sabato 1 novembre 2025

“Spunti di riflessione”- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza" --- TRUMP UNO E TRINO, QUADRUPLO, QUINTUPLO…

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=h3QL8Kxlokg

(C’è un breve difetto video all’inizio della registrazione, poi tutto scorre normale)

 

Di epoca in epoca, le parole, all’apparenza criptiche, di George Orwell ne fanno uno che meglio di Tiresia vedeva l’apocalisse verso la quale andavamo precipitando. Questo predisse a Odisseo che, una vota tornato a Itaca avrebbe dovuto ripartire ed errare ancora. Quello ci assicurò che, scampati dal gorgo nazifascismo e guerra, vi ci avrebbero riprecipitati. E ciò che si sta avventando sul mondo in questi giorni di impazzimento dei fautori di guerra e nuovi fascismi, ne realizza le previsioni.

Il protagonista assoluto è l’uomo paradosso ricomparso sulla scena, dopo il suo primo mandato, assicurando pace e riconciliazione ai quattro angoli del mondo. Oggi siamo ai missili Tomahawk concessi al corrotto despota neonazi di Kiev con cui i tecnici Nato, presenti sul campo sotto mentite spoglie fin dal colpo di Stato del 2014, vorranno mozzare le zampe all’orso russo, colpendone le strutture vitali fino a Vladivostok.

A Gaza si chiamano tregua o cessate il fuoco, o Piano di Pace, per placare i fremiti di indignazione mondiale, i rinnovati stermini di sopravviventi nell’età della pietra allestitagli da chi ci salva dal terrorismo. In Cisgiordania a 800.000 coloni armati è stato dato il via alla caccia col ferro e col fuoco di 2,3 milioni di indigeni colonizzati disarmati.

Dopo aver provato a distrarre coloro che potrebbero obiettare prospettandogli il silenzio dei tamburi e proficui scambi di beni e servizi, il taumaturgo quasi Nobel della Pace ha allestito un mostruoso apparato di morte contro un popolo in America Latina. Il cui crimine è che da un quarto di secolo dimostra che si può tener testa al predatore, garantirsi vita e giustizia e far da avanguardia a tutto un continente già destinato a cortile di casa yankee.

Per far trangugiare all’umanità, che sulla Palestina aveva incominciato a gettare bastoni tra le ruote dello schiacciassi sion-imperialista, nuovi genocidi dall’altra parte del pianeta, lo sponsor e fruitore bancario di tutto il narcotraffico mondiale, ha dato del narcos al presidente del paese, il Venezuela, che non aveva mai visto fiorire neppure una piantina di cannabis. Ma che, in compenso, si teneva stretto il petrolio che gli permetteva di nutrire e curare e far lavorare e abitare le sue genti e lo negava a coloro che ne vorrebbero trarre trilioni a proprio uso e consumo e a compravendita di tutto il resto.

Viene puntata dagli F-35 del pazzoide di Washington anche la Colombia, passata da narcopresidenti alla Uribe, cari ai gringos, a uno, Gustavo Petro, che la pensa e la fa come i bolivariani del Venezuela, del Nicaragua, dell’Honduras, del Messico. Intanto Maduro, a cui la valida mobilitazione civico-militare di tutto un popolo chavista servirebbe, sì, a contrastare un’invasione-occupazione, ma molto meno contro i bombardamenti di quegli F-35, si è rivolto per una mano a Russia, Cina e Iran. Certamente amici, ma la Cina si tiene ontologicamente lontana da ogni sbattere di sciabole. L’Iran deve guardarsi da chi gli agita in faccia le sue bombe atomiche e la Russia, beh, se pensiamo alla Siria, meglio proprio non farci conto.

Tutto questo Zeitgeist, spirito del tempo come in Germania i filosofi chiamavano la tendenza generale, cioè la forza che si mette sotto i piedi il diritto, è più contagioso di una finta epidemia mirata a passivizzare le persone in vista del peggio in arrivo e non può non avere le sue ricadute sulle cose spicciole. Come da noi, con la separazione delle carriere, la messa a guinzaglio del Pubblico Ministero e il regime, presto premierato, che detta quali reati perseguire – un presidio davanti a una fabbrica, un flash mob anti-Ponte – e quali no - il sindaco che passa l’appalto al cugino, o lo squadrista nero che devasta una scuola pro-Pal (è successo quattro volte in pochi giorni a Genova).

Qualche altro caso, alla rinfusa, di Zeitgeist spicciolo (de minimis non curator praetor)? In piena assemblea dei massimi dignitari della società umana, al palazzo di vetro, un tentacolo della piovra cannibala di Tel Aviv dà della strega a Francesca Albanese, indicandole il destino sul rogo. Poi il tipo con la pannocchia in testa le blocca l’accesso ai suoi soldi. Niente conti bancari alla reietta. Al governatore di Rio, un fascistone bolsonariano, gli gira di far festa nella favela e, copiato e incollato il modulo trumpiano, dà dei narcos a tutti i disperati morti di fame confinati tra cartoni e lamiere (io li conosco) e ne ammazza un 150 (ovviamente neanche un boss).

Per rinnovare l’anatema contro le continue interferenze di Mosca nel vari Russiagate che intorbidano i risultati elettorali in Occidente, niente di meglio che un Trump che promette agli argentini 40 miliardi di dollari, ma solo se votano il picciotto Milei. Calci in culo in caso contrario.

Una bella usanza, di grandiosa efficacia per mettere a posto disturbatori, l’aveva inaugurata il presidente canadese Trudeau. Ai camionisti che, con una loro “Colonna della libertà” avevano percorso il paese protestando contro i ceppi del “green pass”, aveva chiuso i conti bancari. Niente prelievo, niente pagnotta. Fine corsa. Ha fatto scuola. Conoscete Frederìc Baldan, autorevole lobbista alla UE, ha scritto un libro da collocare sulla mensola del caminetto: “Ursula Gates, la von der Leyen e il potere delle lobby a Bruxelles”, dove si disseppelliva l’insabbiato scandalo dello Pfizergate (gli sms privati Ursula-Bourla relativi a miliardi di dosi Pfizer e di euro nostri, che poi erano stati fatti sparire)? No? Ora conviene saperne, perché quello che hanno fatto a lui è il metodo Trudeau, un metodo in vista di nuovi disturbatori: le banche belghe gli hanno chiuso tutti i conti bancari, personali e aziendali, compreso il conto di risparmio del figlio di cinque anni. Si aggira sul lastrico.

Tra gli spiccioli, di poco conto, ma illuminanti quanto un faro da 2000 watt sul famigerato spirito del tempo, quanto è successo a Larry Bushart, veterano e multi-encomiato alto funzionario di polizia a Perry County, nel Tennessee. E’ stato cacciato dalla polizia, gli hanno tolto tutti i nulla osta e visti, addirittura del Dipartimento di Stato e l’hanno chiuso in una cella della prigione di Perry. Quale il crimine? Aveva deplorato, in termini di sfottò, coloro che, come il bonzo dai capelli gialli, si strappavano i capelli per il martirio del propagandista nazista Charlie Kirk e avevano esaltato il suo retaggio ideologico.

Eccessi americani? A un collega di Larry, poliziotto di Weissenburg in Germania, il tribunale amministrativo di Ansbach ha tolto la qualifica, lo stipendio, la pensione e lo ha espulso da tutti i corpi delle forze dell’ordine. Il delitto: aveva criticato il Green pass e altre norme di costrizione adottate in nome del Covid.

Ma rifacendoci ai padri “Ubi major minor cessat”. E dunque torniamo ai massimi sistemi. Quelli del Trump uno e trino e quadruplo e quintuplo e….Guerra alla Russia, Guerra alla Palestina, guerra alla Somalia (da 100 giorni bombarda quel paese, lo sapevate?), guerra all’Iran e, ora guerra al Venezuela. E pensare che il narcotraffico non è affatto una minaccia al capitalismo statunitense. E’ invece una delle sue forme clandestine di riproduzione.


 

 

martedì 28 ottobre 2025

FULVIO GRIMALDI PER L’ANTIDIPLOMATICO Trumpeggiando in Latinoamerica --- BOLIVIA, ECUADOR E PERU’, FATTO. VENEZUELA E COLOMBIA, DA FARE

 


https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__trumpeggiando_in_latinoamerica_bolivia_ecuador_e_peru_fatto_venezuela_e_colombia_da_fare/58662_63300/

 

Bolivia, suicidio assistito dal padre della patria

Nel giro di vent’anni salvatore e affossatore della patria. Il percorso di Evo Morales, fondatore del Movimento al Socialismo (MAS), presidente della Bolivia dal 2006 al 20019 culmina nell’autodafè della rivoluzione. Nel secolo fattosi largo all’insegna del riscatto latinoamericano con il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, l’Argentina dei Kirchner, il Messico di Obrador, in continuità con i padrini Cuba e Nicaragua, la Bolivia rappresentava uno degli esempi più riusciti di socialismo alla bolivariana. Il che rende tanto più incomprensibile e doloroso un declino iniziato qualche anno fa e che culmina in quel rogo di conquiste e speranza, alimentato eminentemente dal suo stesso taumaturgo.

Le mie frequenti visite nel paese che, non per nulla, ha vissuto e tradotto in realtà la liberazione tentata dal Che Guevara, mi offrivano l’esperienza di un ininterrotto cammino di emancipazione: la riforma agraria, l’acqua sottratta alle multinazionali USA, la nazionalizzazione delle risorse, dal gas al litio e la conseguente equa distribuzione della ricchezza, lo Stato binazionale nel quale gli indigeni erano assurti a protagonisti del progresso, l’antimperialismo propagandato e operato a livello domestico e internazionale.

Una crepa si apre nel 2019. Il dettaglio di questo processo involutivo l’ho già raccontato sull’AntiDiplomatico. Qui parliamo di come è andata a finire.  

Evo Morales, con alle spalle tre mandati presidenziali, sfida il divieto della costituzione e rivendica la candidatura al quarto. Un referendum glielo nega. Lui insiste. Degli smarrimenti e delle contraddizioni così innescate approfitta il settore dei grandi terratenientes e imprenditori industriali, nostalgici di regimi autocratici che, insieme al padrinaggio degli USA, gli garantivano libertà di manovra economica fondata sull’emarginazione e sullo sfruttamento soprattutto dei nativi Quechua e Aymara. Il colpo di Stato del novembre 2019, che portò al potere la parlamentare conservatrice Jeanine Anez, fu spazzato via da una sollevazione popolare che, resistita a una sanguinosa repressione con decine di vittime, ha potuto imporre, l’anno dopo, nuove elezioni e la travolgente vittoria del MAS.

 

In assenza di Morales, rifugiatosi in Messico al momento del colpo di Stato (fuga che evidentemente non gli è stata perdonata), venne eletto il suo storico ministro dell’economia, Luis Arce, grande protagonista del riscatto sociale ed economico del paese. Rientrato in patria, con comprensibile perdita di credito, Evo impegnò ogni mezzo e tutto il suo seguito indigeno, i cocaleros di Cochabamba, per disconoscere e svalutare il governo di Arce (che, tra l’altro, dovette vedersela nel 2024 con un nuovo, effimero, tentativo di golpe militare). Arrivò a ricorrere a strumenti eversivi come posti di blocco in tutto il paese, marce sulla capitale, occupazione del Tribunale Elettorale che gli aveva negato l’ennesima candidatura. Venutogli meno l’appoggio del suo partito, il MAS, aveva creato dal nulla un partito di impronta personalistica, “Evo pueblo” che, però,.per mancanza di requisiti giuridici, non potè essere iscritto alle nuove elezioni.

Date queste lacerazioni del movimento che aveva sostenuto per vent’anni l’evoluzione del paese, il conseguente smarrimento e la perdita di fiducia delle masse, la crisi economica che tutto questo aveva provocato, la lotta senza quartiere di Evo a coloro che si trovavano a capo della direzione del paese e delle organizzazioni popolari e sindacali, l’esito delle nuove elezioni non poteva che essere scontato. Per evitare la frantumazione della sinistra, Arce aveva rinunciato di candidarsi, ma al ballottaggio Evo Morales, incredibilmente, dopo aver destabilizzato tutto il fronte di sinistra, non avendo ottenuto la candidatura, era arrivato a intimare al suo seguito di annullare la scheda, implicitamente aprendo così un’autostrada alla vittoria delle destre filo-yankee.

Alla vittoria nel primo turno di un candidato della destra, Rodrigo Paz Pereira, democristiano, con secondo arrivato Jorge Quiroga, sempre di destra, nel ballottaggio non poteva non verificarsi il trionfo degli stessi contendenti: Paz Pereira al 54,3%, Quiroga al 45,5%. Ha votato l’87% dei 7,9 milioni di boliviani. La sinistra del presidente del Senato, già delfino di Evo, Andronico Rodriguez, si è vista umiliata con il 3,2%. Le schede annullate su disposizione di Morales hanno rasentato il 20%.

Può sorprendere che i primi contatti telefonici di Paz Pereira, con tanto di auguri per la vittoria e di dichiarazioni di reciproco sostegno e vicinanza politica, siano stati con la golpista venezuelana Maria Corina Machado, e con Gideon Sa’ar, ministro degli esteri israeliano. Dopo questi, non potevano mancare Javier Milei, il presidente argentino dalla sega elettrica e last but not least, Donald Trump.

Ecuador, una partnership strategica con gli USA

 Noboa-Meloni

Nella capitale Quito e in tutto l’Ecuador, sottoposti a una feroce repressione, il 23 ottobre è stato sospeso lo sciopero generale nazionale che durava dal 20 settembre ed era l’ennesimo dall’elezione a presidente, considerata frutto di maneggi, di Daniel Noboa. Sciopero portato avanti soprattutto dalla maggioranza indigena organizzata nella CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador). Il bersaglio è il regime ultraliberista e autocratico di Daniel Oboa, imprenditore e membro della famiglia più ricca del paese e che controlla i maggiori gangli dell’economia finanziaria e produttiva del paese. Sciopero che per innesco ha avuto, in una società al 65% sotto, o appena sopra, la soglia di povertà e saccheggiata dal narcotraffico, la vittoria elettorale forse rubata a Luisa Gonzales, candida della Revolucion Ciudadana, movimento dell’ex-presidente Rafael Correa (In esilio in Belgio), data in largo vantaggio dai sondaggi pre-elettorali.

Alla lotta popolare, eminentemente indigena, Noboa ha risposto militarizzando il paese e dichiarando “il conflitto armato interno”. Il pretesto: la lotta contro l’impennata della criminalità organizzata. Che c’è e cresce, ma che in questo caso viene identificata con la resistenza sociale alla dittatura che va costruendosi con persecuzione degli oppositori, arresti di chi protesta, tortura di prigionieri politici, sparizioni forzate, ostacoli alla libera espressione. Per dare al regime una cornice legalitaria è stata abolita la Costituzione votata sotto Correa e ne è stata presentata un’altra, ovviamente impostata secondo criteri cari alla destra fondamentalista dell’argentino Milei, senza peraltro rispettare i termini della Corte Costituzionale e i dovuti passaggi parlamentari

Nell’immediato, la rivolta popolare è alimentata dalla misura governativa che ha eliminato il sussidio al diesel, combustibile indispensabile per l’operatività e, addirittura, la sopravvivenza delle imprese di trasporto, delle piccole e medie aziende dell’economia informale e dei lavoratori del settore agricolo. A ciò si è aggiunto un attentato alla sovranità del paese e alla salvaguardia ecologica del suo bene naturale più prezioso, le isole Galapagos, dichiarate dall’Unesco “Bene dell’umanità”.

Il presidente Noboa, eletto a capo cella coalizione ultraliberista e filoamericana Accion Democratica Nacional, che gode di generose sovvenzioni della NED (National Endowment for Democracy), faccia civile della CIA, dopo aver privatizzato quanto era privatizzabile dell’apparato produttivo e immobiliare del paese e dopo aver annullato le misure sociali ed ambientaliste di Rafael Correa, ha concesso che il Pentagono rimettesse piede, anzi stivale, nel paese con una nuova base militare.

Alle Forze Armate nordamericane, a suo tempo cacciate da Correa, è stato consentito lo sfruttamento delle isole Galapagos, un paradiso naturale vergine, per esercitazioni, costruzione di edifici, infrastrutture, impiego di navi, personale, armi, sommergibili nucleari, equipaggiamento militare. Questo, in contrasto con l’articolo 258 della Costituzione ecuadoriana che vieta qualsiasi attività che possa mettere in pericolo l’equilibrio ecologico dell’arcipelago. Pensare che fu la visita di Charles Darwin alle Galapagos nel 1835, durante il suo viaggio sul brigantino Beagle e la scoperta delle tartarughe giganti, a costituire la base per lo sviluppo della sua teoria dell'evoluzione per selezione naturale. Selezione ora governata dalla partnership strategica con le FFAA statunitensi.

Per gli esperti ONU del narcotraffico, la costa pacifica di Ecuador e Perù (quest’ultimo a sua volta vittima di “rivincite” yankee, come vedremo) e la Bolivia sono i punti di partenza dell’oltre 80% degli stupefacenti che finiscono sul mercato USA. Coltivazioni e traffico che si svolgono sotto gli occhi della DEA, l’ente statunitense per il controllo del narcotraffico e assicurano cospicui vantaggi al sistema bancario nazionale e ai successivi paradisi fiscali.

La vicenda ecuatoriana è sintomatica del tentativo yankee, cui Trump ha rinnovato vigore e determinazione, di riprendersi il “cortile di casa”. La riconquista di sovranità, autodeterminazione, equità sociale, protezione ambientale, vissuta dal paese sotto la presidenza di Rafael Correa dal gennaio 2007, quando ebbi l’opportunità di intervistarlo alla vigilia della sua elezione, al maggio 2017, subisce un’inattesa regressione con Lenin Moreno. Vice presidente con Correa, era stato eletto suo naturale successore e prosecutore dell’opera di riscatto, ma molto presto nel suo mandato aveva drasticamente invertito la marcia, per diventare l’ennesimo proconsole del colonialismo nordamericano in America Latina.

Nel 2022 gli succede Guillermo Lasso, che accentua la direzione regressiva del predecessore e, nel 2023 passa a Noboa il testimone della subalternità al padrone yankee, alle èlite economiche locali e al capitale finanziario internazionale, con poteri decisivi al FMI. Il “correismo” viene bandito come forza politica fuorilegge, e lo stesso Rafael Correa resta sotto processo per una serie di reati formulati da una magistratura “normalizzata”. Per Washington, nella partita con l’America Latina, un gol a porta vuota.

Perù, di autogolpe in autogolpe, all’ombra del US Southern Comand

A Lima, dal 10 ottobre, siamo al secondo golpe parlamentare in meno di 5 anni, nel senso che è lo stesso parlamento a far fuori il capo dello Stato uscito dalle proprie fila, ripetendo la mossa che, nel 2022, aveva defenestrato il presidente di sinistra Pedro Castillo. Il golpe dei parlamentari colloca nel palazzo presidenziale il già presidente del Congresso, José Jeri, eliminando dalla scena Dina Boluarte che aveva rivestito la medesima carica, prima di essere proiettata sulla poltrona fin lì occupata da Castillo.

Nella ripetizione del metodo non c’è però la continuità dell’intenzione politica. Prima del golpe del 2022, Castillo, maestro elementare e presidente di sinistra dal grande supporto popolare, specie nei settori indigeni, si era voluto liberare di un congresso dalla maggioranza di destra che ostacolava ogni suo provvedimento a favore delle classi popolari e in contrasto con la storica manomorta statunitense sul paese. La sua decisione di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni che, secondo i sondaggi, gli avrebbero assicurato una sicura maggioranza, provocò la rivolta dei parlamentari. Castillo fu destituito, arrestato, chiuso in prigione. Alla presidenza fu messa la fidata Dina Boluarte. Fidata anche perchè le aveva manifestato vicinanza, protezione e fiducia nientemeno che la comandante del Comando Sud statunitense, generale Laura Richardson.

Al golpe Boluarte e all’arresto di Castillo, che dura tuttora, seguirono mesi di manifestazioni e sommosse popolari che dalle Ande dilagarono fin nella capitale, furono represse con metodi pinochettiani, ma non si sono placate neppure oggi. Tanto che di nuovo si è attivato il parlamento e, accusata la Boluarte di non saper contenere l’espansione di quella che viene chiamata “criminalità” comune, l’ha sostituita con il presidente del Congresso, José Jeri, altro esponente della destra oligarchica filo yankee. Insomma, tutti giochi fatti in casa, casa del mai scomparso fujimorismo peruviano che ha avuto per capostipite Alberto Fujimori, sterminatore di oppositori (Sendero Luminoso) e, dal 1990 al 2000, dittatore sanguinario e ladro, morto in carcere. La figlia, Keiko, ininterrottamente candidata al ruolo del caro papà, resta in aspettativa.

Tutto questo avviene con l’accresciuto sostegno di Donald Trump, subito felicitatosi con il nuovo protetto della capa del Southern Comand, e con la continuità dei tumulti che, a Lima come nelle Ande, ribadiscono l’irriducibilità della sollevazione di popolo, tuttora sollecitata dagli appelli dal carcere di Pedro Castillo.

Ne discende che il 18 ottobre il primo ministro, Ernesto Alvarez, si dice costretto a dichiarare lo Stato d’emergenza a Lima per combattere chi, di nuovo, viene chiamato “criminalità comune” e relative bande giovanili. Pandillas che sono l’abituale pretesto in tutta l’America Latina per l’adozione di misure che restringano gli spazi di libertà e democrazia e le possibilità di organizzarsi in opposizione. A sua volta il nuovo capo dello Stato, Jeri, ha ingiunto al premier di preparare un “pacchetto di misure”, compreso l’impiego dell’esercito, per affrontare l’emergenza proclamata.

Dunque in Perù, come in Ecuador, sono sospesi diritti fondamentali, dalla libertà di assemblea, di riunione, di spostamento, ed è ribadita la facoltà di utilizzare le forze armate nei centri abitati. E di pochi giorni fa l’assassinio con una pallottola nel torace del musicista e attivista Eduardo Mauricio Ruiz Saenz, idolo delle giovani generazioni, rapper anti-sistema.  La generale Laura Richardson non ha obiettato.

 

 

 

Dalle armi di distruzione di massa ai narcoterroristi

 

Non contento di menare le mani un po’ qua e là tra Medioriente e le città USA governate dai Democratici, il Donald si è messo a fare il tiro a segno su barche e barchette nei Caraibi ma, da quando gli hanno spiegato che gli stupefacenti arrivano, invece, quasi tutti dal Pacifico, ora spara anche davanti a quelle coste. Il meccanismo è quello collaudato: dalla guerra contro armi di distrazione di massa inesistenti, per il petrolio, alla guerra contro narcos inesistenti, sempre per il petrolio.

Fino all’altro giorno i puzzoni che inondavano gli USA di Fentanyl erano Cina e Messico. Svaniti quelli, per manifesta inconsistenza, nell’iperuranio dell’avanti e indrè trumpiano, ora tocca a quella che minaccia di diventare la Grande Colombia vagheggiata da Simon Bolivar: Venezuela e Colombia uniti, anche nella lotta. Un rischio da affrontare subito con la denuncia della nuova configurazione di Venezuela e Colombia uniti nel narcotraffico. Tanto più che la Colombia, con l’elezione nel 2022 a presidente dell’economista Gustavo Petro, antiliberista, antimperialista, anti-israeliano, ha smesso di servire l’impero nel tradizionale ruolo riconosciuto al paese di “Israele latinoamericano”.

Sono sotto minaccia di chiusura le sette basi USA, i più potenti cartelli della droga del mondo vengono per la prima volta osteggiati, il potente apparato di paramilitari formato dal predecessore Alvaro Uribe è smantellato, si è cessato di spedire contractors terroristi nei vari scenari di regime change voluti dagli USA. Soprattutto Bogotà, ex-benevola patria di Pablo Escobar (che, sotto gli occhi della DEA, ente “antidroga” di Washington, ha fatto più per le banche USA e i suoi derivati nei paradisi fiscali di tutti i fondi avvoltoi messi insieme), da destabilizzatrice del Venezuela, con l’infiltrazione di quinte colonne, è passata a far fronte comune con il vicino e con gli altri paesi del raggruppamento anti-gringos A.L.B.A. creato da Chavez.   

Per inciso, e a proposito della presunta determinazione con cui gli USA, con Trump o senza, dicono di combattere il fenomeno, vogliamo ricordarci dell’Afghanistan degli anni di occupazione USA-NATO, quando i campi di oppio, a suo tempo desertificati dai Taliban, tornarono a rifiorire sotto l’affettuoso controllo dei militari di Bush e successori e l’eroina, magari transitando per la sicura base USA di Bondsteel nel Kosovo “liberato”, alluvionava l’Occidente?

Essendoci nell’immediato da ricavare più da un Venezuela depositario del più vasto giacimento di idrocarburi del mondo e, per i popoli della regione, modello nefasto di emancipazione nazionale e sociale, più che da Cina e Messico, giocoforza gli spacciatori, assassini di frotte di giovani statunitensi, è da qui che necessariamente devono arrivare.

Nel giro di meno di una settimana, all’obiettivo Venezuela, capeggiato, secondo l’inventiva di Trump, dal re dei narcos Nicolas Maduro, incoronato da una taglia cresciuta da 15 a 50 milioni per chiunque lo tolga di mezzo (acquolina in bocca a Maria Corina Machado), è stato affiancato il più recentemente nominato narcoimperatore colombiano. Per dare la relativa dimostrazione di potere che prevale sul diritto, tipica del ciuffo giallo, ai primi di ottobre si è radunata nel mare caraibico, di fronte alle coste dei due paesi e nelle loro acque territoriali, una prima flotta militare USA: navi, sommergibili, forza aerea e 10.000 Marines sul piede di guerra nella dependance Portorico.

Nella narrazione di Trump il narco-presidente venezuelano capeggerebbe addirittura un’inesistente “Narcocartello dei Soli”, per cui sarebbe urgente e giustificato l’ulteriore rafforzamento delle quasi trentennali sanzioni (a cui si attribuiscono una crisi socio-economica da 40.000 morti, alleviata solo dai soccorsi di Sud Globale, Cina e Russa), Trump ha annullato gli aiuti che gli USA avevano per anni fornito alla Colombia in forma di sovvenzioni, prestiti, agevolazioni tariffarie, armamenti. In un momento di distrazione dai campi di morte mediorientali, ne ha promesso altrettanti a Colombia e Venezuela: “Voi due che con la massiccia produzione di stupefacenti, che nessuno di voi cerca di stroncare, ma che introducete negli Stati Uniti, provocate morte, devastazione e caos, o eliminate questi campi assassini, o li elimineremmo noi, e in modo non piacevole. E se per ora abbiamo agito via mare, presto agiremo via terra”.

Detto fatto. Che non si tratta di mera retorica, Trump l’ha ribadito spedendo sabato scorso nelle stesse acque la più grande portaerei del mondo, la “Gerald Ford”, accompagnata da varie navi di sostegno e dalla minaccia di radere al suolo la capitale del Venezuela, Caracas. La risposta del paese bolivariano è stata una mobilitazione militare capillare che ha visto l’esercito affiancato da un milione di cittadini addestrati e impegnati nella difesa civile. Dopo il primo affondamento, nelle acque territoriali del Venezuela, di una lancia con 11 persone a bordo, si sono avuti altri quattro attacchi, l’ultimo con altre sei vittime, a imbarcazioni nelle stesse acque, tutte “adibite a trasporto di narcotici verso gli USA”. Secondo l’inchiesta condotta dal governo colombiano si trattava, nei casi accertati, di pescatori impegnati nel loro lavoro.

Ma il messaggio trumpista è arrivato e dovrebbe sovrastare con il suo clamore i dati per anni raccolti dalle agenzie antidroga dell’ONU, anche quando ne era a capo l’allora vice segretario dele Nazioni Unite, Pino Arlacchi, secondo cui il Venezuela è del tutto privo di coltivazioni di stupefacenti naturali o di sintesi, e non ne ha mai esportato neanche una bustina. Quanto alla Colombia, il paradiso dei narcos è diventato un purgatorio da quando, con Petro, gli si è mosso guerra. Sempre per l’ONU, al netto di limitati movimenti di marijuana nei Caraibi, tra Trinidad e Tobago, come ho ricordato sopra, è dalle coste del Pacifico che si muove verso gli USA l’83% del traffico di droga.

E quali sono i paesi che si affacciano sulle coste del Pacifico e che sono per l’ONU quelli  a maggiore densità criminale dell’intero subcontinente? L’Ecuador dell’oligarca Noboa e il Perù del golpista Jeri. Con alle spalle la Bolivia, paese ora tornato nella sfera di coloro che ne avevano fatto un coltivatore ed esportatore di cocaina. Tutti paesi contro i quali The Donald furioso non pronuncia alcuna minaccia.

venerdì 24 ottobre 2025

“Spunti di riflessione” –--- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- --- IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

 

“Spunti di riflessione” – Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

https://youtu.be/hyZdcIC_urM

 

 

 

Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista. Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.

Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico,  Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non  si sono sognati di levare il dito dal grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.

La questione del momento ci fa però deviare da un piano di pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati. I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico, morale, umano  Trattasi della proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.

Cioè una roba che ha visto confluire da quelle parti, nel segno del colonialismo dai colonialisti rilanciato dopo la debacle subita a metà del secolo scorso e con la scusa di un olocausto inflitto a una parte di loro, un flusso di persone provenienti da ogni pizzo. Persone a cui si riconosceva di essere, non solo vittime (il che le rendeva intoccabili), ma anche popolo eletto, migliore di tutti gli altri e dunque impunito e insindacabile, titolare di una terra con la quale non ha avuto nessun rapporto né storico, né culturale, né linguistico, ma che aveva ogni diritto di sottrarre a chi ci stava da sempre.

Tutto questo delirio di onnipotenza sembra però aver fatto perdere la testa al regime di Tel Aviv. E non solo, visto che i sondaggi continuano a ripeterci che dietro a Netanyahu e ai suoi macelli ci sta un 75-80% della popolazione. Infatti, a saltare sulla sedia all’ennesimo eccesso di violazione di ogni accordo e legge, non è stata quella società che pure aveva manifestato contro Netanyahu sulla questione dei prigionieri in mano a Hamas, ma il partner e foraggiatore Trump. Uno, cioè, che tiene in piedi la baracca sionista, Il suo stop all’annessione della Cisgiordania votata dal Knesset segue l’incazzatura per il bombardamento dell’alleato stretto Qatar, con tanto di imposizione di umilianti scuse all’emiro.

Siccome l’unico risultato della fase uno del bombastico piano di pace sembra essere stata, a parte lo scambio dei prigionieri, la concessione a Israele di tenersi un 53% della Striscia, quello meno devastato e sfruttabile, dal quale continuare a uccidere chiunque si avvicinasse a un’invisibile linea gialla, le prospettive di una fase due sembrerebbero  ora coperte da una fitta nebbia.

La famosa forza di stabilizzazione composta da paesi arabi amici e da chissà chi altro, rimane in grembo a Giove, mentre le formazioni della Resistenza, Hamas, Jihad e Fronte Popolare, non hanno dato il minimo segno di essere disposti a consegnare le armi. Quelle armi con le quali hanno impedito per oltre due anni a Israele di divorare la Striscia. E ne hanno fatto barcollare, non solo la strategia Grande Israele, per ora arenatasi nel divieto trumpiano di israelizzare la Cisgiordania, ma addirittura il ruolo colonialista assegnatogli 150 anni fa da Balfour.

Non esagero. L’operazione Alluvione di Al Aqsa, che ha preso di sorpresa tutte le capacità di intelligence, sorveglianza, difesa, di Israele, ricorda un’altra situazione nella quale lo Stato ebraico si è trovato a braghe calate. Nei primi cinque giorni della guerra del Kippur, anche quella non prevista dai suoi infallibili servizi, Israele, prima di recuperare grazie agli USA, aveva rasentato la disfatta. E, secondo Moshe Dayan, addirittura l’esistenza. Tanto che il ministro della Difesa aveva ipotizzato, in un disperato Consiglio di guerra, il ricorso all’arma atomica.

E’ vero che nei 24 mesi di guerra Israele ha potuto compiere un genocidio, ma se l’obiettivo era, dicendo di voler eliminare Hamas, quello di eliminare due milioni e passa di palestinesi, uccidendoli tutti, o costringendoli a un esodo da qualche parte dopo aver reso invivibile la loro terra, quel risultato è stato mancato. Lo ha reso evidente quella stupefacente marcia di ritorno, di centinaia di migliaia dei dieci volte sfollati, alle loro case in macerie a Gaza. E quel piano di pace che, certamente risolutivo di niente, l’armiere di Israele ha dovuto imporre ai soci che non stavano andando da nessuna parte.

Da nessuna parte se non in quel deserto politico e morale in cui oggi Israele appare paralizzato, a dispetto di affannose e scriteriate fughe in avanti, come l’annessione della Cisgiordania, tosto bloccate da chi sembra avere il mestolo in mano,

Dall’inizio dell’anno Israele registra la perdita di 40.000 unità del suo personale di colonizzazione. Dal 7 ottobre 2023 sarebbero 200.000. Mentre si è seccato da tempo il flusso degli arrivi. Israele si è vista colpire dall’Iran, con efficacia occultata dalle voci ufficiali, e viene bersagliata quotidianamente dai droni e missile degli irriducibili yemeniti, con conseguente blocco di porti e aeroporti e di altre infrastrutture logistiche. Una popolazione, che la questione degli “ostaggi” ha profondamente lacerato minandone la fiducia nella propria classe politica e che si trova costretta ogni due per tre a rifugiarsi nei bunker, non può alimentare grande voglia di restare, né costituire richiamo per nuove immigrazioni.

L’isolamento e la presa di distanza da parte di una collettività internazionale che, riconoscendo lo Stato di Palestina, ha provocato conseguenze materiali pesanti anche sul piano economico. Sulla saldezza della società israeliana si abbattono la crisi nei rapporti accademici, i boicottaggi dei prodotti di consumo, le proteste contro la consegna di armi, i disinvestimenti perfino nel campo della tecnologia, già messo in crisi da trasferimento di migliaia di giovani dai laboratori alle unità di combattimento. Queste, poi, sono pesantemente indebolite dalla perdita sul campo di centinaia di soldati e dal rifiuto e dalla diserzione di migliaia di riservisti.

In questo contesto c’è da verificare fino a che punto il tradizionale appoggio e soccorso fornito allo Stato ebraico dai correligionari della finanza statunitense e internazionale non stia manifestando riserve rispetto al radicalismo di Netanyahu e dei suoi sostenitori-condizionatori ultrà. Come c’è da verificare se la truffa-fuffa di pace di un oligarcha immobiliarista che sconcerta tutti nel suo alternarsi tra carezze e cazzotti, riesca a rilanciare la formula di Abramo, ad allargarla e includere nei suoi vagamente onirici progetti tutta la carovana del Golfo, Egitto e Giordania compresi.

Monarchie assolute e dal bagno di sangue facile che, tra l’altro, rischiano di doversela vedere, presto o tardi, con una base popolare di arrabbiati, insoddisfatti, e con un’idea del conflitto in Palestina dissimile da quello di chi li tiene sotto il tacco.

Le incognite e variabili, anche se sfuggono a molti, sono tante e si faranno sentire.

martedì 21 ottobre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico --- Usa – Venezuela – Palestina JOKER IN AZIONE

 



https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__usa_venezuela__palestina_joker_in_azione/58662_63164/

 

Basato sulla figura del pagliaccio malefico, Joker è uno dei supercriminali più famosi della storia dei fumetti, nonché la nemesi del Cavaliere Oscuro[5]. Presentato come uno psicopatico con un senso dell'umorismo contorto e sadico. Così la presentazione del personaggio su Wikipedia. E’ la personificazione di Donald Trump.

Da ragazzini uscivamo dai film di grandi personaggi positivi, di eroi medievali, immaginandoci tali anche noi. Eravamo, a seconda dei gusti, dei Robin Hood, dei Cavallo Pazzo, dei D’Artagnan, dei Sandokan. Personalmente mi rifacevo a Widukind, o Vitichindo, re dei Sassoni pagani e per questo genocidati da Carlo Magno, un altro che ammazzava in onore del suo dio. Queste fantasticherie duravano finchè, all’urto con la realtà, non venivano drasticamente demensionate a livello di impiegato di banca, operatore ecologico, vigile urbano, medico della mutua, operaio alla catena, start up con IVA.

Con Donald Trump, personaggio eccessivo in senso fisico e metafisico, dall’onda gialla in capo, votato al disdegno di ogni minima regola del vivere civile in omaggio al principio Forza su Diritto, il copia e incolla è stato immediato. Qui, tra supereroi e supermalfattori, che nella supercultura del superuomo hanno dominato l’immaginario americano, dal generale Custer a Jesse James e ad Al Capone, l’adolescente The Donald si è immediatamente riconosciuto nel più affine: Joker.

E se la Nuova Frontiera di Bibi Netaniahu è quel Grande Israel le cui fondamenta si reggono su strati multipli di ossa cementate dall’IDF, come non poteva non accorrere in suo soccorso The Donald-Joker? Soccorso alla disperata, vista la sorte che allo Stato ebraico stava approntando lo tsunami della rabbia e della sollevazione di tante genti in Gotham City. Soccorso just in time di uno che, anche da Joker, si porta dentro e impone fuori morale, metodi, strumenti e valori di quell’altro genocidio, quello dei “palestinesi” delle Americhe, detti indiani e indios. Esattamente ciò che è previsto per Gaza e per tutti i luoghi dove formicolino quei non umani che si ostinano a brucare la dove dal dio degli ebrei la terra e i suoi frutti sono stati riservati al popolo eletto e ai suoi armenti e greggi.

Joker contro USA

Non è che il Joker dai capelli a pannocchia tratti i suoi concittadini – sudditi che osano manifestare contro il sovrano sotto lo slogan “No kings!”, nessun re – molto diversamente dei non umani di Gaza. Qualche settimana fa aveva rivolto ad alcune centinaia di suoi generali e ammiragli un tonante appello a prepararsi a occupare decine di città statunitensi, ricorrendo a migliaia di soldati, per “neutralizzare i nemici domestici”. Che sarebbero non umani, pari ai gazawi, perché come quelli si oppongono ai suoi ordini esecutivi. Detto fatto. Resta una leggera sproporzione nel confronto tra Joker e i cittadini di Gotham City: Sabato scorso ben 7 milioni di quest’ultimi hanno ribadito “No Kings”. Per risposta, l’intelligenza artificiale di Joker, marchiatili tutti di “Antifa”, li ha bombardati con tonnellate di merda. Chi ha fatto la figura migliore?

Le città statunitensi, soprattutto quelle a governo dei Democratici, definiti “radicali di estrema sinistra”, si sono viste invadere e occupare da truppe federali e dalla Guardia Nazionale, senza che le relative autorità statali l’avessero richiesto, o consentito. Si parla di Chicago, Los Angeles, New York, Portland o San Francisco. Poi scontri protofisici con magistrati che denunciavano queste offese alla Costituzione, tumulti da rastrellamenti di manifestanti pro-Palestina e di qualunque persona che desse l’’idea di essere un immigrato nè anglosassone, né bianco. Postilla di Joker: “Dovremmo utilizzare alcune di queste pericolose città, sotto assedio degli Antifa e di altri terroristi interni, come campi di addestramento dei nostri militari”.

Dopo che un Giudice Federale aveva proibito l’uso della Guardia Nazionale nell’Oregon, Joker gli mandò contro la Guardia Nazionale della California e del Texas. Di fronte al rinnovato divieto del magistrato, Joker-Trump minacciò di ricorrere alla Legge Anti-Insurrezione del 1807, legge impolverata ma che consente al presidente di proclamare un’emergenza e impiegare truppe sul suolo degli Stati Uniti. Legge che ha permesso al nostro campione di democrazia alla Gotham City di militarizzare zone del paese con oltre 35.000 soldati federali, dell’aeronautica, della marina e dell’esercito.

Commento di Hina Shamsi, direttrice del Progetto di Sicurezza Nazionale nell’Unione Americana delle Libertà Civili: “Quando forze militari impongono misure di polizia ai cittadini, ci troviamo di fronte a un’intollerabile minaccia alle nostre libertà individuali e ai valori fondamentali di questo paese. Sarebbe dittatura”.

Tutto questo non ha impedito al Pentagono, recentemente rinominato, con consapevole coerenza, Ministero della Guerra e al suo neoministro, l’impomatato Pete Hegseth di catechizzare il fior fiore dei comandi USA, perché adotti uno spirito più muscolarmente guerresco. Spirito con cui affrontare anche il nemico interno, quella nebulosa di variopinti oppositori che Trump ha battezzato “Antifa”.

Dell’attacco al Primo Emendamento, al diritto di cittadinanza per nascita e alla libertà di parola, danno poi testimonianze le più prestigiose Università americane, da Harvard a Columbia. Scuole e atenei sollecitati a non accettare studenti e contributi stranieri, redarguiti e puniti, quando non privati dei dovuti finanziamenti, per non aver soppresso manifestazioni, o attività di informazione sulle stragi israeliane in Palestina.

Puntando l’indice contro l’ennesimo nemico terrorista – categoria inventata da Bush dopo l’11 settembre e adottata come viatico al genocidio da Netanyahu in occasione del 7 ottobre – questa volta individuato nel Venezuela (ne parliamo qualche riga più giù), il nostro Joker ha dato via libera alla CIA e a tutte le 14 agenzie dell’intelligence statunitense per “azioni segrete esterne al quadro della legalità”. Cioè ha ufficializzato ciò che questi aggregati hanno sempre fatto, ma con meno clamore e senza il sigillo dell’investitura formale.

E qui si ribadisce quanto la nostra “Donna, madre, cristiana” abbia in comune con colui che ispira moltissime delle azioni sue e del suo regimetto. Pensate al recente Decreto Sicurezza. Un provvedimento che, tra le altre facezie alla Joker, consente ai servizi segreti (quelli spuntati in ognuna delle stragi che sono costate all’Italia centinaia di morti e regressioni spaventose) di “organizzare e perfino dirigere organizzazioni criminali e terroristiche…”.

Non vogliamo chiamarli Stati di polizia? Guardate che gli assomigliano molto.

Joker contro il Venezuela

Avete presente Catwoman, la donna gatto, quella che, al pari di Joker, imperversa a Gotham City rubando, truffando, picchiando, scassinando, rapinando e, soprattutto, travestendosi nell’opposto: onesta, democratica, rispettosa della legge? Proprio come Maria Corina Machado, la quale, da Catwoman in associazione con Joker, sta provvedendo, dopo decenni di tentativi andati a vuoto, a preparare il terreno al compare-padrino per lo scasso del suo paese, il Venezuela. Anch’essa travestita e da noi riconosciuta combattente della libertà e della democrazia. E ha dunque per prediletti riferimenti politici Benjamin Netaniahu e Javier Milei, ai quali riserva complimenti e auguri e dai quali trae suggerimenti.

Con l’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il Comitato NATO norvegese, mimetizzato da Comitato del Nobel per la Pace, ha messo in mano a Joker-Trump una carta che si spera decisiva. Mezzo mondo, quello amerikkkano, lo ha festeggiato come l’asso per vincere una partita che Gotham City-Washington sta giocando e perdendo dal 1998, quando Ugo Chavez vinse democraticamente le elezioni presidenziali e pose fine a secoli di colonialismo spagnolo e yankee.

Ci siamo sfiorati, Catwoman e io, a Caracas nel 2002, giorni del primo golpe a cui diede il suo contributo una giovane donna scaturita dall’oligarchia spodestata. Il golpista Pedro Carmona, presidente della Confindustria venezuelana, si era autoproclamato presidente del Venezuela ed aveva emanato il famigerato “Decreto Carmona”. Un decreto con il quale  si instaurava la dittatura tramite lo scioglimento di tutte le istituzioni democratiche venezuelane, come codificate nella nuova Costituzione bolivariana votata dopo la vittoria di Chavez.

Chavez era stato sequestrato da un gruppo di ufficiali che, minoranza infima delle forze armate, avevano aderito al golpe ed era stato rinchiuso in una base dell’esercito. Immediata è stata la mobilitazione della popolazione. Sul grande vialone che dal centro di Caracas porta a Palazzo Miraflores, sede della presidenza, decine di migliaia di cittadini da tutto il paese si muovevano per cacciare l’usurpatore e imporre il ritorno del presidente legittimo. Nelle immediate vicinanze del palazzo, un cavalcavia sovrastava questa strada. Ero lìssù con la telecamera a filmare lo sconfinato fluire di gente incazzata che invocava “Chavez presidente”. Ma sullo stesso cavalcavia, affacciati sul percorso dei manifestanti, si erano riuniti sostenitori del golpe. Erano armati di pistole e sparavano sulla folla in basso. Tra loro, ad animarli e incitarli, una menade scatenata: Maria Corina Machado. Lo si può rivedere nel mio docufilm “Americas Reaparecidas”.

Tutto finì molto presto. Nel giro di poche ore, in un paese paralizzato dai sostenitori della rivoluzione bolivariana, militari fedeli alla Costituzione avevano liberato e riportato a Miraflores Ugo Chavez. La rivoluzione bolivariana sarebbe continuata. Alla faccia dei tentativi di sabotarla con altri colpi di Stato, rivoluzioni colorate, sanzioni micidiali, sabotaggi, attentati, incursioni di mercenari dalla vicina Colombia, allora sotto il regime del proconsole USA, Alvaro Uribe e delle sue bande paramilitari AUC.

Per il suo ruolo nel golpe del 2002, la Machado venne condannata a 28 anni e privata dei diritti politici. Un’amnistia concessa da Chavez la rimise a piede libero, ma non le spense l’impegno controrivoluzionario e gli stretti rapporti, anche finanziari, con le centrali del regime change di Washington, dalla CIA alla NED (National Endowment for Democracy) e a USAID.

La Catwoman-Premio Nobel dovrebbe aver fornito agli USA, dopo tanti tentativi andati a vuoto grazie alla coesione sociale e politica del popolo venezuelano, impegnato a difendere il proprio riscatto e la propria autodeterminazione, l’assist per trasformare le recenti provocazioni militari in azione diretta sul territorio venezuelano.

Preceduta da un indurimento delle sanzioni che, dalla prima vittoria di Chavez, hanno vessato la popolazione provocando profonde crisi economiche e sociali (si parla di 40.000 morti dovuti all’embargo) e da un’ininterrotta serie di quasi golpe, con Joker -Trump e Catwoman - Machado, pare si voglia arrivare alla resa dei conti. Come insegnano Iraq, Libia, Siria, Gaza, neanche in Latinoamerica deve esistere un paese che custodisca e gestisca a favore dei propri cittadini una della più grandi ricchezze di idrocarburi del mondo. Sottraendole al monopolio dell’energia e delle relative forniture che Washington spera di condividere con i suoi clientes del Golfo. E fornendo al subcontinente un intollerabile modello di vera giustizia sociale e sovranità.

La Machado si è adoperata instancabilmente perché questo assunto si realizasse. A tutte le elezioni in Venezuela, che osservatori indipendenti regolarmente definivano “le più corrette e trasparenti del mondo”, seguivano le “guarimbas”, tumulti, violenze con la specialità democratica dei cavi stesi attraverso la strada per decapitare poliziotti in moto. Il tutto accompagnato da alti lai internazionali del giro NATO sulla repressione dello Stato autocratico e a glorificazione della Machado. Alla quale, tuttavia, non è mai stata vietata la libera circolazione, a dispetto di violazioni della legge e della Costituzione quali l’invocazione di interventi militari statunitensi contro i propri concittadini, di sanzioni che colpisseero in modo letale la popolazione.

Nel 2019 fu la sostenitrice più in vista del colpo di Stato commissionato da Washington al presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidò. Un golpe presto tramutatosi in patetica farsa e spreco di centinaia di milioni di dollari arrivati a sostegno, indovinate da chi: dal nostro Joker, al suo primo mandato. Una mobilitazione di controrivoluzionari al confine con la Colombia, con grande spreco di altoparlanti e carrozzoni di teppisti, si spense da sola. Il tentativo di innescare una sedizione militare si risolse nel penoso spettacolo di Guaidò che arringava una cinquantina di militari di truppa..

Trump sta minacciando Caracas di sfracelli. Ha proclamato il presidente Maduro boss di un inesistente “Cartel de los soles” e il Venezuela Primo Narcostato dell’America Latina, responsabile degli stupefacenti che, sotto gli occhi della DEA, inondano il mercato USA e i caveau delle sue banche. Il dato che l’ONU e il suo stesso ex-vicepresidente e responsabile del capitolo droga, Pino Arlacchi, affermano che nessuna coltivazione e nessun traffico di droga esistono in Venezuela, non hanno impedito al Joker di Washington di lanciare una vera e propria apertura di ostilità. E’ la concentrazione, al largo della costa caraibica del Venezuela, di una flotta cosiddetta anti-narcotraffico, composta di incrociatori, sommergibili nucleari, corvette e navi da sbarco con sopra qualche centinaio di Marines. Apparato che si è subito reso responsabile dell’affondamento di cinque imbarcazioni civili e di 11 vittime assolutamente estranee al narcotraffico.

Adesso si tratta di vedere se anche il Nobel assegnato a Catwoman porterà a risultati come quelli conseguiti dai suoi predecessori, tipo Kissinger (1973, Pinochet), Obama (7 guerre), Begin (terrorista Irgun) e agevolerà un’aggressione vera e propria. Il Nobel allo strumento della CIA lo farebbe temere. Ma invasione e occupazione risultano problematiche dati un territorio immenso e una popolazione mobilitata e addestrato alla difesa in sinergia con il suo esercito. Il Joker in questione potrebbe limitarsi alla creazione del caos mediante bombardamenti e infiltrazione di mercenari.

Joker contro la Palestina

Qui Joker sé messo a fare il gioco delle tre carte. Carta perde, carta vince, dov’è la carta della pace? E tu provi, riprovi, provi ancora e sbagli sempre e la carta della pace non la scopri mai. Che non ci sia? Che il tappetaro di Gotham City l’abbia inventata per gabbare lo santo e i suoi fedeli? Ma no, e come se esiste!  Non c’è forse il compare, finto passante, quello con la kippa, che ci scommette che c’è e, infatti, la scopre e vince i soldi? Sempre solo lui, però.

E qui, cari amici, basta metafora. Al confronto con la coppia di malviventi in carne e ossa, il sadico eroe dei fumetti diventa un boyscout. La realtà ci dice che uno scaltro e squinternato yankee, pompato e tenuto in pugno dalla finanza ebraica. come impersonata dalla miliardaria ebrea Miriam Adelson (abbracciata e decorata alla Knesset), ha pagato pegno correndo in soccorso a Israele quando questa era rimasta in mutande a Gaza e del tutto nuda davanti alle genti del mondo (ricordate la favola di Andersen e il re scoperto nudo dal ragazzino?). Il suo finto piano di pace, che oblitera ogni prospettiva di un riconoscimento della Palestina, negandone la resistenza, il diritto alla statualità e al risarcimento degli immensi torti subiti (Il corrotto naziregime di Kiev viene ovviamente risarcito dei danni di guerra dai fondi russi congelati in Belgio) e ignorandone la stessa esistenza, non è che una fuga in avanti.

Fuga in avanti sostenuta, lungo la strada, da posti di ristoro che forniscono sostegno sotto forma di avallo mediatico alla megatruffa di una pace che lascia il 53% di Gaza in mano all’IDF, con licenza di sparare a chiunque si avvicini all’invisibile “Linea Gialla” (licenza che ultimamente ha permesso di seccare gli 11 membri di una famiglia che passava da lì in autobus). Fuga in avanti che lascia ai lati del percorso le sistematiche violazioni israeliane di ogni presunta tregua, con la prosecuzione dei massacri e dell’arma della fame fino all’ultimo palestinese. Che poi un Netanyahu, non più tanto lucido, ha provato a far passare per “violazione della tregua da parte di Hamas”.  

Gli ci è voluto un razzo finto-Hamas per rimettere a posto il cosiddetto Piano di Pace, come era facile aspettarsi dal ghigno con cui i dioscuri del genocidio fino all’ultimo palestinese, Ben Gvir e Smotrich, avevano accompagnato – e irriso - l’annuncio del Piano di Pace.

Fuga in avanti il cui effetto collaterale è l’abbandono, nel fosso lungo la strada, di una Palestina che consista almeno della Cisgiordania. Fuga in avanti che prova a scampare dall’inseguimento di un’umanità che, con Flotille e sollevazioni di popolo, costringendo i propri governanti a fare atto di riconoscimento, ha dimostrato di avere un passo più lungo di ogni cospirazione colonialista.

E fuga in avanti a ostacoli che la sfiancheranno perché sono l’esplosione di contraddizioni irrimediabili, insite nella dialettica tra forza e diritto, tra colonialismo e libertà. Tra i pochi e i tanti. Tra umanità e anti-umanità. Chi ha marciato nelle colonne in stracci con addosso fagotti contenenti i resti di casa e vita, armate solo di consapevolezza, volontà e fiducia, che ritornavano alla terra sotto le macerie di Gaza City, lo sa. Sono la postguardia dei marciatori ripartiti un secolo fa da una terra loro da millenni e che nessuno riuscirà mai a fermare. Neanche Joker, neanche con quel fedifrago antropofago di massa che gli fa da gendarme della “pace” continuando a uccidere con il pretesto che non gli ridanno subito dei corpi polverizzati dalle sue stesse bombe (ma è prodigo di restituzioni di centinaia corpi insaccati senza nomi, bastonati a morte, torturati, giustiziati a freddo con colpi tra gli occhi, e privati di organi utili per trapianti. Come piace a Joker).

martedì 14 ottobre 2025

Stato palestinese, dove? “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

 

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico

 Stato palestinese, dove?

 “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

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“Tu ucciderai tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i bambini, tutte le bestie” (Libro di Giosuè 6:21, relativamente a Gerico, oggi Cisgiordania)

Va premesso un dato incontrovertibile. Quello della misura in cui alla sedicente comunità internazionale festante (celebrano un deserto e lo chiamano pace) gliene freghi del popolo palestinese. Lo dimostra la grottesca e oscena farsa di un Piano di Pace che quel popolo di 15 milioni non lo prende minimamente in considerazione. Primo, con riguardo all’irrisolto peccato d’origine dello Stato ebraico, stragista, espropriatore, razzista, che ne esce rafforzato; secondo, per la totale cancellazione dalla scena della Cisgiordania, con i suoi 2,5 milioni, e dei cinque milioni di profughi. Ciò che resta sono: un frammento di Palestina dalle grandi prospettive immobiliariste e petrolifere, affidato a Trump, Blair e BP; e un altro frammento, premio di consolazione allo Stato ebraico che ne faccia la base di partenza per il Grande Israele.

 

Primum, inventarsi qualcosa che tolga di mezzo flottiglie e milioni in piazza

 

9 ottobre, sono passati tre giorni dalla proclamazione della” pace” a Gaza e, a detta di Trump, in tutta la regione. Pace in primis per tagliare le gambe a quella che, con flottiglie, milioni in piazza e riemersione dello Stato Palestinese, era diventata un intralcio di portata mondiale. Pace, peraltro, celebrata da Israele con la continuità delle bombe e della fame e che trova una sua particolare interpretazione anche in Cisgiordania. Per esempio, con quei coloni che il 9 ottobre scendono dal loro insediamento, come tutti i sacrosanti giorni dal 1967, per praticare la convivenza con chi c’era prima e ancora insiste a star lì. A forza di devastazioni, incendi, omicidi.

 

Essendo, secondo Trump e i suoi corifei, giunto il tempo della pace per i palestinesi, questo 9 ottobre la pace la si pratica dalle parti del villaggio di Deir Jarir. Alla fine della pacificazione c’è un villaggio distrutto, alcune case in fiamme, uliveti sradicati, fili elettrici tagliati, l’acquedotto spaccato, una scuola bucherellata dalle raffiche, Jihad Mohammed Ajaj, 26 anni, ucciso con una pallottola in testa e tre suoi famigliari feriti e poi ricoverati nel presidio medico della Mezzaluna rossa a Ramallah. Qui giunti dopo ore in fin di vita poiché le strade sterrate riservate ai palestinesi sono costellate di arcigni posti di blocco e interrotte dalle grandi strade a due carreggiate riservate ai coloni.

 

E’ uno di dozzine di episodi che si succedono senza soluzione di continuità da quando i padri di Israele, Ben Gurion, Golda Meir, Benachem Begin, utilizzando gli irregolari delle bande Stern, Irgun e Haganah, adottarono il terrorismo come metodo di controllo – e riduzione - delle popolazioni autoctone. Metodo che ha subito un formidabile crescendo dal giorno 7 ottobre, quando Hamas ha fatto riapparire la Palestina sul proscenio del mondo. Metodo, anche, che in questo frammento di Palestina non pare frenato dall’ola di pace lanciata dallo studio ovale, né messo in discussione dai vaticinatori dello Stato di Palestina.

 

Amici, avete tenuto testa, anche appigliandovi a qualche fortuita ciambella di verità (ho provato a lanciarne una anch’io da questa piattaforma) nell’onda anomala lanciata dal maremoto propagandistico israeliano sull’epocale evento del 7 ottobre? Siete riusciti a uscire indenni dalla narrazione neobiblica su quello sterminio di innocenti ebrei (quasi tutti uccisi da fuoco amico, metà erano militari IDF) da parte di sanguinari terroristi, stupratori e friggitori di neonati decapitati? Veleno anche più tossico perchè condiviso da laboratori, detti “alternativi” o “antagonisti”, dei quali eravamo abituati a fidarci? Tutti a sostegno del mantra che il genocidio era dovuto e giustificato, o almeno da comprendere, in risposta alle atrocità del 7 ottobre.

 

Del resto la chiave è sempre il “cui bono”, a chi è convenuto. E qui, però, le risposte sono due e in contrasto fra loro. Per l’una, grandi vantaggi ne hanno tratto Netanyahu e la sua compagine di psicopatici: il via libera, da tempo pianificato, allo sterminio di tutti i palestinesi, tutti chiamati Hamas, con tanto di tacito, esplicito, o a mezza bocca, consenso della maggioranza dei governi e media, ora coronato da un Piano di Pace che non sarebbe che la resa incondizionata di quel popolo e della sua resistenza. Per l’altra, tutto il contrario: col genocidio Israele ha tirato troppo la corda, ha perso l’incondizionato sostegno del mondo, da vittima si è rivelato carnefice, è precipitato in una lacerante crisi interna, viene isolato economicamente e politicamente, insomma s’è scavato la fossa.

 

Dopo Gaza, Cisgiordania (ciò che ne rimane)

 

Ora toccherebbe a quell’ultimo frammento di Palestina sparpagliato e schiacciato tra le nuove città che ospitano 900.000 coloni, ribattezzato, in vista dell’annessione definitiva come da dettato biblico, Giudea e Samaria. Il cosiddetto “Piano di pace” di Trump non prevede nei suoi 21 punti, che ne fanno il piano di ricolonizzazione anglosassone di Gaza, nessun accenno alla Cisgiordania. Forse che, nel disegno degli immobiliaristi, lasciare alla mercè dei coloni, di Netaniahu, Ben Gvir e Smotrich, la “Giudea e Samaria” con quei suoi quattro ulivi, sia la moneta con cui a Israele il consorzio Trump-Blair-Kushner paga la molto più appetibile “Riviera di Gaza”, con il gas miliardario al largo assicurato alla BP tramite Tony Blair? Che su questo baratto possano aver dato il loro consenso al Piano i governi arabi, in qualche modo fruitori del raccolto a venire?

 

Sebbene per quanto si va facendo alla Cisgiordania non si sia ancora addotto nessun presunto massacro di “innocenti civili”, tipo quello del Nova Rave di giovani allegri, piazzato proprio in vista del - e dal - campo di concentramento “Gaza”, bene in vista dei carcerati e morituri. Ma diamo tempo al tempo. Per ora, sulla criminalizzazione di quegli altri frammenti sparpagliati di residui palestinesi, prevale la tattica del silenzio. Che serva alla ripetizione, su quello straccio già insanguinato di Palestina, di quanto è stato fatto a Gaza? E ad evitare che le uova nel paniere di Trump, Netaniahu e Blair vengano rotte da un nuovo concorso, in terra e in mare, di popolo imbandierato di Palestina?

 

Nella guerra dei 6 Giorni del 1967, Israele aveva occupato tutta la Minipalestina che una squilibrata assemblea generale dell’ONU aveva strappato ai conquistadores sionisti. 26 anni dopo, gli Accordi di Oslo. La Minipalestina occupata e già frastagliata in isolotti incomunicanti da una proliferazione di insediamenti dichiarati illegali dall’ONU, è ulteriormente frantumata in tre aree ad amministrazioni distinte. Ne parliamo dopo.

 

Yitzak Rabin, il premier che una certa narrazione ci presenta come l’eccezione includente rispetto ai governi della cancellazione tout court dei palestinesi, invitava i soldati israeliani a “spezzare le ossa” ai ragazzini palestinesi che lanciavano sassi nella prima Intifada. Ha poi fatto tanto il conciliatore da produrre, con sodali internazionali vari, gli accordi-truffa di Oslo, chiodo nella bara dello Stato Palestinese. Accordi sottoscritti anche da uno stanco Arafat che si riteneva soddisfatto del grazioso riconoscimento dell’OLP come interlocutore e della costituzione di una cosiddetta Autorità Nazionale con bandierina palestinese sul palazzo della Muqata’a a Ramallah.

 

Corre una certa somiglianza tra i tripudi suscitati allora da questa “sistemazione” del conflitto israelo-palestinese e gli osanna oggi dedicati alla farsa pacifista di Trump che, come gli illusionisti di Oslo, evita accuratamente di sfiorare il nocciolo della questione.

 

Stroncata la seconda Intifada, ricupero di coscienza e combattività del popolo espropriato e colonizzato, diretta da Fatah con Marwan Barghuti segretario, l’ANP finisce in mano al più classico dei Quisling, Mahmud Abbas-Abu Mazen, e alla sua cricca di burocrati collaborazionisti, voraci e ladri. Si crea un condominio dell’intelligence e della repressione israelo-palestinese, impegnato a sopprimere sul nascere ogni singulto di resistenza. Condominio che subisce qualche crepa quando il Partito Hamas, emerso negli anni ‘80 come alternativa politica a detto condominio, vince a larga maggioranza le elezioni nei territori occupati del 2006. Sconfitto un tentativo di golpe di Fatah, assume il governo della striscia di Gaza, ma il potere in Cisgiordania gli viene negato dall’opposizione militare e poliziesca congiunta dell’ANP e di Israele.

 

Un’altra spartizione farlocca

 

Si consolida la grande mistificazione del cammino verso la graduale costituzione dello Stato di Palestina, come deliberata ripetutamente dall’ONU, con il diritto al ritorno dei profughi della Nakba e del 1967 e col divieto di costruzione di colonie che iniziano a frantumare la continuità del previsto Stato. Lo strumento sono Oslo e quell’architettura del territorio diviso in zone da una conduzione tricefala: l’A, sotto controllo dell’Autorità palestinese, la B sotto una surreale amministrazione congiunta palestino-israeliana, la C, area delle colonie, sotto esclusivo controllo israeliano. Nella C ricade una larga striscia di territorio lungo il fiume Giordano, che costituisce anche il confine con la Giordania, concorre a chiudere l’assedio ai territori del presunto futuro Stato e assicura a Israele il controllo sulle acque del fiume e su vaste zone irrigabili e coltivabili.

 

E’ anche una presa di possesso finalizzata a garantire a Israele la sicurezza rispetto a incursioni da Libano o Giordania. Incursioni anche recenti di Hezbollah e, più lontane nel tempo, quelle dei Fedayin dalle loro basi in Giordania, delle quali fui partecipe anch’io, assumendo la figura composita del cronista e del combattente.

 

Il grande equivoco delle tre zone, in cui solo nella A si poteva tirare qualche momento di sollievo da un’occupazione invasiva e spietata, presi tra le vessazioni delle incursioni militari e degli infiniti controlli ai posti di blocco, intesi a compromettere la vita civile, quella economica, gli spostamenti. Mi ricordo la blindatura del valico di Qalandiya, tra Ramallah, zona A, e l’area di Gerusalemme, divisa tra B e C, scientemente destinato a interrompere il flusso di lavoratori e cittadini verso scuole, ospedali, uffici amministrativi, posti di lavoro. Provocava file sterminate di viaggiatori esasperati, a piedi o su mezzi. L’intenzione punitiva era esaltata dal blocco, a fine di controlli e perquisizioni, delle ambulanze con a bordo malati, incidentati, o altri con ragioni d’urgenza. Per non essere potuti giungere in tempo a destinazione, molti pazienti morivano, donne partorivano nell’ambulanza. C’è tutto nel mio documentario “Fino all’ultima Kefiah!”.

 

Quanto alla zona sotto “esclusivo” controllo palestinese (che non evitava incursioni delle forze di sicurezza israeliane), di come fosse rispettata, mi ricordo per qualcosa che mi porto dentro ancora oggi, un quarto di secolo dopo. Nella zona A, da Ramallah, la sede dell’ANP, bastava spostarsi di poche centinaia di metri per ritrovarsi in una specie di terra di nessuno, formalmente A, ma di cui l’esercito se ne infischiava. Giorno dopo giorno vi si rinnovava la contesa tra chi doveva sottomettersi e chi sottometteva, i primi con i sassi, i secondi con lacrimogeni e, a volte, pallottole.

 

Fui testimone di uno di questi episodi dalla cadenza quotidiana. Blindati dell’esercito occupante penetrano nell’area A, li fronteggiano nugoli di ragazzi e ragazze, spuntati come funghi, mobilitati da un’organizzazione invisibile. Ho negli occhi l’immagine di una donna anziana, dalle vesti lunghe e col velo, che riempie di sassi un secchio, lo mette a disposizione dei giovani lanciatori. Poi, impazientita, li raccoglie da terra e li lancia lei stessa. I blindati, a circa 50 metri, dopo qualche lacrimogeno, rispondono col fuoco. Per l’oretta che rimango lì, ne vengono colpite tre ragazze. Le recuperano ambulanze comparse dal nulla. Non ho sentito un lamento.

 

Un altro giorno si tratta di eliminare un posto di blocco, con tanto di massi di cemento e torretta di sorveglianza, che impedisce il passaggio degli studenti verso la loro università, Bir Zeit. Ai palestinesi ci uniamo noi, un gruppo di solidali europei. Niente armi da fuoco dai blindati sulla collina, stavolta, ma un bombardamento a tappeto di gas CS, detto lacrimogeno, ma proibito per la sua tossicità dalla Convenzione di Ginevra. Vomitiamo in tanti, c’è chi perde i sensi. La mia mai sopita bronchite cronica, e chissà quante altre, venne innescata quel giorno. Per contrappasso, mi è stata curata, durante ripetute visite nella regione, anche da pneumologi arabi.

 

Hebron, insediamenti tombali

 

A Hebron la doppia gestione era concepita dagli israeliani in modo da innestare nel cuore della comunità araba un nugolo di coloni di estrazione statunitense, virulentamente anti-arabi e di fanatico impegno millenarista. 500 subito, ora migliaia, per i quali erano stati fulmineamente eretti enormi palazzoni su terreni della città vecchia della quale erano state rase al suolo le prestigiose testimonianze storiche risalenti al Medioevo. Dei genocidi elemento costitutivo è la cancellazione delle identità radicate nella Storia. Si pensi a cosa ha fatto a Palmira, in Siria, l’ISIS, mercenariato dei turchi e della NATO, dopo aver ucciso il suo custode, l’archeologo Khaled al-Asaad, per non avere rivelato agli attaccanti dove erano conservati i reperti più preziosi.

 

Incontro un medico che ha studiato in Italia. I militari gli hanno preso e occupato la casa in centro. Cacciati In mezzo a una strada anche i suoi bambini. Lui, davanti al portone, ci racconta. Loro, sui tetti, ci gratificano di sberleffi, poi sparano alle case al di là della piazza. Accorrono dei ragazzi e ci mostrano proiettili di mitra rimbalzati dai muri. Che lo si racconti in Italia…

 

Ogni due per tre, i soliti lanciatori di pietre ed erettori di barricate da dare alle fiamme all’arrivo dei militari, cercano di ricordare a se stessi e al mondo che quella è la loro terra, fin da quei secoli che le macerie dell’antico mercato non possono più rievocare. Tutto finisce poi come a Ramallah e Bir Zeit. Ma riprende. Non ha mai cessato di riprendere. Con o senza Hamas. Barricata di traverso alla strada principale di Hebron, fiamme, blindati arrivano e sparano. Ce la caviamo in un androne. Dai muri partono schegge. Incontriamo dei carabinieri italiani. Stanno lì nel ruolo di peace-keepers, o qualcosa del genere. Compilano rapporti. Non fanno né caldo, né freddo a nessuno.

 

Quelle di allora erano definite scaramucce, eufemismo per mezzo secolo di brutale e feroce tirannia e indefessa rivolta. A partire dal 7 ottobre dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa” e della relativa risposta “Hannibal” (tecnica militare che non guarda in faccia a nessuno, con il risultato di 250 coloni fatti prigionieri e un numero imprecisato di civili e soldati uccisi nel fuoco incrociato), la Cisgiordania diventa terreno di guerra vera e propria. Soprattutto di vendetta sanguinaria, contro genti relativamente inermi, per quanto a Israele viene inflitto dalla Resistenza a Gaza. A Jenin e in altri campi profughi e centri abitati, da varie matrici storiche, nasce l’organizzazione combattente “Tana di leoni”.

 

C’era una volta Jenin

 

La violenza repressiva delle forze armate, anche aeree, dello Stato sionista, è sostenuta da incursioni di coloni armati e le sostiene Si abbatte su centri abitati palestinesi, che si tratti di città, villaggi e soprattutto campi profughi, o coltivazioni, fondamentali per la sussistenza: uliveti, vigneti, frutteti. Si arriva a tagliare reti elettriche, sabotare presidi sanitari, contaminare acquedotti. E di pochi giorni fa l’assassinio di uno dei realizzatori del documentario “No other land”, drammatica testimonianza di una vita resistente sulla terra che è sua, ma che è diventata impraticabile, a partire dalle vie di comunicazione vietate e a finire con gli ulivi sradicati.

 

Va ricordato, a disonore dell’ANP che, per mantenere la del tutto fantasmatica rappresentanza di un popolo che collettivamente la disconosce, agevola i pogrom di coloni e IDF con preventivi interventi della sua polizia, mirati a individuare elementi e nidi di una crescente resistenza e trasmettere informazioni ai colleghi con la stella di David. Resistenza animata oltre che da Hamas, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dalla fazione dissidente di Fatah e da comitati locali. Gli assalti di coloni, supportati dall’IDF da terra e con elicotteri dal cielo, devastano città come Nablus, Jenin campo di profughi della Nakba, vivace centro culturale, raso al suolo E poi Tulkarem, Nur Shams, Tubas. Ne risultano decine di migliaia di sfollati allo sbando.

 

Intanto Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e caporione dei coloni, annuncia l’imminente annessione di Giudea e Samaria, cioè di quanto, persa Gaza mutata in “giacimento d’oro immobiliarista” (sempre Smotrich), resta della Palestina possibile.

 

Traggo da fonti recenti e da un dettagliato rapporto diffuso dall’Associazione Palestinesi in Italia (API) una serie di dati.

 

Dal 7 ottobre 2023 in Cisgiordania esercito, polizia e coloni israeliani hanno effettuato 38.359 attacchi a terre, proprietà e vite palestinesi. I coloni hanno creato 114 nuovi insediamenti, cacciando dai loro centri abitati 33 comunità autoctone. Sono stati sequestrati circa 5.500 ettari di terreno agricolo di cui 2000 costituenti riserva naturale. Vi sono state costruite strade riservate agli ebrei, torrette militari, zone militari cuscinetto attorno alle colonie. Sono in corso di costruzione per coloni 37.415 nuove unità abitative. Il totale dei posti di blocco e barriere sale a 916, delle quali 243 eretti dal 7 ottobre 2023.

In quello stesso periodo i coloni hanno appiccato 767 incendi su terreni agricoli, effettuato 1.014 demolizioni con la distruzione di 3.679 strutture palestinesi. A inizio settembre i palestinesi uccisi sono 1.079, i feriti 8.015, gli arrestati 22.633, le case distrutte 7.712, i luoghi sacri violati 1.034, gli attacchi a personale medico 314. 10.945 strade di comunicazione sono state sbarrate, 73.000 sono gli sfollati, il 90% dei campi profughi è stato obliterato.

Al regista palestinese Basel Adra coloni e soldati hanno distrutto il villaggio, Masafer Yatta, di cui ci racconta nel suo “No other Land”, premiato con l’Oscar. Sono sue le ultime parole su questo lembo di Palestina, frantumato in mille pezzetti, ma che vogliono che sia il primo passo dello scarpone chiodato sionista verso il Grande Israele. Nel mondo si festeggia la “pace”.

“L’occupazione continua, più brutale che mai. Il cessate il fuoco non è la fine, Gaza è distrutta… In Cisgiordania, solo negli ultimi giorni, hanno ucciso 15 persone e nemmeno uno di loro è in carcere. Bruciano villaggi e i palestinesi devono lasciare le loro comunità, 40 villaggi si sono spopolati e la costruzione di avamposti e di insediamenti è incessante. Trump e il suo governo sono favorevoli ai coloni e agli insediamenti… L’attenzione è tutta su Gaza e su questo cessate il fuoco. Ma dovrebbe essere sul popolo palestinese, sui nostri diritti… L’Autorità palestinese non ha alcun potere e non ho fiducia nei paesi del Golfo. Sia il governo, sia l’opposizione hanno votato che non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.

Così stanno le cose. C’è da celebrare? Ai palestinesi non rimane che la loro Resistenza. Unita alle piazze del mondo.