mercoledì 8 ottobre 2025

“Spunti di riflessione”: Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- PIANO DI PACE, PIANO DI RESA, O PIANO DELLA DISPERAZIONE?

 

“Spunti di riflessione”: Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

PIANO DI PACE, PIANO DI RESA,

O PIANO DELLA DISPERAZIONE?

 

 


https://www.youtube.com/watch?v=0e-Ihl2BeO4

https://youtu.be/0e-Ihl2BeO4

Nel video inquadrature alternative alla vulgata sul Piano di Pace

 

L’etichetta che invita a comprare è “Piano di pace”, la sostanza dentro all’involucro è  “Piano di resa incondizionata”, il nocciolo della proposta è “Piano della disperazione”.

Hamas e le altre componenti della Resistenza hanno ovviamente dato disponibilità al “Piano di Pace”. Non farlo avrebbe potuto far pensare che il loro è un cinico accanimento sulla guerra a spese dell’olocausto in atto del loro popolo. E’ palese, con Hamas, l’esistenza di una formazione bicefala, con una dirigenza, da anni a Doha, incline a ascoltare con attenzione gli indirizzi dell’emiro che la ospita, e i più autonomi successori di Hanijeh e Sinwar sul campo di battaglia a Gaza (presenti con minore evidenza anche in Cisgiordania). Consapevoli, questi ultimi, di essere il fattore determinante perchè il piano sia stato innescato, se non dalla disperazione, da un’urgenza di sopravvivenza del progetto sionista, con relative ripercussioni sul futuro del Grande Israele e, più in là, della restaurazione colonialista nell’area e in generale.

Il piano del trinomio Trump-Netanyahu-Blair arriva a poca distanza da quando, secondo la delicata definizione euro-atlantica, Israele stava terminando il “lavoro sporco” a Gaza e in giro per il Medioriente. Lavoro sporco che sarebbe stato completato con “l’inferno” da scatenare nel caso di rifiuto. Un colpo finale, tuttavia, che ha suscitato un inatteso contraccolpo dalle proporzioni inattese, enormi.

Le operazioni “Spade di Ferro”, prima, seguita da quella chiamata “Carri di Gedeone” (a fini di adattamento biblico), si arenavano entrambe a Gaza City, con avanzamenti dell’IDF verso sud e successive ritirate. Le perdite israeliane si avvicinavano ai 2000 caduti e a decine di migliaia di feriti, confermando lo scetticismo dei riottosi comandi militari e dei servizi segreti, via via decapitati. Israele doveva iniziare a leccarsi ferite sempre più profonde.

Breve elenco. Lacerazione confessionale e politica del tessuto sociale, determinata non solo dalla disponibilità di Netanyahu a sacrificare i prigionieri del 7 ottobre; crisi che si riverberava anche tra le file dell’esercito, con il crescente rifiuto dei riservisti a farsi arruolare, con l’incremento delle diserzioni, dei sucidi dei combattenti, dei casi di stress postraumatico (da curare magari nelle Marche o in Sardegna); una popolazione che i droni e missili yemeniti costringevano a continue corse nei bunker e che i missili iraniani avevano rivelato preoccupantemente vulnerabile; il diseccarsi dell’immigrazione a vantaggio di un flusso di ritorno nei paesi d’origine; l’intiepidirsi, fino al congelamento, dei rapporti economici, commerciali e accademici con il resto del mondo…

Tutto questo a guardare dentro casa. Ma, gettando lo sguardo fuori, si percepiva la nuvolaglia nera farsi nubifragio. La grandinata di riconoscimenti dello Stato Palestinese, che vedevano una lista lunga quanto tre quarti dei paesi del pianeta, 157 su 193 e che, pur carichi di ambiguità, erano imposti per tenere il passo con la pressione delle proprie società. Facevano sì che Palestina fosse diventata la parola politica più pronunciata al mondo. Cosa disdicevole per chi si era adoperato per decenni a sopire, troncare, reprimere, seppellire, l’intera questione. assistito dal collaborazionismo ANP.

Riconoscimenti dettati da un’ola di indignazione mondiale per cosa si sta infliggendo a milioni di civili innocenti di qualsiasi torto, che non fosse la rivendicazione spesso solo della nuda vita. Mercenari che attirano bambini affamati con lo sbrilluccichio di qualcosa da mangiare per poi seccarli con una fucilata. Credo che questo sia stato, nell’oceano di orrori senza precedenti, il suono del gong che ha fatto tremare le mura del tempio di Salomone. E che ha disperso nel vento, come coriandoli alla fine della festa, le parole dette o scritte per convincerci che l’unica cosa buona in Medioriente fosse Israele. 

E allora ecco l’uragano. Quello che ha fatto volare verso Gaza le vele delle flottiglie, quello che ha fatto delle strade del mondo, più di tutte quelle italiane, per una volta avanguardia, una forza incontenibile, un esercito in marcia senza armi. Anzi, con le armi micidiali della coscienza, della compassione, della rabbia e della solidarietà. Un esercito diventato capace di elevare a universale la giustizia, il diritto, l’equità, che si tratti di Palestina, in primis, ma ormai anche delle consanguinee vittime delle diseguaglianze, dei decreti sicurezza, delle bugie a fine di prevaricazione e predazione, dell’esclusione sociale o razziale.

Si capisce perché il mostro bicefalo Trump-Netanyahu abbia dovuto ricorrere ai ripari. Malamente, peraltro Illudendosi che la mega-falsificazione di quanto è accaduto il 7 ottobre, giorno di “Hannibal”, cioè del fuoco israeliano indistinto su nemico e amico, potesse far passare l’inversione vittima-carnefice e tirarle dietro ancora una volta una complicità, attiva o passiva, che però l’uragano nelle vele della flottiglia ha spazzato via per sempre.

A Sharm el Sheikh, una cosca di palazzinari pratici di costruire con mattoni fatti di ossa e cementati col sangue, pensa di poter sistemare 15 milioni di palestinesi, ognuno dei quali aveva, o ha scoperto ora, di essere portatore e diffusore di una pandemia. Il virus si chiama libertà.

martedì 7 ottobre 2025

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico L’origine di un genocidio, di una flottiglia, di un “accordo di pace” --- --- IL 7 OTTOBRE E’ UN ALTRO E 1 milione di manifestanti lo sa

 


ESTRATTI DALL’ARTICOLO

 https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__il_7_ottobre_e_un_altro__e_1_milione_di_manifestanti_lo_sa/58662_62918/

Mentre scrivo dalla data di uscita dell’articolo nella mia rubrica di martedì manca qualche giorno. Distanza dovuta a un accumularsi di impegni, sanitari e di convegni, non rinviabili. Chiedo perciò scusa se avrò dovuto bucare qualcosa di importante inerente all’argomento del pezzo, cosa possibile data la tumultuosità degli accadimenti. Ho fatto in tempo, però, a vivere il privilegio di assistere, nelle notti e nei giorni attorno al cambio del mese, a una della più grandi, belle, valide espressioni di civiltà e coraggio umani. Civiltà e coraggio sulla Flotilla e parallelamente in Italia, vera avanguardia europea, la gigantesca sollevazione di popolo del 3 e 4 ottobre contro la barbarie genocida e i suoi sicari in Occidente e a dispetto del ratti in fuga che ci governano. Un ottobre come un maggio parigino di 57 anni fa. Allora grazie al Vietnam, oggi alla Palestina. E’ sempre dal Sud globale, quello che allora chiamavamo Terzo Mondo, che viene la salvezza.

Nel milione di manifestanti del 3 e 4 ottobre non s’è udito nessuno azzardare una sola parola di biasimo, o di condanna, o di critica, a Hamas. Bella risposta a Travaglio e al suo inserto nel Fatto Quotidiano in cui ben 14 paginoni sono state riempite da firme ritenute illustri per ripetere l’assunto che Israele ritiene giustifichi l’orrore di Gaza: il terroristico pogrom di Hamas del 7 ottobre, con la carneficina di 1.200 civili e relativi stupri. A salvarsi è rimasta la sola Barbara Spinelli che, forse, ha intuito che se un milione di persone applaudono a un cartello con la scritta “Verità sul 7 ottobre” e se gli stessi israeliani di Haaretz rifiutano la fabbricazione del loro governo, qualche motivo per pensarci dovrebbe esserci.

Quelli che… poveri palestinesi ma quei terroristi di Hamas…”Il governo di Israele e il vertice di Hamas, cioè le due organizzazioni terroristiche…”, “”Israele appoggiava Hamas per cancellare la già debolissima ANP… “Entrambi, Israele e Hamas, i guardiani del loro inferno”…” E’ un genocidio, ma le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre”…”La strage dei milleduecento innocenti perpetrata il 7 ottobre 2023 dai macellai di Hamas”… “Sentimenti ovviamente ignoti al terrorismo di Hamas”…

Trattasi di dichiarazioni pubbliche e pubblicate, tutte di personaggi in vista, giornalisti, analisti, diplomatici, che, mentre forniscono questi assist al genocidio equiparando colonialisti e colonizzati, oppressori e resistenti, tirannia e movimento di liberazione, si professano – e risultano al pubblico – convinti critici di quanto lo Stato sionista infligge alla Palestina. E poi c’è chi ritiene eccessivo che, per riconoscere l’integrità e coerenza di chi si proclama “proPal”, gli debba essere fatto “l’esame del sangue” (ovviamente etico-politico).

Di questo infantile, o piuttosto incolto e disinformato, mettere sullo stesso piano la giornata del 7 ottobre e i due anni di carneficine a Gaza, se ne avvantaggia anche il cosiddetto “piano di pace” (macabramente detta “eterna”) dei tre serialkiller Trump, Netanyahu, Blair. Piano che, nella sua ciccia, implica, con linguaggio da sicari mafiosi, l’inevitabilità che si debba “finire il lavoro”. Che implica pure il mantra partito l’8 ottobre, secondo cui il popolo palestinese, 2,3 milioni a Gaza, 15 milioni in tutto, è Hamas e viceversa. Per cui “finire il lavoro” significa obliterare Hamas, intendendo l’ultimo palestinese.

Ma c’è equiparazione ed equiparazione. Alla fondatezza di quella sopra riportata proverò ad apporre qualche dubbio. Invece trovo un’inesorabile equivalenza tra quanto è stato detto, dagli uni e dagli altri, attorno a una Flotilla che ha contribuito a cambiare, in meglio, il volto dell’umanità. Accantoniamo, per carità di patria, l’esibizione del Q.I. del premier Meloni quando ha chiamato il suo governo vittima della destabilizzazione orchestrata nientemeno che dai militanti del diritto di 44 paesi, tutti “irresponsabili”, che stavano sulla Flottiglia.

L’equiparazione, stavolta del tutto evidente è, da un lato, quella che vede una Meloni dal megalomane vittimismo definire nemici della pace gli equipaggi della spedizione politico-umanitaria. Quelli che, sfidando questi infami dileggi, a volte fatti propri perfino da chi si dichiara “voce della Palestina”, hanno messo a disposizione della pace e della giustizia il loro tempo, i loro mezzi finanziari, la loro incolumità

Accanto a lei tutti quegli altri, suoi pari colonialisti occidentali, compresi i proclamatori grotteschi della “pace eterna”, cioè della resa incondizionata dei palestinesi. Sono coloro che ricattano i naviganti (sia ripetuto: infinitamente nobili e coraggiosi) intimandogli di mollare e non provocare “le giuste rappresaglie di Israele”, ma si astengono rigorosamente dall’imporre imporre ai violatori del diritto internazionale e carnefici di Gaza di rientrare nella legalità e rispettare il diritto di violare blocchi illegali.

Dall’altro lato, in parallelo, anzi, in osmosi, stanno quei personaggi, statuali, politici e mediatici della sfera sionista, che affermano, sventolando documenti di fattura opaca, che l’intero ambaradan della flottiglia, dei portuali che sabotano le partenze di armi per Israele, di centinaia di milioni di manifestanti nell’orbe terracqueo, obbediscano ai “terroristi” di Hamas e da questi verrebbero addirittura pagati. Sarebbero le bande dei contractors di Hamas. Qui la collocazione sullo stesso piano ci sta tutta, comodamente.

E’ tempo, da tempo, di false flag

Stiamo attraversando tempi nei quali i cieli del Nordeuropa producono grandinate di False Flag, uno strumento diventato principe dell’arsenale di chi muove guerra per sottomettere, conquistare, rapinare, ma che ha alle spalle, in Occidente, quasi tutta la sconfinata teoria di guerre colonialiste e imperialiste. Spesso, quando ormai lontane nel tempo e indifferenti a smentite, addirittura neppure più rivendicate come tali dai rispettivi autori.

Basta pensare alla Maine, nave da guerra USA, incendiata dagli USA nella baia dell’Avana per strappare Cuba agli spagnoli. A Pearl Harbor, quando, fingendo un imminente attacco a Tokio, si indusse il Giappone a bombardare una flotta USA, in buona parte spostata al riparo, peer avere il pretesto della guerra. Nel Golfo del Tonchino dove un inventato attacco vietnamita agli USA innescò una guerra costata al Vietnam tre milioni di morti e conseguenze genetiche a generazioni da napalm e diossina da Agente Orange. I tedeschi che finsero di essere stati sparati da soldati polacchi che invece erano soldati del Reich. Il primato assoluto per ciò che se ne è tratto, ma anche per la grossolanità dell’inganno, spetta all’11 settembre. L’attentato, attribuito a degli sprovveduti sauditi, costò 3000 vittime nelle torri, ma guerre “al terrorismo” per milioni di morti in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, accompagnato da repressioni in casa favorevoli alla fascistizzazione delle proprie società.

Israele, di solito, non ha bisogno di ricorrere a false flag. Le sue bandiere sono magari false nella narrazione dell’accadimento, ma quanto all’accadimento stesso non si sono mai manifestati scrupoli, Netanyahu o non Netanyahu, ad attaccare, bombardare, invadere, incendiare, devastare, uccidere. Vedi, oltre a Gaza e Cisgiordania, Iran, Libano, Iraq, Yemen, Qatar, più attentati ed esecuzioni sparsi in giro, perlopiù tra paesi amici. Con governi tolleranti fino alla compiacenza.

Così, subìta l’offensiva del 7 ottobre, la prima dopo le operazioni dei fedayin degli anni settanta, gli attentati kamikaze, le due intifade e il successivo quietarsi della popolazione sotto occupazione, indotto dal collaborazionismo nella repressione dell’ANP di Abu Mazen, Israele si è adoperato a fare del suo racconto una falsa bandiera.

Hamas è il legittimo rappresentante dei palestinesi, in seguito alla sua vittoria nelle ultime elezioni che l’ANP di Mahmud Abbas ha permesso di tenere nei territori occupati. La sua operazione del 7 ottobre ha ridato vita alla prospettiva di esistenza di una nazione per 15 milioni (tra stanziali e profughi) di palestinesi. L’ha inserita al centro dell’attenzione mondiale, anche per essere diventata un simbolo della contesa mondiale tra colonizzatori e colonizzati e, di più, tra ricchi e non ricchi, tra élites e masse, tra i pochi e i tanti.

Cosa è successo il 7 ottobre

L’operazione condotta il 7 ottobre alle porte di Gaza, finalizzata a ottenere la liberazione di qualcuno dei 70.000 palestinesi passati per le carceri israeliane, spesso senza accusa e processo e a tempo indeterminato, diventa nel racconto del regime israeliano il pretesto e la giustificazione militare, politica e morale del genocidio in atto da allora. Ed è qui che sventola la bandiera falsa. Conviene tornare a esaminarla. E su questo bubbone cognitivo che si ha il dovere di incidere.

Arrivati via aria in territorio occupato adiacente alla Striscia con parapendii a motore e, via terra, con moto e pick-up, l’obiettivo era quello di approfittare della presenza di giovani, spesso militari, al Rave Nova e di altri coloni che risiedevano nel kibbutzim costruiti sulle macerie dei villaggi palestinesi. Va qui precisato che quando si parla di civili attaccati e uccisi, si parla di coloni occupanti una terra altrui, in gran parte armati contro gli espropriati. Gli unici israeliani ai quali non si attaglia questa definizione dovrebbero essere coloro non in grado di decidere se stare in quel posto: i bambini

 Neutralizzata ed elusa la rete di sorveglianza fisica ed elettronica, gli incursori sono riusciti a occupare il comando centrale dell’IDF di Erez, alle porte di Gaza, oltre a comandi minori lungo la delimitazione della Striscia. Questo ha impedito ogni reazione prevista pressochè automatica. Ci sono volute circa due ore prima che forze di sicurezza e militari, avvertiti via cellulare dagli abitanti dell’area, potessero intervenire. I combattenti di Hamas disponevano di armi leggere, Israele è intervenuto con carri armati e una ventina di elicotteri. E allora da chi e cosa sono stati sventrati o ridotti in macerie gli edifici dei Kibbutzim con al loro interno gli abitanti e i militanti di Hamas che facevano prigionieri da scambiare on i loro? Dai mitra degli incursori, o dalle cannonate dei tank e dai missili degli elicotteri?

Distrutto il mito dell’invincibilità militare di Israele, ma riparato con la favola che Israele ha lasciato fare o, addirittura, era d’accordo con Hamas.

La dottrina Hannibal, a suo tempo adottata in Libano per impedire la cattura di soldati, è stata a quel punto impiegata dalle forze disordinatamente accorse e confusamente impiegate. Lo ammettono ufficiali superiori della stessa aeronautica israeliana che nessuno ha mai smentito e poi lo stesso Yoav Gallant, allora ministro della Difesa. Hannibal impone di sparare ai sequestratori, anche a costo di colpire i propri cittadini. Ne sono nati il fuoco incrociato e le cannonate e i missili che hanno ridotto in macerie edifici in cui si trovavano sia gli incursori, sia i loro residenti. A loro volta i piloti degli elicotteri, come detto anche nei loro scambi telefonici, privi di istruzioni, hanno sparato sui mezzi che portavano via i coloni catturati.

Perché, quando si continuava a parlare di 1.200  “civili innocenti” uccisi (poi da Haaretz ridimensionati a circa 600 verificati) si trascura che, oltrechè di soldati, di coloni si trattava, perlopiù già militari o in procinto di esserlo, comunque adulti della riserva, spesso armati, partecipi dell’occupazione coatta di un territorio espropriato. Coloni e, per contro, colonizzati, ai quali la carta dell’ONU e numerose convenzioni riconoscono il diritto della lotta armata di liberazione.

La zeppa nelle elucubrazioni della Hasbara di Netaniahu e compari, l’hanno già messa parecchi, a cominciare da media e organizzazioni pacifiste dello stesso Stato sionista. Ma la Hasbara non conosce limiti e, a dispetto di ogni inchiesta, a ogni anche minima sollevazione di sopracciglia, la false flag di una versione totalmente manipolata torna a sventolare. I 40 neonati decapitati che non c’erano, le esecuzioni a freddo, gli stupri di gruppo, i bambini cotti nei forni. E non un testimone (che non sia la giornalista alla quale l’IDF avrebbe mostrato un video, mai pubblicato, di alcune di tali atrocità), o un referto medico, o un’autopsia che avesse confermato.

C’è una più recente smentita alla narrazione false flag che dovrebbe giustificare i bambini uccisi mentre chiedevano pane, gli ospedali distrutti, i sanitari e pazienti ammazzati e gettati nelle fosse comuni, un popolo che viene fatto morire di fame e di sete, l’80% delle costruzioni in macerie, le coltivazioni devastate avvelenate, mare e pesca negati a fucilate (ricordiamo Vittorio Arrigoni),  le donne alle cui pance gravide veniva ordinato di mirare, i civili catturati, denudati, umiliati e rinchiusi in carceri della tortura.ù

Chi ha stuprato chi

E’ ora uscito un rapporto dell’Associazione Internazionale per la Prevenzione della Violenza Sessuale (SVPA), basata a Washington e altamente rispettata per i suoi interventi, ricerche, denunce e la gestione della più grande data basi sul fenomeno a livello mondiale.

Il rapporto dimostra come Israele stia producendo propaganda bellica fondata sugli stupri e utilizzando la violenza sessuale come arma di guerra. A questo scopo Tel Aviv farebbe ricorso a ciò che nel rapporto è chiamato SORVO, acronimo inglese di Systemic Oppression, Reverse Victim and Offender, oppressione sistemica, inversione di vittima e autore di violenze.

Osservo ogni giorno l’impiego di SORVO contro i palestinesi. Violenza sessuale per giustificare un genocidio”, dichiara l’autrice responsabile del rapporto, Miranda Martone, a commento del dato, affermato da un PM israeliano, che non ci sono state a oggi denunce di  violenze sessuali commesse da palestinesi il 7 ottobre.

Un testimone che avrebbe salvato donne dall’essere violentata da combattenti di Hamas, è stato smentito e screditato da un giornalista israeliano. Rami Davidian, “testimone della corona” nel libello di propaganda intitolato “Urla prima del silenzio”, filmato della regista statunitense Sheryl Sandberg, avrebbe visto dozzine di  donne uccise, vittime di presunti stupri.

Nulla di tutto queste è confortato da prove autoptiche e altre, o da testimoni sul posto, e rientra, nei dati del rapporto SORVO, tra gli strumenti di propaganda islamofobica secondo cui misogenia e violenza caratterizzerebbe il musulmano. Personalmente, avendo frequentato per sessant’anni il mondo arabo e islamico, mi è rimasta solo l’impressione di una grande armonia nelle famiglie e di un assoluto rispetto per la donna. Non ho mai visto una mano maschile alzarsi su una donna.

Lo stesso New York Times ha dovuto fare ammenda per il suo commento al film “Urla prima del silenzio”. Commento basato su dichiarazioni di vittime, la più rilevante delle quali ha poi dovuto negare tutto quanto il giornalista le aveva attribuito. Resta da osservare che il governo israeliano ha impedito all’ONU di effettuare un’inchiesta sulle violenze del 7 ottobre.

Concludendo, il trattamento che subiscono le donne nelle carceri israeliane, sia durante tutta l’occupazione, sia nel corso dell’attuale sterminio di Gaza, è stato invece confermato dalle vittime, dai medici e da visitatori indipendenti. Per la pratica di un “diritto allo stupro” rivendicato da alcune guardie carcerarie in Israele, si ha la conferma dallo stesso IDF che, ad agosto 2024, arrestò ben nove soldati per “gravi abusi sessuali” su un detenuto palestinese nel carcere nel deserto del Negev. Montare le bufale sugli stupri di Hamas serve sia a distrarre da questi crimini, sia a giustificarli.

La narrazione false flag di Israele è a brandelli. Ma insistono a trarne spunto spunto, i nostri amici delle equivalenze. Quelli che si ritraggono indignati dall’accordo Trump-Netaniahu-Blair per “finire il lavoro” e, due righe più in là, si riaggiustano la cravatta deplorando le atrocità dei terroristi di Hamas. Ma c’è anche di peggio. Sono quelli che si dichiarano del nostro fronte, ma che abbondano di talmente tanta buona volontà colonialista da interpretare l’intimazione alla resa del popolo palestinese, condita di minacce di “finire il lavoro” fino all’ultimo palestinese, come un accettabile passo verso la pace.

 

 

venerdì 3 ottobre 2025

“Spunti di riflessione”: Paolo Arigotti intervista --- Fulvio Grimaldi UN POPOLO DI NAVIGATORI

 

Spunti di riflessione”: Paolo Arigotti intervista

 Fulvio Grimaldi

UN POPOLO DI NAVIGATORI

https://www.youtube.com/watch?v=YJugVKAw37k&feature=youtu.be

Sostieni la Palestina quando combatte, o solo quando sanguina?

Quello cha succedendo nell’emisfero del capitalismo ultraprivatista, guerrafondaio, fascistizzante, agli ordini di un buzzurro incolto e psicolabile e di suoi famuli europei a lui appesi in armi per sopravvivere, viene definito un miracolo. E lo sembra, sempre a chi fa professione di spiritualismo, meglio detto spiritismo, specialisti i bigotti. Ai laici non risulta che ci siano miracoli, ma solo eventi sorprendenti, non attesi, neppure immaginati. Lo sono spesso i colpi di testa della Storia.

Come questo, che ha per simbolo la Flotilla per Gaza e per tema e spazio di manovra la Palestina, stavolta, alla faccia di ignavi, utili idioti, cacasenno, “giaguari” e loro amici, protagonista mondiale.

Da ultra-attempato testimone di ricorsi storici, mi posso permettere di dire che sembrerebbe di trovarsi a un fenomeno affine a quello sviluppatosi tra 1968 e 1977, prima che con la scaltra operazione BR finte, i padroni riuscissero a spazzare via tutto. E a tenere eventuali risvegli sotto controllo tramite le Operazioni Paura AIDS, Paura Terrorismo Islamico, Paura Pandemie, Paura Clima, Paura ri-Terrorismo non solo islamico, Paura Putin.

La situazione gli è scappata di mano.  Tutto quello cui hanno fatto ricorso, monopolio della forza, strumenti tecnologici, spionistici, stragisti, mafiosi, gas CS, idranti e manganelli, viene travolto, non riesce ad evitare che, con il nostro paese, non per la prima volta all’avanguardia, milioni si ritrovassero nelle piazze, ai cancelli, sulle strade, alle stazioni, sui binari, nelle aule scolastiche, sui moli dei rifornimenti al mostro. Perfino, forza delle cose, sugli schermi dei manipolatori strutturali, messi da quella forza con le spalle al muro e con le telecamere su Flottilla, piazze, cortei, università, scuole. Presto fabbriche e servizi.

Esauriti i mezzi della sottomissione che iniettano nelle menti con metodi soft, finiranno con lo sparare. Il quadro giuridico c’è già, si chiama Decreto Sicurezza ed è la cosa più nazifascista messa in campo dal 1926, anno della fascistissima legge sulle riunioni pubbliche e sugli assembramenti:

Ma noi oggi gioiamo, riconoscenti e orgogliosi di noi che, seppure non fossimo su quelle barche in quelle piazze, ne capiamo il valore, l’intelligenza, la nobiltà e il coraggio. E il futuro che si apre come uno squarcio di luce in fondo a un tunnel lungo cinquant’anni.

Davanti a tutti i ragazzi, gli adolescenti, i giovani, gli appena maturi, poi i maturi e perfino molti attempati, scopertisi improvvisamente ringiovaniti. Cosa da far andare in tilt, e probabilmente uscire dai gangheri, gangheri tradotti in pretoriani picchiatori e carceri, ogni èlite. Comprese quelle ulteriormente inferocite e moralmente e intellettualmente degenerate rispetto a quelle del recupero dell’ordine, mezzo secolo fa. Tremebonde, esorcizzano i ricorsi storici bollando quella primavera di “anni di piombo”.

Ciò che va provando il trio di fattucchieri Trump, Netanyahu e Blair, con stregonerie ricavate da sostanze tossiche varie chiamate “Accordo di pace” (eterna, non è neanche sottinteso), è il bluff del pokerista che sta perdendo. Crede di cavarsela evitando di prendere in considerazione il soggetto – perno della questione - di cui crede di poter disporre, ma calcola solo il terreno su cui esso vive. E soprattutto i profitti che ne possono trarre, sia gli stessi tre, sia quel loro circo dell’orrore, di delegati proconsoli e sussidiari, pupazzi deformi, che girano per stand e baracconi sbattendo le sciabole per sentirsi vivi e operativi, e per fare una paura che alle barche e alle piazze fa un baffo.

E sapete perché fanno sparire il soggetto da cui tutto parte e da cui sono messi in ambasce? Perché, a dispetto di tutti coloro che se lo figurano e lo proiettano ridotto a un cronicario di gente messa malissimo, appunto vittime e basta, dal 7 ottobre quel soggetto ha ripreso il discorso della lotta, dei fedayin, delle intifade. Tirandosi dietro gli esclusi del mondo. Al punto da ridurre il colonizzatore e sterminatore in una crisi esistenziale dalla quale non uscirà.

Viva la Flotilla, viva la Resistenza, viva il prossimo 4 ottobre.

Messaggio da Gaza alla GSF. Nessuno di loro ha mai telefonato a Severgnini. https://www.facebook.com/share/v/17CcY7zgkm/

martedì 30 settembre 2025

Assassini seriali disperati, paura eh?--- LA RESISTENZA VIVE, VIVA LA RESISTENZA

 


Assassini seriali disperati, paura eh?

LA RESISTENZA VIVE, VIVA LA RESISTENZA

https://www.youtube.com/watch?v=c8lmkRDBHKc

https://youtu.be/c8lmkRDBHKc

 

Serata tv, lunedì 29 settembre 2025, il piu’ scadente spettacolo del circolo dell’orrore messo in scena dal colonialismo

2 vanne marchi, travestite da capo di stato e capo di governo, ci hanno impestato di roboante fuffa, mentre dagli schermi colavano i liquami di un prodotto andato a male, guasto, ammuffito, marcio. Chiamato “22 punti per la pace eterna”, quella dei padroni fatti becchini.

Con questo piano dei 20 punti infami i due ciarlatani illusionisti hanno provato a nettarsi del sangue di 680.000 morti, come rilevati da ricerche indipendenti, tra bombe, fame, scomparsi sotto le macerie, malattie, in maggioranza donne e bambini specificamente mirati dall’esercito “più morale del mondo”. Piano al quale hanno poi chiamato a concorrere un altro criminale di guerra e assassino seriale, il britannico Tony Blair, premier dei 3 milioni di assassinati in Iraq da guerra e occupazione, con la scusa che avevano inesistenti armi di distruzione di massa.

C’è chi si eccita davanti a oscenita’, violenze, volgarita’. Il che spiega l’esaltazione della funzione erettile dei nostri telecicisbei, a cominciare dal sionista al profumo di violetta, Enrico Mentana – “svolta epocale, nuova era, pace eterna” – che riecheggiava l’isteria plaudente dei leader politici e relativi servi mediatici di mezzo mondo. A partire dal miserabile quisling di Ramallah, Abu Mazen, inchiodato alla poltrona dal 2006 per non aver più concesso elezioni (allora stravinte da Hamas) e dai monarchi assoluti del Golfo, ancora non spazzati via da qualcosa di ineluttabile, tipo rivoluzione francese, o russa, o insurrezione partigiana.

Che sono invece quegli incidenti storici ai quali l’oscenita’ dei due zimbelli dei ricchi (Blackrock, Big Tech, Big Armi, Big Pharma, Big Bank) muniti di denti a sciabola, provano a reagire.

20 punti da farla finita con quel pericolo mortale per i padroni che, a partire dall’impresa di Hamas del 7 ottobre contro il potere stragista coloniale, è diventata la Palestina, con tutti quelli che nei cinque continenti ha raccolto attorno a se’

20 punti dai quali la democrazia occidentale ha espunto il soggetto del quale si tratta e su quei punti si esercitano: la Palestina e dunque la sua esistenza, e dunque la sua resistenza e dunque Hamas e compagni. Niente gli va fatto chiedere, niente gli va fatto dire, niente gli va concesso, niente elezioni, niente referendum che riguardi la propria sorte. Se ne permetterà a qualche dozzina di rimanere lì. Ma che stiano zitti e portino i cocktail agli ospiti della Riviera.

Se non disarmano e non se ne vanno, in cambio di amnistia (Amnistia per cosa? Per quali reati?)  si va alla prosecuzione dell’olocausto. Questo, il pensiero manifesto dei timonieri del Piano, Netaniahu, Ben Gvir, Smotrich, 900.000 coloni e un 80% della popolazione (confermato dai sondaggi).

A governare ci penseranno lo stesso Trump, l’uomo che NON ha fermato 7 guerre, ma ha rinominato il Ministero della Difesa Ministero della Guerra e in questa veste il proxy di Netaniahu, e il masskiller inglese Tony Blair, con tanto di gendarmi arabi e mercenariato vario a fare da pretoriani contro quanto ancora, tra i sopravvissuti, dovesse pretendere un nome e avere una faccia. In ogni caso chi dovrebbe occuparsi della “sicurezza” a Gaza? Ma come dubitarne? Il collaudatissimo IDF.  A curare, tra macerie - e cadaveri - da rimuovere e grattacieli e bungalow da costruire, affittare, vendere, spiagge da arredare, giardini da piantare là dove crescevano arance e grano, questa splendida accumulazione privata capitalimperialista, ci penseranno gli addetti allo sfruttamento privato della rendita, gli immobiliaristi. E chi, per restare, come suole oggi, in famiglia, meglio del genero del superboss mafioso, Jared Kushner, che già si è fatto valere come autore dello splendido rendering del resort Gaza, con tanto di Netaniahu e Trump, a pancia esposta, con Spritz in mano e sdraio che ogni tanto, nella sabbia, si incagliano su ossa.

La piu’ spudorata operazione neocolonialista mai proclamata, da quando il colonialismo europeo, a meta’ del secolo scorso, prima del soccorso USA, era stato cancellato dai movimenti di liberazione dei popoli in armi. Il sogno di una grande remontada che, grazie a Hamas e alla resistenza umana, minaccia di andare in vacca. Disperato tentativo degli ex padroni del mondo di riavvolgere la storia e sfuggire alla propria eclisse.

Cio’ che i due figuri non si rendono conto di aver rappresentato, il 29 sera alla Casa Bianca, e’ una disperata accelerazione a cui sono stati costretti dal movimento di contrapposizione e rivendicazione mondiale. Un’ affannosa corsa a come bloccare, e soprattutto svuotare di sacrosante ragioni, quelle centinaia di milioni che ormai da anni riempiono le piazze e assediano i palazzi del potere, costringendoli a pagare almeno un piccolo pegno, ovviamente falso, a riconoscimento degli impossibili due stati. Milioni con avanguardia i giovani, che ci si augurava di aver spento per sempre tramite pandemia, clima e paure varie.

Corsa a fermare il vento che riempie le vele della piu’ imbarazzante flotta di pericolosissimi inermi mai vista in un qualsiasi mare. Vento che, più che fenomeno atmosferico, e’ il soffio dello spirito umano rimasto integro.

Corsa a come impedire che la difesa del diritto alla resistenza, proclamato da milioni di voci nel mondo, riempia di armi le schiere dei combattenti della resistenza palestinese e dimostri tutta la fragilita’ dell’esercito più potente – e immorale - della regione.

Corsa a come evitare che si compia il suicidio dello stato genocida e fuorilegge dell’apartheid, suicidio assistito dai suoi capi e compari in preda a fanatismo psicotico. Suicidio a forza di discredito, disprezzo, avversione globali, frantumazione sociale interna, rottura di vitali rapporti imprenditoriali, bancari, accademici, militari, scomparsa degli investimenti esteri, diserzione dei riservisti, suicidi e psicopatologie in serie dei militari, vite che i valorosi yemeniti costringono nei bunker, fuga dei coloni verso i paesi d’origine.

A questo doveva servire lo spettacolo, tra l’osceno e il balordo, del 29 settembre a Washington. a esorcizzare quanto i pochi in alto da sempre temono e conoscono come l’inizio della fine: la resistenza dei tanti, magari armati solo di fionda. Proprio come David. Vedi gli scherzi della storia….

E gli applausi arrivati da complici, sicari, clientes e sottoposti vari, non coprono le trombe del giudizio. Che stavolta non suonano dall’alto. ma dal basso dei miliardi di esseri, rimasti umani.

Resta un impegno di tutti noi: quello dell’onore e della riconoscenza da tributare alla Flotilla che, mentre scrivo, è alla vista dell’illegale, sfrontata prepotenza di Israele come espressa nell’illegittimo blocco navale (legale e legittimo perché “autorizzato dall’ONU” solo secondo quell’ eccellenza della nostra scienza giuridica che è il tappetino del sionismo, Maurizio Molinari, da molti ritenuto giornalista). L’ONU non autorizza blocchi navali finalizzati a far morire una popolazione. Autorizza invece (anche se non mette in pratica) e, con essa, lo fa il diritto internazionale, la violazione di un blocco illegale da parte di spedizioni non violente, finalizzate a soccorrere genti minacciate.

La Flotilla, dalla quale sono ora scesi, in seguito all’assist fornito ai genocidi israeliani dai nostri governanti con le pressioni ricattatorie indirizzate ai giusti anziché agli ingiusti, i parlamentari del PD, senza che ciò ci sorprendesse. Gli altri rischiano, ma continuano ciò che i palestinesi e i resistenti del mondo si aspettano da loro.

Non abbiamo Hamas. Ma abbiamo la Flotilla. E presto un grande 4 ottobre.



Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali --- EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

 

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico

Tra Est e Ovest, Fratellanze e generali

EGITTO, TURCHIA, QATAR, TRE INCOGNITE DEL M.O.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__tra_est_e_ovest_fratellanze_e_generali_egitto_turchia_qatar_chi_sono_che_fanno/58662_62820/

In una stagione estiva più tumultuosa del solito, tra i sette fronti aggrediti da Israele, la soluzione finale decisa per Gaza e applicata alla Cisgiordania, l’epidemia di False Flag che l’Occidente allestisce per accreditare riarmo e guerra, lo sgretolarsi di ogni diritto internazionale, umano e democratico in Occidente, l’episodio più intricato e ricco di variabili analitiche è stato l’attacco israeliano al Qatar. Non solo. I colpi forti sono due, quasi in contemporanea. E hanno risuonato per il mondo. Trovandosi perfino in assonanza. Trattasi del colpaccio inflitto al Qatar con quei bombardamenti sul compare e socio d’affari e di quell’altro colpo, l’uccisione di Charlie Kirk, polena della nave ammiraglia a stelle e strisce mentre solca gli oceani e spazza all’impazzata chi si ritrova sulla rotta.

Tutto appare chiaro come l’inchiostro. Israele, per far fuori coloro che con Trump e Qatar, alleati nel destino di classe e di profitto, minacciano di mettergli i bastoni tra le gambe accettando di restituire prigionieri in cambio di tregua, bombarda il pluridecennale confidente arabo. Che non ha ancora visitato il postribolo “Abramo”, ma ne va bussando alla porta. Tanto più che quella tregua è invocata H 24 dagli elettori israeliani, che la sanno legata alla ipotesi detestata da Netanyahu: il rilascio dei coloni fatti prigionieri, detti “ostaggi”.

Con l’assassinio (mancato) dei leader di Hamas, unico autentico giocatore avversario sul campo, a dispetto di quelli (ANP, Abu Mazen, arabi vari) che USA-Sion insistono a mettere sul proscenio, si era puntato a rimettere lo schiacciasassi IFD sul percorso della obliterazione definitiva della questione Palestina. E Charlie Kirk, questa specie di papa della chiesa del fanatismo fascio-bigotto-reazionario, cosa c’entra?

Tra Doha e Orem, Utah

C’entra, se si considera cosa rappresentano l’operazione israeliana sul Qatar e le ricadute che accanitamente si vogliono trarre dal “martirio” di Kirk: In entrambi i casi si sono fatti passi da gigante verso l’abolizione di ogni tipo di regolamentazione dei rapporti fra persone e Stati. Quel mondo di regole faticosamente imposta ai potenti e grazie alla quale siamo sopravvissuti, bene o male, all’assalto storico dei pochi ai tanti. Israele ha ribadito con il massimo clamore come ciò che conta non sia il diritto, ma solo la forza. Una condizione alla quale, bastonando ma fingendosi vittima, ha reso tolleranti i governanti del mondo (e una buona, ma decrescente, parte dei loro sudditi), alla faccia di cent’anni di terrorismo, illegalità, superchierie. Trump, dopo averne beneficiato per coltivare il consenso di massa al culto della prestabilita superiorità, immune e impunibile, dalla morte di Kirk e dalle cerimonie funerarie, ha tratto il via libera al trumpismo totale: terroristi tutti coloro che non si trumpizzano, a partire dalla nebulosa degli “Antifa”.

Resta da puntare lo sguardo verso una zona più tenebrosa e nella quale, al momento, solo il cui prodest, a chi è convenuto, può gettare sprazzi di luce, E di congetture. Israele dalle bombe su Doha ha tratto l’ulteriore conferma che Trump gli si fa scendiletto ovunque sia in gioco l’interesse della comunità sionista. Che ciò dipenda o meno dai trascorsi – con pubblicazione sospesa – del presidente con il compagno di giochi, Jeffrey Epstein, rimane un solido sospetto.

A essere maliziosi resta da rilevare che negli ultimi tempi, Kirk era passato da appassionato sionista a rispettoso frequentatore di oppositori di Israele, arrivando a condividerne addirittura alcune critiche in merito a Gaza. Ponendo questo dato sullo sfondo delle reiterate dichiarazioni di Netaniahu di non aver avuto nulla a che fare con l’assassinio dell’influencer, spunta spontaneo il detto dei padri latini “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Il discolparsi non richiesto, comporta un’accusa. Del resto lo sceriffo Bibì non è forse the fastest gun in town, la più veloce pistola in città?

Tra Doha e Orem, Utah, si è sancito il nuovo ordine mondiale. Conta la forza, punto.  Quanto a cosa tocca a noi, avrete notato come la famula trumpista della Garbatella si sia subito immedesimata nel corso fuorilegge (aiutata dalla tradizione della conventicola), facendosi insieme vittima e menade invasata, per riproporre alla convention del suo battaglione giovanile lo stesso meccanismo di vittoria dell’archetipo con cresta gialla. Siamo vittime dell’odio, il che ci esime dall’osservanza della legge. Vamos a pelear.

Qatar

Basta arzigogoli. Ci siamo proposti di occuparci di tre oggetti misteriosi in Medioriente. Siamo partiti bene, poi abbiamo dirazzato. Torniamo al dunque, il Qatar, quello della dinastia degli Al Thani, monarchia assoluta protetta dal fornitore-cliente USA e compagno di merende, con Bahrain e gli Emirati, di Israele e UE (ricordare i mondiali di calcio, la falcidie degli operai nella costruzione degli stadi, la benevolenza di Bruxelles garantita dal Qatargate. Lezione mai imparata, se è vero che proprio in questi giorni il nostro ministro degli Interni Piantedosi ha concluso con questo Qatar un incredibile accordo perché lo sceiccato, proprio esso, ci fornisca servizi di intelligence e sicurezza per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina!)). 3 milioni di abitanti, dei quali un paio di migliaia di Al Thani (il numero esatto è segreto), alcune migliaia di famigli, 15% di arabi, ex-beduini del deserto, il resto forza lavoro immigrata, perlopiù asiatica.

Condizioni di semischiavismo ideali per lo stabilimento, nella penisola del Golfo arabo-persico, di una delle più grandi basi militari USA del mondo, oltrechè del Medioriente, Al Udeid. Quella colpita dall’Iran in risposta alla pirateria bombarola israelo-statunitense e quella in cui alcune centinaia di marines hanno recentemente sentito rimbombare le esplosioni che avrebbero dovuto uccidere la resistenza palestinese.

Da quelle esplosioni avreste pensato che si sarebbe innescato il lungamente atteso “risveglio arabo”. In effetti c’è stata lì, all’indomani, la Lega Araba: una fiction, vuota retorica. Gli Stati arabi, totalmente dipendenti da entità esterne per i patrimoni delle classi dirigenti e per la loro sicurezza interna ed esterna, sempre a rischio di destabilizzazione, hanno lo spazio di manovra di un coniglio nella tana, con dietro e davanti il muso del mio bassotto Ernesto.

Dunque il Qatar. Sul piano regionale, grande rivale dell’Arabia Saudita per il primato nel Golfo, al punto da rischiare, un paio di volte, lo scontro armato. La sua esistenza si basa sull’investimento in un sistema di sicurezza fondato sull’affidabilità USA e sulla moderazione israeliana. Due pilastri del regno che con l’attacco del 9 settembre sono collassati. Essersi fatti compromettere la sovranità da Washington, avere aperto un ufficio diplomatico-commerciale per una ricca attività di scambi a ogni livello con Tel Aviv, non è servito a trattenere l’incontrollabile e strutturale aggressività israeliana. Alla faccia dei miliardi spesi dagli Al Thani per sostenere l’esoso apparato di strutture e personale militari USA.

Intanto, a fini di equilibrio e disconoscimento dei dati di fatto, Al Jazeera copriva questa condizione di integrazione-asservimento assurgendo a più prestigiosa emittente televisiva araba, con tanto di impegno per i palestinesi e di denuncia degli orrori israeliani a Gaza e in Cisgiordania. Impegno pagato, come sappiamo, con lo sterminio, spesso assieme alle loro famiglie, dei propri corrispondenti a Gaza. Senza che l’emiro avesse neppure da bofonchiare,

Ora tutta la situazione degli Al Thani, solida finchè la protezione militare USA garantisce la tenuta del coperchio sopra il pentolone ribollente della frustrazione sociale, è compromessa dalla volatilità dell’impegno americano al tempo di Trump. Il quale Trump, sebbene abbia rivendicato di aver avvertito in tempo i qatarioti dell’incursione israeliana, da Doha è stato smentito: lo avrebbe fatto solo per finta, ad attacco in pieno corso. Perché spendere milioni per la sicurezza, quando il sistema installato non protegge dagli attacchi di un alleato del protettore al quale è data carta bianca per fare carne di porco di chiunque? Come s’è visto nel giro di mesi con Iraq, Siria, Libano, Palestina, Tunisia (flottiglia), Iran, Yemen e, indi, Qatar.

L’idea di potersi mantenere in equilibrio tra retorica nazionalista araba, legami pragmatici con Israele, benevolenza ampiamente foraggiata dell’UE e affidamento alla protezione militare araba, è svaporata nel rituale riunirsi di potentati arabi e musulmani e nei conseguenti vuoti proclami. Dai quali ai popoli della regione, palestinesi in testa, non arrivano che spunti per sarcasmi e indignazione. Che, presto o tardi, dovranno pure produrre risultati. La colonna qatariota dell’architettura sionista programmata per il Medioriente ha piedistalli fragili.

Turchia

Travolta dal rifiuto di massa in Egitto, con la caduta, 2013, del presidente Morsi nel giro di un anno di soperchierie sociali e integraliste, abbattuta in Tunisia dall’analoga insofferenza popolare per il leader di Ennahda, Rāshid Ghannūshī, fallito un affine regime change in Algeria, la Fratellanza Musulmana ha subito una serie di debacles che ne hanno isolato gli ultimi due esponenti al governo di un paese: Gli Al Thani in Qatar e Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E’ il ripiegamento della forza politico-confessionale, creata a Londra negli anni 20 dello scorso secolo, col concorso di interessi feudali arabi e coloniali britannici, per contrastare il nascente movimento panarabo nazionalista, anticolonialista, laico.

Mentre scrivo riecheggia ancora nel Medioriente l’anatema lanciato dall’autocratico sultano turco contro Benjamin Netanyahu: “E’ come Hitler e gli toccherà lo stesso destino”. Questa equiparazione con Hitler inizia a essere un po’ stantìa, visto che da Putin a Milosevic, da Arafat a Chavez, da Gheddafi a Saddam, ne ha risparmiato pochi di individui che in Occidente si ritenevano da rimuovere. Solo che, in bocca a uno come Erdogan, l’invettiva risulta poco convincente. Anche perchè lanciata a Doha, in quel contesto di pronunciamenti ad aria calda che sopra abbiamo ricordato.

Per alcuni miei colleghi, con una lunga frequentazione della Turchia di Erdogan, quel paese avrebbe assunto il ruolo di guida e luce dei popoli della regione asiatico-mediorientale in occasione del vertice di Astana del 2022. Una quindicina di paesi asiatici, in buona parte turcofoni e islamici, si sono riuniti per costituire una forza geopolitica capace di contribuire a determinare eventi e sorti della regione.

Ma l’iniziativa è stata presto oscurata dai ben più robusti, geopoliticamente e geoeconomicamente meglio definiti, consessi dello SCO (Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione di Shanghai) e dei BRICS. Ad Ankara però è rimasto il ruolo, da molti accreditato, da pochi messo in discussione, di indipendente elemento di mediazione ed equilibrio all’interno delle turbolenze che agitano il Medioriente e l’Eurasia. Elemento risaltato a Istambul nei ripetuti incontri tra esponenti russi ed ucraini e mediatori vari.

Tutto questo è il frutto di un abile giocatore di poker, spesso baro, sempre doppiogiochista, granitico in casa nella repressione di contestatori, molto ondivago negli indirizzi geopolitici. Erdogan sa manovrare nelle acque tempestose della sua regione, come del mondo intero, dove ci tiene a figurare da attore di primo piano, alla pari dei più grandi e spesso riesce a convincere di una sua credibilità che, poco dopo, risulta fondata su basi opposte. Ha qualcosa del Trump, in questo. Massima potenza Nato, quindi integrata nel sistema politico-militare occidentale, è anche una delle maggiori potenze islamiche, con forte influenza sugli Stati turcofoni dell’Asia Centrale. Fino a provocare agitazioni eversive nella minoranza islamica dello Xinjang cinese.

Si proietta nell’arena del conflitto ucraino facendo l’Arlecchino servitore (nel caso, amico) di due padroni, senza che, peraltro, nessuno glielo rimproveri. Si vede che c’è, comunque, da profittarne per tutti. Superato indenne l’abbattimento, nel novembre 2015, del Sukhoi Su-24, è stato premiato con la consegna del sofisticato sistema di difesa aerea russo S-400 (negato all’Iran). Non aderisce alle sanzioni contro Mosca, ma sostiene politicamente e militarmente (droni e armamenti) Kiev e chiude alle navi militari russe il Bosforo e i Dardanelli. Assume un’immagine umanitaria facilitando l’accordo per l’esportazione verso l’Africa del grano ucraino attraverso il Mar nero.  

Torniamo all’invettiva di Erdogan contro Netaniahu e Israele, non la prima in questi anni di sterminio dei palestinesi. Invettiva inevitabile, data il ruolo che Hamas, non ufficialmente membro, ma sostenuto, ricopre nella costellazione della Fratellanza Musulmana, con una sua componente di vertice che guarda al Qatar e l’altra, a Gaza, che preferisce rapportarsi all’Egitto e anche all’Iran (vedi l’ex- capo di Hamas a Haza, Hanijeh, ucciso da Israele a Tehran,. Ma l’uscita del presidente turco  sembra lasciare il tempo che trova, se si considera la sempre annunciata, ma mai attuata, rottura dei rapporti commerciali con lo Stato ebraico. Dichiarata più volte, questa rottura pare contraddetta dal mai sospeso export di cemento, monopolio turco, cruciale per la colonizzazione israeliana. Parimenti non è mai stato smentita la notizia che petrolio e gas, sottratti da USA e curdi alla Siria, venivano veicolati da mezzi turchi fino ai porti di Israele.

Aggiungiamo il supporto militare, includente armamenti israeliani, che Ankara ha fornito all’Azerbaijan, quando questo socio intimo degli USA ha strappato all’Armenia filorussa il Nagorno Karabakh e oggi trasferisce le stesse armi all’Ucraina. Per i 14 anni di aggressione alla Siria, Ankara ha assunto un ruolo determinante occupando militarmente la provincia siriana di Idlib e foraggiandovi il mercenariato terrorista di Al Qaida. Non è inseribile in nessun gioco di equilibrio la posizione di Erdogan quale complice-concorrente di USA e Israele nello squartamento della Siria. Qui la doppiezza di Erdogan si è rivelata definitivamente un tanto mistificato, quanto sostanziale, allineamento agli interessi occidentali.

Egitto

L’Egitto non gode di buona stampa in Occidente. Le ragioni immediate sono la sconfitta, nel 2013, grazie a una rivolta popolare concretizzatasi nella presa di potere da parte dei militari del generale Abdel Fattah Al Sisi, del Fratello Musulmano, Mohamed Morsi. Un presidente cacciato dopo appena un anno di governo, a seguito dell’imposizione del divieto di sciopero, della sharìa e di altre formule integraliste coercitive, aliene alla tradizione laica della popolazione, e dell’invito ai suoi attivisti di dar fuoco alle chiese copte, templi dei cristiani che degli oltre 100 milioni di egiziani rappresentano il 12 per cento e si annoverano tra le categorie più colte.

A coltivare queste antipatie non può non aver contribuito la disinvoltura mostrata da Al Sisi nei rapporti internazionali, con aperture alla Russia (ripetuti gli scambi di visite dei rispettivi leader) e alla Cina, con parallelo interesse per i BRICS. Ha anche inflluito il sostegno egiziano al parlamento libico di Bengasi, fautore della riunificazione nel segno del ricupero della identità e sovranità nazionale, contro quello di Tripoli, trafficante di migranti, installato dai distruttori del paese.

Quanto all’Italia, resta decisivo l’episodio indimostrato, ma solidificato nei media e nell’opinione pubblica, della presunta uccisione di Giulio Regeni, ovviamente nientemeno che ordinata da Al Sisi. Il dato che il giovane, maturato nelle elitarie Scuole del Mondo Unito, con le quali il fondatore tedesco, Kurt Hahn, si era ripromesso, come assicurato al direttore della CIA Alan Dulles, di allevare giovani attivisti della politica occidentale antisovietica, fosse venuto in Egitto avendo alle spalle, a Londra, i suoi servizi all’impresa di spionaggio industriale Oxford Analytica di John Negroponte (quello degli squadroni della morte) e avendo per tutor esponenti della Fratellanza Musulmana, resta ignorato.

Mediatore sul conflitto israelo-palestinese insieme a Qatar e Arabia Saudita, l’Egitto, muovendosi con grande cautela, non partecipa alle ipotesi di soluzione che via via scaturiscono dalla sostanziale concordia tra emirati del Golfo, Stati Uniti e Israele, comportando la sostanziale sparizione della Palestina e l’eliminazione di Hamas. Ultimamente le storiche tensioni tra il Cairo e Tel Aviv sono culminate nello schieramento di un formidabile contingente di truppe egiziane nel Sinai, immediatamente a ridosso della Gaza occupata dall’IDF. Comprende 2000 carri armati, unità missilistiche, aerei e, al largo, unità della flotta militare.

Dalla presidenza a tutte le formazioni politiche egiziane, alcune delle quali ho potuto intervistare al Cairo, si afferma che il tentativo di deportare la popolazione di Gaza nel Sinai e, comunque, di costringerla a entrare via terra o via mare in Egitto, costituisce una linea rossa oltre la quale balena la guerra.

Alla storica solidarietà con la causa palestinese, qui si aggiunge un’emergenza materiale: l’Egitto ospita e sostenta due milioni di profughi da vari paesi africani, Sudan in testa. La crisi economica e sociale determinata da questo onere è poi accentuata dalla riduzione del vitale flusso del Nilo, fortemente ridotto dopo l’inaugurazione, settimane fa, della Grande Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia proprio sul confine sudanese e che mette in mano ad Addis Abeba il rubinetto che fa vivere o perire l’agricoltura e tutta l’economia dell’Egitto. La gravità della crisi non ha impedito che il popolo egiziano, con la sua Mezzaluna rossa, fosse da 700 giorni il massimo fornitore di aiuti a Gaza, con 39 carovane “Zad al-Izza”, ognuna delle quali recante oltre 2.500 tonnellate di aiuti alimentari e sanitari. Il 90% di quanto arriva ai valichi di Gaza. Ho avuto l’opportunità di visitare al Cairo gli ospedali che di Gaza ospitano bambini, feriti, malati e in cui operano, includendo gli ospedali da campo, 35.000 volontari e 2000 medici

Crisi che il governo contava di risolvere grazie alla disponibilità, al largo delle coste egiziane, di Zohr, il più grande giacimento di idrocarburi del Mediterraneo, scoperto dall’ENI e di conseguenza da quella compagnia gestito. Oggi si denuncia un presunto asservimento del Cairo a Israele, vista la conclusione di un accordo per la fornitura all’Egitto di gas ricavato dal giacimento israeliano (per la verità palestinese).  In seguito allo schieramento delle forze armate del Cairo nel Sinai, Tel Aviv ha sospeso questo accordo, lasciando l’Egitto a secco.

Si direbbe, quello dell’acquisto di gas dal nemico, un cedimento. Ma si dovrebbe sorvolare sul boicottaggio operato dalle compagnie europee, ENI e BP, che gestiscono le riserve egiziane. Da Zohr dovevano essere estratti 4,4 miliardi di piedi cubi di gas. ENI ne fornisce  all’Egitto appena 1,6 miliardi. La BP è scesa da un impegno per 2 miliardi a meno di 500 milioni. Fornitori alternativi del Golfo, “fratelli arabi”, chiedono 14 dollari per piede cubo. Il prezzo di Israele è di 7,25 dollari. Il tentativo di Al Sisi di rivolgersi a fornitori russi e iraniani ha provocato la minaccia di Trump “di affondare l’economia egiziana”.

Un comportamento che ripete quello del Capo di AFRICOM, Comando Africa delle forze armate USA. Saputo che l’Egitto aveva concluso con i cinesi un contratto per l’acquisto di caccia J-20 e J-35, ha minacciato la totale sospensione delle forniture di armi USA e, soprattutto, delle vitali parti di ricambio, senza le quali non potrebbe esistere una valida forza militare egiziana.

Gli elementi da aggiungere sarebbero tanti. Resta da precisare cosa succede a Rafah, il valico tra Egitto e Gaza, al quale tanti attivisti e giornalisti hanno atteso il nulla osta per entrare nella Striscia. A me era riuscito nel 2008-2009, in occasione dell’operazione “Piombo Fuso”, una specie di prova generale per il genocidio oggi in atto.  Nel corso dell’attuale offensiva, Israele ha occupato anche il valico. Ma l’accusa di non fare entrare aiuti, o di non lasciare entrare e uscire alcuno o alcunchè, viene rivolta all’Egitto.

Al Cairo si trovano gli uffici di 9 organizzazioni della resistenza palestinese. Pur essendo stato in questa città protagonista dei negoziati per una tregua, Hamas non c’è. Il governo ha dovuto trovare una sistemazione diversa, ovviamente segreta, per l’organizzazione di Sinwar. E prima ancora dei tentati assassinii di Doha. Dalla scoperta e cattura di una rete di spie druse e siriane, facente capo al Mossad, i servizi egiziani hanno saputo che il Qatar aveva indicato a Israele dove alloggiavano i rappresentanti di Hamas.

mercoledì 24 settembre 2025

Palestina. Grimaldi: “La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori” --- Grimaldi su Gaza, proteste e crisi dell’informazione occidentale Settembre 23, 2025


Palestina. Grimaldi: “La criminalizzazione della resistenza è l’arma degli oppressori”

Grimaldi su Gaza, proteste e crisi dell’informazione occidentale

Settembre 23, 2025 

Francesco Mastrobattista


https://www.corrieredellecitta.com/2025/09/23/palestina-grimaldi-la-criminalizzazione-della-resistenza-e-larma-degli-oppressori/

 


Fulvio Grimaldi, classe 1934, giornalista di lungo corso, inviato di guerra per la RAI e la BBC e autore indipendente. Negli anni ha scritto per storiche testate militanti di sinistra e collaborato con importanti giornali come La Repubblica, L’Espresso e Il Manifesto. Grimaldi è da sempre famoso per le sue posizioni filo-palestinesi riguardo al conflitto arabo-israeliano. È noto soprattutto per aver seguito da vicino il conflitto israelo-palestinese e aver prodotto numerosi reportage e documentari, frutto di esperienze sul campo a Gaza, in Cisgiordania e Libano. Non un giornalista “neutrale” nel senso classico, ma una figura da sempre vicina a cause anti-imperialiste e anti-NATO. Francesco Mastrobattista ha deciso di intervistarlo in esclusiva per il Corriere delle città con qualche domanda piccante in merito agli ultimi avvenimenti sullo scenario italiano e mondiale.

 

F.M: Ciao Fulvio. Innanzitutto grazie per la disponibilità. Dalla Capitale è partito un grido di battaglia che si è esteso in tutta la nazione. Milano e Torino, in particolare, sono state teatro di guerra tra manifestanti pro-Palestina e forze dell’ordine. Come mai improvvisamente una buona parte dell’opinione pubblica prende questa posizione netta? Perché anche una parte del mainstream cambia narrazione rispetto a mesi fa?

Non mi sembra che le imponenti manifestazioni in un’ottantina di città italiane, indette, assieme allo sciopero generale, da sindacati nemmeno di sistema, costituiscano un fenomeno improvviso. La consapevolezza dell’abominio del genocidio israeliano, parallelo a quello dell’isteria riarmista e guerrafondaia europea, ha suscitato prima apprensione e poi reazione. Si è superata la condizione indotta dai poteri con altre intimidazioni, tipo pandemie, guerre, terrorismi. Si è formata una solida consapevolezza del tasso di criminalità che caratterizza le classi dirigenti europee, a partire dalla nostra che, per simbiosi fascista, è in Europa, insieme a Germania e Austria, altrimenti motivate, la più vicina allo Stato sionista. Quanto al graduale, ma sempre esitante e contradditorio, massimamente ipocrita, allineamento dei media di sistema al sentire e agire collettivo maturato in questi anni, mi sembra il segno positivo che la forza delle cose, la volontà maggioritaria ormai consolidata, convinca anche il rettile più velenoso a cambiare pelle per non soccombere. Resta comunque rettile.

 

 F.M: Abbiamo assodato che la narrazione mediatica è cambiata. Come reputi che i media italiani stiano raccontando queste proteste? Rimangono distorsioni o omissioni?

Le distorsioni e omissioni sono connaturate a mezzi d’informazione che si propongono di essere strumenti di comunicazione e convinzione con obiettivi esterni alla rappresentazione della realtà. Basta considerare il peso dato agli scontri con alcune decine di manifestanti, rispetto a quello riservato a centinaia di migliaia fluiti pacificamente nei cortei di tutta Italia. Fondamentale resta l’omissione del ruolo, nel conflitto in Palestina, della resistenza palestinese nelle sue varie espressioni. Inammissibile, per i media embedded, rivelare la debolezza, la fortissima crisi, vissute da Israele a seguito dei colpi ricevuti da Hamas e dell’isolamento internazionale, foriero di agonia. E’ grazie al mito della sua invincibilità, già ampiamente compromessa dalle sconfitte subite in Libano e, appunto, il 7 ottobre, che Israele induce diffamazione, ma soprattutto scarsa credibilità di ogni forza di contrasto, con conseguente rassegnazione ai propri soprusi. E qui ha una funzione cruciale il mantenimento della saga del 7 ottobre, con rovesciamento totale della responsabilità per le vittime e di chi le ha causate. Sia in Israele che all’estero, da investigatori indipendenti sono state compiute ricerche ed inchieste che hanno totalmente smentito la versione del massacro compiuto da Hamas, con relative grottesche decapitazioni di neonati – che non c’erano – e stupri che nessuna vittima, viva o morta, ha corroborato e nessun testimone reale ha confermato.  La criminalizzazione di ogni forma di resistenza resta lo strumento strategico per ogni oppressore, che sia di minoranza o maggioranza.

 

 F.M: Come mai improvvisamente il Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo hanno dichiarato di riconoscere la Palestina?

Il riconoscimento di un immaginario Stato di Palestina da parte di una maggioranza di governi fino allora complici o ignavi,, finzione che raggira il dato reale di una presenza nazionale palestinese su quella terra da millenni, comporta comunque un affronto al regime che manifesta la determinazione di far sparire anche l’ultimo palestinese e che nel corso dei decenni non ha cessato di incorporare territori palestinesi. E che oggi non ha più neanche lo scrupolo formale di proclamare l’esclusione definitiva di ogni ipotesi di quello Stato. Per quanto connotata di ipocrisia e velletarietà, ogni volta che risuona la parola Palestina,   si infila un chiodo nella bara dello Stato occupante.

 

F.M: L’Italia si è bloccata per queste proteste. A Milano c’è stato un assalto alla stazione, a Napoli sono stati creati numerosi disagi alla stazione centrale, a Roma e Torino altri scontri ancora e così via. Alcuni stanno criticando la modalità con cui tali proteste vengono portate avanti. Cosa pensi in merito?

Per gli scontri alla stazione di Milano, è facile invocare una diffusione di violenza che, rendendo lo Stato, come impersonato da questo regime, vittima , lo autorizza a “difendersi”. E’ il discorso sul quale galleggia la residua credibilità di Israele nel portare avanti la sua strategia contro un  popolo espropriato e ora genocidato. Ho già detto che è un aspetto del tutto secondario rispetto alla portata delle manifestazioni in tutto il paese. Ma viene utilizzato per rilanciare il famoso discorso dell’odio che serve da trampolino per le misure repressive, antidemocratiche di cui abbiamo dimostrazione quotidiana dal giorno in cui i La Russa, le Meloni, i Vannacci e gli altri cascami della rivincita autoritaria sono riusciti a prendere il potere da una classe dirigente, meno belluina, ma altrettanti antipopolare. In ogni caso, si consideri il dato storico che ogniqualvolta il potere vede messo in discussione il proprio monopolio della forza, fosse anche in forma verbale o passiva, gli schiamazzi sul carattere delinquenziale e inammissibile del fenomeno di contestazione servono all’introduzione di misure liberticide. Si pensi al Decreto Sicurezza e al carcere riservato di chi oppone il proprio corpo inerme alle ruspe del Ponte sullo Stretto.

 

 F.M: C’è chi ha sollevato preoccupazioni per episodi di antisemitismo nelle manifestazioni pro-Palestina. Chi addirittura ha riportato di foto della Premier Meloni bruciate e di atti di vandalismo nelle strade. Secondo te sono casi isolati o un rischio reale da monitorare?

Da che mondo e mondo, da quando si manifesta un’opposizione a brutalità, sfruttamento, prepotenza, vengono bruciate immagini e bandiere. Sono azioni simboliche. Dovrebbero rallegrarsi gli sfruttatori, prepotenti e brutali, che le fiamme non si avvicinano alle loro realtà fisiche. Coloro le cui effigi o i cui vessilli vengono aggrediti in piazza, hanno perlopiù alle spalle complicità o sicariato per chi aggredisce e brucia persone in carne e ossa. Vedi il fosforo fatto piovere sui palestinesi di Gaza. Ne sono stato testimone a Gaza, al tempo di Piombo Fuso. Quanto all’accusa di antisemitismo, scudo sempre più logoro alle malefatte di Israele, ci si ricordi che chi ha occupato la Palestina non è semita, ma perlopiù indoeuropeo, polacco, russo, tedesco, britannico, italiano…. Semiti, discendenti di Sem, figlio di Noè, sarebbero coloro che da millenni abitano quelle terre: 450 milioni di arabi.

 

 F.M: Quanto è responsabile l’Italia per le forniture e per le relazioni diplomatiche in ciò che sta accadendo?

Le responsabilità del governo Meloni nel sostegno militare, politico e propagandistico a Israele è provata. Le forniture di armi a Israele riguardano ogni categorie di strumenti offensivi e rappresentano profitti della nostra industria militare per centinaia di milioni l’anno. La protervia del trio Meloni, Tajani, Salvini nel coprire politicamente i crimini di Israele si colloca nella continuità della tradizione italiana nell’affiancare operazioni altrui improntate al razzismo e alle guerre di conquista.

 

 F.M: Allargando il fronte: si è scoperto che la Fondazione dello speculatore George Soros ha finanziato gruppi no profit che organizzano manifestazioni pro-Pal nei college americani (verificato) Anche Greta Thunberg, dopo il declino della battaglia climatica, ha abbracciato la causa palestinese tra la flotilla e altre disavventure. Come mai anche una certa narrazione di stampo globalista si unisce al coro?

Non mi risulta che, al di là di dicerie senza verifiche, George Soros abbia finanziato alcunchè  in relazione con la Global Sumud Flotilla. La presenza di personaggi dalla storia discutibile, non inficia un’operazione che gode del consenso e della riconoscenza del popolo palestinese, in patria e della diaspora. Fattore, questo, decisivo. Si deve anche concedere che chi da bambina è stata manipolata, da persona adulta possa aver maturato un’altra coscienza. In ogni caso per ogni impresa che scuota lo stato di cose presente, non mancano mai coloro che l’avrebbero fatta diversamente, o per niente, o prima. Cacasenno, gufi e frustrati, si consolino così della propria impotenza. Il dato concreto, attuale e storico, è che, mai come in questi giorni, la Palestina è tornata al centro del mondo, e mai Israele si è trovata in tale stato di rigetto e isolamento.  Oggi lo Stato sionista si ritrova in una vera e propria crisi esistenziale,  Stato pariah a livello mondiale, prossimo all’implosione per lacerazione politico-sociale interna, con scale gerarchiche sociali e confessionali che dividono e minano ogni coesione (arabi, europei, drusi, beduini, ashkenaziti, sefarditi, neri africani, immigrati asiatici schiavizzati), insicurezza che costringe a vivere nei bunker parte della propria vita, flusso emigratorio che supera l’immigrazione, ritiro di investimenti industriali, finanziari, tecnologici, esercito minato da suicidi in serie, diserzioni di massa, stress post-traumatico collettivo e, peggio di ogni cosa, discredito universale.

Le opinioni espresse nell’intervista sono esclusivamente dell’intervistato e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Corriere delle Città. In ogni caso ringraziamo Fulvio Grimaldi per la disponibilità e il punto di vista alternativo che con il suo enorme bagaglio ha contribuito a portare su questo giornale. La nostra redazione è aperta al dialogo con chiunque.

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