghai) e dei BRICS. Ad Ankara però è rimasto il ruolo, da molti accreditato, da pochi messo in discussione, di indipendente elemento di mediazione ed equilibrio all’interno delle turbolenze che agitano il Medioriente e l’Eurasia. Elemento risaltato a Istambul nei ripetuti incontri tra esponenti russi ed ucraini e mediatori vari.

Tutto questo è il frutto di un abile giocatore di poker, spesso baro, sempre doppiogiochista, granitico in casa nella repressione di contestatori, molto ondivago negli indirizzi geopolitici. Erdogan sa manovrare nelle acque tempestose della sua regione, come del mondo intero, dove ci tiene a figurare da attore di primo piano, alla pari dei più grandi e spesso riesce a convincere di una sua credibilità che, poco dopo, risulta fondata su basi opposte. Ha qualcosa del Trump, in questo. Massima potenza Nato, quindi integrata nel sistema politico-militare occidentale, è anche una delle maggiori potenze islamiche, con forte influenza sugli Stati turcofoni dell’Asia Centrale. Fino a provocare agitazioni eversive nella minoranza islamica dello Xinjang cinese.

Si proietta nell’arena del conflitto ucraino facendo l’Arlecchino servitore (nel caso, amico) di due padroni, senza che, peraltro, nessuno glielo rimproveri. Si vede che c’è, comunque, da profittarne per tutti. Superato indenne l’abbattimento, nel novembre 2015, del Sukhoi Su-24, è stato premiato con la consegna del sofisticato sistema di difesa aerea russo S-400 (negato all’Iran). Non aderisce alle sanzioni contro Mosca, ma sostiene politicamente e militarmente (droni e armamenti) Kiev e chiude alle navi militari russe il Bosforo e i Dardanelli. Assume un’immagine umanitaria facilitando l’accordo per l’esportazione verso l’Africa del grano ucraino attraverso il Mar nero.  

Torniamo all’invettiva di Erdogan contro Netaniahu e Israele, non la prima in questi anni di sterminio dei palestinesi. Invettiva inevitabile, data il ruolo che Hamas, non ufficialmente membro, ma sostenuto, ricopre nella costellazione della Fratellanza Musulmana, con una sua componente di vertice che guarda al Qatar e l’altra, a Gaza, che preferisce rapportarsi all’Egitto e anche all’Iran (vedi l’ex- capo di Hamas a Haza, Hanijeh, ucciso da Israele a Tehran,. Ma l’uscita del presidente turco  sembra lasciare il tempo che trova, se si considera la sempre annunciata, ma mai attuata, rottura dei rapporti commerciali con lo Stato ebraico. Dichiarata più volte, questa rottura pare contraddetta dal mai sospeso export di cemento, monopolio turco, cruciale per la colonizzazione israeliana. Parimenti non è mai stato smentita la notizia che petrolio e gas, sottratti da USA e curdi alla Siria, venivano veicolati da mezzi turchi fino ai porti di Israele.

Aggiungiamo il supporto militare, includente armamenti israeliani, che Ankara ha fornito all’Azerbaijan, quando questo socio intimo degli USA ha strappato all’Armenia filorussa il Nagorno Karabakh e oggi trasferisce le stesse armi all’Ucraina. Per i 14 anni di aggressione alla Siria, Ankara ha assunto un ruolo determinante occupando militarmente la provincia siriana di Idlib e foraggiandovi il mercenariato terrorista di Al Qaida. Non è inseribile in nessun gioco di equilibrio la posizione di Erdogan quale complice-concorrente di USA e Israele nello squartamento della Siria. Qui la doppiezza di Erdogan si è rivelata definitivamente un tanto mistificato, quanto sostanziale, allineamento agli interessi occidentali.

Egitto

L’Egitto non gode di buona stampa in Occidente. Le ragioni immediate sono la sconfitta, nel 2013, grazie a una rivolta popolare concretizzatasi nella presa di potere da parte dei militari del generale Abdel Fattah Al Sisi, del Fratello Musulmano, Mohamed Morsi. Un presidente cacciato dopo appena un anno di governo, a seguito dell’imposizione del divieto di sciopero, della sharìa e di altre formule integraliste coercitive, aliene alla tradizione laica della popolazione, e dell’invito ai suoi attivisti di dar fuoco alle chiese copte, templi dei cristiani che degli oltre 100 milioni di egiziani rappresentano il 12 per cento e si annoverano tra le categorie più colte.

A coltivare queste antipatie non può non aver contribuito la disinvoltura mostrata da Al Sisi nei rapporti internazionali, con aperture alla Russia (ripetuti gli scambi di visite dei rispettivi leader) e alla Cina, con parallelo interesse per i BRICS. Ha anche inflluito il sostegno egiziano al parlamento libico di Bengasi, fautore della riunificazione nel segno del ricupero della identità e sovranità nazionale, contro quello di Tripoli, trafficante di migranti, installato dai distruttori del paese.

Quanto all’Italia, resta decisivo l’episodio indimostrato, ma solidificato nei media e nell’opinione pubblica, della presunta uccisione di Giulio Regeni, ovviamente nientemeno che ordinata da Al Sisi. Il dato che il giovane, maturato nelle elitarie Scuole del Mondo Unito, con le quali il fondatore tedesco, Kurt Hahn, si era ripromesso, come assicurato al direttore della CIA Alan Dulles, di allevare giovani attivisti della politica occidentale antisovietica, fosse venuto in Egitto avendo alle spalle, a Londra, i suoi servizi all’impresa di spionaggio industriale Oxford Analytica di John Negroponte (quello degli squadroni della morte) e avendo per tutor esponenti della Fratellanza Musulmana, resta ignorato.

Mediatore sul conflitto israelo-palestinese insieme a Qatar e Arabia Saudita, l’Egitto, muovendosi con grande cautela, non partecipa alle ipotesi di soluzione che via via scaturiscono dalla sostanziale concordia tra emirati del Golfo, Stati Uniti e Israele, comportando la sostanziale sparizione della Palestina e l’eliminazione di Hamas. Ultimamente le storiche tensioni tra il Cairo e Tel Aviv sono culminate nello schieramento di un formidabile contingente di truppe egiziane nel Sinai, immediatamente a ridosso della Gaza occupata dall’IDF. Comprende 2000 carri armati, unità missilistiche, aerei e, al largo, unità della flotta militare.

Dalla presidenza a tutte le formazioni politiche egiziane, alcune delle quali ho potuto intervistare al Cairo, si afferma che il tentativo di deportare la popolazione di Gaza nel Sinai e, comunque, di costringerla a entrare via terra o via mare in Egitto, costituisce una linea rossa oltre la quale balena la guerra.

Alla storica solidarietà con la causa palestinese, qui si aggiunge un’emergenza materiale: l’Egitto ospita e sostenta due milioni di profughi da vari paesi africani, Sudan in testa. La crisi economica e sociale determinata da questo onere è poi accentuata dalla riduzione del vitale flusso del Nilo, fortemente ridotto dopo l’inaugurazione, settimane fa, della Grande Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia proprio sul confine sudanese e che mette in mano ad Addis Abeba il rubinetto che fa vivere o perire l’agricoltura e tutta l’economia dell’Egitto. La gravità della crisi non ha impedito che il popolo egiziano, con la sua Mezzaluna rossa, fosse da 700 giorni il massimo fornitore di aiuti a Gaza, con 39 carovane “Zad al-Izza”, ognuna delle quali recante oltre 2.500 tonnellate di aiuti alimentari e sanitari. Il 90% di quanto arriva ai valichi di Gaza. Ho avuto l’opportunità di visitare al Cairo gli ospedali che di Gaza ospitano bambini, feriti, malati e in cui operano, includendo gli ospedali da campo, 35.000 volontari e 2000 medici

Crisi che il governo contava di risolvere grazie alla disponibilità, al largo delle coste egiziane, di Zohr, il più grande giacimento di idrocarburi del Mediterraneo, scoperto dall’ENI e di conseguenza da quella compagnia gestito. Oggi si denuncia un presunto asservimento del Cairo a Israele, vista la conclusione di un accordo per la fornitura all’Egitto di gas ricavato dal giacimento israeliano (per la verità palestinese).  In seguito allo schieramento delle forze armate del Cairo nel Sinai, Tel Aviv ha sospeso questo accordo, lasciando l’Egitto a secco.

Si direbbe, quello dell’acquisto di gas dal nemico, un cedimento. Ma si dovrebbe sorvolare sul boicottaggio operato dalle compagnie europee, ENI e BP, che gestiscono le riserve egiziane. Da Zohr dovevano essere estratti 4,4 miliardi di piedi cubi di gas. ENI ne fornisce  all’Egitto appena 1,6 miliardi. La BP è scesa da un impegno per 2 miliardi a meno di 500 milioni. Fornitori alternativi del Golfo, “fratelli arabi”, chiedono 14 dollari per piede cubo. Il prezzo di Israele è di 7,25 dollari. Il tentativo di Al Sisi di rivolgersi a fornitori russi e iraniani ha provocato la minaccia di Trump “di affondare l’economia egiziana”.

Un comportamento che ripete quello del Capo di AFRICOM, Comando Africa delle forze armate USA. Saputo che l’Egitto aveva concluso con i cinesi un contratto per l’acquisto di caccia J-20 e J-35, ha minacciato la totale sospensione delle forniture di armi USA e, soprattutto, delle vitali parti di ricambio, senza le quali non potrebbe esistere una valida forza militare egiziana.

Gli elementi da aggiungere sarebbero tanti. Resta da precisare cosa succede a Rafah, il valico tra Egitto e Gaza, al quale tanti attivisti e giornalisti hanno atteso il nulla osta per entrare nella Striscia. A me era riuscito nel 2008-2009, in occasione dell’operazione “Piombo Fuso”, una specie di prova generale per il genocidio oggi in atto.  Nel corso dell’attuale offensiva, Israele ha occupato anche il valico. Ma l’accusa di non fare entrare aiuti, o di non lasciare entrare e uscire alcuno o alcunchè, viene rivolta all’Egitto.

Al Cairo si trovano gli uffici di 9 organizzazioni della resistenza palestinese. Pur essendo stato in questa città protagonista dei negoziati per una tregua, Hamas non c’è. Il governo ha dovuto trovare una sistemazione diversa, ovviamente segreta, per l’organizzazione di Sinwar. E prima ancora dei tentati assassinii di Doha. Dalla scoperta e cattura di una rete di spie druse e siriane, facente capo al Mossad, i servizi egiziani hanno saputo che il Qatar aveva indicato a Israele dove alloggiavano i rappresentanti di Hamas.

mercoledì 24 settembre 2025

Palestina. Grimaldi: “La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori” --- Grimaldi su Gaza, proteste e crisi dell’informazione occidentale Settembre 23, 2025


Palestina. Grimaldi: “La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori”

Grimaldi su Gaza, proteste e crisi dell’informazione occidentale

Settembre 23, 2025 

Francesco Mastrobattista


https://www.corrieredellecitta.com/2025/09/23/palestina-grimaldi-la-criminalizzazione-della-resistenza-e-larma-degli-oppressori/

 


Fulvio Grimaldi, classe 1934, giornalista di lungo corso, inviato di guerra per la RAI e la BBC e autore indipendente. Negli anni ha scritto per storiche testate militanti di sinistra e collaborato con importanti giornali come La Repubblica, L’Espresso e Il Manifesto. Grimaldi è da sempre famoso per le sue posizioni filo-palestinesi riguardo al conflitto arabo-israeliano. È noto soprattutto per aver seguito da vicino il conflitto israelo-palestinese e aver prodotto numerosi reportage e documentari, frutto di esperienze sul campo a Gaza, in Cisgiordania e Libano. Non un giornalista “neutrale” nel senso classico, ma una figura da sempre vicina a cause anti-imperialiste e anti-NATO. Francesco Mastrobattista ha deciso di intervistarlo in esclusiva per il Corriere delle città con qualche domanda piccante in merito agli ultimi avvenimenti sullo scenario italiano e mondiale.

 

F.M: Ciao Fulvio. Innanzitutto grazie per la disponibilità. Dalla Capitale è partito un grido di battaglia che si è esteso in tutta la nazione. Milano e Torino, in particolare, sono state teatro di guerra tra manifestanti pro-Palestina e forze dell’ordine. Come mai improvvisamente una buona parte dell’opinione pubblica prende questa posizione netta? Perché anche una parte del mainstream cambia narrazione rispetto a mesi fa?

Non mi sembra che le imponenti manifestazioni in un’ottantina di città italiane, indette, assieme allo sciopero generale, da sindacati nemmeno di sistema, costituiscano un fenomeno improvviso. La consapevolezza dell’abominio del genocidio israeliano, parallelo a quello dell’isteria riarmista e guerrafondaia europea, ha suscitato prima apprensione e poi reazione. Si è superata la condizione indotta dai poteri con altre intimidazioni, tipo pandemie, guerre, terrorismi. Si è formata una solida consapevolezza del tasso di criminalità che caratterizza le classi dirigenti europee, a partire dalla nostra che, per simbiosi fascista, è in Europa, insieme a Germania e Austria, altrimenti motivate, la più vicina allo Stato sionista. Quanto al graduale, ma sempre esitante e contradditorio, massimamente ipocrita, allineamento dei media di sistema al sentire e agire collettivo maturato in questi anni, mi sembra il segno positivo che la forza delle cose, la volontà maggioritaria ormai consolidata, convinca anche il rettile più velenoso a cambiare pelle per non soccombere. Resta comunque rettile.

 

 F.M: Abbiamo assodato che la narrazione mediatica è cambiata. Come reputi che i media italiani stiano raccontando queste proteste? Rimangono distorsioni o omissioni?

Le distorsioni e omissioni sono connaturate a mezzi d’informazione che si propongono di essere strumenti di comunicazione e convinzione con obiettivi esterni alla rappresentazione della realtà. Basta considerare il peso dato agli scontri con alcune decine di manifestanti, rispetto a quello riservato a centinaia di migliaia fluiti pacificamente nei cortei di tutta Italia. Fondamentale resta l’omissione del ruolo, nel conflitto in Palestina, della resistenza palestinese nelle sue varie espressioni. Inammissibile, per i media embedded, rivelare la debolezza, la fortissima crisi, vissute da Israele a seguito dei colpi ricevuti da Hamas e dell’isolamento internazionale, foriero di agonia. E’ grazie al mito della sua invincibilità, già ampiamente compromessa dalle sconfitte subite in Libano e, appunto, il 7 ottobre, che Israele induce diffamazione, ma soprattutto scarsa credibilità di ogni forza di contrasto, con conseguente rassegnazione ai propri soprusi. E qui ha una funzione cruciale il mantenimento della saga del 7 ottobre, con rovesciamento totale della responsabilità per le vittime e di chi le ha causate. Sia in Israele che all’estero, da investigatori indipendenti sono state compiute ricerche ed inchieste che hanno totalmente smentito la versione del massacro compiuto da Hamas, con relative grottesche decapitazioni di neonati – che non c’erano – e stupri che nessuna vittima, viva o morta, ha corroborato e nessun testimone reale ha confermato.  La criminalizzazione di ogni forma di resistenza resta lo strumento strategico per ogni oppressore, che sia di minoranza o maggioranza.

 

 F.M: Come mai improvvisamente il Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo hanno dichiarato di riconoscere la Palestina?

Il riconoscimento di un immaginario Stato di Palestina da parte di una maggioranza di governi fino allora complici o ignavi,, finzione che raggira il dato reale di una presenza nazionale palestinese su quella terra da millenni, comporta comunque un affronto al regime che manifesta la determinazione di far sparire anche l’ultimo palestinese e che nel corso dei decenni non ha cessato di incorporare territori palestinesi. E che oggi non ha più neanche lo scrupolo formale di proclamare l’esclusione definitiva di ogni ipotesi di quello Stato. Per quanto connotata di ipocrisia e velletarietà, ogni volta che risuona la parola Palestina,   si infila un chiodo nella bara dello Stato occupante.

 

F.M: L’Italia si è bloccata per queste proteste. A Milano c’è stato un assalto alla stazione, a Napoli sono stati creati numerosi disagi alla stazione centrale, a Roma e Torino altri scontri ancora e così via. Alcuni stanno criticando la modalità con cui tali proteste vengono portate avanti. Cosa pensi in merito?

Per gli scontri alla stazione di Milano, è facile invocare una diffusione di violenza che, rendendo lo Stato, come impersonato da questo regime, vittima , lo autorizza a “difendersi”. E’ il discorso sul quale galleggia la residua credibilità di Israele nel portare avanti la sua strategia contro un  popolo espropriato e ora genocidato. Ho già detto che è un aspetto del tutto secondario rispetto alla portata delle manifestazioni in tutto il paese. Ma viene utilizzato per rilanciare il famoso discorso dell’odio che serve da trampolino per le misure repressive, antidemocratiche di cui abbiamo dimostrazione quotidiana dal giorno in cui i La Russa, le Meloni, i Vannacci e gli altri cascami della rivincita autoritaria sono riusciti a prendere il potere da una classe dirigente, meno belluina, ma altrettanti antipopolare. In ogni caso, si consideri il dato storico che ogniqualvolta il potere vede messo in discussione il proprio monopolio della forza, fosse anche in forma verbale o passiva, gli schiamazzi sul carattere delinquenziale e inammissibile del fenomeno di contestazione servono all’introduzione di misure liberticide. Si pensi al Decreto Sicurezza e al carcere riservato di chi oppone il proprio corpo inerme alle ruspe del Ponte sullo Stretto.

 

 F.M: C’è chi ha sollevato preoccupazioni per episodi di antisemitismo nelle manifestazioni pro-Palestina. Chi addirittura ha riportato di foto della Premier Meloni bruciate e di atti di vandalismo nelle strade. Secondo te sono casi isolati o un rischio reale da monitorare?

Da che mondo e mondo, da quando si manifesta un’opposizione a brutalità, sfruttamento, prepotenza, vengono bruciate immagini e bandiere. Sono azioni simboliche. Dovrebbero rallegrarsi gli sfruttatori, prepotenti e brutali, che le fiamme non si avvicinano alle loro realtà fisiche. Coloro le cui effigi o i cui vessilli vengono aggrediti in piazza, hanno perlopiù alle spalle complicità o sicariato per chi aggredisce e brucia persone in carne e ossa. Vedi il fosforo fatto piovere sui palestinesi di Gaza. Ne sono stato testimone a Gaza, al tempo di Piombo Fuso. Quanto all’accusa di antisemitismo, scudo sempre più logoro alle malefatte di Israele, ci si ricordi che chi ha occupato la Palestina non è semita, ma perlopiù indoeuropeo, polacco, russo, tedesco, britannico, italiano…. Semiti, discendenti di Sem, figlio di Noè, sarebbero coloro che da millenni abitano quelle terre: 450 milioni di arabi.

 

 F.M: Quanto è responsabile l’Italia per le forniture e per le relazioni diplomatiche in ciò che sta accadendo?

Le responsabilità del governo Meloni nel sostegno militare, politico e propagandistico a Israele è provata. Le forniture di armi a Israele riguardano ogni categorie di strumenti offensivi e rappresentano profitti della nostra industria militare per centinaia di milioni l’anno. La protervia del trio Meloni, Tajani, Salvini nel coprire politicamente i crimini di Israele si colloca nella continuità della tradizione italiana nell’affiancare operazioni altrui improntate al razzismo e alle guerre di conquista.

 

 F.M: Allargando il fronte: si è scoperto che la Fondazione dello speculatore George Soros ha finanziato gruppi no profit che organizzano manifestazioni pro-Pal nei college americani (verificato) Anche Greta Thunberg, dopo il declino della battaglia climatica, ha abbracciato la causa palestinese tra la flotilla e altre disavventure. Come mai anche una certa narrazione di stampo globalista si unisce al coro?

Non mi risulta che, al di là di dicerie senza verifiche, George Soros abbia finanziato alcunchè  in relazione con la Global Sumud Flotilla. La presenza di personaggi dalla storia discutibile, non inficia un’operazione che gode del consenso e della riconoscenza del popolo palestinese, in patria e della diaspora. Fattore, questo, decisivo. Si deve anche concedere che chi da bambina è stata manipolata, da persona adulta possa aver maturato un’altra coscienza. In ogni caso per ogni impresa che scuota lo stato di cose presente, non mancano mai coloro che l’avrebbero fatta diversamente, o per niente, o prima. Cacasenno, gufi e frustrati, si consolino così della propria impotenza. Il dato concreto, attuale e storico, è che, mai come in questi giorni, la Palestina è tornata al centro del mondo, e mai Israele si è trovata in tale stato di rigetto e isolamento.  Oggi lo Stato sionista si ritrova in una vera e propria crisi esistenziale,  Stato pariah a livello mondiale, prossimo all’implosione per lacerazione politico-sociale interna, con scale gerarchiche sociali e confessionali che dividono e minano ogni coesione (arabi, europei, drusi, beduini, ashkenaziti, sefarditi, neri africani, immigrati asiatici schiavizzati), insicurezza che costringe a vivere nei bunker parte della propria vita, flusso emigratorio che supera l’immigrazione, ritiro di investimenti industriali, finanziari, tecnologici, esercito minato da suicidi in serie, diserzioni di massa, stress post-traumatico collettivo e, peggio di ogni cosa, discredito universale.

Le opinioni espresse nell’intervista sono esclusivamente dell’intervistato e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Corriere delle Città. In ogni caso ringraziamo Fulvio Grimaldi per la disponibilità e il punto di vista alternativo che con il suo enorme bagaglio ha contribuito a portare su questo giornale. La nostra redazione è aperta al dialogo con chiunque.

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martedì 23 settembre 2025

Mai così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele --- --- UNA, CENTO, MILLE FLOTTIGLIE

 

Ringrazio l’Antidiplomatico per la correttezza professionale basata sull’apertura a mie posizioni di vergenti da altre che, pure, rivestono un ruolo importante nella testata. Complimenti. In amicizia.

 

Fulvio Grimaldi per L’ANTIDIPLOMATICO

Mai così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele

UNA, CENTO, MILLE FLOTTIGLIE 

Come l'AntiDiplomatico annunciamo con grande piacere la ripresa dell'editoriale a settimana di un grande giornalista come Fulvio Grimaldi nel suo spazio "Attenti al Lupo". Pur restando profondamente convinti della nostra trasmissione presente tutti i giovedì sul nostro canale Youtube e aperti ad un dibattito onesto e costruttivo sulla tematica, accogliamo con grande rispetto le critiche avanzate nel testo su "Radio Gaza"

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__mai_cos_al_centro_del_mondo_la_palestina_mai_cos_in_crisi_israele_una_cento_mille_flottiglie/58662_62721

Se la fenomenale mobilitazione in ben 80 città, promossa dai meritevolissimi sindacati di base, è stata definita “Scorta morale agli attivisti della Global Sumud Flotilla”, questo è la mia partecipazione alla scorta.

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Per suscitare una buona disposizione alla lettura di questo mio testo, lo introduco con un furto indecente alla testata “Sinistrai rete”, dove mi ha colpito una visione davvero originale del fenomeno “Flovilla”, nostro tema ordierno. Ve ne riproduco qui un capoverso. Poi scendiamo ai piani prosaici dell’articolo mio.

Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio, di Paolo Lago

Le navi della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi antichi creatrici di storie…. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico dell’Occidente capitalista…  Flotilla è anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario, apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del pensiero.

Incominciamo. Mi corre l’obbligo… come direbbe colui a cui l’italiano pare bello com’era e come sarebbe senza la fregola di anglicizzarlo, al pari di cent’anni fa quando c’era, per figurare in società, quella di francesizzarlo.

Mi corre l’obbligo di parlare un tantino di me. Ma solo in quanto assurto – o disceso – al ruolo di uno cui è capitato di finire in prima fila, insieme alla sua compagna, in una batracomiomachia che ha imperversato per buona parte della stagione.

L’AntiDiplomatico è stato il campo di battaglia privilegiato in cui si è svolta la disputa, sia perché ospita alcuni dei contendenti più impegnati nella pugna, sia perché, per sue doti di saggezza, equilibrio e lungimiranza, all’un fronte come all’altro ha dato piena libertà di suonare le proprie trombe. Eliminando gli orpelli dialettici, si tratta di chi della Flottiglia Global Sumud ha una buona idea, e chi no; di chi della Palestina e Gaza ritiene di dover evidenziare i tratti umanitari imposti dalla condizione di atroce vittima, e chi ritiene urgente fare emergere l’essenzialità della sua natura politica e di resistenza combattente. Ovviamente le divergenze così descritte daranno la stura a nuove rettifiche e contrapposizioni, ma per ora lì stiamo e da lì proseguiamo.

Per chi, rientrando al lavoro giornalistico dopo la consueta sospensione estiva, volesse esordire, a rafforzamento della memoria che non è mai abbastanza, con un quadro riassuntivo delle situazioni e degli eventi succedutisi tra giugno e settembre, magari in termini meno cronachistici e più epistemologici, si troverebbe ad avere un bel da fare. Un tempo, i giorni tra fine giugno e metà settembre riempivano di sole, viaggi, vacanze, spensieratezza, e, soprattutto, gossip e sospensione degli accadimenti importanti, locali ed esteri, quella che gli arguti britannici chiamavano la silly season, la stagione sciocca, vuota di cose serie.

Silly Season, o catastrophic season

La silly season ce la siamo giocata insieme alla pace, alla democrazia, alla cura delle istituzioni per noi stessi e per chi ci è caro, alla lentezza, alla contemperazione dell’interesse dei pochi con quello dei tanti, chiamando tutto questo “progresso”. Da un po’ in quà pare addirittura che la silly season, caratterizzata dal dolce succeder niente, sia diventata stagione del succedere più forsennato e, addirittura drammatico, perfino epocale. Lo fanno, quelli che le cose le fanno, perché pensano di trovarci distratti.? Non so, comunque stare dietro alla baraonda di colpi di scena, drammi, tragedie, perfino a pandemie di violenze infantili e travolgimenti stradali, è diventato impresa titanica.

Pensate soltanto a quanto un cronista avrebbe dovuto affrontare, notiziare, commentare, analizzare, nello scorcio dell’anno in considerazione. Alla rinfusa: spettacolari False Flag  tra droni russi, ricomposti in Ucraina e lanciati in bocca a chi non vede l’ora di far saltare per aria tutto, e ritardi dei voli di Ursula, per noi tutti abituali, che diventano attentato hackerista russo; Israele (tutto, non solo Netaniahu!) che, allargando a 7 le sue guerre al mondo, per uccidere coloro con i quali dovrebbe negoziare, bombarda, toppando, l’alleato principale nel Golfo del suo principale alleato; Il risveglio in Cina del mondo raziocinante nel vertice dello SCO che sorride ai BRICS. Lo squallore infinito dei galli castrati in lotta tra loro nelle regionali. Alcaraz che trionfa sul tirolese colonizzato che dichiara di essere “orgoglioso di essere italiano”. I ricchi che cospirano contro di noi a Cernobbio. Un ponte che non starà mai in piedi, ma che si materializza nelle polluzioni notturne di Salvini e nei vaticini  di bilancio di Webuild, mentre da Palermo a Messina, o da Taranto a Reggio Calabria, ci si mette di più del viaggio di Jules Verne attorno al mondo; 150.000 fascisti inneggianti al fascismo schiamazzanti a Londra, in parallelo con esercito e Marines spediti da Trump nelle maggiori città USA a rastrellare migranti stanziali da decenni e manifestanti pro-Palestina; la fregola belluina e bellica di quasi tutti i capiregime d’Occidente che, con Trump, esaltano la prospettiva dell’apocalisse ribattezzando “di Guerra” il ministero della Difesa; tutto questo in significativa coincidenza con la ribadita dimostrazione di Seymour Hersh che il Nord Stream è stato fatto saltare dai sub del Pentagono per forzare gli europei alla guerra contro il loro garante di benessere energetico (altro che gentile depistaggio meloniano, col malcapitato ucraino, per esonerare chi ci sta costringendo a martellarci il patrimonio riproduttivo comprando gas liquido USA a cinque volte tanto); e, come antidoto a tutto questo, per i momenti del buonumore nostro e dei BRICS, il vertice in Cina dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO. Vi sembra poco?

Tocca al Venezuela?

Basta? Vogliamo metterci il lutto internazionale per Armani e domestico per Emilio Fede?  O magari, andando sul sodo, la vendetta dei revanscisti con l’epocale sgombero del Leoncavallo? Potrei continuare per dieci delle mie puntate sull’Antidiplomatico. Ma ne aggiungo una, che ha fatto vibrare l’intero subcontinente, Caraibi compresi. Bulimico di scazzi che gli garantiscano introiti, ora il bimbominchia ha rilanciato il concetto “Cortile di casa” da applicare all’America Latina. Quella delle più grandi riserve di idrocarburi, ossigeno e acqua, litio e tutto quanto deve garantire l’obesità industriale e militare degli USA.

Una flotta di navi da guerra, con incrociatori lanciamissili, sommergibili, navi da sbarco, appoggio aereo davanti alle coste venezuelane. Tre aggressioni, in acque venezuelane ad altrettante imbarcazioni del paese della rivoluzione bolivariana. 11 vittime, poi altre 3.. Taglia di 50 milioni per chi cattura, o fa catturare, o uccide, il presidente Nicolàs Maduro, definito narcotrafficante e capo di un fantomatico Cartello dei Soli (l’ex-vice segretario dell’ONU e responsabile antidroga, Pino Arlacchi valuta il Venezuela capofila degli Stati eliminatori di coltivazione e traffico di droga), intensificazione delle sanzioni, incursioni terroristiche di bande di para militari e narcos dalla Colombia. Il Venezuela descritto da Trump e Rubio “minaccia esistenziale agli Stati Uniti”. Un tentativo di riprendersi i più ricchi giacimenti di idrocarburi del mondo, che si vedrà fino a che punto potrà essere contrastato dalla mobilitazione in atto delle forze armate bolivariane (FANB) e delle milizie popolari.

Tutto questo, un’intera cartella, scompare, o va in riserva, di fronte a un’urgenza postami dagli stessi amici dell’Antidiplomatico e che mi vede d’accordo, anche perché coinvolto in prima persona: La Global Sumud Flotilla, mentre scrivo ancora in navigazione verso le sponde della Palestina, o Gaza, o comunque Palestina occupata. E la diatriba nata da divergenti valutazioni dell’impresa.

Il mezzo è il messaggio

Diceva Marshall McLuhan “Il mezzo è il messaggio”, intendendo che la struttura e la forma del mezzo di comunicazione hanno un impatto più profondo sulla società e sull'individuo rispetto al contenuto che veicola. Il vero messaggio è costituito da come il mezzo stesso modifica la percezione della realtà e le relazioni umane, influenzando chi siamo e come interagiamo con il mondo.

L’intuizione del grande studioso della comunicazione, se ancora ce ne fosse bisogno, ha trovato abbagliante espressione nella Global Sumud Flotilla: una cinquantina di imbarcazioni che, in partenza da tanti porti del Mediterraneo con a bordo gente da tutto il mondo, carica di generi di soccorso, in parte raccolti dai portuali e sui cui alberi, vele e prue svettano le bandiere della Palestina. Lo ha capito subito Israele quando si è affrettata a promettere che tratterà i naviganti da “terroristi”, dunque destinati a esecuzione, o incarcerazione senza fine. Di conseguenze bombe incendiarie su due imbarcazioni in partenza da Tunisi. Un accredito migliore la Flottiglia non poteva riceverlo..

Nel momento in cui scrivo, la flottiglia è ancora in alto mare, ma dell’impresa e delle sue immagini tracimano i mezzi d’informazione e l’attenzione pubblica dell’intero pianeta. I precedenti tentativi di singole imbarcazioni di portare sulle sponde di Gaza l’oceano di solidarietà, morale, politica e materiale che da due anni alluviona l’umanità si sono infranti contro la brutalità dell’intervento militare israeliano, costato anche nove turchi ammazzati dagli israeliani sulla nave Mavi Marmara, maggio 2010. Dimostrazione di quanto i genocidi temino la visibilità che questa impresa, espressione di un immenso sentire collettivo, dà alla sofferenza e alla resistenza dei palestinesi e, in simultanea, all’abominio dei loro oppressori.

Timore, perfino panico, israeliano che i droni contro le barche in partenza hanno ribadito. La riduzione dell’immagine di “vittima”, dietro al quale lo Stato Sionista ha potuto nascondere quasi cent’anni di nefandezze colonialiste, razziste, di genocidio strisciante e poi totale, si è ridotta alle infime proporzioni che i suoi portatori d’acqua affannosamente difendono. Il consenso planetario, quanto meno delle opinioni pubbliche, ma anche di un numero insospettato di governi, suscitato dalla flottiglia, ha decretato un isolamento di Israele, inimmaginabile fino almeno a quando Hamas, il 7 ottobre, ha rimesso la Palestina davanti agli occhi e alle coscienze dei più distratti.

Meglio compatire che navigare? Due modi per occuparsi di Gaza

Sono state espresse, riserve, critiche, se non addirittura ripulse nei confronti dell’impresa. Si è vociferato di presenze sospette, “impure”, si sono citati sostenitori e partecipanti di dubbia coerenza e integrità, quali Greta, la Cgil, il ministro della Cultura Giuli, quelli del PD, antipatici vari, addirittura Soros. Si è degradato l’impegno e il rischio assunto da centinaia di volontari a esibizionismo, a “puro valore simbolico” (ce ne fossero!), a spreco di soldi, “tanto i soccorsi non arriveranno mai” e tante altre varianti del tipo “chissà cosa c’è dietro”, e sui portuali il rimbrotto micidiale: “ma perché non lo hanno fatto prima?”. Una categoria di cacasenno e grilli parlanti cui la frustrazione o, peggio, l’intento di boicottaggio, ovviamente e a fin di bene, hanno dato grande spolvero.

Basterebbe, a proposito di sprechi e simboli, rilevare come, in assenza di armi e forze per Gaza come per Zelensky, non rimane che rendere visibile questa vicenda. Renderla impossibile da non vedere. Per Israele l’urgenza prima è quella di far sparire la Palestina dalla scena. All’umanità il compito di costringere tutti, perfino i governanti, a prendere atto che la Palestina c’è e ci sarà. Dal fiume al mare. Per farlo, 270 giornalisti, gazawi e non, sono stati uccisi, spesso insieme alle loro famiglie. Lo hanno fatto le centomila manifestazioni proPal in ogni angolo del pianeta.  Lo ha fatto Hamas con l’operazione del 7 ottobre (da vedere scevra delle menzogne israeliane in cui è stata avvolta). Quelli della flottiglia lo stanno facendo prendendo in mano il testimone. Si sono fatti droneggiare, con tanto di contributo italiota: vedi l’andirivieni di aerei israeliani a Sigonella in quei giorni. Come non dirgli: bravi?

La testata che, onorandomi, permette al mio volontariato giornalistico di allargare il suo raggio d’intervento, è quanto di più lucido ed utile si trovi oggi ai banchetti della comunicazione libera. Tanto libera e inclusiva da aver offerto, con Radio Gaza di Michelangelo Severgnini, suoi spazi a un’iniziativa di comunicazione che a me è parsa divergente dalla linea della testata sulla questione palestinese. Quel podcast si è fatto megafono degli scettici, dei contrari e degli astenuti rispetto alla Flotilla, con toni, però, via via attenuati davanti al diluvio di consensi internazionali. Quanto a Gaza, è sostenitore di un approccio esclusivamente assistenziale a una realtà che, invece, rivendica il suo preminente carattere politico-

Radio Gaza di Michelangelo Severgnini. Trasmissioni radio in cui si succedono tre o quattro voci anonime, tutte comprensibilmente disperate, che descrivono una tragedia come si articola sotto le bombe, negli sfollamenti forzati, tra le macerie e nelle tende, tra prezzi insostenibili e ricerca di scampo. Si concludono sistematicamente con una richiesta di soldi che dà al podcast un imbarazzante carattere di mendicità. Sono peraltro storie che ci sono proposte in termini identici da molti media, ma con riconoscibili nomi e cognomi e immagini dei luoghi. L’IDF spara a casaccio a tutti, ma non specificamente a chi lamenta la propria condizione. Incongruo pare, in questo contesto, il titolo del podcast “Voci della resistenza”.

Al tempo stesso, la testata ha dato diritto di replica al sottoscritto e a coloro che si sono presi la briga di sollecitare firme a sostegno di un documento di critica a quella comunicazione.

Cosa non ci torna con Radio Gaza

Sembrerebbe essere tornati ai tempi infausti della pandemia e alle conseguenti lacerazioni. Come valutare la pandemia, come confrontarsi con il vaccino. Anche stavolta non è questione di lana caprina. L’iniziativa che centinaia di persone hanno condiviso impegnando tempo, soldi, rischi alla propria libertà e incolumità, è stata giudicata uno spreco di soldi e di energie per nessun aiuto concreto, dato il sicuro blocco israeliano, con il limite di “distrarre l’attenzione da Gaza, dove stanno i palestinesi, verso la flottiglia, dove stanno gli occidentali”. Parrebbe eurocentrismo a rovescio.

Nei sessant’anni in cui ho partecipato in prima persona alle varie forme di lotta di liberazione palestinese e l’ho raccontata in articoli, documentari e libri, ho constatato che vale sempre la regola per cui conviene attenersi al giudizio di coloro che la sanno più lunga: i protagonisti di una vicenda che per generazioni l’hanno vissuta sulla propria pelle, i palestinesi. Storia e cronaca confermano che, al netto degli inevitabili quisling, strategicamente non hanno sbagliato mai.

Radio Gaza di Michelangelo Severgnini mi fa ascoltare notizie da Gaza attribuite ad anonimi personaggi di cui non è dimostrata né la verità, né la falsità, delle rispettive identità gazawi e della collocazione nella Striscia. Sono voci che della flottiglia denunciano l’inanità e addirittura il carattere controproducente, che insistono sulle condizioni disperate sul piano alimentare e abitativo, accompagnate da insistenti richiese di denaro. Per questi versamenti, per i quali esistono da decenni fonti collaudate e fidate, accreditate dai palestinesi, tipo l’Onlus La Gazzella, si indicano entità e percorsi assolutamente inediti e della cui trasparenza ed efficienza ci si chiede di fidarci. Ovviamente nessuno di noi ha gli strumenti e motivi per negarne, o affermarne la credibilità. Anzi, ci auguriamo che anche questi contributi siano numerosi e raggiungono i loro destinatari. Da questo approccio è escluso qualsiasi riferimento alla resistenza palestinese.

La risposta spontanea e logica a queste richieste sarebbe che canali collaudati e comprovati per gli aiuti ai palestinesi, corretti e funzionanti, esistono da decenni e sono quelli dell’ONU, di riconosciute organizzazioni sanitarie e umanitarie internazionali operanti da anni a Gaza e nei territori occupati. Molti di questi volontari hanno pagato con la vita il proprio impegno, a partire da MSF, UNRWA, Emergency e 43 altre organizzazioni accreditate presso le autorità palestinesi, oltre a quelle che fanno capo ai rappresentanti ufficiali della diaspora palestinese e islamica in Italia.

Credo che il diritto a esprimere una valutazione credibile implichi il rapporto diretto con la Palestina e quindi spetti a nessuno più che alle organizzazioni di palestinesi in Italia, che quel filo diretto lo hanno da decenni. Il 14 settembre scorso, a Roma, si è svolta la conferenza nazionale di tutte le organizzazioni palestinesi in vista della manifestazione nazionale del 4 ottobre e di altre successive, già indette. Hanno partecipato anche le realtà organizzate che in Italia denunciano il genocidio israeliano e sostengono la causa palestinese.

Unanime vi è stata, in quattro ore di interventi, il sostegno alla resistenza palestinese, in tutte le sue forme, compreso quella, molto applaudita, della flottiglia. Con tutta la partecipazione all’immensa sofferenza inflitta al popolo di Gaza, è stata centrale l’insistenza sul carattere in prima linea politico dello scontro tra colonizzatori e colonizzati, a dispetto dell’approccio umanitario e assistenziale di Radio Gaza, come quello dei tanti generosi compassionanti che caratterizzano il nostro ambiente partitico e mediatico.

Penso che abbia indiscutibile fondamento la certezza che quanto i palestinesi organizzati della diaspora esprimono non possa essere divergente dai pensieri e sentimenti della popolazione che soffre e lotta nei territori occupati. Il legame, che è ombelicale, dovrebbe portarci a dubitare di posizioni nettamente divergenti. Ora anche sulla Global Sumud Flotilla.

Facciamo pure passare per sterili simbolismi (eppure senza simboli saremmo solo che disanimati), per inutili gesti esibizionistici quelli dei portuali dei porti mediterranei, di coloro che hanno raccolto tonnellate di aiuti che verranno affondati dagli assalitori israeliani, di tutti quelli che hanno speso un sacco di soldi per le barche, mollato lavoro, famiglia, sicurezza personale (vedi le bombe incendiarie sulla flottiglia in Tunisia, ricorda i 9 martiri della Mavi Marmara) e sanno che subiranno carcere e angherie per un’impresa che le “voci da Gaza”, pervenute a Radio Gaza, definiscono inutile, dannosa, vanagloriosa.

C’è chi vince

Gaza non è popolata da mendicanti. Lo evidenziano le enormi forze e tecnologie che da due anni “il più potente esercito del Medioriente”, con il sostegno cruciale degli USA, deve impiegare per avere ragione di una striscia di 10x41 km; le perdite materiali e umane, perlopiù inconfessate, che gli vengono inflitte da Hamas e dalle altre unità della Resistenza; la fuga dei riservisti, l’epidemia di suicidi e di stress post-traumatico che sta falciando l’IDF; le lacerazioni interne alla società israeliana che passa buona parte della vita nei bunker, la fuga degli investitori, la remigrazione che supera gli arrivi, una crisi economica drammatica attenuata solo dai contributi USA, lo spaventoso discredito a livello di opinioni pubbliche mondiali determinato da una follia aggressiva contro chiunque capiti a tiro. Discredito morale che produce un isolamento planetario (fatta qualche diserzione di complici e sicari) a cui nessuno Stato del mondo potrebbe sopravvivere e che hanno costretto governi ignavi a proclamare riconoscimenti che, però, andrebbero sostituiti da disconoscimenti. Non degli ebrei di buona volontà, per quanto coloni, ma dello Stato terminator fascio-razzista di Sion.

 

 

 

giovedì 18 settembre 2025

Appello per la Global Sumud Flotilla, firme totali raccolte al 17 settembre

 

Testo dell’appello sulla questione del podcast Radio Gaza di L’Antidiplomatico indirizzata alla direzione della testata.

 

UNA, CENTO, MILLE FLOTTIGLIE.

 

Mentre in tutto il mondo si mobilitano milioni di persone per sostenere la Sumud Flottilla e da Gaza le voci di giornalisti, militanti della Resistenza, a partire dal FPLP, medici e comuni Gazawi si levano voci a favore di questa straordinaria iniziativa, Radio Gaza, in L’Antidiplomatico, opera un’azione di sabotaggio e delegittimazione dell’impresa.

Ricordando che intorno alla Flottilla  , per supportarla si sono mobilitati artisti famosi, intellettuali, attivisti e cittadini sensibili alla causa palestinese,, siamo sconcertati  da una posizione pubblicata sulla testata che oltraggia coloro che, a rischio della loro incolumità, consapevolmente affronteranno la marina israeliana e una serie di pericolose ritorsioni.

I combattenti di Gaza dichiarano che l’azione della Sumud Flottilla non solo è un momento di solidarietà con loro, ma è anche una giusta lotta che sostiene e moltiplica la loro.

Vengono addirittura derisi i lavoratori dei porti italiani che, da mesi, operano il boicottaggio della spedizione di armi per Israele, oltre a essersi impegnati nella raccolta e nel carico di beni di soccorso.

Chiediamo una ferma presa di distanza dalle posizioni espresse nel podcast Radio Gaza, che inficiano la credibilità e l’autorevolezza de L’Antidiplomatico, guadagnate in anni di preziosissimo lavoro e che gettano ombre sull’integrità politica dei suoi collaboratori.

Prima firmataria: Sandra Paganini

Nadia Vignaga, soprano

Donatella Cortoni, pensionata

Mauro Murta

Eleonora Musico, commessa

Teresa Dentamaro, architetto

Fulvio Grimaldi, giornalista e documentarista

Francesca Riolo, impiegata

Adelina Bottero

Roberto Scarcia, insegnante e giornalista

Leonhard Schaefer

Maurizio Timitilli

Paola Bortolotti

Marta Coda Luchina

Claudio Patrizi

Domenico D’Amico, speaker Radio Gamma 5

Alessandro Fontanesi

Enrico Chiappini, terapeuta

Marco Tonini, avvocato

Sandra Cusin, pensionata Acea

Serenella Mastrangelo, Caritas Ascoli Piceno

Leonardo Rosi, documentarista

Alessandro De Giuli

Leonardo Mazzei

Daniela Di Marco, Fronte del Dissenso

Daniele Ghezzo

Francesca Iacobucci, impiegata

Roberto Viviani

Stefano Aliberti

Moreno Pasquinelli

Cynthia Salatino, ricercatrice

Silvana Parisotto

Fabio Giannoni, professore universitario

Angela Lano, INFOPAL

Giulio Rivaira

Giovanna Di Domenico, insegnante

Maurizio Ziglio, libero professionista

Lisa Vellutini, insegnante

Maddalena Magagnini, coltivatrice diretta

Enrica Langiano

Silvia Campisano, ricercatrice La Sapienza

Rinaldo Musico, pensionato

Ignazia Buccola, pensionata

Maryem Chaieb, studentessa

Tarek Chaieb, manutentore

Stefano Bonacina

Francesco Gerevini

Santa Lina Coaduro

Gianluigi Lanzi

Claudio Merli, disoccupato

Stefania Pini

Marzia Falcone, ASO

Gioele Valenti, musicista