martedì 16 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi --- America Latina, la nuova Heartland --- EL CONDOR PASA… Y REPASA

 

Fulvio Grimaldi

America Latina, la nuova Heartland

EL CONDOR PASA… Y REPASA

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Noi e l’America Latina…

Due parole per chiarire il titolo. Heartland, cuore della Terra, o terra-cuore, era per il mitivo geopolitico USA Zbigniew Brzezinski, nella configurazione della sua Grande Scacchiera, la regione del mondo di cui un impero doveva essere in possesso. per potere esercitare un dominio globale. Si trattava delle immense aree interne dell’Eurasia. Da qui il confronto epocale con l’URSS, divenuto Guerra Fredda.

Ciò che ci ha fatto intendere Donald Trump, con le sue recenti dichiarazioni sui propositi strategici degli USA, è uno spostamento drastico dell’attenzione e delle intenzioni, dall’Eurasia vagheggiata dal politologo di Jimmy Carter, alla più vicina e concreta America Latina. Ce ne siamo accorti, noi italiani? Non crediamo di avere buoni motivi per interessarcene?

Penso che per una volta noi italiani, abituati a denigrarci, a non considerare e neppure a ricordare chi si è speso per il nostro paese e con eccellenti risultati (Guerre e lotte di liberazione tra ‘800 e Resistenza partigiana), possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Parlo della Palestina, di come siamo stati pronti e determinati a conoscerla, sostenerla, difenderla in tutti i creativi modi con cui ci siamo mobilitati in massa, traendone anche consapevolezza politica più vasta e profonda dell’ambito colonialista specifico. Bene, bravi, 7+.

Ma l’America Latina? A suo tempo un discreto movimento per Cuba, poi per il Venezuela molto di meno, qualcosina per il Nicaragua… In America Latina vivono oltre 1,5 milioni di italiani registrati all'AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero), con le comunità più numerose in Argentina (circa 870.000) e Brasile (oltre 470.000), secondo dati aggiornati a circa il 2021/2022, ma il numero totale di persone di origine italiana è molto più elevato, contando decine di milioni di persone (oriundi). In Venezuela gli italiani registrati sono 150mila, ma quelli che si dicono italiani sono almeno 1 milione. Erano cinque, ma sono venuti via in tanti dopo il cambio di paradigma imposto al paese dalla rivoluzione bolivariana di Chavez e Maduro che ha posto fine a una casta di privilegiati di cui imprenditori italiani erano protagonisti.

Allora, lasciando da parte fenomeni planetari ed epocali, tipo Palestina o il conflitto ucraino, com’è che l’annunciato assalto trumpista al Venezuela, paese di 28,5 milioni di abitanti, protagonista del più grande rivolgimento continentale, a rischio di finire come Gaza, non colma né le piazze, né gli schermi, né le pagine dei giornali? E del Nicaragua veniamo a sapere qualcosina, solo perché i vescovi cattolici locali, protagonisti di una controrivoluzione antisandinista scatenata dal solito mercenariato ONG, si dicono perseguitati e repressi dal regime?

Questa situazione di assenza, sconoscenza, ignavia, meticolosamente perseguita dal nostro sistema politico-mediatico integrato, quando non sia il caso di ripetere a pappagallo le calunnie inventate da qualche yankee vorace di risorse naturali, non è casuale e neppure innocente. L’America Latina, superato qualche soprassalto di interesse giovanile per le dittature del Condor kissingeriano e relative resistenze armate, e per la rivoluzione cubana, da tempo catalogata e archiviata, è roba yankee. Roba del padrone. Che non gradisce ingerenze e meno gli altri se ne occupano e più è padrone di occuparsene lui.

Tanto più che, con Trump, ha vigorosamente manifestato una nuova strategia; quella che mette al centro l’America Latina e le sue sconfinate risorse, con simultaneo abbandono dell’Europa, derelitta con poco in dispensa, che di risorse da rapinare non ne ha e che, anzi, a suo tempo ha fatto danno prevalendo nel campo della manifattura. Un rilancio della dottrina Monroe, controllo USA sull’emisfero, che ora qualcuno chiama “Donroe”.

Qui diamo uno sguardo a una serie di sviluppi di stretta attualità, ma che non sembra siano considerati, dai soloni mainstream della nostra geopolitica, degni di notizia o addirittura di approfondimento. E pensare quale scossone darebbe agli equilibri mondiali ì’ipotesi, seriamente studiata, di un canale nell’ istmo tra Caraibi-Atlantico e Pacifico tracciato in Honduras o Nicaragua, che sostituisca quello di Panama, nodo scorsoio nordamericano dai cui porti si sta cercando di cacciare i cinesi.

Anni ’70, non solo Pinochet

Chi era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella resistenza quelli che se ne videro messi in discussione  la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di piombo”.

Noi invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”, operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.

Il Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non sono necessariamente tutti dei Cavo Dragone), ci indicarono chi erano i nuovi nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in standby il fascismo, ci stavano di nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.

Gli anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto “Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo, Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.

Cile, la sinistra con le scarpe della destra

Jeanette Jara e Antonio Kast

Mentre scrivo, il risultato del ballottaggio presidenziale cileno non è ancora stato comunicato. Ma è difficile che ci siano sorprese, anche perchè tra i due contendenti, la prima arrivata, comunista, non ha dietro di sé che quel triste 27% del primo turno. Mentre l’avversario postnazista si avvale, oltrechè del suo 23,9% anche di quanto gli portano i successivi terzo, quarto e quinto del primo turno, tutti che non si distinguono essenzialmente che per le facce e gli abiti che portano. Quanto all’essenziale – che Cile, quali rapporti di classe, che fare dei residui del pinochettismo, mai del tutto rimossi dal predecessore Boric, come trattare la minoranza emarginata dei Mapuche, e, soprattutto come rapportarsi a chi da sempre, con le sue forze economiche, militari e d’intelligence, prova a determinare le stagioni del paese – le differenze sono quelle che trovi tra una ‘ndrangheta e una camorra.

In Cile è andata male. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi sommovimenti, soprattutto studenteschi contro il tardo, ma irriducibile, pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo, non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.

Così alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, già ministra del lavoro con Boric, ma appena col 27%. Al ballottaggio era data per scontata la vittoria del primo dei due pinochettisti duri, arrivati secondo e terzo. Il Contendente di Jara è Josè Antonio Kast, del fascistoide Partito Republicano, figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità” di rifugiati del Reich, arrivato al 24%. Sono noti i suoi stretti legami con il partito spagnolo dell’ultradestra VOX, anche intensamente frequentato dalla nostra premier Meloni: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”….

Il quarto arrivato, Johannes Kaiser, Partito Nazionale Libertario, stessa risma e stessa matrice, contribuisce col 14%.all’affermazione dell’estrema destra. Al potenziale 38% ottenuto dai due al primo turno si dovrebbe sommare il 12,4% di un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta di Pinochet e, forse, il sorprendente 19,71% dell’immancabile “populista”, Franco Parisi, “Partito della Gente”, riuscito a scalzare Kaiser dal terzo posto. Ci si prospetta un personaggio che si girerà a seconda del vento che sente tirare.

Quanto ai risultati delle contemporanee elezioni legislative, la tendenza a destra è confermata dalla sua avanzata nella Camera dei Deputati, con 155 seggi, e nel Senato, con 23 seggi su 50.

Con la destra al 70%, anche se per un miracolo dovesse ora arrivare in testa Jeanette Jara, con il suo controverso sforzo di ricupare il voto moderato, vecchia tara, il Cile che neppure il “sinistro” Boric è riuscito ad estrarre dalle secche del pinochettismo diffuso, più o meno mimetizzato, rimane saldo nelle mani dei suoi potentati economici. Salvo una rivoluzione, che però non è alle viste neanche nei programmi del Partito Comunista di Jara. Una preoccupazione di meno per chi ha messo al centro della propria strategia “detta di Sicurezza”, da leggersi come aggressivamente colonialista, la rinnovata dottrina Monroe.

Che poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame, litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, nel recinto del famigerato “cortile di casa” Cortile in cui dare spazio ai giochi estrattivi delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.

Honduras-Trump, golpe elettorale in corso

Mentre scrivo, in Honduras alle prese dal 30 novembre con le elezioni presidenziali, in seguito a una valanga di calcoli sbagliati, voti spariti e pesanti ingerenze di Trump, il caos è totale. Il Partito al governo, Libre, ha chiesto l’annullamento delle elezioni.

Nel nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton, irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras, paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee, libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Troppo gravi le problematiche strutturali economico-sociali, superate solo in misura ridotta. Il tasso di povertà è calato dal 75% al 60%, ma l’insicurezza alimentare colpisce 1,7 degli 11 milioni di honduregni, grazie anche ai danni ai raccolti prodotti da siccità e inondazioni.

Alle elezioni presidenziali del 30 novembre Rixi Moncada, candidata di LIBRE (Libertad e Refundacion), il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua moglie e presidente dal 2022, si è dovuta accontentare, dopo metà dei voti contati, di un deludente terzo posto, inchiodata al 19’18%. Segno di quanto poco la popolazione ha apprezzato la gestione del dopo-vittoria del 2022 da parte di Xiomara Castro. Ma segno, forse più forte, di   quanto possa  l’intervento di Trump in un paese formalmente sovrano.

I conteggi, diventati estenuanti e chiaramente oggetto di manipolazioni, rilevati anche dagli osservatori UE, hanno poi avuto degli sbalzi che però riguardavano le rispettive posizioni dei due arrivati in testa: Nasry Tito Asfura del Partido Nacional Conservador, grande palazzinaro, tycoon di riferimento dei 25 massimi gruppi economici della regione, sospinto senza pudore da Trump, e Salvador Nasralla, Partido Liberal, una specie di Zelensky dagli analoghi trascorsi da divo TV e per Trump seconda scelta. Quasi appaiati dopo i primi conteggi, 40% all’uno, 39,80%, insieme rappresentano una estrema destra di quasi l’80%, Che è oggi la forza della destra nel paese, intimamente legata ai narcos.

Trump, i narcos, quelli veri, non vengono bombardati

 Trump e Asfura

Non per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere Milei, mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere Milei.  Nel caso di Asfura è arrivato a esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex-presidente Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Incredibilmente, insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche questo suo intimo e probabile successore. Liberato dalla sua prigione a New York e trasferito a Tegucigalpa per sostenere il suo emulo nell’attuale corsa al primato, questo ex-presidente narcos è stato fatto immediatamente riarrestare, a esecuzione di un mandato dell’Interpol,  da un per niente intimidito ministro della Giustizia honduregno.

Va dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di LIBRE. Basta questa sua iperattività per determinare l’affermazione del candidato tracimante profumo di stupefacenti a mettere in evidenza cosa intenda Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel segno della “lotta al narcotraffico”? Con la denuncia della candidata apparentemente sconfitta, del suo partito e addirittura del Consiglio Nazionale Elettorale, responsabile della convalida dei risultati, di un golpe elettorale in corso, i giochi si sono riaperti. La situazione resta confusa, Il rifiuto di riconoscere i risultati provvisori della presidente uscente, Xiomara Castro, si fonda su dati concreti. Il meccanismo degli scrutini prevede un duplice conteggio: quello elettronico del TREP, che calcola i risultati preliminari e nella cui pancia pare siano scomparse alcune decine di migliaia di voti, e quella dei verbali con i dati anagrafici, biometrici e le firme degli scrutinatori, di cui altre migliaia appaiono prive di questi accertamenti.  Accuse di frodi e manipolazioni, avanzate dalla sinistra si esprimono adesso anche in tumulti di piazza.

Incurante di tutto questo, Trump accentua la sua partecipazione attiva a un processo che non sembra finire mai e assume caratteri surreali. Quando, a 10 giorni dal voto, i conteggi incominciavano a dare atto di un momentaneo superamento di Asfura, Partido Nacional, da parte del liberale Nasralla, a Trump meno gradito, altro intervento a gamba tesa: “Se non vince Asfura, voi narcocomunisti non vedrete più un dollaro di aiuti americani e andrete in rovina…”

Difficile fare la cronaca di un processo che sembra arrotolarsi su se stesso. Assistiamo a un grottesco susseguirsi di colpi di scena, con scoperte di voti sottratti, ricomparsi, svaniti, interferenze esterne sempre più pressanti, con minacce trumpiane fino al livello israeliano della fame come arma di guerra, tumulti popolari davanti alle sedi del potere nella consapevolezza che si sta portando avanti un oscuro tentativo di negare la volontà degli elettori, sospensione temporanea dei conteggi a quasi due settimane dal voto. Evidentemente per chi puntava su un recupero di questo paese uscito dall’orbita USA, la posta in gioco è molto grande.

Un popolo contro i suoi schiavisti

Juan Orlando Hernandez e papa Bergoglio

Quando arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.

Gli honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e partiva.

Un golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta

La resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese. Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della società civile.

Berta Caceres

 

Il contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone uccise, incarcerate, fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel 2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di sbarramenti artificiali programmati.

La situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez, boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentaneamente fuori gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a 50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.

Va aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fatti.

Di fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Rixi Moncada e gli esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e i vertici di LIBRE si erano, in un primo tempo, dichiarati disposti a riconoscere la sconfitta. Passando sopra le incredibili interferenze di Trump che, già da sole, avrebbero dovuto invalidare l’intero processo elettorale. Senza neanche arrivare allo scandalo dell’amnistia a un ex-presidente in galera per narcotraffico e del quale il probabile nuovo presidente si dice orgoglioso figlioccio.

Poi però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva registrato alcune forti anomalie. Le ho ricordate qui sopra. A una prima conta superano il mezzo milione di voti. Conteggi sospesi e addirittura comunità richiamate al voto. A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.

Si vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli mancheranno gli aiutini del Nord.

 

 

 

 

Ecuador, condor in bilico

 Rafael Correa con Julian Assange

L’Ecuador, se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 2017, da una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale, inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al paese.

Lenin Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti, rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione centrodestra e filo-yankee-

Nel 2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano, liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi. Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare qualche peso alle accuse di elezioni rubate.

C’è però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove prospettive  Rivelando una coscienza politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano cristallizzati.

 Daniel Noboa

Con un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump, un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei suoi padrini.

Noboa, che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti “gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio infausto del M5S, ancora grillino)

La risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal 54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione militare yankee.

Ciò che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei cittadini.

Dal punto di vista del “combattente antidroga” che ha fatto del tema lo strumento per la riconquista del subcontinente, Noboa rappresenta l’asset principale. Secondo inchieste internazionali, condotte anche da un’esperta ONU della sicurezza antidroga, Carla Alvarez, docente al Centro di Alti Sudi sulle Armi di Quito, con Noboa l’Ecuador si sarebbe convertito in una base per le operazioni del narcotraffico internazionale. Mascherato da imprese bananiere, facenti capo alla sua famiglia, e con l’intervento logistico di mafie balcaniche, il 70% della cocaina destinata a USA ed Europa, partirebbe dai porti ecuadoregni.

Con tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela. Davanti alle cui coste siamo arrivati, per grazia dei bombardieri USA, a 22 imbarcazioni di pescatori affondate con 87 assassinii extragiudiziali. E al sequestro di una petroliera venezuelana diretta a Cuba, per rifornire il paese amico di energia a condizioni di favore. Pirateria di Stato di cui nessun magistrato pare voglia occuparsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

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