Fulvio
Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti per “Spunti di riflessione”
America
Latina
IL
RITORNO DEL CONDOR
https://www.youtube.com/watch?v=WoxOFLfrTcY&feature=youtu.be
Bolivar o Operazione Condor 2? Con Fulvio Grimaldi
Anni
’70, non solo Pinochet
Chi
era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento
della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da
canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di
resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma
che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella
resistenza quelli che se ne videro messi in discussione la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di
piombo”.
Noi
invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande
cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e
di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca
politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà
unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha
superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito
nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”,
operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu
del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.
Il
Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non
sono necessariamente tutti dei Cavo Dragoni), ci indicarono chi erano i nuovi
nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in riserva il fascismo, ci stavano di
nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da
liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati
dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per
coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.
Gli
anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel
subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del
riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo
sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi
fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in
Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il
MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo
per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto
“Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo,
Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non
permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato
da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.
Cile,
la sinistra con le scarpe della destra
In
Cile è andata male, come viene raccontato nel video. Da uno, Gabriel Boric,
venuto a galla sui grandi sommovimenti, soprattutto studenteschi (niente a che
fare con Zeta) contro il tardo, ma irriducibile, pinochettismo della fine del
secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate grandi cose. Nessuna delle
quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran che non aveva modificato la
Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti gruppi interni ed esteri,
mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo, non aveva intaccato la presa
delle corporation USA sulle risorse del paese, a partire da rame e litio. Ed
era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato un tono positivo auspicando
l’arresto di Netanyahu.
Così
alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, ma appena col 27%. Al
ballottaggio, a metà dicembre, vincerà invece uno di due pinochettisti duri,
Antonio Kast, figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità”, che
ha preso il 24%, oppure Johannes Kaiser, stessa risma, arrivato al 14%. Insieme
sotterreranno Jara con il cumulativo 38%. Cui è probabile si aggiungano il 13%
di un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della
giunta di Pinochet e, forse, il 19,71% dell’immancabile “populista”, Franco
Parisi.
Con
la destra al 70%, bye bye Cile. Che poi vuol dire controllo del Sud Pacifico,
di buona parte dell’Antartide, rame, litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di
un rafforzamento della regressione del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay,
Ecuador, Perù, verso il famigerato “cortile di casa”, in cui dare spazio ai
giochi estrattivi delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.
Honduras,
vince la sinistra, estreme destre al ballottaggio
Nel
nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton,
irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto
stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras,
paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee,
libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Alle elezioni presidenziali del 30
novembre ha vinto, sì, Rixi Moncada, candidata di LIBRE (Libertad e
Refundacion) il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di Manuel
Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua moglie
e presidente dal 2022.
Ma
al ballottaggio la Moncada non c’è. Si presenta il duo Nasry Asfura, grande
palazzinaro, tycoon dai 25 massimi gruppi economici della regione, caro al
collega Trump, e Salvador Nasralla, una specie di Zelensky dagli analoghi
trascorsi da divo TV. Quasi appaiati, hanno raggiunto il 70%. Che è oggi la
forza della destra nel paese che torna a essere intimamente legata ai narcos.
Trump,
quando i narcos sono amici
Non
per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di
Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere il
sosia in sedicesimo Milei, mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari,
ma solo se fate vincere Milei. Nel caso
di Asfura è arrivato a esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo
vecchio sodale, l’ex.presidente Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da
Xiomara Castro e successivamente condannato da giudici statunitensi a 45 anni di
prigione per narcotraffico. Insomma, insieme a un presidente narcotrafficante,
ne risulta riabilitato anche un suo intimo e probabile successore. Va dunque,
per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di LIBRE.
Basta per mettere in evidenza cosa intenda Trump quando minaccia guerra al
Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel segno della “lotta al
narcotraffico”?
Quando
arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato
allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e
facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono
presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente
dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad
in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli
elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.
Gli
honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza
Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese
era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il
controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile
Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e
partiva.
Un
golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta
La
resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese.
Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il
paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di
popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle
fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è
riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive
di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per
l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano
già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della
società civile.
Il
contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone
uccise, incarcerate fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di
elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza
rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse
solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra
istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della
popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione
nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento
antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella
difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel
2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei
Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di
sbarramenti artificiali programmati.
La
situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e
boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti
particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per
aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez,
boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero
acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con
Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentanea fuori gioco da
questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare alla
vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire della
resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a 50 anni
di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono troppo
lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà dalle
urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte di
tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.
Va
aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze
antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fati.
Di
fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Raxi Moncada e gli
esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e
i vertici di LIBRE si erano dichiarati disposti a riconoscere la sconfitta e la
candidatura al ballottaggio degli esponenti della destra.
Poi
però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva
registrato alcune forte anomalie. Un insolito meccanismo esperimentale detto
TREP, per la trasmissione elettronica dei dati elettorali preliminari, aveva
dato segno di essere tutto fuorchè affidabile. Decine di migliaia di voti erano
scomparsi nella sua pancia e non si riusciva a recuperarli. Non solo, nel
parallelo metodo dei verbali manuali contenenti i dati anagrafici e quelli
biometrici dei votanti e le firme degli scrutatori, non si riuscivano più a
trovare migliaia di verbali per, alla prima conta, ben 543.478 voti. A questo punto l’accettazione del verdetto
pronunciato dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe
elettorale.
Si
vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore
di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli
mancheranno gli aiutini del Nord.
Ecuador,
condor in bilico
L’Ecuador,
se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 217, da
una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael
Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina
di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di
ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione
fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale,
inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al
paese.
Lenin
Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto
proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti,
rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con
il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione
centrodestra e filo-yankee-
Nel
2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano,
liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi.
Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima
concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia
fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E
anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla
candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi
e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare
qualche peso alle accuse di elezioni rubate.
C’è
però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove
prospettive Rivelando una coscienza
politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi
in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di
posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano
cristallizzati.
Con
un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump,
un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente
alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato
appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento
dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da
Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di
forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di
complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente
un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei
suoi padrini.
Noboa,
che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle
incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti
ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta
zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti
“gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui
quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun
bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio
infausto del M5S, ancora grillino)
La
risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un
tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal
54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione
militare yankee.
Ciò
che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa
del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a
riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi
senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel
mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e
la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico
verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca
nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono
qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei
cittadini.
Con
tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i
narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela.
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