Le foto di questo post sono di
Marco Diotallevi.
Sono grandi solo perchè noi stiamo in ginocchio.
Il potere non fa mai un passo indietro, se non davanti a un potere maggiore.
(Malcolm X, 1965)
PREMINARE 1
Fumogeni terroristici, bombe umanitarie
Così gli "hooligans ultranazionalisti", ovviamente fascisti, nostalgici di Arkan, Mladic e Milosevic, hanno scatenato il casino per non far giocare Italia-Serbia. Magari questi mascalzoni avranno pensato che più che di pallonate i serbi avrebbero avuto bisogno di pace, rispetto, verità sulle megapatacche di Sebrenica, su Milosevic dittatore, sulla "pulizia etnica in Kosovo" (subita e non attuata), sulla Serbia "ultranazionalista" (l'unica democratica tra neo-narcostatarelli) mentre non faceva che difendere brandelli di Jugoslavia, e alla fine se stessa, dallo sbranamento dell'imperialismo occidentale. Magari avranno detto: voi bombe, noi pugni. Magari non avranno dimenticato che D'Alema, l'Italia delle sinistre conniventi, li ha massacrati, rasi al suolo, eliminati dalla storia. Questi hooligans, prendersela con i criminali di guerra!
Del resto, di che ci meravigliamo? Noi delinquenti che fischiamo e gettiamo uova.
PRELIMINARE 2
Così muoiono gli italiani
Altri quattro nostri compatrioti, fucilatori di professione in missione colonialista “di pace”, semi umani deformati da una gravidanza gonfia di tossici, fame, ignoranza, violenza di regime, Botteri, sono caduti vittime dei terroristi: Barack Obama e, scendendo giù per la scala a pioli dei suoi polli, Ban Ki Moon, Barroso, Berlusconi, La Russa, Fassino…. fino a tutte quelle galline sinistre che se ne stanno appollaiate, zitte, nello staio. Essere compianti da La Russa o dallo scheletro piemontese è il più infame degli insulti a un morto. Essere esaltati sul Corriere da Sergio Romano, “alpini che in Afghanistan giustificano la guerra perché danno lustro all’Italia nel mondo”, sottolinea la coerenza e il coraggio dell’assegnazione, da parte del Comitato Stefano Chiarini, del premio intitolato a uno dei quattro o cinque giornalisti rimasti in Italia. Che Giove passi qualcuno dei suoi fulmini all’indimenticabile Stefano.
PRELIMINARE 3
Premio Nobel e “il manifesto” defunti
Il “giornale comunista” Il manifesto ha annunciato la sua scomparsa tra tre mesi. E’ pronta la lapide che dice: Terminò un’alterna vicenda umana nell’ assenza dei lettori delusi e perduti, riscattata però dal rimpianto di Nichi Vendola, Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti e del banchiere Profumo. Una prece.
Dalle cronache dell’infausto evento: Guidarono il corteo funebre in lacrime gli alla salma devoti Premi Nobel Barack Obama, eccelso pacifista e difensore degli oppressi (di banca e industria); Mario Vargas LLosa, talentuoso spadaccino letterario a sostegno di razze e ceti superiori vocati a salutari pulizie etniche, sociali, imperiali; Liu Xiabao, patriota cinese formato alle università delle Hawai e di New York, presidente del Centro Pen per scrittori indipendenti alla dipendenza dei potenti, e subito inviato in patria ove diffondere il verbo di Vaclav Havel, esemplare campione dell’inserimento di nazioni, stufe di sovranità e arcaiche giustizie sociali, nella luce rigenerante delle stelle e nei legami rassicuranti delle strisce (sia detto senza alcuna simpatia per i neocapitalistici capi cinesi, ma con ancor meno simpatia per i mandanti di Liu nelle Grandi Democrazie Occidentali, quelli del per lui innominabile Guantanamo).
Recano sulle spalle il nobile fardello i già venerati pionieri della tramutazione del Nobel, dai tempi polverosi dei Pirandello, Schweitzer o del vietnamita Le Duc Tho (che, vistosi affiancato a Kissinger, rifiutò), in premio ai più affidabili Gott mit uns: Rabin, Walesa, Dalai Lama, Shirin Ebadi, Aung San Suu Kyi, Begin, Sadat… Al seguito del carro, prefiche lacerate dal dolore, Sgrena, Forti, Dominijanni, Liberti, Giordana e tanti altri, salmodianti sulla perdita di un proscenio dal quale potevano esibirsi in argute commedie degli equivoci, con i buoni di qua e i “terroristi islamici” di là. Dietro, un po’ distanziata, una turba di profughi del “manifesto” verso terre meno sparagnine e più fertili di consensi, ma rimasti rigorosamente nel solco del colpetto al cerchio e del colpaccio al barile: i Riotta, le Annunziate, i Barenghi, i Sansonetti, Maiolo, Mineo, Miracco, Bonini… Dai campi elisi preparano accoglienze di ghirlande e giubilo quelle che del quotidiano caro alle donne che ci sanno fare furono le più recenti icone: Neda Soltan, Sakineh, Anna Politovskaya, Anastasia Baburova, compagne martire che promuovevano le democrazie e civiltà superiori occidentali. Messa in coda e anche abbastanza riluttante, Teresa Lewis, giustiziata dal boia a New York, ma scema. Neanche partecipe di una piccola rivoluzione colorata.
Leggeremo “Il Fatto Quotidiano”, che sta al "manifesto" come la grappa sta alla camomilla, e, supportati dall’impeto delle mazzate inflitte a Berlusconi e berlusconidi, Bersani e Bersanidi, sorvoleremo sulle sue scarse paginette amerikane di politica estera, avendo stavolta perlomeno ben chiaro da che parte stia questo giornale. Per il resto c’è la rete. The Web,direbbe il cosmopolita liberal “Manifesto”.
DIVAGAZIONE 4
Quelli che “non è stato un golpe”
Attingendo scrupolosamente a fonti del Dipartimento di Stato, magari un po' di parte, ma corroborate da Augusto Minzolini e dalle forze politiche ecuadoriane, come il gutierreziano Pachakutik, finanziate da Ong della Cia-Solidarity come USAID, New Endowment for Democracy (NED) e affiliate nostrane, alcuni interlocutori del blog mi hanno rampognato per aver voluto intravvedere dietro al “finto golpe contro Rafael Correa”, presidente rimasto semplicemente impigliato in una disputa sindacale come un qualsiasi Bonanni, la mano feroce del golpismo reazionario e Usa. E di aver dato credito alla panzana secondo cui un presidente ferito e sequestrato da un reggimento di poliziotti istruiti e pagati dagli Usa, in combutta con reparti dell’aeronautica che hanno occupato aeroporti, con bande di insorti che hanno devastato Guayaquil invocando guerre civili, con reparti armati che hanno occupato televisioni e bloccato giornali di sinistra, con la CNN ad augurarsi che il tiranno (così anche il partito indigeno Pachakutik) sparisse, fosse nient’altro che un ciarlatano antiamericano alla ricerca di consensi da martirio. Un ciarlatano cui il colonello della polizia Manuel Rivadaneira, addestrato nella Scuole delle Americhe, fece tirare dietro sei fucilate quando, liberato dalla folla e dai militari, Correa si allontanava in macchina. L’assassinio era il piano B, come risultava da comunicazioni tra gli eversori. Ma, anche se ero stato in Venezuela, Bolivia e Honduras quando analoghi ciarlatani mettevano in scena altri finti golpe, non ci avevo capito niente. Chiedo venia. E suggerisco www.informationclearinghouse.info/article26547.htm. Parla Eva Golinger, sprovveduta analista statunitense che ha smascherato una per una, dalle origini al risultato, quelle che per i sapientoni anticomplottisti sono le “presunte” trame Usa contro i governi progressisti e antimperialisti in Latinoamerica. Vi presenta l’agente dell’Intelligence USA Norman Bailey, esperto di operazioni clandestine agli ordini di John Negroponte, creatore degli Squadroni della Morte in Centroamerica, coordinatore di tutta l’operazione ecuadoriana e già fondatore, con la complicità di cinque esponenti indigeni, della Confindustria indigena dell’Ecuador (CEIE), capofila, finanziata da USAID insieme a ONG associate come la CONAIE, dell’opposizione di destra a Correa. E allora passiamo al Messico delle “presunte” trame destabilizzatrici e colonialiste dei gringos. Quello dei gringos potrebbe anche essere stato un balon d'essai, una prova generale a vedere chi ci sta e chi no, ma sempre di operazione per buttar giù Correa si tratta.
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Murales di Siquieros
Fuoco e ferita
Sempre lì, nel mio Puerto Escondito rinato in Yucatan come Puerto Morelos, in quel pomeriggio di primo autunno ventilato dai soffi di un Golfo il cui carico di morte da petrolio e solventi chimici obamian-BP qui viene occultato, oltreché dalle balle consolatrici di quel binomio tossicogenico, da una barriera corallina che, sgretolandosi nella difesa dall’assalto delle scorie dello sviluppismo yankee, ci salvaguarda qualche striscia di mare cristallino. Un bicchierone di ghiaccio con due gocce di caipirinha me l’ha posato accortamente tra le gambe, stese sul parapetto del “Pelicano” , uno dei 17 camerieri che fluttuano intorno a quattro clienti. A forza di fluttuare e sorridere, stasera forse si riportano a casa cinquanta pesos di mancia, tre euro, quelli giornalieri di due quarti dei messicani. Un altro quarto porta meno o niente. L’ultimo quarto ruba. Il ghiaccio accende e rilancia il riflesso di una forte striatura rosa, la coda a strascico del sole che se ne scende maestoso oltre l’orizzonte. Rispetto ai cenci neri che si addensano in alto e mandano emissari a testare la tenuta della trincea rosa, questa striatura si potrebbe interpretarla come una sanguinosa lacerazione del cielo, o, invece, come l’anticipo di un grande incendio. Il dubbio me lo hanno risolto le donne di Chihuaha e di Ciudad Juarez. Quel rosa alla cucitura di cielo e mare è entrambe le cose, fuoco e ferita. Di donne.
A Città del Messico due sponsor confortano il visitatore nell’illusione del paese di Cielito Lindo, dei Mariachi, canterini onnipresenti in borchie e megasombreri, delle piramidi del mayatour, di Acapulco o, male che vada, del megagalattico Marcos. Uno lo incontri sulla collina che, incoronato di guglie, torri e cupole, più statuona di Woytila, guarda la città dall’alto in basso. E’ la cattedrale della Madonna di Guadalupe, patrona del Messico, fatta apparire dai conquistatori agli indigeni per rimpiazzare una divinità pagana femminile che incitava alla resistenza. Le passano sotto su nastro scorrevole, col naso in su e gli occhi spalancati al miracolo, fiumane di fedeli e curiosi. L’immenso caveau di questo centro commerciale della fede, scintillante di pacchiane lussuosità, imprigiona davanti a un tonante cerimoniere della superstizione qualche migliaio di inconsapevoli negatori della ragione. Ce ne sono diversi che entrano strisciando in ginocchio. Condizione preferita dai corifei dell’idolo che, più sotto, benedicono dai palazzi dell’accoppiata dell’apocalisse: potere secolare e potere ecclesiastico.
Lungo lo stradone intitolato alla “Riforma”, giustappunto alla separazione tra Chiesa e Stato decretata un secolo e mezzo fa da Benito Juarez, a restaurare sul lato militare la trinità Dio, Patria, Famiglia, si snoda una muraglia dietro cui batte il cuore pulsante dell’identità nazionale modellata dai potenti: il quartier generale dell’esercito. Di quell’esercito che, superata la battuta d’arresto del decennio rivoluzionario, 1910-1920 , ha servito il paese con colpi di Stato, caudillos, oligarchie, massacri, sempre d’intesa patriottica con il paterno vicino che al Messico aveva sottratto a fuoco e sangue, a metà Ottocento, il 52% del territorio nazionale. Quel muro lungo tale presidio della nazione è coperto fitto fitto da immagini edificanti e confortanti: militari che soccorrono alluvionati, soldatesse che coccolano bimbetti, giovanotti in camice che fanno evolvere il paese trafficando con tecnologie informatiche, generaloni che decorano petti-in-fuori per le prodezze compiute in Iraq… Una glorificazione dello Stato rilanciata lì vicino, nell’enorme zocalo, dallo sventolio crepitante di mille e mille bandiere nazionali, l’aquila che morde il serpente, luminarie, festoni tricolori, ritratti dei padri fondatori. Orgia di retorica iconografica che vorrebbe incatenare nella fittizia unità nazionale di classe un popolo sottoposto a disintegrazione sociale, culturale, politica. Un popolo decimato giorno dopo giorno, come nessun altro al mondo, da una cosca dirigente che ha fatto del crimine arte di governo. Un popolo tirato per i capelli a celebrare il bicentenario della sua indipendenza da mostruosi burattini manovrati da un burattinaio non soddisfatto di essersi già divorato mezzo Messico. Che impressionante analogia: nel nostro centenario di Stato nazione, indipendenza e unità, esattamente come in questo Messico, la festa è solo di una manica di ladroni, malviventi, terroristi, del tutto analoga alla banda Calderon e a tutte le masnade installate dall’Impero, che l’indipendenza l’hanno venduta, lo Stato appaltato alla mafia, l’unità frantumata e del ricavato di queste spoglie hanno fatto marmi per sé e armi contro i renitenti. E c’è un’altra analogia.
All’uragano di collera e bellezza che, nella seconda metà del secolo scorso, sollevò verso i campi elisi della giustizia e della libertà il nostro paese, la cosca partorita dall’avvoltoio a stelle e strisce reagì con le bombe dell’unità mafia legale-mafia illegale, fino all’attuale trionfo della criminalità su questa comunità di calpesti e derisi. In Messico, laboratorio dell’Impero, si è così risposto a
quanto il retaggio di Benito Juarez ed Emiliano Zapata aveva suscitato nei decenni a cavallo del millennio sotto forma di lotta di classe per autogoverno, rinascita indigena, rivendicazione sociale, uguaglianza, onestà, nuova legalità. Risposta qui corredata dalla stessa criminalizzazione di vertice, con il valore aggiunto dell’assassinio di massa. 30mila uccisi dal giorno dell’insediamento di Calderon, gennaio 2007, al 2010. Un Terrore che ha depravato quello, ben mirato, degli eterni calpesti e derisi della rivoluzione francese in strumento dei padroni, per una decimazione indiscriminata.Sempre lì, nel mio Puerto Escondito rinato in Yucatan come Puerto Morelos, in quel pomeriggio di primo autunno ventilato dai soffi di un Golfo il cui carico di morte da petrolio e solventi chimici obamian-BP qui viene occultato, oltreché dalle balle consolatrici di quel binomio tossicogenico, da una barriera corallina che, sgretolandosi nella difesa dall’assalto delle scorie dello sviluppismo yankee, ci salvaguarda qualche striscia di mare cristallino. Un bicchierone di ghiaccio con due gocce di caipirinha me l’ha posato accortamente tra le gambe, stese sul parapetto del “Pelicano” , uno dei 17 camerieri che fluttuano intorno a quattro clienti. A forza di fluttuare e sorridere, stasera forse si riportano a casa cinquanta pesos di mancia, tre euro, quelli giornalieri di due quarti dei messicani. Un altro quarto porta meno o niente. L’ultimo quarto ruba. Il ghiaccio accende e rilancia il riflesso di una forte striatura rosa, la coda a strascico del sole che se ne scende maestoso oltre l’orizzonte. Rispetto ai cenci neri che si addensano in alto e mandano emissari a testare la tenuta della trincea rosa, questa striatura si potrebbe interpretarla come una sanguinosa lacerazione del cielo, o, invece, come l’anticipo di un grande incendio. Il dubbio me lo hanno risolto le donne di Chihuaha e di Ciudad Juarez. Quel rosa alla cucitura di cielo e mare è entrambe le cose, fuoco e ferita. Di donne.
A Città del Messico due sponsor confortano il visitatore nell’illusione del paese di Cielito Lindo, dei Mariachi, canterini onnipresenti in borchie e megasombreri, delle piramidi del mayatour, di Acapulco o, male che vada, del megagalattico Marcos. Uno lo incontri sulla collina che, incoronato di guglie, torri e cupole, più statuona di Woytila, guarda la città dall’alto in basso. E’ la cattedrale della Madonna di Guadalupe, patrona del Messico, fatta apparire dai conquistatori agli indigeni per rimpiazzare una divinità pagana femminile che incitava alla resistenza. Le passano sotto su nastro scorrevole, col naso in su e gli occhi spalancati al miracolo, fiumane di fedeli e curiosi. L’immenso caveau di questo centro commerciale della fede, scintillante di pacchiane lussuosità, imprigiona davanti a un tonante cerimoniere della superstizione qualche migliaio di inconsapevoli negatori della ragione. Ce ne sono diversi che entrano strisciando in ginocchio. Condizione preferita dai corifei dell’idolo che, più sotto, benedicono dai palazzi dell’accoppiata dell’apocalisse: potere secolare e potere ecclesiastico.
Lungo lo stradone intitolato alla “Riforma”, giustappunto alla separazione tra Chiesa e Stato decretata un secolo e mezzo fa da Benito Juarez, a restaurare sul lato militare la trinità Dio, Patria, Famiglia, si snoda una muraglia dietro cui batte il cuore pulsante dell’identità nazionale modellata dai potenti: il quartier generale dell’esercito. Di quell’esercito che, superata la battuta d’arresto del decennio rivoluzionario, 1910-1920 , ha servito il paese con colpi di Stato, caudillos, oligarchie, massacri, sempre d’intesa patriottica con il paterno vicino che al Messico aveva sottratto a fuoco e sangue, a metà Ottocento, il 52% del territorio nazionale. Quel muro lungo tale presidio della nazione è coperto fitto fitto da immagini edificanti e confortanti: militari che soccorrono alluvionati, soldatesse che coccolano bimbetti, giovanotti in camice che fanno evolvere il paese trafficando con tecnologie informatiche, generaloni che decorano petti-in-fuori per le prodezze compiute in Iraq… Una glorificazione dello Stato rilanciata lì vicino, nell’enorme zocalo, dallo sventolio crepitante di mille e mille bandiere nazionali, l’aquila che morde il serpente, luminarie, festoni tricolori, ritratti dei padri fondatori. Orgia di retorica iconografica che vorrebbe incatenare nella fittizia unità nazionale di classe un popolo sottoposto a disintegrazione sociale, culturale, politica. Un popolo decimato giorno dopo giorno, come nessun altro al mondo, da una cosca dirigente che ha fatto del crimine arte di governo. Un popolo tirato per i capelli a celebrare il bicentenario della sua indipendenza da mostruosi burattini manovrati da un burattinaio non soddisfatto di essersi già divorato mezzo Messico. Che impressionante analogia: nel nostro centenario di Stato nazione, indipendenza e unità, esattamente come in questo Messico, la festa è solo di una manica di ladroni, malviventi, terroristi, del tutto analoga alla banda Calderon e a tutte le masnade installate dall’Impero, che l’indipendenza l’hanno venduta, lo Stato appaltato alla mafia, l’unità frantumata e del ricavato di queste spoglie hanno fatto marmi per sé e armi contro i renitenti. E c’è un’altra analogia.
All’uragano di collera e bellezza che, nella seconda metà del secolo scorso, sollevò verso i campi elisi della giustizia e della libertà il nostro paese, la cosca partorita dall’avvoltoio a stelle e strisce reagì con le bombe dell’unità mafia legale-mafia illegale, fino all’attuale trionfo della criminalità su questa comunità di calpesti e derisi. In Messico, laboratorio dell’Impero, si è così risposto a
Statua di Pancho Villa a Chihuahua
Emorragie
Chihuahua, capitale dello Stato omonimo confinante con gli Usa, 1500 km a nord della capitale. Quando arriviamo, primi d'ottobre, sono state ammazzate 335 donne dall'inizio dell'anno. Di notte quei sorridenti soldatini da mutuo soccorso, scesi dalle gigantografie di Avenida de la Reforma e rivestiti da terminator spaziali, fanno il vuoto nella città di 750mila abitanti. Nelle strade dal centro storico, chino davanti alla statua di uno scatenato Pancho Villa lanciato al galoppo con la pistola puntata, come in quelle di una periferia divisa tra McDonalds e maquiladoras, le fabbriche Usa della schiavitù femminile, si alternano reparti blindati dalla mitraglia puntata. Scorribande di blindati dell’esercito, poliziotti, paramilitari autorizzati chiamati “Sicurezza privata”, paramilitari tollerati organizzati in bande di sicari e Narco-SUV dai vetri affumicati e dalla scorta di sicari in colonna. E’ la coalizione che, da queste strade desertificate di umanità un minuto dopo il tramonto, attraverso polizia, esercito e magistratura assoldati o perlomeno piegati alla narcodittatura, su su fino a Los Pinos, residenza del capo dello Stato, da dieci anni tiene in pugno il paese e, dal 2006, truffa elettorale di Calderon, quel pugno lo va stringendo al collo del popolo.
Ci accompagnano due giovani temerari, Juanito e Alejandro, ai quali ci hanno affidato Norma e
Chihuahua, capitale dello Stato omonimo confinante con gli Usa, 1500 km a nord della capitale. Quando arriviamo, primi d'ottobre, sono state ammazzate 335 donne dall'inizio dell'anno. Di notte quei sorridenti soldatini da mutuo soccorso, scesi dalle gigantografie di Avenida de la Reforma e rivestiti da terminator spaziali, fanno il vuoto nella città di 750mila abitanti. Nelle strade dal centro storico, chino davanti alla statua di uno scatenato Pancho Villa lanciato al galoppo con la pistola puntata, come in quelle di una periferia divisa tra McDonalds e maquiladoras, le fabbriche Usa della schiavitù femminile, si alternano reparti blindati dalla mitraglia puntata. Scorribande di blindati dell’esercito, poliziotti, paramilitari autorizzati chiamati “Sicurezza privata”, paramilitari tollerati organizzati in bande di sicari e Narco-SUV dai vetri affumicati e dalla scorta di sicari in colonna. E’ la coalizione che, da queste strade desertificate di umanità un minuto dopo il tramonto, attraverso polizia, esercito e magistratura assoldati o perlomeno piegati alla narcodittatura, su su fino a Los Pinos, residenza del capo dello Stato, da dieci anni tiene in pugno il paese e, dal 2006, truffa elettorale di Calderon, quel pugno lo va stringendo al collo del popolo.
Ci accompagnano due giovani temerari, Juanito e Alejandro, ai quali ci hanno affidato Norma e
Irene, dirigenti di Justicia para nuestras Hijas, associazione di donne che, per figlie, madri, moglie, sorelle, vittime tutte, lottano contro le articolazioni del narcostato delle stragi in una città raggelata nella paura. Sopravvive, come in un’iperbarica che vorrebbe essere vetrina della normalità, il mercado al centro della città, con famiglie a spasso, suonatori di musica nordestena, caffé e botteghe affollati, bancarelle di tortillas e tarocco. Questo nelle ore diurne. La notte è di resa dei conti tra cartelli, quello di Sinaloa, dell’invincibile Chapo Guzman, da tutti saputo braccio del regime, contro quelli di Ciudad Juarez, Los Carillo, Los Artistas, Los Zetas, Los Aztecas, dei quali tutti i padrini Usa si dividono i ricavi da droga ricevuta e armi fornite (4 su cinque arrivano da oltreconfine). Dall’alto del belvedere Mirador lo sguardo fa fatica ad abbracciare l’immensa piana, folgorante di luci, della città stesa tra una corona di monti che ricordano la colonna hemingwayana degli “elefanti bianchi”. In lontananza, verso l’uscita dalla città, uno frego più nero: il ponte al quale erano appesi, giorni fa, sei cadaveri con la testa mozzata. Poi un grosso grumo, uno di quei carceri da cui il direttore manda a sparare i suoi detenuti, nell’interesse loro, o suo. E’ successo anche nei giorni del nostro viaggio. La direttrice li aveva addirittura armati. Sono rientrati tranquilli, dopo le esecuzioni. La distrazione del locale pubblico ministero è assicurata.
Una visione di silenzio e pace, quassù non sfrangiata dalle raffiche che, nelle zone oscure tra le luci, uccidono, con disinvoltura che sa di gusto, vittime cercate e vittime casuali. Per poi ritrovarsi euforici da sangue, droga, denaro (rende, l’esecuzione, al sicario adolescente, estratto da miseria, ignoranza e disoccupazione, 30 dollari da scambiare con donne, alcol, coca, abiti vistosi e macchina) in uno di questi antros. Sono discoteche, nelle quali si esibiscono i gruppi con cappello texano dei narcocorridos, le trucide canzoni che inneggiano alla bella e sanguinaria vita dei trafficanti e, con abbigliamento, comportamenti, ambizioni degli eroi narcos diventano costume di molta parte dei giovani sfibrati da miseria e vuoto di futuro. E un affollamento incredibile di ragazze in vesti succinte, giovanotti palestrasti, energumeni attillati nell’abito firmato, tra il sicario e il boss, giganteschi gipponi blindati e oscurati di cui mi metto a riprendere le targhe. Alejandro mi ha spiegato che quelli senza targa, e qui pullulano, appartengono ai fuorilegge. Nessuno se ne da pensiero e se talora vengono fermati, basta un rapido e generoso gesto dal finestrino al poliziotti e la corsa riprende. Arrivare in un tribunale, per un auto senza targa o un corpo senza vita, significa nove volte su dieci essere rispediti all’aperto con tante scuse. Toghe nere. Su me invece si precipita giù dalla scala che conduce al piano in penombra dei gozzovigli dei poderosos, inaccessibile agli altri, un cranio rasato tipo scorta di Berlusconi. “Sono turisti, gli interessano i nostri modelli fuoristrada”, mi cava d’impiccio lo svelto Alejandro. Ma poi ci arriva un saluto che sa di avvertimento: “Buenas noches a los amigos italianos que se encuentran aquì”. Ripetuto varie volte dal cantante dei narcocorridos. Senza sorridere...
Il patio del palazzo di governo è affrescato tutt’intorno da grandi murales di Siquieros e di altri maestri messicani, a narrazione dei trionfi storici di un popolo che ha saputo dare al mondo la prima rivoluzione del ‘900. Un ossimoro se visto nel contesto di ciò che da questo palazzo viene inflitto a quel popolo. Come urla la contraddizione tra questo palazzo e, sull’altro lato della strada, il sacrario di foto, stracci insanguinati, chiodi da crocefissione, che le donne di Chihuahua hanno eretto in faccia ai loro aguzzini. Accusatrici implacabili, le madri de las hijas uccise e poi buttate tra gli sterpi, prelevate all’uscita dalla scuola e massacrate nei riti necrofili dei festini narcos, sacrificate alla depravazione dei fruitori dei video snuff, giustiziate per aver alzato la testa contro lo schiavismo nelle fabbriche dell’assemblaggio Usa, sono ancora una volta giunte in corteo a questo monumento della disperazione e della rabbia senz’armi. Anche agitatrici politiche, oltreché combattenti per la vita e per la giustizia, oggi protestano contro la manipolazione, decisa dal parlamento locale, della Legge della Trasparenza e dell’Accesso all’Informazione Pubblica. In sostanza, una modifica che, berlusconianamente, mette i potenti, i complici nelle istituzioni, al riparo dal diritto democratico della società di conoscere connivenze, abusi, corruzione. Una corruzione che, scendendo per li rami, infetta il paese come una peste bubbonica.
Le Maquiladoras sono complessi di fabbriche, quasi sempre allineate in prima periferia, architettonicamente curate e tra accattivanti prati inglesi. Sono perlopiù statunitensi e assemblano per il prodotto finito, da vendere negli Usa e nel mondo, computer, cellulari, apparecchiature spaziali, automobili, tessuti, utensili, robotistica e altro. Il nostro tentativo di superare la barriera delle siepi fiorite, degli eleganti cartelli con i logo, dei gabbiotti con sentinelle, si infrange contro lo stupore e la diffidenza di chi non si fa capace che qualcuno possa chiedere di mettere naso e telecamera lì dentro. Perché l’interno è un inferno che alle filande ottocentesche narrate da Dickens sta come i tuguri di Teresa di Calcutta stanno a una clinica svizzera (quelle in cui la “santa” andava a curarsi). Luoghi entrambi di abuso, violenza, estrazione di plusvalore, ma i primi con arredi puliti, cessi moderni, aria ventilata che, qui però, si impegna a diffondere in ogni angolo i fumi tossici della produzione, come gli scarichi sversano del tutto impunemente veleni di scarto nei corsi d’acqua che alimentano la popolazione. Ciò che ne fa una riedizione degli orrori di Dickens e della santa albanese è lo sfruttamento alla morte di ogni fibra dell’essere umano, quasi sempre donna, che li è incatenato per 60 euro alla settimana di sei giorni lavorativi, 15 ore di turno (più due di trasporto con le navette della ditta, più il resto per la famiglia e la casa, più nulla), niente malattia, niente ferie, niente sindacati, ritmi da far invecchiare di dieci anni in due, disponibilità alle voglie predatrici di capi e amici dei capi, espulsione alla minima richiesta, protesta, infrazione, magari con conclusione letale se la preda non si presta a un’alternativa dettata dai narcos: spaccio, sesso, prostituzione. E’ il legato del trattato di libero commercio, NAFTA, concluso nel 1994 tra Usa e Messico e la cui estensione all’intera America Latina fu sventata da Hugo Chavez, Lula, Kirchner, al vertice del 2005. Colonne e colonne di vecchi autobus nordamericani, al cambio di turno delle 15, scaricano sulle piastrelle degli ingressi centinaia di donne in spolverino blù, quasi tutte tra i 15 e i trent’anni, che evitano microfoni e telecamere con un fastidio dal sapore di paura. Vanno di corsa. Un minuto di ritardo e il bonus di 100 pesos settimanali, 6 euro, svapora.
Una visione di silenzio e pace, quassù non sfrangiata dalle raffiche che, nelle zone oscure tra le luci, uccidono, con disinvoltura che sa di gusto, vittime cercate e vittime casuali. Per poi ritrovarsi euforici da sangue, droga, denaro (rende, l’esecuzione, al sicario adolescente, estratto da miseria, ignoranza e disoccupazione, 30 dollari da scambiare con donne, alcol, coca, abiti vistosi e macchina) in uno di questi antros. Sono discoteche, nelle quali si esibiscono i gruppi con cappello texano dei narcocorridos, le trucide canzoni che inneggiano alla bella e sanguinaria vita dei trafficanti e, con abbigliamento, comportamenti, ambizioni degli eroi narcos diventano costume di molta parte dei giovani sfibrati da miseria e vuoto di futuro. E un affollamento incredibile di ragazze in vesti succinte, giovanotti palestrasti, energumeni attillati nell’abito firmato, tra il sicario e il boss, giganteschi gipponi blindati e oscurati di cui mi metto a riprendere le targhe. Alejandro mi ha spiegato che quelli senza targa, e qui pullulano, appartengono ai fuorilegge. Nessuno se ne da pensiero e se talora vengono fermati, basta un rapido e generoso gesto dal finestrino al poliziotti e la corsa riprende. Arrivare in un tribunale, per un auto senza targa o un corpo senza vita, significa nove volte su dieci essere rispediti all’aperto con tante scuse. Toghe nere. Su me invece si precipita giù dalla scala che conduce al piano in penombra dei gozzovigli dei poderosos, inaccessibile agli altri, un cranio rasato tipo scorta di Berlusconi. “Sono turisti, gli interessano i nostri modelli fuoristrada”, mi cava d’impiccio lo svelto Alejandro. Ma poi ci arriva un saluto che sa di avvertimento: “Buenas noches a los amigos italianos que se encuentran aquì”. Ripetuto varie volte dal cantante dei narcocorridos. Senza sorridere...
Il patio del palazzo di governo è affrescato tutt’intorno da grandi murales di Siquieros e di altri maestri messicani, a narrazione dei trionfi storici di un popolo che ha saputo dare al mondo la prima rivoluzione del ‘900. Un ossimoro se visto nel contesto di ciò che da questo palazzo viene inflitto a quel popolo. Come urla la contraddizione tra questo palazzo e, sull’altro lato della strada, il sacrario di foto, stracci insanguinati, chiodi da crocefissione, che le donne di Chihuahua hanno eretto in faccia ai loro aguzzini. Accusatrici implacabili, le madri de las hijas uccise e poi buttate tra gli sterpi, prelevate all’uscita dalla scuola e massacrate nei riti necrofili dei festini narcos, sacrificate alla depravazione dei fruitori dei video snuff, giustiziate per aver alzato la testa contro lo schiavismo nelle fabbriche dell’assemblaggio Usa, sono ancora una volta giunte in corteo a questo monumento della disperazione e della rabbia senz’armi. Anche agitatrici politiche, oltreché combattenti per la vita e per la giustizia, oggi protestano contro la manipolazione, decisa dal parlamento locale, della Legge della Trasparenza e dell’Accesso all’Informazione Pubblica. In sostanza, una modifica che, berlusconianamente, mette i potenti, i complici nelle istituzioni, al riparo dal diritto democratico della società di conoscere connivenze, abusi, corruzione. Una corruzione che, scendendo per li rami, infetta il paese come una peste bubbonica.
Le Maquiladoras sono complessi di fabbriche, quasi sempre allineate in prima periferia, architettonicamente curate e tra accattivanti prati inglesi. Sono perlopiù statunitensi e assemblano per il prodotto finito, da vendere negli Usa e nel mondo, computer, cellulari, apparecchiature spaziali, automobili, tessuti, utensili, robotistica e altro. Il nostro tentativo di superare la barriera delle siepi fiorite, degli eleganti cartelli con i logo, dei gabbiotti con sentinelle, si infrange contro lo stupore e la diffidenza di chi non si fa capace che qualcuno possa chiedere di mettere naso e telecamera lì dentro. Perché l’interno è un inferno che alle filande ottocentesche narrate da Dickens sta come i tuguri di Teresa di Calcutta stanno a una clinica svizzera (quelle in cui la “santa” andava a curarsi). Luoghi entrambi di abuso, violenza, estrazione di plusvalore, ma i primi con arredi puliti, cessi moderni, aria ventilata che, qui però, si impegna a diffondere in ogni angolo i fumi tossici della produzione, come gli scarichi sversano del tutto impunemente veleni di scarto nei corsi d’acqua che alimentano la popolazione. Ciò che ne fa una riedizione degli orrori di Dickens e della santa albanese è lo sfruttamento alla morte di ogni fibra dell’essere umano, quasi sempre donna, che li è incatenato per 60 euro alla settimana di sei giorni lavorativi, 15 ore di turno (più due di trasporto con le navette della ditta, più il resto per la famiglia e la casa, più nulla), niente malattia, niente ferie, niente sindacati, ritmi da far invecchiare di dieci anni in due, disponibilità alle voglie predatrici di capi e amici dei capi, espulsione alla minima richiesta, protesta, infrazione, magari con conclusione letale se la preda non si presta a un’alternativa dettata dai narcos: spaccio, sesso, prostituzione. E’ il legato del trattato di libero commercio, NAFTA, concluso nel 1994 tra Usa e Messico e la cui estensione all’intera America Latina fu sventata da Hugo Chavez, Lula, Kirchner, al vertice del 2005. Colonne e colonne di vecchi autobus nordamericani, al cambio di turno delle 15, scaricano sulle piastrelle degli ingressi centinaia di donne in spolverino blù, quasi tutte tra i 15 e i trent’anni, che evitano microfoni e telecamere con un fastidio dal sapore di paura. Vanno di corsa. Un minuto di ritardo e il bonus di 100 pesos settimanali, 6 euro, svapora.
Donne a Ciudad Juarez
Nella sede dell’associazione di Norma, con le pareti trasformate dalle foto delle ragazze sequestrate, scomparse, uccise, in un memorial di olocausto, Eloisa Montez, mamma di Irene, ci racconta dieci anni di maquila. Ma non ce la fa ad andare molto avanti in questa sua storia di angherie, soperchierie, privazioni, umiliazioni, punizioni, ansia da rinnovo del contratto di mese in mese, combinati al sequestro di una figlia di 14 anni, appena fuori scuola e che nei pomeriggi puliva la fabbrica, mai più ritrovata. Così mi consegna un quaderno con in copertina tre trichechi che ridono. La scrittura, regolare, pulita, da bella delle elementari, racconta quei suoi dieci anni, episodio per episodio, sopruso per sopruso, paga per paga, insieme a profitto per profitto dell’impresa, scovati chissà dove. Così si esprime la coscienza di questa ex-contadina diventata operaia, esemplare di una forza politica e sociale tutta rosa, delle donne che, fin dalla recente resistenza al golpe in Honduras, ho visto guidare la lotta latinoamericana per il riscatto che verrà. “Nell’informazione finanziaria di tutto il mondo non si parla dei nostri salari di fame, della schiavitù, si parla delle migliaia di milioni di utili netti che le imprese ricavano per lo sviluppo, per la crescita del PIL. E si parla di quanta parte di questi utili siano generosamente investiti nei paesi poveri, ma non si dice che quegli investimenti creeranno altri schiavi come noi. Il sessennio del governatore Patricio Martinez si è caratterizzato per un ulteriore indurimento delle leggi sul lavoro. La Giunta di Conciliazione e Arbitraggio, che dovrebbe comporre i contrasti tra lavoratori e padroni non ha mai dato ascolto alla nostra voce. Permetteva che operai andati solo a chiedere che ne fosse stato dei loro diritti fossero cacciati seduta stante. Di che conciliazione si parla?
Così scrisse Eloisa Montez Pinuelas, cinquantacinque anni, combattente di Justicia para nuestras hijas.
Così scrisse Eloisa Montez Pinuelas, cinquantacinque anni, combattente di Justicia para nuestras hijas.
Croci rosa a Ciudad Juarez
Il mattatoio dell’impero
Ciudad Juarez è divisa in due dal furto Usa di mezzo Messico: Texas, Arizona, California, Utah, Nuovo Messico. Camminiamo lungo il ”muro” di sei metri eretto da Bush e foderato da Obama con migliaia tra militari, Guardia Nazionale, poliziotti, fucilatori autoconvocati. Un serpente d’acciaio che vorrebbe impedire il passaggio dei sopravvissuti alla spoliazione imperialista dell’America Latina, ma che è di maglie larghissime per il passaggio della droga e dei relativi capitali. Tanto che, di là da questa barriera spacca-umanità di natura israeliana, di là dal Rio Bravo, nel quale vengono freddati trasmigratori a nuoto, di là dal ponte accessibile a frontalieri e trafficanti con licenza, nel quartiere El Paso diventato città degli Stati Uniti, lo squallore modernista degli stradoni urbani a sei corsie e dei falansteri per uffici finanziari vanta più banche e più negozi di armamentario da omicidio di quante jeanserie ospiti il Corso. Negli alberghi da cinque stelle e piscine sul terrazzo, i boss del narcotraffico se la godono indisturbati. Gli Usa sono un santuario. Anche per i condannati a vent’anni in Messico che, estradati, qui vengono rimessi in circolazione dopo un paio d’anni e anche meno. Remember Posada Carriles, terrorista, pluriomicida, a spasso per Miami?
Noi stiamo da questa parte, in un albergo appena ai margini del poligono di tiro che è il centro città e nel quale si esercitano a ogni ora del giorno e della notte i killer dei cartelli, i soci della polizia e di un esercito che qui, per condurre “la guerra al narcotraffico”, cioè a favore di uno o dell’altro dei cartelli e per una partecipazione agli utili, ha occupato la città, facendone una specie di Baghdad, più prolifica di morti di quella. Passando da quelle parti conviene abbassarsi sul fondo della vettura e accontentarsi di registrare i fischi e le detonazioni. Stiamo in un alberghetto ai margini, ma non tanto, visto che una mattina, dal supermercato di fronte al quale avevamo cenato la sera prima, sentiamo le raffiche che fanno fuori sette persone. Per gli investigatori, tutti “legati alla criminalità”. Per la verità, tre donne e quattro uomini innocui, impegnati a far la spesa. A Ciudad Juarez si ammazza per la competizione tra cartelli, per disfarsi di donne usate, per divertimento, per pratica alla “Gomorra”, per togliere di mezzo investigatori scomodi, per, e questo è l’obiettivo strategico, terrorizzare e recidere alla radice qualunque germoglio di antagonismo politico, sociale, culturale. E si uccidono in prima linea le donne. Danno il massimo di effetto intimidazione. 500 dal 1993 quando siamo arrivati, ormai 600. Un’altra mattina la radio “Minuto per minuto” riferisce di 28 corpi raccattati in giro nella notte. E’ più o meno la cadenza quotidiana. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati, senza che si saprà mai da chi e perché, sono 3.800: donne appunto, sicari, narcos, ragazzi delle padillas, passanti in gran numero, per caso o per terrorismo, medici, avvocati, poliziotti. E giornalisti. Dieci dall’inizio dell’anno. Ultimo un fotoreporter di 21 anni del Diario de Juarez, Luis Carlos Santiago. Il giornale è arrivato alla provocazione, nei confronti della Giustizia e della Politica, di chiedere alla delinquenza che cosa possa pubblicare e cosa no, affinchè i suoi giornalisti fossero risparmiati. Scandalo perfettamente speculare a quello suscitato dall’ammiraglio, comandante delle unità di Marina impegnate nella “guerra al narcotraffico”, quando ha pregato i narcos di “non esagerare nei giorni delle celebrazioni del bicentenario”, di “rispettare il pubblico festante”. Ovviamente l’altissima autorità dello Stato questa oscenità l’ha detta con le mutande alle caviglie e le mani in pasta. Eravamo lì e ora riprendiamo solo da dietro i vetri oscurati della macchina messaci a disposizione da Marisela che, alla faccia di tutto questo, dirige il nucleo d’assalto dell’antagonismo femminile: Nuestra Hijaas de Regreso a Casa. Dalla città della morte sono scappate 700mila persone su 1,7 milioni. Nelle casupole a cubetto della periferia di sterpi e sabbia, decine e decine tirate su per immigrati prima che la crisi svenasse anche il sistema maquiladoras, molte delle quali emigrate in Cina, si arrabattono gli ultimi laceri e cenciosi candidati al reclutamento dei narcos, senza neppure i pesos per la corriera della fuga.
Il sindaco uscente, José Reyes Ferriz, che fa la spola tra casa a El Paso e il municipio in Ciudad Juarez e sta per viversi la pensione a Washington, getta la spugna: “A quién pedir justicia? Quando van a acabar con tanta impunita? Por qué no detienen a los culpables de todos los
asesinatos?” Ma le sue domande a chi chiedere giustizia, sul perchè di tanta impunità per gli assassini, le ha poste Maria Avida, piccola donna in piccola casa nel quartiere insurgente di Villas de Salvarca, con i muri affrescati di volti “terminati”, scomparsi, di scritte di denuncia e di resistenza, del Che Guevara, con addirittura una piccola biblioteca popolare messa su da Julian Contreras, marxista, squattrinato laureato in lettere e filosofia, dai capelli sulle spalle e la camminata tra un Clint Eastwood e un hippy di San Francisco. A Maria, che ci sorride perfino quando gli angoli della bocca le frenano la discesa delle lacrime, pochi mesi fa hanno ammazzato i due unici figli, insieme ad altri 15 ragazzi riuniti da quelle parti per festeggiare diploma e un compleanno. Fu una delle poche mattanze che potè insinuarsi nelle colonne della stampa internazionale e addirittura nel palazzo presidenziale. Calderon, al solito compare di merende, liquidò la faccenda come “scontro tra bande criminali”. Ma l’indignazione questa volta si estese da Villa de Salvarca a mezza città e impose al caudillo di presentarsi agli abitanti mobilitati da Maria, Marisela, Julian e da tutte le donne delle associazioni. Alla faccia dei cartelli della droga e dei loro soci istituzionali. Al presidente assiso sul palco, Maria gridò la sua verità, la sua vergogna per la complice menzogna, l’urlo di tutti gli innocenti senza giustizia, massacrati in questa città, buco nero dell’umanità. Gli impose di chiedere scusa. Ora su quartiere e città sventola una bandiera che nessuno osa ammainare. E’ questa piccola donna in quella piccola casa.Ciudad Juarez è divisa in due dal furto Usa di mezzo Messico: Texas, Arizona, California, Utah, Nuovo Messico. Camminiamo lungo il ”muro” di sei metri eretto da Bush e foderato da Obama con migliaia tra militari, Guardia Nazionale, poliziotti, fucilatori autoconvocati. Un serpente d’acciaio che vorrebbe impedire il passaggio dei sopravvissuti alla spoliazione imperialista dell’America Latina, ma che è di maglie larghissime per il passaggio della droga e dei relativi capitali. Tanto che, di là da questa barriera spacca-umanità di natura israeliana, di là dal Rio Bravo, nel quale vengono freddati trasmigratori a nuoto, di là dal ponte accessibile a frontalieri e trafficanti con licenza, nel quartiere El Paso diventato città degli Stati Uniti, lo squallore modernista degli stradoni urbani a sei corsie e dei falansteri per uffici finanziari vanta più banche e più negozi di armamentario da omicidio di quante jeanserie ospiti il Corso. Negli alberghi da cinque stelle e piscine sul terrazzo, i boss del narcotraffico se la godono indisturbati. Gli Usa sono un santuario. Anche per i condannati a vent’anni in Messico che, estradati, qui vengono rimessi in circolazione dopo un paio d’anni e anche meno. Remember Posada Carriles, terrorista, pluriomicida, a spasso per Miami?
Noi stiamo da questa parte, in un albergo appena ai margini del poligono di tiro che è il centro città e nel quale si esercitano a ogni ora del giorno e della notte i killer dei cartelli, i soci della polizia e di un esercito che qui, per condurre “la guerra al narcotraffico”, cioè a favore di uno o dell’altro dei cartelli e per una partecipazione agli utili, ha occupato la città, facendone una specie di Baghdad, più prolifica di morti di quella. Passando da quelle parti conviene abbassarsi sul fondo della vettura e accontentarsi di registrare i fischi e le detonazioni. Stiamo in un alberghetto ai margini, ma non tanto, visto che una mattina, dal supermercato di fronte al quale avevamo cenato la sera prima, sentiamo le raffiche che fanno fuori sette persone. Per gli investigatori, tutti “legati alla criminalità”. Per la verità, tre donne e quattro uomini innocui, impegnati a far la spesa. A Ciudad Juarez si ammazza per la competizione tra cartelli, per disfarsi di donne usate, per divertimento, per pratica alla “Gomorra”, per togliere di mezzo investigatori scomodi, per, e questo è l’obiettivo strategico, terrorizzare e recidere alla radice qualunque germoglio di antagonismo politico, sociale, culturale. E si uccidono in prima linea le donne. Danno il massimo di effetto intimidazione. 500 dal 1993 quando siamo arrivati, ormai 600. Un’altra mattina la radio “Minuto per minuto” riferisce di 28 corpi raccattati in giro nella notte. E’ più o meno la cadenza quotidiana. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati, senza che si saprà mai da chi e perché, sono 3.800: donne appunto, sicari, narcos, ragazzi delle padillas, passanti in gran numero, per caso o per terrorismo, medici, avvocati, poliziotti. E giornalisti. Dieci dall’inizio dell’anno. Ultimo un fotoreporter di 21 anni del Diario de Juarez, Luis Carlos Santiago. Il giornale è arrivato alla provocazione, nei confronti della Giustizia e della Politica, di chiedere alla delinquenza che cosa possa pubblicare e cosa no, affinchè i suoi giornalisti fossero risparmiati. Scandalo perfettamente speculare a quello suscitato dall’ammiraglio, comandante delle unità di Marina impegnate nella “guerra al narcotraffico”, quando ha pregato i narcos di “non esagerare nei giorni delle celebrazioni del bicentenario”, di “rispettare il pubblico festante”. Ovviamente l’altissima autorità dello Stato questa oscenità l’ha detta con le mutande alle caviglie e le mani in pasta. Eravamo lì e ora riprendiamo solo da dietro i vetri oscurati della macchina messaci a disposizione da Marisela che, alla faccia di tutto questo, dirige il nucleo d’assalto dell’antagonismo femminile: Nuestra Hijaas de Regreso a Casa. Dalla città della morte sono scappate 700mila persone su 1,7 milioni. Nelle casupole a cubetto della periferia di sterpi e sabbia, decine e decine tirate su per immigrati prima che la crisi svenasse anche il sistema maquiladoras, molte delle quali emigrate in Cina, si arrabattono gli ultimi laceri e cenciosi candidati al reclutamento dei narcos, senza neppure i pesos per la corriera della fuga.
Il sindaco uscente, José Reyes Ferriz, che fa la spola tra casa a El Paso e il municipio in Ciudad Juarez e sta per viversi la pensione a Washington, getta la spugna: “A quién pedir justicia? Quando van a acabar con tanta impunita? Por qué no detienen a los culpables de todos los
Marisela Ortiz insegna nella scuola “Juarez Nuevo”, elementari, medie, superiori. La scuola è blindata, non entrano neppure i genitori, è allarme rosso. Ben sapendo, il potere criminale, come in quel che rimane del sistema scolastico disastrato, peggio che da noi, dai presidenti del PAN, si annidi, tra insegnanti e giovani, come a Oaxaca, la punta di diamante dell’antagonismo pensante, il giorno prima una scuola vicina era stata minacciata di fuoco e sterminio da sicari che hanno fatto irruzione grazie alla scomparsa delle consuete forze di sicurezza. O si sarebbe versato un pizzo, inimmaginabile per le condizioni dell’istruzione messicana, o ci si sarebbe trovati sull’uscio bambini sgozzati. Ma nella “Juarez Nuevo” il lavoro prosegue tra lezioni, interventi di assistenti volontari dall’università, giochi, lezioni di musica e danza, sport. E il direttore, Gilberto Oliveros, circondato dai suoi professori, artisti, sociologhi, ci spiega come sia il degrado nell’incultura, nel modello della competizione-prevaricazione, nella mitologia volgare dell’effimero, dell’inutile, del superfluo, il nemico quotidiano da affrontare e battere con la civiltà della solidarietà, della responsabilità, del rispetto, dell’amore. Incredibile come, in un simile oceano di disfacimento, reggano questi insegnanti, questi scolari e studenti, quali festanti nel salutarci, quali che ci coinvolgono in un’ilare scambio di pallonate, gridando “Totti, Totti”, quali in fila con la tromba appoggiata al muro per imparare a esercitare più forza nel soffio. Appunto: Juarez Nuova.
Marisela ce l’ha indicate, sparse qua e là sul territorio dove il cemento e le lamiere delle ultime casupole inerpicate sui contrafforti del deserto si riempiono della prima sabbia. Sono le croci del dolore e della sfida che le donne di Ciudad Juarez erigono alle loro sorelle perdute. Se ne trovano dall’ingresso sud della città, a contrasto con un grossolano arco trionfale, fino ai piedi della muraglia di esclusione, odio e razzismo eretto dai gringos. I partecipi del terrorismo di Stato e crimine le vanno a sradicare, bruciare, disperdere. Ma le croci sempre rinascono, come la più selvaggia e irriducibile delle gramigne. Sono croci rosa. E ci mandano, oltre i mari della distanza e della menzogna, fiori di coraggio e di verità.
16 commenti:
un commento a razzo dopo avere letto le prime righe su serbia -italia.
allora,
quello che hanno fatto allo stadio di genova non hanno nulla a che vedere con la civiltà.
sono e restano delle teste di cazzo.
punto.
volevano fare una rivendicazione politica?
bastava esporre uno striscione con scritto quel cacchio che volevano, ma così è da fascisti.
come del resto i bombardamenti sono stati fascisti.
occhi per occhio e dente per dente e chi vince è il solito fascista fetente.
saluti
alb
Buttiamo del fosforo bianco anche sui messi-cani come Nando.
Tanto è una bufala e il giorno dopo te li trovi a scodinzolare come prima.
[OT] Gaza risponde a Roberto Saviano:
http://www.youtube.com/watch?v=NBgI_QWgXaI
Daniele
Nereto (TE)
[OT]
http://www.italiacuba.net/progr_frontespizio_big.jpg
Daniele
Nereto (TE)
A Anonimo sui serbi: quando si pontifica dall'empireo, non si ha la minima idea della realtà. Vecchia abitudine catto-pcista che non ci ha mai fatto capire niente. Del saluto fascista di una vittima di intossicazioni varie me ne frega relativamente. Importa invece,sotto qualsiasi forma appaia, la sacrosanta rabbia di un popolo sterminato contro i suoi sterminatori. Importa anche moltissimo che nessuna voce, destra-sinistra, ha ricordato cosa abbiamo fatto ai serbi. Noi veri e praticanti fascisti di ieri e oggi.
Il commento di Judith Coin non l'ho capito. Non ci arrivo. O è una battuta, o è di una perfidia inarrivabile per esseri normali. Ma nome e cognome danno ampio adito al sospetto.
Fulvio
lungi da me la polemica con fulvio.
però mi chiedo cosa cosa c'entra una partita di calcio con la gazzarra che hanno messo in scena quel manipolo di individui di stampo fascista.
scusa fulvio: ma ti pare che qualcuno avrebbe potuto dire che i serbi lì presenti stavano vendicando i torti subiti dai bombardamenti italiani?
io non lo posso credere: primo perché non sarebbe stato vero, non i bombardamenti, ma il movente della gazzarra; secondo sarebbe stato un azzardo esprimere un'opinione come questa in quanto si sarebbe esposto a una molteplicità di interpretazioni.
e allora io ti dico, caro fulvio, che questi fascisti sono stati ovviamente ammaestrati da qualcuno per fare quello che hanno fatto; io non credo all'estemporaneità dei fatti,ritengo che sempre ci sia un movente e sia le autorità italiane e quelle serbe dovrebbero capire il perché questi hanno agito in quella maniera.
inoltre non credo di essere affetto da mentalità catto-comunista in quanto non capisco quale possa essere la mentalità catto-comunista; cerco di ragionare con la mia testa, ma se credi che la mia testa funziona con i principi del catto-comunismo significa che allora tu li conosci bene i catto-comunisti; bene allora ti prego di spiegarmi cosa vuol dire ragionare in termini di catto-comunismo nello specifico di questa vicenda.
per finire: non credo di avere doti di pontificatore, a meno che esprimere delle libere opinioni equivalga a pontificare.
piuttosto temo che nel mio commento, abbia commesso l'errore di scrivere ciò che pensavo di quei fascisti; l'ingiuria è sempre sbagliata e mi scuso per averla scritta.
ps.
dare del fascista non è un ingiuria in quanto connota un ben preciso orientamento politico espresso anche simbolicamente come hanno fatto quegli individui.
saluti
alberto
mah... coin no significa moneta?
e coen non signifca sa' cer dote?
questi u-mani animali sottosvilup-pati ed assassini distruttori della Natura vorrebbero riservare al NANDO Impareggiabile la stessa sorte che riservano ai loro padroni di casa I Palestinesi... ma a Jezabel fecero fare una brutta fine j'est-ce-pas... certo nando non potrebbe MAI mangiarsi una moneta o un sacerdote a rischio morte per avvelenamento! Le si potrebbe scatenare ahmadinejad!
Tornando a Serbia-Italia, concordo che un paese che ne bombarda un altro debba come minimo aspettarsi qualche vetrina rotta e una partita annullata. E comunque, guardando le immagini in diretta, la mia simpatia per i nostri bravi concittadini che tributavano onore ai caduti era di almeno tre ordini di grandezza inferiore a quella verso gli scalmanati serbi. Ciò detto, continuo ad avere l’impressione che le sacrosante rivendicazioni antimperialiste non siano al primo posto delle motivazioni dei tifosi, categoria della quale non mi rammarico di non avere mai fatto parte. Così come dubito che quanti assalirono il Gay Pride a Belgrado (ammesso che si tratti della stessa gente) fossero mossi principalmente dal sempre più evidente, squallido arruolamento di gran parte degli omosessuali nelle crociate antiislamiche.
Sarebbe stato bellissimo se, anziché terrorizzare i miei concittadini prima della partita e lanciare fumogeni durante la stessa, i tifosi serbi avessero approfittato dell’occasione per manifestare pacificamente, distribuendo volantini che spiegassero ai poveri gasteropodi italici di quali nefandezze si sono resi complici. Certo, i nostri battaglioni di propaganda avrebbero ugualmente trovato il modo di dipingere la Serbia come un paese di orchi, ma almeno sudandosi il loro putrido stipendio invece che vederselo servire con contorno di tartufi.
Pazienza, così è, ognuno parla il linguaggio che conosce. Ma preferirei che chi si diletta a guardare dei miliardari in mutande che corrono su un prato continuasse ad occuparsi di cazzate.
Mauro Murta
Ai gentili Mauro e Alberto e alle loro meditate riflessioni. Anche da me lungi da una qualsiasi polemica che non sia amichevole scambio.Subito,una cosa: vorrei vedere quale riverbero sulla stampa avrebbe dato la distribuzione pacifica e cortese di volantini.
Una seconda cosa: catto-pcisti, non cattocomunisti che è categoria politica discutibile ma seria. Catto-picisti indica la cieca fede nelle proprie convinzioni, (spesso a copertura di malefatte, cedimenti e tradimenti) di entrambe le gerarchie: universalismo di là, eurocentrismo di qua.
Tornando alle radici dei tumulti serbi a Genova, tumulti, ripeterò ad infinitum, che stanno ai nostri macelli nella Jugoslavia sovrana, antimperialista e socialisteggiante, come un fumogeno sta a un missile Cruise. E questo a mio avviso già basterebbe per contrastare stereotipi e categorizzazioni superficiali (capita a tutti!). Non nego che la compagnia era guidata da individui che esprimono la loro collera in termini di simbologia fascista. Ma vorrei andare più a fondo e non fermarmi alla consolatoria etichettatura.
Dopo lo squartamento della Jugoslavia e la demonizzazione dei serbi, gli unici che si difendevano, l'Occidente non ha fatto altro che umiliare e stuprare (Kosovo) i serbi, accanendosi ancora di più sui loro presunti crimini, con i media, con D'Alema, con il nauseabondo tribunale-farsa dell'Aja. Si trattava di coprire le responsabilità criminali degli aggressori, ottenere che i serbi restassero a testa abbassata ed evitare che da Belgrado venisse mai una sacrosanta richiesta di risarcimenti per quanto subito. La direzione della "Serbia democratica", da Milosevic in poi, si è venduta ed ha venduto il paese a Nato, droga e Marchionni vari. Quando la sinistra fallisce o sparisce, la collera, specie tra gli umiliati, offesi e ignoranti, va inevitabilmente a destra. Vedi l'Italia e le sue tifoserie. Ecco perchè non basta ed è fuorviante fermarsi a "fascisti" (perchè, i poliziotti cosa sono?). Non saranno lucidi politicamente e storicamente, ma c'è stato chi gli ha coltivato questa lucidità? Quelli della "Stella rossa" di Begrado erano il nucleo d'acciaio della sinistra serba. Oggi la sinistra li ha traditi e la conseguente diseducazione ha portato a esprimere la collera dell'offeso, spoliato e umiliato in altri termini. Questo va capito. Rispetto a quei teppisti
noi siamo peggio e occorrerebbe perciò un po' più di approfondimento. Ciao a tutti,
Fulvio
a me questa fiction dei serbi a genova non quadra! i poliziotti buoni buoni a guardare il macistone fare quello che vuole...a Genova! non mi quadra, non mi rettangola, non mi triangola, ecc. sospetto fondato: ma'roni cosa ha minacciato di fare ai dimostranti di domani 16 ottobre 2010? di fare infiltrare, oltri i "SS", i "PS" , i "CC", i "GdF" ecc ecc ecc, anche i provenienti dall'estero...chi sa forse rimettono in circolo il macistone e soci...! ma boicottiamoli! facciamo lo sciopero del contribuente...già sono a corto di trippa... e presto, nolenti, dovranno alzare le kiappe per mancanza di "carbu rante"! ah ah ah ah Sono sempre qui, sulla riva del fiume... e vedo che stanno arrivandooooooooo!
A proposito di nuvole comunque colorate che portano tempesta e di divagazioni....
oggetto soggetto
casca a pennello!
alla radio hanno ribadito la notizia che il sindacato cgil ha 5,5 milioni di iscritti [in maggioranza pensionati... come i miei]
seguendo i francesi che sono sempre i primi a fare le rivolte, le mucchette taliane vogliono fare anche loro uno sciopero generale, magari di 4 ore per non doversi privare di qualche ricarica al cell...
5,5 milioni di individui... un partito... che ovviamente pur essendo partito...non arriverà mai alla stazione per far scendere gli ingenui passeggeri!
i pensionati non possono scioperare e quindi non pagare le "tasse" per mancato reddito... loro la pensione la prendono e pagano di forza i tributi
poichè non possiamo appropriarci dei mezzi di produzione [in quanto arci-obsoletarcaici], dobbiamo impadronirci dei "pensionati cgil" ih ihn ih
se non fossimo in italia e quindi furbescamente paraluli, i pensio-nati potrebbero finanziare lo sciopero ad oltranza dei lavora-tori e "para-lizzare questo country of shit!
utopia? bah!
Perfettamente in linea con il pensiero di Grimaldi, in merito a Serbia-Italia.... Condivisibili anche alcune delle considerazioni di Alberto e Mauro. Aggiungo solo che ... ti costringono a giocare in difesa, quando la controinformazione esiste solo da una parte. Sono passati 11 anni dai bombardamenti NATO. Qui non è questione di schierarsi, non si sta coi teppisti, si sta con un ideale vissuto tra la gente, con la disperata voglia di non far cadere un punto di vista della storia dei serbi, delle memorie, dei fatti e dei racconti, che potrebbe essere ancora importante per il futuro di un paese e della sua gente, e non solo per loro...
E' triste che si debba arrivare a eventi e scene come quelle viste in tv, sebbene le telecamere non inquadrano sempre la realtà e la totalità... A caldo è difficile stabilire e ti perdi sempre cose, a freddo hanno già colto l'occasione per strumentalizzare... Le voci di coro sono un danno allucinante alla realtà dei fatti. E la categoria dei giornalisti e dei cronisti più passa il tempo e più si sta bruciando per l'ignoranza dimostrata (ovviamente non tutti).
Il risvolto se non voleva essere di tipo politico lo diventerà, il tema reale è quello che la comunità internazionale e mediatica sta contribuendo a costruire consapevole o meno per far entrare la Serbia nelle nostre cronache e nel linguaggio politico quotidiano che tristemente ci appartiene.
Però si parte da oggi, dal momento in cui la serbia degna o non degna, si sta giocando il suo ingresso in europa, forse unica scelta... e la storia? e la memoria? e i diritti calpestati?
Bell'esempio s'è dato a tutti quei ragazzini, italiani, serbi, strumentalizzati pure loro nel minestrone della propagandistica sportiva e mediatica: i ragazzini malati, il saluto ai 4 militari morti (non sappiamo che la guerra spara ? se non sbaglio alcuni dei famigliari delle vittime hanno invitato i politici durante i funerali a godersi lo spettacolo... perchè giocare la partita allora???), i teppisti serbi che gridano Kosovo cuore di Serbia (o SERVI... il che non mi stupirebbe a questo punto, brava L'ISTIITUZIONE DI POLIZIA, sì sì, che l'HA FATTI ENTRARE).
Samantha
Gli hooligans - Serbi - sono entrati come qualsiasi extracomunitario, la repressione non c'e' stata per il semplice fatto che questi - a differenza dei poveri studentelli manganellati alla "Diaz" I Serbi menano e menano forte, quindi i nostri valorosi puliziotti terroni(con la catenina d'oro al polso e il capello impeciato e le mutande firmate) se ne sono stati prudentemente alla larga.
Non ho parlato di "repressione", ci mancherebbe alimentare violenz afisica quando se ne può fare a meno.... le azioni di controllo si fanno con la testa, si painificano in solidarietà con le istuzioni preposte prima... e poi i pestaggi ci si soono stai e come verso i tifosi, dipende quali telecamere hai visto... Non ho parlato neanche di professionalità o delle vesti dei poliziotti italiani, sebbene non amo la categoria o almeno la motivazione.... E certi luoghi comuni, "Serbi che menano forte", "puliziotti terroni" mi sembrano del tutto fuori luogo, e non aggiungono nulla alla possibile, se mai ce ne sia una ed una sola, lettura dei fatti.
Samantha
Grazie per questo prezioso reportage dal Messico, Fulvio.
Sconvogente racconto, vivido di dettagli, che getta luce su una situazione terribile e praticamente sconosciuta a tutti: provate a chiedere alla persona comune, anche più o meno di "sinistra" cosa sa del Messico... niente!
Una lettrice
la cosa curiosa è che una parte consistente della destra monarchica (cui inequivocabilmente appartengono Bogdanov e le altre teste rasate da stadio presenti a Genova, che peraltro sono ottimi amici dell'estrema destra nostrana, Lega Nord compresa) venne a suo tempo sostenuta da Stati Uniti e UE per far crollare l'opportunista e revisionista (ma comunque uomo di sincera fede liberale e anti-imperialista) Milosevic. All'epoca erano chiamati "opposizione democratica".
Considerato anche una serie di coincidenze quali ad esempio lo scatenarsi delle stesse teste rasate in occasione del Gay Pride, e la facilità scandalosa con cui questa gente è riuscita ad arrivare a Genova e fare il casino che ha fatto, ho il sospetto che gli incidenti siano stati quantomeno orchestrati dall'alto per esercitare pressioni sulla Serbia riguardo la consegna di Mladic e la rinuncia al Kosovo proprio nel momento in cui cominciano i negoziati per l'adesione alla UE (secondo Bruxelles tali condizioni sono irrinunciabili), il tutto a vantaggio della stessa UE e dell'attuale governo serbo (filo-occidentale). Considerato che notoriamente i gruppi di estrema destra da stadio sono solitamente manipolati se non addirittura organizzati dai servizi segreti magari anche di più di un paese, il puzzle si ricompone.
Pertanto non ha senso dire che i tumulti di Genova sono poca cosa rispetto ai massacri Usa-Ue in Jugoslavia, dal momento che probabilmente provengono dalla stessa mano.
Infine un piccolo inciso: le tifoserie dei balcani erano il cuore della destra anticomunista ancor prima della fine della Jugoslavia, altro che sinistra serba, ditemi voi da che parte stavano i vari Arkan.
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