martedì 9 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico --- Alla ricerca della Bastiglia --- OCCIDENTE DA CARCERARE

 



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Cosa ha detto dell’Europa lo squinternato capo dell’Impero. Sembrava Gino Bartali, che non dava scampo a correzioni: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Finita la nostra civiltà (anche per merito suo), finita la libertà, tutti censurati, una specie di Titanic alla vista dell’iceberg. E ha ragione, tutte le ragioni. La cosa grottesca, drammatica è che una condanna così, senza attenuanti, ci venga, mica da Putin, ma da uno come lui: Il diavolo che da del cornuto a Mefistofele.

Osvald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”. Libro epocale del 1923, opera in due volumi di filosofia della storia che mia madre mi diede da leggere quando avevo 10 anni. Era l’aprile del 1945, la guerra era persa e Churchill stava radendo al suolo una città d’arte dopo l’altra, senza più ombra di soldati. Colonia, Francoforte, Dresda, Lipsia, Monaco…Il Medioevo, il Rinascimento, il Barocco, il Guglielmino.  Gli eventi davano senso al libro. Per il filosofo tedesco le civiltà, analogamente all'organismo umano, possiedono le quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. Per lui, analista più che visionario, l’ultima era quella che stavamo attraversando noi. Et pour cause, come stiamo percependo con la chiarezza di un cristallo lucidato.

Intendendo per Occidente quello che intendiamo, cioè Stati Uniti al piano di sopra, Israele, nell’appartamento sullo stesso pianerottolo (occupato abusivamente), Europa nella dependance, con l’incarico di tener fuori dai cancelli i propri popoli. Il tutto dotato di un tasso di criminalità senza pari nella storia della specie. L’unica ad esserne provvista.

Ammiragli neologisti

L’idiotismo militarista ha assunto una frenesia psicotica che non conosce né limiti, né raziocinio. L’Ammiraglio ne ha dato prova.  Ci ha dato l’impressione di assistere a una telenovela sudamericana, ornato da baffoni alla Umberto,  appesantito sul lato sinistro, destro di chi guarda, da mezzo chilo di medaglie conquistate nelle eroiche e defatiganti battaglie in difesa della patria aggredita, invasa, occupata. Ieri, tramite un giornale di pari grado suprematista, il Financial Times, ha raccomandato che è il caso di attaccare prima di essere attaccati. La logica della cui asserzione sfugge insieme ai candidati che, nei sudati incubi notturni di Cavo Dragone, sono lì, pugnale nei denti, pronti ad attaccarci: kosovari? Quelli del Benin? I malesi con Sandokan?

O i russi? Questo, il medagliato dei mille eroismi, non l’ha detto, ma l’ha pensato. Innovatore neologista, ha abbandonato il nom de plume con il quale gli ammiragli di oggi, chiamano l’attacco: Difesa. La sua pensata è stata più temeraria, da vero soldato: ha detto pane al pane, vino al vino (molto) e, appunto, attacco all‘Attacco. Anche a quello che ancora i vari Merz, Macron, Starmer, Crosetto, da umoristi conservatori, chiamano Difesa. E dopo Cavo Dragone, non più. Tana, liberi tutti.

Ma siccome è arduo trovare ammiragli e generali che pensano, è da escludere che quel pensiero sia stato suo. E’ di tutti quelli, da noi eletti perché pensassero al nostro bene Infatti, di qua e di là dall’Atlantico, si vanno operando a prosciugarci anche dell’ultima goccia di sangue (mille grazie, era mediaticamente infetto da Covid) per farne cingoli di carro armato, ali di bombardiere, fosforo, uranio impoverito (di cui le nostre centrali nucleari non sanno come disfarsi), incantevoli prodotti per la guerra ibrida. Su tutti la I.A., meraviglia delle meraviglie, grazie alla quale moriremo credendo di essere stati uccisi da Putin, invece era uno che stamane aveva saltato la fila del cappuccino al bar perché ammiraglio.

Di questa cosa. con cui un ometto, accecatoci con il popo’ delle sue abbaglianti medaglie, ottenute nelle aggressioni di un’Alleanza consacrata difensiva, aveva celebrato la fine dell’era apertasi a Piazzale Loreto, se ne è parlato grazie a un furibondo Mattarella, guardiano della Costituzione e custode di noi tutti? Neanche un sospiro. Neanche del suo consigliere spifferone Garofani, caro a Schlein. Macchè. Se i macigni fatti rotolare sul quotidiano dei padroni anglosassoni hanno riverberato, se ne è parlato grazie a qualche eretico quotidiano e a qualche manifestamente spazientita trasmissione. Per quante ore? 48? 72? Non esageriamo. Se tace Mattarella, il silenzio è d’oro per tutti. Qualche cittadino che si vede consegnato dai pupari di un ammiraglio di cartapesta, ma luccicante, alla mira di un contractor False Flag, magari il solito, collaudato, jihadista (ora detto russo), potrebbe fare come i ragazzi, uomini, anziani ucraini che, pur di sfuggire ai rastrellatori di Zelensky, si mutilano di tre dita.

Al buon Cavo Dragone era stato assegnato il compito di aprire le dighe onde potessimo tutti essere irrigati di fervore patriottico e affogare sì, ma al suono del Piave che mormorò. Il clamore del motto “attaccare per primi”, lanciato dalla camarilla politico-mediatica dell’Occidente per voce di un souffleur nascosto da una balconata di medaglie, ha di colpo fatto ammutolire i fin ieri assordanti echi delle esplosioni di Hiroshima, Dresda, Saigon, Gaza, Baghdad, Damasco, Tripoli, Belfast, Kabul. Quelli che si erano rannicchiati nel nostro subconscio, a sentinella perpetua contro i guerrafondai della sempre rinnovabile accumulazione capitalista, quando le altre rapine hanno esaurito il bottino e serve un’emergenza per tenerci a testa china mentre passa quest’altra, di accumulazioni.

Dove vai se la False Flag non ce l’hai?

E tutto questiomicidiale ambaradan come hanno fatto a renderlo una normalità per gente nata e cresciuta nell’idea che nessuno mai avrebbe osato a mettere in dubbio il primato della pace? Almeno a casa nostra, che siamo quelli giusti e civili e democratici. Nemo problema. Basta far volare un paio di droni sui paesi baltici o scandinavi, far apparire un sommergibile russo dove aveva pieno diritto di stare, ma ha un’espressione molto minacciosa, scoprire in Canada un aerostato meteorico cinese, finitovi per il vento, colpire una casa polacca con un missile russo, che poi era ucraino, causare un piccolo ritardo al volo di Stato della Supercommissaria tedesca, dire che la Romania è stata sorvolata da un Mig ed ecco che siamo in piena guerra ibrida di Putin.

Come giurano coloro, esponenti di 6 milioni di europei, metà infelici russi, su 450, a cui abbiamo affidato il nostro destino militare, economico, geopolitico: Kallas, Estonia, Esteri e Sicurezza, Dombrovskis, Lettonia, Economia, Kubilius, Lituania, Guerra. Chi meglio di loro? Quasi quasi mi faccio rappresentare dal mio bassotto.

Naturalmente l’autenticità della paternità di queste “provocazioni” è pari a quella degli ordigni di termite piazzate nei vari piani delle Torri Gemelle lungo le strutture d’acciaio, i cui effetti sono stati fatti passare per quelli causati da finti aerei Boeing lanciati contro gli edifici.

Ma intanto è diventato normale, anzi necessario, che le infrastrutture europee – strade, ponti, aeroporti, porti, ospedali , scuole, caserme dei vigili del fuoco, edifici pubblici – venissero orientate a svolgere nuove funzioni determinate dai comandi ad annullamento di tutte le altre (è la Schengen militare); che ponti insensati venissero costruiti per farci scappare da chi ci attacca da sud e che fosse così stupido da non fare la prima cosa che andrebbe fatta, bombardare quel ponte; che la leva sostituisse una gioventù dissipata in scapestratezze, o addirittura in studi e lavori, facendola volontaria, semivolontaria, obbligatoria, (e lì che si andrà a finire), a sorteggio, a lotteria, a piacere, donne sì, non binari rigorosamente no.

E poi, subito subito, che soldati venissero in classe a raccontare ai bambini delle elementari la bellezza ecologica della difesa della patria (perennemente minacciata dai russi) e ai ragazzi delle superiori quanto dulce et decorum est pro patria mori. Ovviamente rompendo teste locali, di ragazzi come noi, che so, in Afghanistan, o Niger. O che, viceversa, bambini e ragazzi venissero in poligono a veder cosa ci vuole, col mitra, a fare secco un bersaglio a forma di uomo, o come sta bene la bimbetta di 5 anni con un bel giubbotto antiproiettile. O che alle fiere degli armamenti più sofisticati e lucidi, che nelle piazze vanno ormai sostituendo le sagre del vermicello, i presidi portassero, su ordinanza del ministro-generale Piantedosi, bimbetti e adolescenti perché provino il brivido di sedersi nel cockpit di un F-35 a immaginare di bombardare una città. Come bene insegnano i videogiochi.

Modelli dell’Occidente

Ce l’hanno insegnato loro. I virgulti prediletti. Modelli esibiti come madonne pellegrine ovunque ci fosse una telecamera. Lo Zelensky che pur di fornire la sua ghenga di rubinetti d’oro, acquisiti con quei nostri eurosoldi che avrebbero dovuto difendere, non un esercito di capri espiatori spendibili, ma un manipolo di nazisti ladri. Il Netaniahu che, pur di continuare a masticare bambini, donne, bipedi e quadrupedi di ogni genere, e terre, da sostituire con coloni al cui confronto Mengele, Attila, o Nikolaj Džurmongaliev, kazako considerato il peggiore serial killer della Storia. Non li teniamo forse in piedi con le nostre armi, i soldi dei nostri ospedali, scuole, case, i nostri sorrisi?

 

E allora l’eroico Zelensky’ per la cui “causa” ci siamo privati di miliardi in armi che avevamo pagato per diventare nostre strade, case, ospedali, scuole, pensioni e che lì sono diventati bancarelle dove l’entourage del presidente intascava miliardi per ville, cessi d’oro, o vendeva quelle armi al primo mafioso o terrorista interessati.

E allora Trump, The Donald? Quello che ci ha fatto disimparare che il diritto prevale sulla forza, teorizzando e praticando il contrario, sparando dazi, puttanate da energumeno attempato e un po’ andato e altre da vegliardo infantilito e, soprattutto, tirando cazzotti verbali e muscolari un po’ dove gli gira. Capo dell’Occidente, plurinquisito e pluricondannato per zozzerie, sodale di uno che, per aver fatto del ricatto sessuale ai potenti la tecnica di arruolamento del Mossad, rigurgito di angiporto quanto di orride speculazioni immobiliari, uno per il quale etica ed estetica si identificano con una Trump Tower in faccia al Cremlino e una Las Vegas piantata su scheletri lungo le coste di Gaza. Uno che se c’è da saccheggiare e rapinare, si fa la pace; in caso contrario si mandano flotte, aviazione, Marines e CIA per l’ennesimo olocausto.

In Argentina, che con Milei s’è vista ridotta al 57% di poveri assoluti, ha intimato: o lo rivotate presidente, o non vi faccio avere quei 40 miliardi di dollari con i quali qualche buccia di banana potrebbe ancora arrivarvi. In Honduras, per far fuori alle elezioni coloro che avevano sconfitto il colpo di Stato di Obama e Hillary, a forza di minacce analoghe (e forse di manomissione del sistema di trasmissione di dati) ha fatto arrivare primi due pendagli da forca della cosca di Juan Orlando Hernandez, ex presidente honduregno, condannato nel 2024 per narcotraffico e in galera negli USA.

E se il presidente dello Stato razzista, Herzog, può amnistiare un genocida come Netaniahu, non può forse il presidente degli USA amnistiare un boss del narcotraffico, Juan Orlando, ex presidente honduregno, condannato, “dai giudici comunisti di Biden” a 24 anni per narcotraffico, perché si riprenda la repubblica e la faccia tornare quella “delle banane”? Sempre che non ci pensi, forte di narcoinvestitura, Nasry Asfura, indicato proprio da Donald, che di Juan Orlando è il figlioccio. E pensare che gli honduregni, faro rivoluzionario del Centroamerica ci avevano messo 10 anni per liquidare la dittatura installata con il golpe di Obama e Hillary nel 2009.

Del resto, siamo stati sempre bravi adepti. Quanto sopra non ha nulla di qualitativamente diverso da ciò che Meloni, Nordio, Piantedosi, questa nostra meravigliosa triade, hanno fatto, nel nome della legge uguale per tutti, tranne quella della Corte Penale Internazionale, con il torturatore libico Almasri.

Etica del potere: conflitto di interessi

Stiamo con un monarca assoluto che, per la gioia di cultori e corifei della guerra dei ricchi contro i poveri, è come Giosuè che ordinava alla sua tribù egiziana nomade, ma vogliosa di terre, di non lasciare vivi né neonato, né agnello, né tutti coloro che li curavano. E che per legittimare tutto questo sta mettendo il conflitto d’interesse a capo di ogni cosa. Regola numero uno: senza conflitto d’interesse (agevolato dalla nostra abolizione dell’Abuso d’Ufficio) non si fregano gli interessati legittimi e non si governa nel segno dello spirito del tempo. Che soffia impetuoso per chi prima vende e poi compra, o viceversa. Tipo Crosetto, già capo dell’AIAD, Federazione dei produttori d’armi, poi suo ministro.

O tipo Cingolani, AD dell’industria della morte Leonardo, quello dello “Scudo di Michelangelo”, a imitazione dell’Iron Dome israeliano, abbondantemente bucato da iraniani e yemeniti. L’altro giorno ha detto le davvero fatidiche parole. ”Sono in conflitto di interessi, ma vi dico chiaramente che bisogna investire sulla difesa (la chiama ancora così), perché non sta finendo la guerra, sta iniziando la nuova guerra… e senza nuove tecnologie ci sterminano”.

Credete che vi sia stato un cronista che gli abbia chiesto: “Chi ci stermina?” Ma noi lo sappiamo: ci assalteranno gli arcieri della Papuasia. Non è forse che dal Sud, come previsto da Tajani, ci arriva la minaccia e che, dunque, non si può fare assolutamente a meno della via di fuga costituita dal Ponte. Il peggio dal punto di vista logica e ambiente, ma, perbacco, il migliore dal punto di vista delle bombe.

Ma tutto questo sono quisquilie. Saranno curate dal tempo, come le crepe ignorate che hanno fatto finire nel Bisagno 43 persone in attraversamento. Mica sono stati arrestati! Come quelli della Commissione e dell’Europarlamento, poi scudati dall’omertà parlamentare, almeno la Gualmini, per la Moretti si vedrà.

E per un Occidente al tramonto, secondo Spengler, e da carcerare secondo tutti noi, ecco che la rincorsa al fondo del buco nero della corruzione e del malaffare vede l’UE superare di qualche incollatura il padrino fondatore USA. E a noi italiani, ne incameriamo il merito, facendoci, come d’abitudine, riconoscere. I mejo fichi del bigoncio.

 

 

 

 

 

UE: un Italian Job dopo l’altro

Ci aveva insegnato qualcosa il Qatargate, quella robaccia per cui un paesuccolo, senza popolazione, ma con una famiglia regnante di alcune migliaia di sbafatori e un sottofondo di schiavi importati, aveva riempito di dollari, trovati a riempire sacchi a casa loro, una schiera di eletti al nostro sommo consesso legislativo continentale. Meriti?  I soliti: quelli di essere stati tanto gentili da non parlare male di un paese, anzi di esaltarne i diritti umani, dove le donne non esistono (e poi parlano dell’Iran, dove sono la maggioranza dei laureati) e gli uomini muoiono come le mosche cadendo dai malfermi ponteggi delle Grandi Opere (Mondiali di calcio del 22). E fu la decapitazione morale di una ciurma di venduti, quasi tutti italiani. Come anche, poco dopo, quelli del caso Huawei, politici e lobbisti che raccattavano mazzette per non far escludere la società cinese dallo sviluppo della rete.

Ma questo è niente, siamo al plus ultra del rilievo dei personaggi e del carico di malaffare. Tanto da imporre sbalorditivi arresti (con rilasci veloci, come conviene in quei casi, ma processi duri a venire). Federica Mogherini, nientepopo’ di meno che ministra degli Esteri di Draghi (come stupirsi!) e poi addirittura Vicepresidente UE e Lady PESC (Commissaria  Esteri UE), e, fino all’arresto, capa del Collegio d’Europa Bruges. E di seguito, a colmare la discarica, Stefano Sannino ambasciatore, Cesare Zegretti dirigente Accademia UE e Capo Commissione per Medioriente e Nordafrica. Tutti nostri concittadini che avrebbero frodato, si sarebbero fatti corrompere o avrebbero corrotto in materia di appalti, in vista della nuova accademia per diplomatici europei, nel segno immarcescibile del conflitto d’interessi. Certo, come è che si biascica in questi casi? “Piena fiducia nella magistratura, ci mancherebbe. Chiarirò tutto”.

Nell’immondezzaio, poi, si sarebbero trovati in confortante compagnia di connazionali. I veterani del Qatargate con tanto di infiltrazioni marocchine. Con molta calma, e con pieno sconcerto del garantista Nordio, la Procura Federale di Bruxelles è arrivata a disporre la revoca dell’immunità parlamentare ad Alessandra Moretti, ma, pietosamente, non per Elisabetta Gualdini (entrambe PD). Nell’inchiesta hanno raggiunto l’eurodem Pier Antonio Panzeri, l’allora vicepresidente del Parlamento Eva Kaili e Francesco Giorgi, assistente del primo e compagno della seconda. Per rinfoltire la combriccola vi sopravvivono ancora Andrea Cozzolino, arrestato, Marc Tarabella e Maria Arena tutti trovati con colline di soldi in casa. L’iter è tuttora in corso.

Il pantano degli squali (chiedendo scusa a quelli con le pinne)

Tutto, del resto, nasce all’insegna della corruzione, della degenerazione legale, del nepotismo e amichettismo, della sopraffazione. A partire dall’ineffabile baronessa acquisita, von der Leyen, da ministro della Difesa nella Bundesrepubblik inquisita per un amichettismo che concorre con i vertiginosi primati del regime meloniano. Aveva reclutato per il suo ministero più consulenti, superpagati, ma di dubbia competenza, di quanti cortigiani avesse radunato il Re Sole. Non se ne è parlato più. Come non si parla più dell’oscenissimo Pfizergate. L’accordo tra Ursula e il compare Bourla per miliardi di nostri euro in cambio di miliardi di vaccini (in buona parte buttati), concordati in camera caritatis chattiana tra questa gatta e questa volpe. SMS che, quando qualcuno nel parlamento si è svegliato dal torpore euroindotto e ne ha chiesto ragioni e prove, non c’erano più. Ursula li aveva cancellati. Robetta, scambi tra innamorati. 

Ma oggi grazie al Belgio, la cui magistratura non si è trovato di fronte, a spingarda puntata, un qualche tonitruante Nordio, si è arrivati all’esito che in qualche modo conferma l’inequivocabile realtà del tramonto dell’Occidentale: l’arresto di intoccabili grazie a una legge che, mentre sotto Meloni, Trump, Netanyahu o Zelensky, deve essere uguale solo per chi si fa pestare dalle loro scarpe, per gli incorreggibili eurogiudici e quelli belgi resta ancora quella antica, uguale per tutti.

A questo punto toccherebbe trovare la Bastiglia. Ma la Bastiglia dov’è? Qualcuno ce la sa indicare?

 

 

 

lunedì 8 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti per “Spunti di riflessione” --- --- America Latina IL RITORNO DEL CONDOR

 

Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti per “Spunti di riflessione”

America Latina

IL RITORNO DEL CONDOR

https://www.youtube.com/watch?v=WoxOFLfrTcY&feature=youtu.be

https://youtu.be/WoxOFLfrTcY

 

Bolivar o Operazione Condor 2? Con Fulvio Grimaldi

Anni ’70, non solo Pinochet

Chi era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella resistenza quelli che se ne videro messi in discussione  la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di piombo”.

Noi invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”, operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.

Il Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non sono necessariamente tutti dei Cavo Dragoni), ci indicarono chi erano i nuovi nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in riserva il fascismo, ci stavano di nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.

Gli anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto “Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo, Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.

Cile, la sinistra con le scarpe della destra

Jeanette Jara e Antonio Kast

In Cile è andata male, come viene raccontato nel video. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi sommovimenti, soprattutto studenteschi (niente a che fare con Zeta) contro il tardo, ma irriducibile, pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo, non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.

Così alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, ma appena col 27%. Al ballottaggio, a metà dicembre, vincerà invece uno di due pinochettisti duri, Antonio Kast, figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità”, che ha preso il 24%, oppure Johannes Kaiser, stessa risma, arrivato al 14%. Insieme sotterreranno Jara con il cumulativo 38%. Cui è probabile si aggiungano il 13% di un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta di Pinochet e, forse, il 19,71% dell’immancabile “populista”, Franco Parisi.

Con la destra al 70%, bye bye Cile. Che poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame, litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, verso il famigerato “cortile di casa”, in cui dare spazio ai giochi estrattivi delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.

Honduras, vince la sinistra, estreme destre al ballottaggio

Nel nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton, irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras, paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee, libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Alle elezioni presidenziali del 30 novembre ha vinto, sì, Rixi Moncada, candidata di LIBRE (Libertad e Refundacion) il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua moglie e presidente dal 2022.

Ma al ballottaggio la Moncada non c’è. Si presenta il duo Nasry Asfura, grande palazzinaro, tycoon dai 25 massimi gruppi economici della regione, caro al collega Trump, e Salvador Nasralla, una specie di Zelensky dagli analoghi trascorsi da divo TV. Quasi appaiati, hanno raggiunto il 70%. Che è oggi la forza della destra nel paese che torna a essere intimamente legata ai narcos.

Trump, quando i narcos sono amici

 Trump e Asfura

Non per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere il sosia in sedicesimo Milei, mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere Milei.  Nel caso di Asfura è arrivato a esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex.presidente Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Insomma, insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche un suo intimo e probabile successore. Va dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di LIBRE. Basta per mettere in evidenza cosa intenda Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel segno della “lotta al narcotraffico”?

Juan Orlando Hernandez e papa Bergoglio

Quando arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.

Gli honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e partiva.

Un golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta

La resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese. Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della società civile.

Berta Caceres

 

Il contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone uccise, incarcerate fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel 2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di sbarramenti artificiali programmati.

La situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez, boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentanea fuori gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a 50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.

Va aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fati.

Di fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Raxi Moncada e gli esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e i vertici di LIBRE si erano dichiarati disposti a riconoscere la sconfitta e la candidatura al ballottaggio degli esponenti della destra.

Poi però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva registrato alcune forte anomalie. Un insolito meccanismo esperimentale detto TREP, per la trasmissione elettronica dei dati elettorali preliminari, aveva dato segno di essere tutto fuorchè affidabile. Decine di migliaia di voti erano scomparsi nella sua pancia e non si riusciva a recuperarli. Non solo, nel parallelo metodo dei verbali manuali contenenti i dati anagrafici e quelli biometrici dei votanti e le firme degli scrutatori, non si riuscivano più a trovare migliaia di verbali per, alla prima conta, ben 543.478 voti.  A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.

Si vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli mancheranno gli aiutini del Nord.

Ecuador, condor in bilico

 Rafael Correa con Julian Assange

L’Ecuador, se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 217, da una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale, inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al paese.

Lenin Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti, rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione centrodestra e filo-yankee-

Nel 2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano, liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi. Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare qualche peso alle accuse di elezioni rubate.

C’è però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove prospettive  Rivelando una coscienza politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano cristallizzati.

 Daniel Noboa

 

Con un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump, un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei suoi padrini.

Noboa, che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti “gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio infausto del M5S, ancora grillino)

La risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal 54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione militare yankee.

Ciò che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei cittadini.

Con tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela.

 

 

 

martedì 2 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta --- ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

 

 

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico

Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta

ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__dal_cartello_zeta_alla_generazione_zeta_angeli_e_demoni_nel_messico/58662_63941/

 

https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE  (si combina bene con la lettura)

https://youtu.be/n1S-1XCrSnM  (qui s’impara anche lo spagnolo)

 

Di Zeta in Zeta

Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta provando a buttare per aria un po’ di governi.  Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…

Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato, amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800 primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali  tanto sangue è stato fatto versare da farci annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.

Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono intollerabili.

Rivoluzione colorata Zeta

Così Trump, sistemato il Venezuela con l’attivazione del killeraggio CIA, la minaccia aeronavale dell’imminenza di un intervento e con 50 milioni di dollari di taglia su suo “narcopresidente “Maduro, boss del cartello “Dei soli”, peraltro inesistente, dichiara qualche settimana fa, tra una buca di golf e l’altra: “ Ho dato un’occhiata a Città del Messico. Ci sono dei grossi problemi laggiù… Non sono affatto contento del Messico. Lancerò delle operazioni contro il Messico per fermare la droga? Mi sta bene. Qualsiasi cosa, pur di fermare la droga”.

Passano pochi giorni ed ecco che, puntuale, fa la sua epifania in Messico la Generazione Zeta. Prima una serie di chiassate antigovernative – corruzione, troppa violenza criminale, aver lasciato ammazzare un bravo sindaco anti-droga, Carlos Manzo – poi la prova di forza il 15 novembre. L’assalto violento a Città del Messico al Palazzo Presidenziale – 120 feriti, di cui 100 quasi inermi poliziotti –con l’abbattimento delle barriere di protezione e tentativo di penetrare nel palazzo. Decine di migliaia di “giovani Zeta” (Zeta come coloro che, con lo stesso vessillo pirata, hanno buttato per aria il governo di sinistra del Nepal e ci stanno provando con quello di Belgrado), di cui le immagini mostrano però soprattutto facce attempate, tipi da agiato ceto medio. Il che non toglie che all’evento dedichi il suo entusiastico commento la grande stampa che sta in, e guarda a, un Occidente in marcia verso i suoi migliori decenni della prima metà del ‘900, oggi condominio di Deep State, Trump, Netaniahu e Ursula.

 

Punta di lancia Zeta in Messico, Carlos Bello, padrone della prima TV messicana, “Azteca” e del Gruppo Salinas, potente aggregato di media, telecomunicazioni, attività finanziarie e supermercati, inquisito per un’evasione fiscale da 2,6 miliardi di dollari. Impunito, come usa da noi. Bello è anche sostenitore del neo partito “Forza e cuore per il Messico”, successore dei discreditati e sconfitti partiti di destra, PRI e PAN, che hanno tenuto la barra nazional-coloniale privatista, liberista e narcotraffichista, da cent’anni a questa parte.

Non potevano non annuire alle parole di Donald Trump, gli ex-Vicente Fox (il cui capo della Sicurezza, Genaro Luna, fu condannato per traffico di droga in combutta col cartello Sinaloa) e Felipe Calderon, vecchi sodali  di Clinton, Bush e Obama nel Palacio Nacional, sempre pronti a spostarsi tra Neocon democratici, il secondo Bush e il taumaturgo giallociuffato, a seconda di chi, dalla Casa Bianca, gli intimava di stare sull’attenti e non disturbare né CIA, né DEA, nè i loro narcoriferimenti messicani. Tra i quali nel Palacio si privilegiavano i cartelli Sinaloa e, ristupitevi delle coincidenze, lo Zeta.

C’è da meravigliarsi che in tutto questo abbiano svolto un ruolo di sostegno e “approvvigionamento” enti caritatevoli come CIA, Fondazione Ford, Open Society di George Soros, l’Atlas Network, una rete di centinaia di Think Tank pro-libero mercato, legata al Dipartimento di Stato (che finanziò pure il golpe anti-Chavez del 2002), il portale “Animal Politico” generosamente finanziato dalla National Endowment for Democracy (NED), braccio del regime USA per le iniziative di regime change?

Tra Chiapas, Belgrado e salvataggi in mare

Non è la prima volta che un movimento, con forti appoggi internazionali multilaterali, mette in discussione l’assetto istituzionale del paese. Nel 1998 mi accodo da cronista del TG3 a una spedizione in Chiapas organizzata dal gruppo di Luca Casarini, detto allora delle “Tute Bianche” e che si sarebbe fatto notare al G8 del 2001 a Genova. Lo avrei rivisto, segnato da analoga coloratura politica, nella Serbia dell’attacco Nato, ospite di una radio-tv di George Soros, B 92, impegnata contro il governo socialista di Milosevic. L’attualità lo vede processato per reati legati al traffico di migranti e, finalmente, coccolato da papa Bergoglio, per i meriti conseguiti con la supernave “Mediterranea, Saving Humans”. Un’altra nave, la Mare Jonio, con lo stesso Casarini, fu poi scoperta essersi fatta trasbordare 27 migranti, per 127mila dollari, da un mercantile dell’armatore danese Maersk, suscitando un processo della Procura di Ragusa, tuttora in corso, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Perché questa deviazione casariniana dalla spedizione delle Tute Bianche in Messico? Perché non potei evitare di constatare come la spedizione di Casarini tra gli indigeni Maya, mobilitati dal “Subcomandante Marcos”, già studente dell’università autonoma di Città del Messico, UNAM, fosse in qualche modo in sintonia politica con le altre sue imprese. E pure questa benvista e sostenuta dalla Chiesa.

Dopo la clamorosa occupazione, da parte dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), di San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas, in segno di protesta contro l’appena approvato NAFTA, accordo nordamericano di libero scambio, che consegnava l’economia messicana nelle mani di Wall Street, il movimento zapatista fu da noi considerato una specie di avanguardia anticapitalista. Arrivarono compagni entusiasti da mezzo mondo ad abbeverarsi alle fonti rivoluzionarie de La Realidad, municipio zapatista nella selva Lacandona.

Così noi con le Tute Bianche. Momento apicale e rivelatore fu un incontro con il leader spirituale del movimento, Samuel Ruiz Garcia, vescovo di S. Cristobal. Ci indirizzò a “liberare” la comunità oppressa del villaggio di Taniperla. Scoprimmo all’arrivo che pure quelli erano Maya, pure quelli autorganizzati, ma restii a inserirsi nel gruppo di Marcos. Motivo? Erano convinti protestanti, mentre quelli del “Sub” erano rigorosamente cattolici. Il nostro mandato era di aiutare Taniperla a tornare dalla parte dei buoni.

L’indirizzo politico di Marcos, segnato da un intransigente localismo indigenista che non gradiva commistioni con quanto di pur valido si muoveva in ambito nazionale messicano, trascinò la comunità maya a un’ostilità sempre più pronunciata verso le sinistre messicane. Al punto di organizzare spedizioni propagandistiche in moto, a cavallo, in giro per tutto il Messico, contro la candidatura di Andres Manuel Lopez Obrador, amatissimo – da operai, proletari e mondo antimperialista - sindaco di Città del Messico, leader del partito progressista “Morena” e candidato alla presidenza. “Obrador? ”, chiedeva retoricamente, “ma se sono tutti uguali!, parlano parlano, ma finiscono col fare le stesse cose dei liberisti”. Collocava il politico, sostanzialmente zapatista e rivendicatore della sovranità del Messico, a fianco di soggetti criminali come i narcopresidenti Salinas de Gortari, Vicente Fox e Felipe Calderon.

Queste spedizioni di Marcos e dei suoi seguaci contribuirono non poco a che Obrador fallisse alle elezioni presidenziali sia del 2004 (queste pesantemente manipolate), che del 2008. Ma non in quelle 2018, quando Marcos si era ritirato dalla scena (ricomparirà brevemente, nel 2024, per osteggiare la nomina di Claudia Sheinbaum, ingegnere, accademica, ecologista, erede di Obrador, a candidata alla presidenza) e ogni opposizione e tentativo di ripetere i trucchi del passato venne travolta da una marea incontestabile di voti.

 

 

 

 

Messico, i demoni

Mi ritrovai in Messico per un nuovo documentario una dozzina d’anni dopo, regnante Felipe Calderon, da tutti considerato vicino al cartello Sinaloa – ma neanche tanto lontano dagli altri cartelli, Juarez, Tijuana, Beltrán Leyva, del Golfo, Caballeros Templarios - e vicinissimo al Dipartimento di Stato che qui aveva dislocato alcune unità di forze speciali. Non certo per disturbare la sinergia tra cartelli, polizia messicana e DEA (ente USA “’per la lotta al narcotraffico”), visto che sono oltre 100 miliardi i dollari che entrano ogni anno nel sistema bancario USA, ma per dare una mano alle forze di sicurezza nazionali nel disciplinamento di eventuali rigurgiti antagonisti. Che c’erano, irriducibili.

Nei mesi da me trascorsi in Messico, tra 2008 e 2010, in un paese militarizzato oltre ogni misura, si contano 30.196 morti ammazzati, 23.500 donne in media ogni anno, 3.200 desaparecidos. Il 93% di questi delitti non viene indagato grazie all’intreccio omertoso e di interessi tra criminalità e autorità Ogni anno arrivano dal Sud 600.000 migranti. 20.000 risultano poi sequestrati, torturati, stuprati, uccisi, spesso decapitati, fatti sparire. Da 200 a 300 in media, sui due lati del confine USA, finiscono nelle mani di tagliagole a questo scopo reclutati.

Nella “guerra al narcotraffico” e nella caccia al migrante sono impiegati 180.000 effettivi, tra esercito, marina polizie federali e locali, più gli “specialisti” allora spediti in appoggio da Obama. Il cartello degli Zeta, il più efferato, è composto da ex-effettivi delle truppe d’èlite messicane, addestrate a Fort Bragg, Carolina del Nord. Almeno metà dei.2.500 municipi messicani erano sotto il controllo dei cartelli della droga.

In 3000 miliardi di dollari sono calcolati gli utili annuali del traffico di droga. Questo passa per i corridoi Colombia-Centroamerica-Messico, via terra, mare o aria (parallelo a quello che allora correva dall’Afghanistan, occupato dalla NATO, l’Iraq, pure occupato, Kosovo, Calabria. Sicilia, Occidente. Ne sapeva qualcosa Buscetta. Soldi che finiscono nelle disponibilità della finanza USA, a sostegno dell’economia più indebitata del mondo. Destinazioni privilegiate: New York, Florida, Texas e Arizona, stati che sostengono con donazioni l’80% delle campagne presidenziali. Sono 5 trilioni i dollari sporchi entrati neri circuiti finanziari USA nel primo decennio del secolo. Superavano tutti i trasferimenti da petrolio e armi. Coca e Fentanyl servono qui come servì l’oppio alla Regina Vittoria contro la Cina. Chi da noi se ne occupava con grande perizia e competenza era Pino Arlacchi, vicesegretario dell’ONU e responsabile della lotta al narcotraffico. Sono funzionari ONU che non hanno lasciato successori, come non li hanno lasciati segretari indipendenti e decisi come Kurt Waldheim, o Boutros Ghali.

Maquiladoras

E anche questo stato di cose che garantisce che il 19% più ricco superasse negli USA di 50 volte quello del 10% più povero, mentre il 60% dei messicani viveva sotto il livello di povertà. L’1% possedeva il 50% della ricchezza nazionale, il 70% raggiungeva a malapena i 2 dollari al giorno. Zero previdenza e assistenza sanitaria per metà della popolazione. Un dato quest’ultimo che riguardava anche le migliaia di operaie che, con contratti di mese in mese, anche per 10 anni, cacciate al primo errore e spesso consegnate ai boia narcos se provavano a protestare o sindacalizzarsi, impiegate nella maquiladoras, la catena di stabilimenti che le grandi industrie USA avevano dislocate a Chihuahua, nel nord del Messico. E che Trump aveva promesso di riportare a casa. Prima di preferire di dedicarsi alle guerre geopolitiche.

La terra, solo nel mio ieri, apparteneva al 97% a una trentina di latifondisti che di tutto si curavano fuorchè dell’alimentazione di base della popolazione. Il 3% restava a 400.000 piccolissimi contadini. 12 milioni di questi erano senza terra. Il 70% dei lavoratori erano sottoimpiegati e sottopagati.

Tutto questo alla faccia della prima rivoluzione del ‘900, quella di Emiliano Zapata e Pancho Villa, unici vincitori latinoamericani degli USA sul terreno di battaglia, prima di Cuba. La dittatura di Porfirio Diaz, solito fantoccio yankee, allora abbattuta, si ricostituì dopo un decennio. Un’altra spallata fu tentata dagli studenti nel ’68, sull’onda del movimento che in tutto l’Occidente, a partire dal Vietnam (oggi Palestina), prova a minare le basi fondanti del capitalismo imperialista. E fu la strage della Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, 400, forse 800 (il regime non li volle contare) ragazzi massacrati da esercito e politizia. Oggi li ricorda un museo cosparso di scarpe, borsette, libri, quaderni, bottiglie Molotov, barriere carbonizzate, foto di morti e feriti, facce. Presidente Gustavo Diaz Ordaz, dell’eterno PRI (Partido Revolucionario Istitucional).

 

Era questo il paese che attraversai dall’estremo sud, dove Messico e Guatemala sono separati dal fiume Suchiate. Da questo enorme corso d’acqua arrivava, attraversatolo su pneumatici di camion, l’alluvione dei disperati delle Repubbliche delle Banane diretti nel “paradiso nordamericano”. Quel “paradiso” promesso e oggi da Trump negato, aveva la sua anticamera nel cimitero dei vivi di Chihuahua e Ciudad Juarez, terreno di cacciatori statunitensi di teste, attestati sui due lati del confine. E lo zapatismo, ormai ombra di se stesso, ridotto a viale dello “zapaturismo” a San Cristobal per nostalgici e reduci di illusioni e sconfitte, ha provato a svolgere un ruolo in occasione della rivoluzione colorata degli Zeta (intesi come movimento). Ha riattivato in Chiapas una certa mobilitazione anticentralista, accompagnata dalla solita condanna di tutte indistinte le forze politiche, “tutte uguali”, anche quelle che stavano riscattando dignità e giustizia, diversamente dagli attivisti Zeta degli assalti ai palazzi del governo a Città del Messico nella prima metà di novembre.

Passa un treno merci. Sopra e ai lati, abbarbicati, centinaia di migranti centroamericani. Al confine sono scampati alle pandillas, le bande di giovani delinquenti che li spogliano di tutto, Qualcuno, a gambe divaricate, pende sospeso tra un vagone e l’altro. Viaggiano così per giorni, senza biglietto, assieme a sacchi di soia, zucchero, cemento. Qualcuno crolla e finisce sotto le ruote. Il treno rallenta. Un signore in disarmo che dimostra settant’anni, ma ne ammette 61, dice di andare in Nordamerica, da un nipote, per trovare quel lavoro che a casa sua non gli danno più: “Dopo i 40 ti buttano. Ma se non c’è speranza, non c’è più niente…”. Tanti che non ce l’hanno fatta a prendere il treno, li ho visti, tra cani inscheletriti e neri avvoltoi, rovistare tra i rifiuti della grande discarica di Tapachula, prima città dopo il confine. Arrivano caporali in auto e li pagano per aver ricuperato qualcosa di commerciabile. Al confine nord li aspettano i cacciatori di teste.

Messico, angeli contro demoni

Sono a Oaxaca nel centrosud del paese, città e Stato della perenne resistenza, sia indigena, degli indios Triqui, cui l’estrazione nordamericana sottrae acqua e foreste, sia creola e bianca. Nel 2006, al cambio tra i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon, una gigantesca rivolta di popolo, studenti, giovani e soprattutto, come poi vedrò ovunque nel Messico, donne. Calderon è stato insediato, grazie al fatto che aveva sottratto 1 milione di voti a Obrador, fatto provato dal Tribunale Supremo Elettorale. Ma lasciato correre.

La lucha sigue. la lotta continua, mi assicurano, con un termine che mi è famigliare, le donne, perlopiù operaie e insegnanti, che animarono una rivolta per la conquista di diritti fondamentali, sociali e ambientali, per l’istruzione e la sanità pubblica, contro la manomissione del territorio da parte delle multinazionali minerarie. Una sollevazione che, tenne in scacco le forze della repressione per settimane, Continuano a percorrere il territorio, a invitare delegazioni fraterne straniere, sfidano minacce e repressione.

Una repressione che, più a sud, Chiapas, è costata arresti e maltrattamenti alla comunità agricola “Lopez Hernandez” di mezzo migliaio di persone, parte della rete “Organizacion Campesina Emiliano Zapata”, che nulla ha a che fare con gli zapatisti dell’ex-Marcos. La loro autonomia, che aveva ridato vita e coltivazioni a 215 ettari di terre ancestrali, a suo tempo sottratte da un unico latifondista al quale gli spagnoli avevano assegnato 1.600 ettari. Il regime gli negava riconoscimento, scuola, sanità, l’acqua andava presa a 130 minuti di cammino. Quando gli uomini della comunità furono tutti arrestati, sono state le donne a mandare avanti i lavori sui campi e all’interno della comunità. La lucha sigue. Si capisce perché il Messico fosse allora il paese a più alto tasso di femminicidi.

Il cuore dell’elaborazione politica e della lotta al sistema totalitario che le presidenze PRI e PAN hanno continuato a rafforzare sono sempre state le università, in testa l’UNAM, Universita’ Nazionale Autonoma del Messico e l’UNAC, Università Autonoma di Ciudad Juarez. Nella prima incontro i ragazzi del Comitato Cerezo, sono quattro fratelli e una sorella tra i 22 e i 30 anni, tutti con alle spalle chi 5 e chi 7 anni di galera, comprese le torture, punizione di attività politiche nonviolente. Sono figli di una coppia tuttora latitante che militava nell’ERP, Esercito Revolucionario del Pueblo, una formazione guerrigliera marxista, diffusa in molti paesi latinoamericani in risposta alle dittature installate dal colonialismo yankee. All’UNAM hanno aperto uno sportello per l’assistenza agli studenti, in materia di corsi, controversie burocratiche, carenze accademiche, conflitti con le autorità dell’ateneo, o della città, o dello Stato. Continuano a rischiare, ma si espongono ed esprimono la certezza che prevarrà quanto va crescendo nel paese, attraverso anche la rivisitazione di rivoluzioni e riscatti passati e in collegamento con nuove realtà alternative emerse nel mondo.

La loro fiducia mi viene confermata a Chihuahua e nella città di confine Ciudad Juarez, dirimpetto a El Paso texano che, con i suoi 17 negozi di prodotti militari, è la generosa e semiufficiale fornitrice di armi alle gang sull’altro lato del Rio Grande/Rio Bravo e della penetrabilissima cortina USA di ferro e torrette che lo affianca.  Allora qualcuno chiamava questa regione El infierno del Norte. E a buon titolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Discesa all’inferno

La prima cosa con cui, arrivando a Chihuahua, capitale dello Stato omonimo, ci si scontrava, con tanto di trambusto emotivo, era un monumento. Monumento raffazzonato come da chi lo mette su in fretta, guardandosi alle spalle, forse inseguito, disperato. Una specie di quadro gigante, in faccia al grande palazzo barocco governativo, dalla cornice e base color sangue, costellata di chiodi, stracci di vesti intime insanguinate, manichini nudi spezzati e arti sparsi. E’ il monumento, non so se c’è ancora, al femminicidio. Quella strategia dell’intimidazione e del terrore che, assieme alle teste mozzate dei rivali nella lotta per il controllo degli stupefacenti, serviva ai poteri di allora – e dalle nostre parti anche adesso – per tenere in ceppi di paura i sudditi.

Terra allora desertificata, abbandonata da dio e dagli uomini che dovrebbero coltivarla e custodirla. Ricordo periferie vuote, case mezze costruite, sterpaglie dappertutto. Ricordo un angolino di quartiere, cento metri per venti, dove la gente si ritrovava a passeggiare, a far giocare i bambini con dei grossi pupazzi gonfiati, a chiedere e dare l’elemosina alla solita mamma india con due bimbetti appesi, ad ascoltare e fare musica, perfino a ballare. E ricordo una madre cui avevano ammazzato la figlia e che davanti al palazzo del governo protestava, protestava, finchè qualcuno non l’ha portata via. Ora figura su una delle croci rosa che ricordano donne ammazzate e che fioriscono dalla periferia di Chihuahua fino a quella di Ciudad Juarez, il cimitero dei vivi, a nord, sul confine. E, entrandovi, il più bel monumento a Don Chisciotte che abbia mai visto. Continua a lottare contro mulini a vento.

Qui ti devi muovere circospetto. Di giorno i padroni del luogo, quelli del traffico tra qui e la El Paso delle banche e dei corrieri verso l’interno degli States, impongono il coprifuoco per quando devono fare grossi spostamenti, o retate di importuni. Quando vedi passare automobili sfacciatamente senza targa, sai chi passa. C’è vita di notte, ombre seminude lungo viali bui, locali dove si balla e, al piano di sopra, dei video glorificano, davanti a maschi compiaciuti e sghignazzanti, le imprese dei narcos. Prostituzione e droga. E ciò di cui si nutrono i padroni. Ecco perché i femminicidi. Si rapisce, si abusa, di rifornisce la tratta, si uccide, si butta.  E’ anche questa la guerra dei ricchi ai poveri.

Ed ecco perché non dimenticherò mai Miriam Valdiviero, operaia, Marisela Ortiz, direttrice di una scuola, Irene Miramontes, Norma Ledezma, Norma Andrade, Virginia Berthaud: tutte madri di figlie perdute, scoperte, a volte dopo anni, senza vita e senza vesti, o mai ritrovate, ancora attese. Tutte impegnate in organizzazioni per la lotta al femminicidio, al sistema, al governo, a Felipe Calderon, presidente fellone. Associazioni che fanno elenchi, ricerche, denunce, mostre di foto con storie di donne, ma anche informazione, cultura, convegni, musica, manifestazioni. Si chiamano “Justicia para nuestras fijas”, ““Nuestras fijas del regreso a casa” e in tanti altri modi.

Con Marisela, nella cui scuola insegnanti donne offrono ai ragazzi vita, valori, soddisfazioni, alternativi a quelli per i quali i boss provano a reclutarli, ci spostiamo in macchina. Dalla radio c’è il bollettino del mattino su quanto è successo nella notte: di quartiere in quartiere, di paese in paese, un interminabile rosario di morti, sparizioni, bagni di sangue.

Chi non si lascia intimidire, nel cimitero dei vivi, sono i ragazzi dell’Università Autonoma di Ciudad Juarez. Leonardo Alvarado, loro professore di informatica e capo di un Comitato di Lotta, parte del Fronte Nazionale contro la Repressione che regolarmente sfida con manifestazioni i guardiani del finto ordine, ci parla, attorniato da ragazze e ragazzi, di un “Cuore della resistenza che batte, a dispetto degli emboli che gli spara il sistema”.

 Maria Davila contesta il presidente Calderon

Ma chi non dimenticherò mai è una piccola donna, Maria Davila di Ciudad Juarez, di una modestia pari alla sua granitica determinazione. E’ lei il Messico. Riassumo il racconto che mi ha fatto. Il 31 gennaio 2010 una classe di ragazzi delle superiori festeggia un compleanno. La polizia fa irruzione, spara a casaccio, ne uccide 17. Due erano figli di Maria. Il clamore del massacro costringe il presidente a intervenire. Dal palco, Felipe Calderon giustifica l’assurda mattanza accusando i ragazzi di aver fatto parte di una banda di malviventi. Maria Davila non ci sente più, si erge davanti al palco, da piccola diventa grandissima. Accusa il presidente di mendacio per coprire i suoi sicari. Costringe Calderon a ritrattare e poi ad allontanarsi sotto una grandine di fischi e improperi.

Siamo all’oggi, agli altri Zeta, a Claudia Sheinbaum, prosecutrice del riscatto lanciato nel 2018 da AMLO, Andres Manuel Lopez Obrador, quando finalmente i maneggi elettorali e di Marcos non sono riusciti a sottrargli la vittoria. I militari USA, che, fingendosi anti-narcos, contribuivano a mantenere l’ordine costituito, sono stati rimandati a casa. E subito Trump, come con Venezuela e Colombia, ha tuonato contro il paese, da sempre considerato appendice del grande vicino, attribuendo al suo governo il ruolo di capo narcotrafficante.

La lotta degli USA ai narcos è come la loro lotta ai terroristi islamici: li creano, fingono di combatterli attribuendoli agli Stati che hanno programmato di abbattere.

 

Il ritorno di Emiliano Zapata, subito “narcotrafficante” anche lui

Lopez Obrador e Claudia Sheinbaum

E così, dopo alcuni tumulti di preparazione, il 3,7,12 e 19 ottobre, essenzialmente destinati a impostare la narrativa dei media, ecco, il 15 novembre, gli Zeta assaltare il Palazzo, alla nepalese, serba, georgiana, primavera araba, ucraina, alla Otpor, quando si trattava di finirla con la Jugoslavia. Pretesti? I soliti stereotipi delle rivoluzioni colorate,buoni per ogni occasione. corruzione, violenza, autoritarismo, qui anche l’assassinio dell’anti-narcos sindaco di Uruapan Carlos Manzo, i

Il problema vero è che né Obrador, primo presidente di sinistra dopo Lazaro Cardenas negli anni ’30, né Sheinbaum, per quanto avessero fatto, in un mandato e un pezzetto, non erano riusciti ad estirpare del tutto il cancro secolare che era servito a imporre alla società la sottomissione al diktat del capitale nazionale e, soprattutto, nordamericano. Epperò, con la proclamata “Quarta Trasformazione”, 4T, si erano permessi di rafforzare le nazionalizzazioni (petrolio, elettricità), ripubblicizzare quanto era stato privatizzato, la riduzione delle spaventose diseguaglianze sociali con provvedimenti di ricupero sociale come l’aumento di tutte le prestazioni sociali, il ripristino delle risorse idriche e forestali, la promozione di infrastrutture come le ferrovie, provvedimenti per porre fine allo stillicidio della violenza sulle donne, un piano ambientale radicale di 6 anni con la fornitura di servizi idrici a tutte le abitazioni, la messa al bando della plastica monouso. E, priorità assoluta, migliaia di arresti di esponenti e manovalanza del narcotraffico, senza che ciò abbia significato la tradizionale militarizzazione di società e territorio.

E, particolarmente odiosi per il grosso vicino, fin dai tempi di Biden, i rapporti fattivi, o di solidarietà e condivisione, con entità invise ai Stelle e Strisce, come Palestina, Russia, Cina, Iran, BRICS. La vicinanza concreta con lo schieramento sovrano e antimperialista dell’America Latina, da Cuba al Nicaragua, dal Venezuela alla Colombia e all’Honduras. Sheinbaum, ebrea, dichiara di riconoscere lo Stato di Palestrina, accoglie il primo ambasciatore palestinese in Messico, stigmatizza il genocidio di Gaza. Da sindaco aveva reso irriconoscibile la capitale, disinquinandola e decongestionandola con corridoi preferenziali per autobus elettrici e l’ammodernamento della metro e la moltiplicazione di alloggi popolari, in una metropoli dagli affitti irraggiungibili. Oggi Claudia Sheinbaum ha il torto di godere di un indice di approvazione di oltre il 70%, in alcuni settori e stati federali, dell’80%.

Le donne che ho incontrato e quella che oggi regge le sorti di un Messico da restituire a Emiliano Zapata ci fanno riconoscere che oggi l’America Latina è donna.

Tutto questo basta e avanza per galvanizzare i nostri media a tratteggiare del Messico lo stesso quadro onesto, consapevole e rispettoso, proposto per il Venezuela del “narcos Maduro” (vedi il disinformato Pino Corrias sul Fatto Quotidiano del 27 novembre, un inconcepibile assist alle cannoniere di Trump). Siamo bravissimi a farci riconoscere.