Fulvio
Grimaldi
America
Latina, la nuova Heartland
EL
CONDOR PASA… Y REPASA
Noi
e l’America Latina…
Due
parole per chiarire il titolo. Heartland, cuore della Terra, o
terra-cuore, era per il mitivo geopolitico USA Zbigniew Brzezinski, nella
configurazione della sua Grande Scacchiera, la regione del mondo di cui un
impero doveva essere in possesso. per potere esercitare un dominio globale. Si
trattava delle immense aree interne dell’Eurasia. Da qui il confronto epocale
con l’URSS, divenuto Guerra Fredda.
Ciò
che ci ha fatto intendere Donald Trump, con le sue recenti dichiarazioni sui
propositi strategici degli USA, è uno spostamento drastico dell’attenzione e
delle intenzioni, dall’Eurasia vagheggiata dal politologo di Jimmy Carter, alla
più vicina e concreta America Latina. Ce ne siamo accorti, noi italiani? Non
crediamo di avere buoni motivi per interessarcene?
Penso
che per una volta noi italiani, abituati a denigrarci, a non considerare e
neppure a ricordare chi si è speso per il nostro paese e con eccellenti
risultati (Guerre e lotte di liberazione tra ‘800 e Resistenza partigiana),
possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Parlo della Palestina, di come siamo
stati pronti e determinati a conoscerla, sostenerla, difenderla in tutti i
creativi modi con cui ci siamo mobilitati in massa, traendone anche consapevolezza
politica più vasta e profonda dell’ambito colonialista specifico. Bene, bravi,
7+.
Ma
l’America Latina? A suo tempo un discreto movimento per Cuba, poi per il
Venezuela molto di meno, qualcosina per il Nicaragua… In America Latina
vivono oltre 1,5 milioni di italiani registrati all'AIRE (Anagrafe
degli Italiani Residenti all'Estero), con le comunità più numerose in Argentina (circa 870.000) e Brasile (oltre 470.000), secondo dati aggiornati a
circa il 2021/2022, ma il numero totale di persone di origine italiana è molto
più elevato, contando decine di milioni di persone (oriundi). In Venezuela gli
italiani registrati sono 150mila, ma quelli che si dicono italiani sono almeno
1 milione. Erano cinque, ma sono venuti via in tanti dopo il cambio di
paradigma imposto al paese dalla rivoluzione bolivariana di Chavez e Maduro che
ha posto fine a una casta di privilegiati di cui imprenditori italiani erano
protagonisti.
Allora,
lasciando da parte fenomeni planetari ed epocali, tipo Palestina o il conflitto
ucraino, com’è che l’annunciato assalto trumpista al Venezuela, paese di 28,5
milioni di abitanti, protagonista del più grande rivolgimento continentale, a
rischio di finire come Gaza, non colma né le piazze, né gli schermi, né le
pagine dei giornali? E del Nicaragua veniamo a sapere qualcosina, solo perché i
vescovi cattolici locali, protagonisti di una controrivoluzione antisandinista
scatenata dal solito mercenariato ONG, si dicono perseguitati e repressi dal
regime?
Questa
situazione di assenza, sconoscenza, ignavia, meticolosamente perseguita dal
nostro sistema politico-mediatico integrato, quando non sia il caso di ripetere
a pappagallo le calunnie inventate da qualche yankee vorace di risorse
naturali, non è casuale e neppure innocente. L’America Latina, superato qualche
soprassalto di interesse giovanile per le dittature del Condor kissingeriano e
relative resistenze armate, e per la rivoluzione cubana, da tempo catalogata e archiviata,
è roba yankee. Roba del padrone. Che non gradisce ingerenze e meno gli altri se
ne occupano e più è padrone di occuparsene lui.
Tanto
più che, con Trump, ha vigorosamente manifestato una nuova strategia; quella
che mette al centro l’America Latina e le sue sconfinate risorse, con
simultaneo abbandono dell’Europa, derelitta con poco in dispensa, che di
risorse da rapinare non ne ha e che, anzi, a suo tempo ha fatto danno
prevalendo nel campo della manifattura. Un rilancio della dottrina Monroe,
controllo USA sull’emisfero, che ora qualcuno chiama “Donroe”.
Qui
diamo uno sguardo a una serie di sviluppi di stretta attualità, ma che non
sembra siano considerati, dai soloni mainstream della nostra geopolitica, degni
di notizia o addirittura di approfondimento. E pensare quale scossone darebbe
agli equilibri mondiali ì’ipotesi, seriamente studiata, di un canale nell’
istmo tra Caraibi-Atlantico e Pacifico tracciato in Honduras o Nicaragua, che
sostituisca quello di Panama, nodo scorsoio nordamericano dai cui porti si sta
cercando di cacciare i cinesi.
Anni
’70, non solo Pinochet
Chi
era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento
della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da
canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di
resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma
che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella
resistenza quelli che se ne videro messi in discussione la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di
piombo”.
Noi
invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande
cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e
di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca
politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà
unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha
superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito
nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”,
operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu
del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.
Il
Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non
sono necessariamente tutti dei Cavo Dragone), ci indicarono chi erano i nuovi
nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in standby il fascismo, ci stavano di
nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da
liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati
dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per
coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.
Gli
anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel
subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del
riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo
sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi
fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in
Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il
MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo
per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto
“Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo,
Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non
permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato
da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.
Cile,
la sinistra con le scarpe della destra
Mentre
scrivo, il risultato del ballottaggio presidenziale cileno non è ancora stato
comunicato. Ma è difficile che ci siano sorprese, anche perchè tra i due
contendenti, la prima arrivata, comunista, non ha dietro di sé che quel triste
27% del primo turno. Mentre l’avversario postnazista si avvale, oltrechè del
suo 23,9% anche di quanto gli portano i successivi terzo, quarto e quinto del
primo turno, tutti che non si distinguono essenzialmente che per le facce e gli
abiti che portano. Quanto all’essenziale – che Cile, quali rapporti di classe,
che fare dei residui del pinochettismo, mai del tutto rimossi dal predecessore
Boric, come trattare la minoranza emarginata dei Mapuche, e, soprattutto come
rapportarsi a chi da sempre, con le sue forze economiche, militari e
d’intelligence, prova a determinare le stagioni del paese – le differenze sono
quelle che trovi tra una ‘ndrangheta e una camorra.
In
Cile è andata male. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi
sommovimenti, soprattutto studenteschi contro il tardo, ma irriducibile,
pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate
grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran
che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti
gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo,
non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a
partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato
un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.
Così
alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, già ministra del
lavoro con Boric, ma appena col 27%. Al ballottaggio era data per scontata la
vittoria del primo dei due pinochettisti duri, arrivati secondo e terzo. Il
Contendente di Jara è Josè Antonio Kast, del fascistoide Partito Republicano,
figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità” di rifugiati del
Reich, arrivato al 24%. Sono noti i suoi stretti legami con il partito spagnolo
dell’ultradestra VOX, anche intensamente frequentato dalla nostra premier
Meloni: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”….
Il quarto
arrivato, Johannes Kaiser, Partito Nazionale Libertario, stessa risma e stessa
matrice, contribuisce col 14%.all’affermazione dell’estrema destra. Al
potenziale 38% ottenuto dai due al primo turno si dovrebbe sommare il 12,4% di
un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta
di Pinochet e, forse, il sorprendente 19,71% dell’immancabile “populista”,
Franco Parisi, “Partito della Gente”, riuscito a scalzare Kaiser dal terzo
posto. Ci si prospetta un personaggio che si girerà a seconda del vento che
sente tirare.
Quanto
ai risultati delle contemporanee elezioni legislative, la tendenza a destra è
confermata dalla sua avanzata nella Camera dei Deputati, con 155 seggi, e nel
Senato, con 23 seggi su 50.
Con
la destra al 70%, anche se per un miracolo dovesse ora arrivare in testa
Jeanette Jara, con il suo controverso sforzo di ricupare il voto moderato,
vecchia tara, il Cile che neppure il “sinistro” Boric è riuscito ad estrarre
dalle secche del pinochettismo diffuso, più o meno mimetizzato, rimane saldo
nelle mani dei suoi potentati economici. Salvo una rivoluzione, che però non è
alle viste neanche nei programmi del Partito Comunista di Jara. Una
preoccupazione di meno per chi ha messo al centro della propria strategia
“detta di Sicurezza”, da leggersi come aggressivamente colonialista, la
rinnovata dottrina Monroe.
Che
poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame,
litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione
del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, nel recinto del
famigerato “cortile di casa” Cortile in cui dare spazio ai giochi estrattivi
delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.
Honduras-Trump,
golpe elettorale in corso
Mentre
scrivo, in Honduras alle prese dal 30 novembre con le elezioni presidenziali,
in seguito a una valanga di calcoli sbagliati, voti spariti e pesanti ingerenze
di Trump, il caos è totale. Il Partito al governo, Libre, ha chiesto
l’annullamento delle elezioni.
Nel
nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton,
irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto
stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras,
paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee,
libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Troppo gravi le problematiche
strutturali economico-sociali, superate solo in misura ridotta. Il tasso di
povertà è calato dal 75% al 60%, ma l’insicurezza alimentare colpisce 1,7 degli
11 milioni di honduregni, grazie anche ai danni ai raccolti prodotti da siccità
e inondazioni.
Alle
elezioni presidenziali del 30 novembre Rixi Moncada, candidata di LIBRE
(Libertad e Refundacion), il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di
Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua
moglie e presidente dal 2022, si è dovuta accontentare, dopo metà dei voti
contati, di un deludente terzo posto, inchiodata al 19’18%. Segno di quanto
poco la popolazione ha apprezzato la gestione del dopo-vittoria del 2022 da
parte di Xiomara Castro. Ma segno, forse più forte, di quanto possa l’intervento
di Trump in un paese formalmente sovrano.
I
conteggi, diventati estenuanti e chiaramente oggetto di manipolazioni, rilevati
anche dagli osservatori UE, hanno poi avuto degli sbalzi che però riguardavano
le rispettive posizioni dei due arrivati in testa: Nasry Tito Asfura del
Partido Nacional Conservador, grande palazzinaro, tycoon di riferimento dei 25
massimi gruppi economici della regione, sospinto senza pudore da Trump, e
Salvador Nasralla, Partido Liberal, una specie di Zelensky dagli analoghi
trascorsi da divo TV e per Trump seconda scelta. Quasi appaiati dopo i primi
conteggi, 40% all’uno, 39,80%, insieme rappresentano una estrema destra di
quasi l’80%, Che è oggi la forza della destra nel paese, intimamente legata ai
narcos.
Trump,
i narcos, quelli veri, non vengono bombardati
Non
per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di
Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere Milei,
mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere
Milei. Nel caso di Asfura è arrivato a
esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex-presidente
Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente
condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Incredibilmente,
insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche questo
suo intimo e probabile successore. Liberato dalla sua prigione a New York e
trasferito a Tegucigalpa per sostenere il suo emulo nell’attuale corsa al
primato, questo ex-presidente narcos è stato fatto immediatamente riarrestare,
a esecuzione di un mandato dell’Interpol, da un per niente intimidito ministro della
Giustizia honduregno.
Va
dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di
LIBRE. Basta questa sua iperattività per determinare l’affermazione del
candidato tracimante profumo di stupefacenti a mettere in evidenza cosa intenda
Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel
segno della “lotta al narcotraffico”? Con la denuncia della candidata
apparentemente sconfitta, del suo partito e addirittura del Consiglio Nazionale
Elettorale, responsabile della convalida dei risultati, di un golpe elettorale
in corso, i giochi si sono riaperti. La situazione resta confusa, Il rifiuto di
riconoscere i risultati provvisori della presidente uscente, Xiomara Castro, si
fonda su dati concreti. Il meccanismo degli scrutini prevede un duplice
conteggio: quello elettronico del TREP, che calcola i risultati preliminari e
nella cui pancia pare siano scomparse alcune decine di migliaia di voti, e
quella dei verbali con i dati anagrafici, biometrici e le firme degli
scrutinatori, di cui altre migliaia appaiono prive di questi accertamenti. Accuse di frodi e manipolazioni, avanzate
dalla sinistra si esprimono adesso anche in tumulti di piazza.
Incurante
di tutto questo, Trump accentua la sua partecipazione attiva a un processo che
non sembra finire mai e assume caratteri surreali. Quando, a 10 giorni dal
voto, i conteggi incominciavano a dare atto di un momentaneo superamento di
Asfura, Partido Nacional, da parte del liberale Nasralla, a Trump meno gradito,
altro intervento a gamba tesa: “Se non vince Asfura, voi narcocomunisti non
vedrete più un dollaro di aiuti americani e andrete in rovina…”
Difficile
fare la cronaca di un processo che sembra arrotolarsi su se stesso. Assistiamo
a un grottesco susseguirsi di colpi di scena, con scoperte di voti sottratti,
ricomparsi, svaniti, interferenze esterne sempre più pressanti, con minacce
trumpiane fino al livello israeliano della fame come arma di guerra, tumulti
popolari davanti alle sedi del potere nella consapevolezza che si sta portando
avanti un oscuro tentativo di negare la volontà degli elettori, sospensione
temporanea dei conteggi a quasi due settimane dal voto. Evidentemente per chi
puntava su un recupero di questo paese uscito dall’orbita USA, la posta in
gioco è molto grande.
Un
popolo contro i suoi schiavisti…
Quando
arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato
allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e
facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono
presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente
dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad
in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli
elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.
Gli
honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza
Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese
era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il
controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile
Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e
partiva.
Un
golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta
La
resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese.
Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il
paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di
popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle
fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è
riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive
di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per
l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano
già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della
società civile.
Il
contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone
uccise, incarcerate, fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di
elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza
rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse
solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra
istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della
popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione
nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento
antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella
difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel
2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei
Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di
sbarramenti artificiali programmati.
La
situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e
boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti
particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per
aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez,
boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero
acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con
Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentaneamente fuori
gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare
alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire
della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a
50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono
troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà
dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte
di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.
Va
aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze
antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fatti.
Di
fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Rixi Moncada e gli
esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e
i vertici di LIBRE si erano, in un primo tempo, dichiarati disposti a
riconoscere la sconfitta. Passando sopra le incredibili interferenze di Trump
che, già da sole, avrebbero dovuto invalidare l’intero processo elettorale.
Senza neanche arrivare allo scandalo dell’amnistia a un ex-presidente in galera
per narcotraffico e del quale il probabile nuovo presidente si dice orgoglioso
figlioccio.
Poi
però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva
registrato alcune forti anomalie. Le ho ricordate qui sopra. A una prima conta
superano il mezzo milione di voti. Conteggi sospesi e addirittura comunità
richiamate al voto. A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato
dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.
Si
vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore
di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli
mancheranno gli aiutini del Nord.
Ecuador,
condor in bilico
L’Ecuador,
se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 2017, da
una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael
Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina
di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di
ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione
fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale,
inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al
paese.
Lenin
Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto
proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti,
rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con
il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione
centrodestra e filo-yankee-
Nel
2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano,
liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi.
Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima
concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia
fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E
anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla
candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi
e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare
qualche peso alle accuse di elezioni rubate.
C’è
però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove
prospettive Rivelando una coscienza
politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi
in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di
posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano
cristallizzati.
Con
un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump,
un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente
alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato
appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento
dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da
Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di
forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di
complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente
un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei
suoi padrini.
Noboa,
che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle
incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti
ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta
zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti
“gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui
quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun
bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio
infausto del M5S, ancora grillino)
La
risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un
tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal
54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione
militare yankee.
Ciò
che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa
del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a
riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi
senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel
mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e
la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico
verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca
nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono
qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei
cittadini.
Dal
punto di vista del “combattente antidroga” che ha fatto del tema lo strumento
per la riconquista del subcontinente, Noboa rappresenta l’asset principale.
Secondo inchieste internazionali, condotte anche da un’esperta ONU della
sicurezza antidroga, Carla Alvarez, docente al Centro di Alti Sudi sulle Armi
di Quito, con Noboa l’Ecuador si sarebbe convertito in una base per le
operazioni del narcotraffico internazionale. Mascherato da imprese bananiere,
facenti capo alla sua famiglia, e con l’intervento logistico di mafie
balcaniche, il 70% della cocaina destinata a USA ed Europa, partirebbe dai
porti ecuadoregni.
Con
tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i
narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela. Davanti alle cui coste siamo
arrivati, per grazia dei bombardieri USA, a 22 imbarcazioni di pescatori
affondate con 87 assassinii extragiudiziali. E al sequestro di una petroliera
venezuelana diretta a Cuba, per rifornire il paese amico di energia a
condizioni di favore. Pirateria di Stato di cui nessun magistrato pare voglia
occuparsi.
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