Adelina Bo
giovedì 25 dicembre 2025
PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTARIO “TORNARE IN NICARAGUA”
martedì 23 dicembre 2025
“Democrazie vs Autocrazie” Ma che, davvero?--- --- TU CHIAMALO SE VUOI FASCISMO
“Democrazie
vs Autocrazie” Ma che, davvero?
TU CHIAMALO
SE VUOI FASCISMO
Come inciso che c’entra poco col resto, ma di cui sento
l’urgenza, rivendico in chiave consolatoria che siamo scampati perfino alla
kermesse delle canotte nere su pelle bianca. Ovviamente non alla partecipazione,
alla quale si sono concessi segmenti della nostra presunta opposizione alla
ricerca di visibilità “whatever it takes” e felici di farsi masticare. Il costo
politico e morale lo pagheranno al rientro. Comunque ci torno sopra.
Si passa a cose serie (per dire…).
Al cancelliere Merz, che riprendeva un meme di Hitler degli
anni’30, “La Germania farà della Bundeswehr (intesa come Wehrmacht) il
più potente esercito d’Europa”, ha risposto molto brutalmente il No alla
Leva del 65% dei giovani e della maggioranza dei parlamentari (a favore il 55%
degli attempati, cioè di quelli che non ci andranno. In Italia, a dispetto di
quelli del “libro e moschetto” e di “Vincere!” ha detto NO il 68% dei
potenziali candidati a fari macellare.
Ai Volenterosi europei che, a nome di paesi ignari e poveri
in canna, annunciano la guerra, ovviamente “di difesa” alla Russia (per
qualcuno già in corso, per altri, fra massimo tre anni); risponde invece, a
passo di corsa, il molto baffuto, molto bislacco e molto medagliato Cavo Er
Baffo Dragone. Forse, pensando di far rapporto ai sovrani della Triplice
Intesa, annuncia: Maestà, per vincere dobbiamo assolutamente attaccare per
primi (implicito: sennò come possiamo far credere a ‘sti cojoni che devono
andare a farsi sparare?)
Il delirio associato al declino, implicito in quella forma
di baffi, sopravvissuti a tutte le nostre Caporetto e altre infamie, segno
distintivo di chi pone la forza sopra il diritto e quello con le stellette
sopra quello senza, ha definitivamente spazzato via quanto restava, nei nostri
Stati Maggiore, di poveri resti di neocorteccia. Che sarebbe quella che
presiede al ragionamento logico. Succede quando i baffi alla Umberto arrivano a
oscurare il lobo frontale.
Finchè c’è guerra, c’è Cingolani
Dopo questa sfilza di seminatori di balle terrorizzanti, non
poteva mancare lo Zar della Guerra in fieri, anzi degli strumenti per farla
fare (Anche da Israele? Come no!). Roberto Cingolani, oggi, dopo la fase
spiritosa da Ministro dell’Ambiente, AD del colosso necrofago “Leonardo”. Che
sta a Rheinmetall come il Duce stava al Fuehrer. Dopo la paura, il terrore e
stavolta da chi se ne intende e ci sa fare: nel giro di 3 minuti, senza che noi
ci si possa neanche infilare le mutande, figurati raggiungere il bunker atomico
(che dai tempi von der Leyen è di famiglia), Mosca ci può disintegrare e fare
di Roma ciò che gli astronauti insistono a dirci di aver visto sulla Luna. Cioè
niente e nessuno.
Dipende da cosa consideriamo delirio e cosa raziocinio.
Nell’era degli Hobbit, della contrapposizione secca tra luce e oscurità, dei
maghi buoni e di quelli cattivi, delle obnubilazioni esoteriche in cui il
cervello è messo all’angolo e ragiona solo la pancia autoproclamatasi spirito,
insomma nell’era tolkeniana di colui che “ha la forza” e ne rivendica il
monopolio (da noi Urso? Crosetto?), tutto deve finire nel classico Armageddon,
catarsi catastrofica e parto della nuova era. Tutta questa cianfrusaglia la
rivestono di un Medioevo mai esistito, ma funzionale a togliere dalla scena, a
forza di kitsch, fantasie, draghi ed eroi, la realtà tosta e vera,
dell’intelligenza contro la retorica, dell’illuminismo e dell’età della
ragione. Che impone verità. Che richiede onestà. Che comporta diritto.
Saltando, cantando, che male vi fo?
Esempio luminoso, inesorabilmente tolkiano, il grande
fenomeno auto-erotico di Atreju. In queste occasioni si arriva, anche grazie
alle abbondanti libagioni di sostanze apotropaiche caccia-intirizzimento (vin
brulé), alla Giorgia in trasfigurazione. Scevra del peso della gravità che
inchioda in basso il popolino, invasa dal dio, la nuova menade si dimena, dà in
escandescenze e, con turbinio vorticoso degli arti divenuti lame rotanti, per
fortuna solo nell’aria, mostra come si debbano tagliare a fette i nemici.
Assistiamo ammirati a una specie di sabba della strega (ce
ne sarebbe un’altra, la sorella, ma si conserva per il dopo) che, riflettendosi
nei sussulti articolari e fonetici dell’intero convegno magico - “chi non salta
comunista è” – (era a Napoli! E che cambia?), si allarga in sabba globale. Un
festival di gabbamondo, a comprendere fattucchiere, saltimbanchi, cabalisti,
che celebrano i superpoteri e le superconoscenze di cui è dotata la compagine
governativa con tutte le sue ramificazioni.
Fondati sull’irrazionalità diffusa erano da sempre tutti i
fascismi, che si presentino come monarchie assolute, giunte di tiranni, inviati
di dio, pontificati e imperi, autocrazie, oligarchie, aristocrazie, totalitarismi,
caudillismi, signorie, principati, marchesati, mafie, massonerie, Deep State,
Trump… Tutta roba che opera in verticale, ma in orizzontale, compresi quei
nostri vermiciattoli scappati da sotto le macerie di un regime finito in
discarica e arrampicatisi impuniti sui palazzi del potere prima che noi ne savvertissimo
il fetore.
Cingolani, Crosetto, Cavo Er Baffo Dragone, in questo quadro
medieval-apocalittico, in cui si è rinnovata la minaccia dell’inferno ai
disobbedienti, ma stavolta sotto forma non più di pena eterna, ma di
combustione nucleare rapida, sono compratori e venditori di strumenti per
distruggere e uccidere, bravi almeno quanto quelli degli “artigiani di
qualità”, che però vendono solo sofà. Strepitosi pubblicitari dell’unica cosa
che sembrerebbe riuscire a tenere in piedi un capitalismo che svaporerebbe se
solo qualcuno dei poveri e gabbati volesse alzare gli occhi e dare uno sguardo
all’Everest di debito sotto cui si divincola (37 trilioni solo gli USA: uno
zombie che pare vivo solo perché ha dentro un meccanismo che abbaia).
Per nostra consolazione, tante volte basta un niente. Se i
loro schiamazzi di guerra fanno salite le quote degli azionisti, i dividendi, i
premi, i nascondigli nei Paradisi fiscali. Un battito di farfalla che parla di
pace (tipo di questi giorni Trump in Ucraina) fa davvero miracoli: Leonardo, in
borsa, meno 4,98; la Francese Thales meno 4,90%, la tedesca Rheinmetall meno
5,02%, Ogni volta che c’è un afflato di pace, parte la pressione ribassista sui
titoli del settore guerra e ci viene a mente quel film, quello dei sogni (loro)
e degli incubi (nostri) “che muoiono all’alba”.
Umanitaria? Purchè guerra sia
L’altra sera, ad Ancona, un dinamico Comitato No Guerra No
Nato, ha ospitato insieme a me, Sara Reginella, la bravissima cronista
dell’invasione NATO-Kiev del Donbass russo, quel Donbass liberato, che, a
seguito del golpe nazista allestito da Obama, non ci stava a ripetere
l’esperienza vissuta dai padri e nonni sotto il Gauleiter locale, Stepan
Bandera e i suoi datori di lavoro SS e Gestapo. Reginella è stata anche la
punta di lancia del ridottissimo e oscurato schieramento che, a dispetto della
falsificazione – aggressore e aggredito - consacrata addirittura da un
Quirinale appassionatamente atlantista, ha saputo rovesciare lo strumentale
paradigma. Quello che, con “l’invasione
russa del febbraio 2022”, ha spazzato dalla mappa della Storia una serie di
eventi che rovesciano il mantra aggressore-aggredito.
Il colpo di Stato dell’inverno 20013-2014, allestito da
Obama, gestito sul campo, a Piazza Maidan, dalla sottosegretaria neocon
Victoria Nuland con squadre armate naziste, culminato con la cacciata del
presidente neutralista Yanukovic. Il referendum del 14 febbraio nel Donbass
vinto con oltre l’80% dai separatisti antifascisti russi. Ai quasi 100 morti di
Maidan, si sono aggiunti le 14.000 vittime dei bombardamenti e delle incursioni
ucraine contro il Donbass con i reparti nazisti di Azov e Privy Sector, dal
2014 al 2022, anno che ha visto l’intervento di Mosca in difesa dei russi. Chi
è l’aggressore?
Presentavamo due nostri libri, il suo: “Le guerre che ti
vendono”, e il mio “Uno sguardo dal fronte”. “Le guerre che ti vendono”, nel
quale Sara ha profuso le sue esperienze e competenze di psicologa e
psicoterapeuta, è un agile, ma irrinunciabile, manuale di istruzioni su come
sfuggire alle sempre più sofisticate, violente e pervasive, tecniche di
manipolazione della realtà da parte dell’omertoso aggregato
politico-economico-militare-mediatico. Quello che ci si è insediato sul
groppone a colpi di persuasione occulta, manifesta, coatta, volontaria, a
schiaffoni, e che, nell’attuale fase dell’accumulazione, è fondata su vendita,
acquisto e consumo di armi. Insieme alle quali vendono, comprano e consumano le
nostre vite.
Come ti educo il pupo (da combattimento)
Guerre contro le quali il primordiale e ancora vivo e vegeto
istinto di preservazione della specie ti fornisce un codice genetico che,
diversamente da quello individuato da Nordio, impostato sui cazzotti alle
donne, le guerre te le fa odiare e ripudiare meglio di qualsiasi carta
costituzionale. Come si è potuto dimostrare quando nelle scuole, sequestrate
dal duo Crosetto-Valditara, le ghirlande e le pailettes con cui “educatori con
le stellette” hanno fatto la cosmesi a bombe e cingoli, sono state lacerate di
netto dal 68% di NO dei ragazzi alla leva, volontaria, od obbligatoria che sia.
Disastro di un marketing che si affanna di fiera in fiera, di liceo in liceo,
di schermo in schermo. Perchè senza gente che induci ad amare le armi e poi a
usarle, disponendosi perfino a farsele piovere addosso, a cosa serve fabbricare
missili?
Qui i fomentatori di guerre devono affrontare un paradosso.
Far paura della guerra degli altri contro te, far apparire nobile e bella la
guerra tua contro gli altri. Il che comporta un’acrobazia dialettica –ovviamente
costruita intorno all’asse manicheo degli assoluti bene e male – che renda
conciliabile l’inevitabile dissonanza cognitiva con quanto sei riuscito a
difendere della tua razionalità.
Sara Reginella ci ricorda come d’un tratto le guerre siano
diventate umanitarie Quella dei nostri cent’anni le ho attraversate tutte. E mi
è capitato di partecipare anche all’inaugurazione di quelle “umanitarie”:
Serbia, 1999. Quella del Vietnam era ancora del tipo “portiamo la civiltà ai
primitivi”. I quali, se comunisti, anche cattivi. Poi è tutto un difendere i
valori umani, esportare la democrazia, far valere le regole, abbattere
dittature, salvare minoranze, anzi interi popoli. Sempre accertandosi che siano
così carini da servire da quinte colonne a noialtri: berberi in Algeria,
albanesi in Kosovo, palestinesi alla Abu Mazen, curdi in Siria, Iran e Iraq,
musulmani turcofoni in XinJang e, recentemente, perfino alcuni Aymara dell’ex-rivoluzionario boliviano Evo
Morales.
Persuasori Occulti
Quando nel 1957 Vance Packard, quarantatreenne insegnante di
giornalismo all'Università di New York, con il suo “I persuasori occulti”, rivelò
al grande pubblico che l'alleanza sempre più stretta tra analisi e pubblicità
minacciava subdolamente, ma scientificamente, la libertà d'opinione su
qualsiasi argomento, venne arruolato nella schiera dei più grandi allarmisti. Fu
invece uno dei più grandi profeti, meglio, chiaroveggenti, del nostro tempo in
metempsicosi.
Con la differenza, non sostanziale, che allora la tua
percezione della realtà, bisogni compresi, veniva compressa da chi ti voleva
far consumare. Oggi, e da un bel po’, la realtà che a te, pesce rosso nella
boccia concava che ti deforma la realtà, viene imposta è sempre quella, ma si è
di molto estesa. Un pensiero autonomo, aderente a come stanno le cose fuori
dalla boccia, costa sempre più fatica. E i persuasori sono altri, ben oltre i
pubblicitari, oggi forse la categoria di persuasori meno occulta, più scoperta
e perfino onesta, nella sua dabbenaggine infantilista.e buonista.
Il nemico è un altro. Il subdolone, che ti fare vedere
lucciole per lanterne e viceversa, è lui, è il Cingolani della minaccia, il
Crosetto dell’emergenza bellica, il Cavo Er Baffo Dragone dell’irrinunciabile
attacco per primo. Ovviamente non sarebbero che comparse, al massimo figuranti
di terza fila, se alla loro sostanza inconsistente non desse corpo quell’armada
di rapinatori della realtà di cui ci parlano Reginella e molti analisti.
Rapinatori della realtà che, dai persuasori occulti di Packard, si sono evoluti
in blocco politico-economico-mediatico, agente in assoluta comunità d’intenti,
senza più sbavature alla vietnamita, o irachena, o perfino ancora afghana-
Le lacerazioni al tessuto di una opinione comune dettata,
che i persuasori hanno subito in quelle irruzione di una Storia non
controllata, ma anche in occasione di eventi sismici interni, come quel ’68 che
ha percorso mezzo mondo per una decina d’anni rischiando di mettere a
repentaglio tutto il fabbricato, e in parte riuscendoci, hanno accelerato i
tempi e i modi della riorganizzazione e del consolidamento. Che, nel nostro
caso non è neanche in prima linea quello del riarmo da far passare come
necessità ineluttabile, corroborata da nobili virtù. Ma ciò che la rende
possibile. La varietà e diversità dell’informazione, già ritenuta fisiologica,
si è fatta catechismo, legge mosaica cantata in coro da poche voci..
I becchini dell’informazione? Quelli dei soldi.
L’editore puro era morto e seppellito da decenni. Lo
squallore speculativo e amorale di una casta amorale come la discendenza
Agnelli, con la sua svendita all’armatore greco Kyriakou di quelli che
passavano (imperfetto, se non passato remoto) per i più autorevoli giornali
italiani, con tutte la panoplia multimediale del gruppo GEDI, non è che
l’epifenomeno burino della globalizzazione delle testate. Una riduzione ad
paucis, in poche mani, iniziata qualche decennio fa e fattasi parossistica
negli ultimi anni.
Sette tra i più sfondati miliardari del mondo, tutti del
mondo High Tech e dei Fondi di Investimento, da Zuckerberg a Bezos e Murdoch,
da Fink a Page e Musk, erano già padroni dell’informazione, detta social per
prenderci per il culo, ma dettata dal loro logaritmo. Ora, catturati giornali
come il Washington Post, o il Los Angeles Times, si lanciano all’assalto di
colossi multimediali come Warner, Paramount, CNN, Discovery, Disney (di
Blackrock). Sono tutti, oggi, follower di Trump, e sono tutti amici di Israele,
con in prima linea le famiglie Ellison e Adelson, senza i dobloni dei quali
Trump la presidenza se la poteva sognare. Il grafico che illustra il passaggio,
in 40 anni, da un grande pluralismo di informazione agli oligopoli di oggi,
esplicita anche il passaggio dalla democrazia all’oligarchia.
Disinformo, faccio paura, faccio la guerra, zittisco
tutti
Abbiamo alle spalle una certa esperienza di come il politico
si inserisca in operazioni che si presentano – e a volte sono – basate su
presupposti scientifici, ma i cui propositi scientifici finiscono col diventare
strumenti politici. Eminentemente di disciplina sociale finalizzata a nuove
forme di frantumazione sociale, dominio e sfruttamento. Come? Con la paura,
arma fine del mondo.
L’AIDS e la coesione sociale, per quanto riguarda i rapporti
tra i generi, travolta da sospetto e paure. Il terrorismo che, con
l’islamofobia, ha rinnovato lo sconfitto razzismo colonialista d’antan e ha
rilanciato un’era di guerre. Il Covid che, con lockdown e Green Pass, diventa
il più grande esperimento di casermizzazione della società. Il cambio
climatico, funzionale a sovvertire abitudini, imporre costi e agevolare
alternative di modi di produzione con relativa eterogenesi dei fini, quando si
scopre che migliaia di kmq di terra, aria, mare, muoiono sotto l’impatto delle
“innovative”, mentre intere economie nazionali vanno in rovina (ultimissime
dall’Antartide: crescita dei ghiacci e freddo senza precedenti. Da 1400 giorni
temperatura sotto i 20°). E tocca rimediare buttandosi sulle armi (e quindi
sulle guerre).
Tutta questa vera e propria discesa agli inferi, nella
quale, come rivela il poeta, riconoscere noi stessi attraverso il nostro
passato, non ci fa incontrare Farinata degli Uberti, o la Sibilla, o padre
Anchise, o Agamennone e, con le loro, le nostre verità. Ci mette alla mercè di
un Cerbero che ci mostra come, nell’era della Forza, sistemare gli infedeli.
Nel caso specifico, azzannando Jacques Baud, l’ex-ufficiale svizzero che
figurava tra i migliori analisti militari e geopolitici, tanto da essere scelto
consulente dell’ONU. E chi ha azzannato questo prestigioso e rispettato
signore? Ursula von der Leyen che, in quanto presidente della Commissione UE è
capo dell’Esecutivo e come, nel caso Meloni, Macron, Trump, in quanto capo
dell’esecutivo, è a capo di tutto, alla faccia della divisione dei poteri. Al
diavolo legislatori e magistrati.
Saremmo dunque finiti nella fase in cui quel tale, Trump, ha
toccato l’albero e ha fatto un suo “Tana liberi tutti” al contrario. Nel senso liberi
non noi, ma loro. Liberi di utilizzarli tutti, i mezzi della coercizione,
quelli psicologici e quelli fisici. Succede quando si accorgono che, a un certo
punto, anche la paura più paura rischia di dissiparsi quando lo scontro con
quanto ci è rimasto di intelligenza della realtà fa più male alla paura che
all’intelligenza. E allora la partita
può anche riaprirsi e spuntare da qualche parte una Bastiglia, o un Palazzo
d’Inverno.
Cingolani-Crosetto-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara,
quintetto perfetto
Abbiamo parlato del duo Crosetto-Cingolani. Ma forse tocca
parlare di un trio, Crosetto- Cingolani-Cavo Dragone. Dove l’uno è portavoce
dell’altro e tutti abbisognano che noi si temi la guerra altrui e si ami la
nostra, magari d’attacco. Ma, poi, solo di terzetto si tratta? E allora
Piantedosi? Non è il caso di intravvedere, nell’alba dove muoiono i sogni, un
quartetto? Come farebbe il terzetto a tirare dritto là dove punta il baffo
umbertino, cioè l’eroico assalto, senza che qualcuno gli spiani la strada, visto
che quelli della persuasione ci hanno lasciato troppi dossi? Ecco che tocca al
ministro di polizia.
E’ nel nuovo ordine delle euro-cose che questa funzione si
renda operativo locale di Ursula, la quale, istruita da quanto Trump ha
inflitto a Francesca Albanese, ha appena comminato sanzioni invalidanti (niente
soldi, niente conti in banca, niente viaggi, niente lavoro, ostracismo dal
mondo) a chi non sputa quando sente dire Putin, o Hamas. Ed è solo l’inizio
della morte civile comminata.al dissenso.
Senza che Mattarella lo avesse dichiarato ufficialmente (lui
si occupa di confini violati, ma solo dai russi), le libertà costituzionali, e
anche quelle ONU, OSCE e UE, sono morte. Giorno dopo giorno, sanzione dopo
sanzione, la lista di proscrizione si allunga. Siamo al delitto di “connivenza
col nemico”. Democraticamente, senza che tutto ciò coinvolga minimamente una
roba obsoleta come tribunali e giudici. Basta un’Ursula, esecutivo. Un decreto.
Dunque habemus quartettum. E perché non quintettum?
Che ne dite di un bel Crosetto-Cingolani-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara? Ah
no? E allora a chi fareste chiudere il cerchio della persuasione volens-nolens,
se non da uno cui spetta allestire l’indispensabile scambio formativo tra
caserma e aula, scuola e leva, dio-patria-famiglia-moschetto? Un bel ministro
dell’Istruzione e del Merito? Scambio scuola-lavoro che vada oltre la pratica
dello svuota- bidoni, o stagista alla catena, ma renda i nostri ragazzi, quindi
tutta la società, come ai tempi del Balcone, o come Merz-Blackrock:ha
vaticinato al Reichstag: “kriegstuechtig” (*)?
(*) Abile alla guerra, agguerrito.
sabato 20 dicembre 2025
GIU’ LE MANI DALL’ASKATAZUNA!
Gli ossificati delle dottrine katechistiche, i rattrappiti
nelle formule a ripetizione, i necrotici del fuori tempo massimo, gli ignavi e
tutti ricorrano a quanto dispongono di reattività, coscienza, dignità, lucidità
e manifestino ovunque e a livello nazionale contro la fascistizzazione di
questo regime di corrotti e squinternati. Chi ha mostrato di saper organizzare,
organizzi.
Lo sgombero dell’Askatazuna, un vertice dell’intelligenza
antagonista, è la chiave di volta concreta e simbolica della disintegrazione
della libertà in Occidente, è l’epitome del tentativo di chiudere
definitivamente ogni spazio di contrasto, è un punto di non ritorno nazionale e
internazionale della lotta di classe e della conquista della realtà.
L’ASKATAZUNA E’ UN PEZZO DI PALESTINA
E’ FASCISMO, COMUNQUE VOGLIATE CHIAMARLO.
Dopo il Leoncavallo (peraltro già autodomato), l’indomabile
Askatazuna, avanguardia di popolo, da trent’anni presidio NO TAV dell’ambiente
e della sovranità popolare, primo centro italiano di elaborazione politica,
culturale, sociale, fucina di creatività antagonista di alto livello
intellettuale, cuore pulsante di una resistenza antifascista rispetto a ceti
dirigenti corrotti, prevaricatori, ignoranti, vermi usciti da sotto le macerie
dei monumenti del fascismo abbattuti, per inquinare di degrado a tutti i
livelli, la nazione, il popolo, la società lo Stato. Un piede di porco tra le
ruote dello schiacciasassi assolutista.
Intanto gli squadristi di Casa Pound, manovalanza
dell’operazione della prevalenza della forza sul diritto, della menzogna sulla
verità, della violenza dei pochissimi sui tantissimi, restano intoccabili, bene
in vista nel taschino di Piantedosi (là dove il modello Netanyahu porta il nodo
scorsoio del cappio)
L’inaccettabile sopruso che il ministro camicia nera
Piantedosi infligge senza soluzione di continuità, sul modello delle censure e
delle sanzioni di un potere esecutivo europeo che, come quello italiano,
pretende il silenzio e l’annichilimento dei giusti e liberi, esige una risposta
di popolo.
La Flotilla ce l’ha insegnato. E’ sempre lo stesso nemico.
martedì 16 dicembre 2025
Fulvio Grimaldi --- America Latina, la nuova Heartland --- EL CONDOR PASA… Y REPASA
Fulvio
Grimaldi
America
Latina, la nuova Heartland
EL
CONDOR PASA… Y REPASA
Noi
e l’America Latina…
Due
parole per chiarire il titolo. Heartland, cuore della Terra, o
terra-cuore, era per il mitivo geopolitico USA Zbigniew Brzezinski, nella
configurazione della sua Grande Scacchiera, la regione del mondo di cui un
impero doveva essere in possesso. per potere esercitare un dominio globale. Si
trattava delle immense aree interne dell’Eurasia. Da qui il confronto epocale
con l’URSS, divenuto Guerra Fredda.
Ciò
che ci ha fatto intendere Donald Trump, con le sue recenti dichiarazioni sui
propositi strategici degli USA, è uno spostamento drastico dell’attenzione e
delle intenzioni, dall’Eurasia vagheggiata dal politologo di Jimmy Carter, alla
più vicina e concreta America Latina. Ce ne siamo accorti, noi italiani? Non
crediamo di avere buoni motivi per interessarcene?
Penso
che per una volta noi italiani, abituati a denigrarci, a non considerare e
neppure a ricordare chi si è speso per il nostro paese e con eccellenti
risultati (Guerre e lotte di liberazione tra ‘800 e Resistenza partigiana),
possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Parlo della Palestina, di come siamo
stati pronti e determinati a conoscerla, sostenerla, difenderla in tutti i
creativi modi con cui ci siamo mobilitati in massa, traendone anche consapevolezza
politica più vasta e profonda dell’ambito colonialista specifico. Bene, bravi,
7+.
Ma
l’America Latina? A suo tempo un discreto movimento per Cuba, poi per il
Venezuela molto di meno, qualcosina per il Nicaragua… In America Latina
vivono oltre 1,5 milioni di italiani registrati all'AIRE (Anagrafe
degli Italiani Residenti all'Estero), con le comunità più numerose in Argentina (circa 870.000) e Brasile (oltre 470.000), secondo dati aggiornati a
circa il 2021/2022, ma il numero totale di persone di origine italiana è molto
più elevato, contando decine di milioni di persone (oriundi). In Venezuela gli
italiani registrati sono 150mila, ma quelli che si dicono italiani sono almeno
1 milione. Erano cinque, ma sono venuti via in tanti dopo il cambio di
paradigma imposto al paese dalla rivoluzione bolivariana di Chavez e Maduro che
ha posto fine a una casta di privilegiati di cui imprenditori italiani erano
protagonisti.
Allora,
lasciando da parte fenomeni planetari ed epocali, tipo Palestina o il conflitto
ucraino, com’è che l’annunciato assalto trumpista al Venezuela, paese di 28,5
milioni di abitanti, protagonista del più grande rivolgimento continentale, a
rischio di finire come Gaza, non colma né le piazze, né gli schermi, né le
pagine dei giornali? E del Nicaragua veniamo a sapere qualcosina, solo perché i
vescovi cattolici locali, protagonisti di una controrivoluzione antisandinista
scatenata dal solito mercenariato ONG, si dicono perseguitati e repressi dal
regime?
Questa
situazione di assenza, sconoscenza, ignavia, meticolosamente perseguita dal
nostro sistema politico-mediatico integrato, quando non sia il caso di ripetere
a pappagallo le calunnie inventate da qualche yankee vorace di risorse
naturali, non è casuale e neppure innocente. L’America Latina, superato qualche
soprassalto di interesse giovanile per le dittature del Condor kissingeriano e
relative resistenze armate, e per la rivoluzione cubana, da tempo catalogata e archiviata,
è roba yankee. Roba del padrone. Che non gradisce ingerenze e meno gli altri se
ne occupano e più è padrone di occuparsene lui.
Tanto
più che, con Trump, ha vigorosamente manifestato una nuova strategia; quella
che mette al centro l’America Latina e le sue sconfinate risorse, con
simultaneo abbandono dell’Europa, derelitta con poco in dispensa, che di
risorse da rapinare non ne ha e che, anzi, a suo tempo ha fatto danno
prevalendo nel campo della manifattura. Un rilancio della dottrina Monroe,
controllo USA sull’emisfero, che ora qualcuno chiama “Donroe”.
Qui
diamo uno sguardo a una serie di sviluppi di stretta attualità, ma che non
sembra siano considerati, dai soloni mainstream della nostra geopolitica, degni
di notizia o addirittura di approfondimento. E pensare quale scossone darebbe
agli equilibri mondiali ì’ipotesi, seriamente studiata, di un canale nell’
istmo tra Caraibi-Atlantico e Pacifico tracciato in Honduras o Nicaragua, che
sostituisca quello di Panama, nodo scorsoio nordamericano dai cui porti si sta
cercando di cacciare i cinesi.
Anni
’70, non solo Pinochet
Chi
era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento
della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da
canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di
resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma
che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella
resistenza quelli che se ne videro messi in discussione la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di
piombo”.
Noi
invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande
cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e
di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca
politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà
unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha
superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito
nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”,
operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu
del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.
Il
Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non
sono necessariamente tutti dei Cavo Dragone), ci indicarono chi erano i nuovi
nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in standby il fascismo, ci stavano di
nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da
liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati
dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per
coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.
Gli
anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel
subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del
riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo
sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi
fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in
Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il
MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo
per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto
“Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo,
Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non
permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato
da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.
Cile,
la sinistra con le scarpe della destra
Mentre
scrivo, il risultato del ballottaggio presidenziale cileno non è ancora stato
comunicato. Ma è difficile che ci siano sorprese, anche perchè tra i due
contendenti, la prima arrivata, comunista, non ha dietro di sé che quel triste
27% del primo turno. Mentre l’avversario postnazista si avvale, oltrechè del
suo 23,9% anche di quanto gli portano i successivi terzo, quarto e quinto del
primo turno, tutti che non si distinguono essenzialmente che per le facce e gli
abiti che portano. Quanto all’essenziale – che Cile, quali rapporti di classe,
che fare dei residui del pinochettismo, mai del tutto rimossi dal predecessore
Boric, come trattare la minoranza emarginata dei Mapuche, e, soprattutto come
rapportarsi a chi da sempre, con le sue forze economiche, militari e
d’intelligence, prova a determinare le stagioni del paese – le differenze sono
quelle che trovi tra una ‘ndrangheta e una camorra.
In
Cile è andata male. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi
sommovimenti, soprattutto studenteschi contro il tardo, ma irriducibile,
pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate
grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran
che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti
gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo,
non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a
partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato
un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.
Così
alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, già ministra del
lavoro con Boric, ma appena col 27%. Al ballottaggio era data per scontata la
vittoria del primo dei due pinochettisti duri, arrivati secondo e terzo. Il
Contendente di Jara è Josè Antonio Kast, del fascistoide Partito Republicano,
figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità” di rifugiati del
Reich, arrivato al 24%. Sono noti i suoi stretti legami con il partito spagnolo
dell’ultradestra VOX, anche intensamente frequentato dalla nostra premier
Meloni: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”….
Il quarto
arrivato, Johannes Kaiser, Partito Nazionale Libertario, stessa risma e stessa
matrice, contribuisce col 14%.all’affermazione dell’estrema destra. Al
potenziale 38% ottenuto dai due al primo turno si dovrebbe sommare il 12,4% di
un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta
di Pinochet e, forse, il sorprendente 19,71% dell’immancabile “populista”,
Franco Parisi, “Partito della Gente”, riuscito a scalzare Kaiser dal terzo
posto. Ci si prospetta un personaggio che si girerà a seconda del vento che
sente tirare.
Quanto
ai risultati delle contemporanee elezioni legislative, la tendenza a destra è
confermata dalla sua avanzata nella Camera dei Deputati, con 155 seggi, e nel
Senato, con 23 seggi su 50.
Con
la destra al 70%, anche se per un miracolo dovesse ora arrivare in testa
Jeanette Jara, con il suo controverso sforzo di ricupare il voto moderato,
vecchia tara, il Cile che neppure il “sinistro” Boric è riuscito ad estrarre
dalle secche del pinochettismo diffuso, più o meno mimetizzato, rimane saldo
nelle mani dei suoi potentati economici. Salvo una rivoluzione, che però non è
alle viste neanche nei programmi del Partito Comunista di Jara. Una
preoccupazione di meno per chi ha messo al centro della propria strategia
“detta di Sicurezza”, da leggersi come aggressivamente colonialista, la
rinnovata dottrina Monroe.
Che
poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame,
litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione
del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, nel recinto del
famigerato “cortile di casa” Cortile in cui dare spazio ai giochi estrattivi
delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.
Honduras-Trump,
golpe elettorale in corso
Mentre
scrivo, in Honduras alle prese dal 30 novembre con le elezioni presidenziali,
in seguito a una valanga di calcoli sbagliati, voti spariti e pesanti ingerenze
di Trump, il caos è totale. Il Partito al governo, Libre, ha chiesto
l’annullamento delle elezioni.
Nel
nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton,
irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto
stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras,
paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee,
libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Troppo gravi le problematiche
strutturali economico-sociali, superate solo in misura ridotta. Il tasso di
povertà è calato dal 75% al 60%, ma l’insicurezza alimentare colpisce 1,7 degli
11 milioni di honduregni, grazie anche ai danni ai raccolti prodotti da siccità
e inondazioni.
Alle
elezioni presidenziali del 30 novembre Rixi Moncada, candidata di LIBRE
(Libertad e Refundacion), il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di
Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua
moglie e presidente dal 2022, si è dovuta accontentare, dopo metà dei voti
contati, di un deludente terzo posto, inchiodata al 19’18%. Segno di quanto
poco la popolazione ha apprezzato la gestione del dopo-vittoria del 2022 da
parte di Xiomara Castro. Ma segno, forse più forte, di quanto possa l’intervento
di Trump in un paese formalmente sovrano.
I
conteggi, diventati estenuanti e chiaramente oggetto di manipolazioni, rilevati
anche dagli osservatori UE, hanno poi avuto degli sbalzi che però riguardavano
le rispettive posizioni dei due arrivati in testa: Nasry Tito Asfura del
Partido Nacional Conservador, grande palazzinaro, tycoon di riferimento dei 25
massimi gruppi economici della regione, sospinto senza pudore da Trump, e
Salvador Nasralla, Partido Liberal, una specie di Zelensky dagli analoghi
trascorsi da divo TV e per Trump seconda scelta. Quasi appaiati dopo i primi
conteggi, 40% all’uno, 39,80%, insieme rappresentano una estrema destra di
quasi l’80%, Che è oggi la forza della destra nel paese, intimamente legata ai
narcos.
Trump,
i narcos, quelli veri, non vengono bombardati
Non
per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di
Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere Milei,
mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere
Milei. Nel caso di Asfura è arrivato a
esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex-presidente
Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente
condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Incredibilmente,
insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche questo
suo intimo e probabile successore. Liberato dalla sua prigione a New York e
trasferito a Tegucigalpa per sostenere il suo emulo nell’attuale corsa al
primato, questo ex-presidente narcos è stato fatto immediatamente riarrestare,
a esecuzione di un mandato dell’Interpol, da un per niente intimidito ministro della
Giustizia honduregno.
Va
dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di
LIBRE. Basta questa sua iperattività per determinare l’affermazione del
candidato tracimante profumo di stupefacenti a mettere in evidenza cosa intenda
Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel
segno della “lotta al narcotraffico”? Con la denuncia della candidata
apparentemente sconfitta, del suo partito e addirittura del Consiglio Nazionale
Elettorale, responsabile della convalida dei risultati, di un golpe elettorale
in corso, i giochi si sono riaperti. La situazione resta confusa, Il rifiuto di
riconoscere i risultati provvisori della presidente uscente, Xiomara Castro, si
fonda su dati concreti. Il meccanismo degli scrutini prevede un duplice
conteggio: quello elettronico del TREP, che calcola i risultati preliminari e
nella cui pancia pare siano scomparse alcune decine di migliaia di voti, e
quella dei verbali con i dati anagrafici, biometrici e le firme degli
scrutinatori, di cui altre migliaia appaiono prive di questi accertamenti. Accuse di frodi e manipolazioni, avanzate
dalla sinistra si esprimono adesso anche in tumulti di piazza.
Incurante
di tutto questo, Trump accentua la sua partecipazione attiva a un processo che
non sembra finire mai e assume caratteri surreali. Quando, a 10 giorni dal
voto, i conteggi incominciavano a dare atto di un momentaneo superamento di
Asfura, Partido Nacional, da parte del liberale Nasralla, a Trump meno gradito,
altro intervento a gamba tesa: “Se non vince Asfura, voi narcocomunisti non
vedrete più un dollaro di aiuti americani e andrete in rovina…”
Difficile
fare la cronaca di un processo che sembra arrotolarsi su se stesso. Assistiamo
a un grottesco susseguirsi di colpi di scena, con scoperte di voti sottratti,
ricomparsi, svaniti, interferenze esterne sempre più pressanti, con minacce
trumpiane fino al livello israeliano della fame come arma di guerra, tumulti
popolari davanti alle sedi del potere nella consapevolezza che si sta portando
avanti un oscuro tentativo di negare la volontà degli elettori, sospensione
temporanea dei conteggi a quasi due settimane dal voto. Evidentemente per chi
puntava su un recupero di questo paese uscito dall’orbita USA, la posta in
gioco è molto grande.
Un
popolo contro i suoi schiavisti…
Quando
arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato
allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e
facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono
presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente
dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad
in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli
elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.
Gli
honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza
Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese
era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il
controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile
Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e
partiva.
Un
golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta
La
resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese.
Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il
paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di
popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle
fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è
riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive
di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per
l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano
già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della
società civile.
Il
contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone
uccise, incarcerate, fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di
elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza
rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse
solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra
istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della
popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione
nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento
antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella
difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel
2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei
Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di
sbarramenti artificiali programmati.
La
situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e
boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti
particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per
aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez,
boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero
acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con
Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentaneamente fuori
gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare
alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire
della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a
50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono
troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà
dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte
di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.
Va
aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze
antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fatti.
Di
fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Rixi Moncada e gli
esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e
i vertici di LIBRE si erano, in un primo tempo, dichiarati disposti a
riconoscere la sconfitta. Passando sopra le incredibili interferenze di Trump
che, già da sole, avrebbero dovuto invalidare l’intero processo elettorale.
Senza neanche arrivare allo scandalo dell’amnistia a un ex-presidente in galera
per narcotraffico e del quale il probabile nuovo presidente si dice orgoglioso
figlioccio.
Poi
però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva
registrato alcune forti anomalie. Le ho ricordate qui sopra. A una prima conta
superano il mezzo milione di voti. Conteggi sospesi e addirittura comunità
richiamate al voto. A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato
dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.
Si
vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore
di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli
mancheranno gli aiutini del Nord.
Ecuador,
condor in bilico
L’Ecuador,
se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 2017, da
una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael
Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina
di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di
ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione
fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale,
inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al
paese.
Lenin
Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto
proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti,
rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con
il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione
centrodestra e filo-yankee-
Nel
2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano,
liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi.
Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima
concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia
fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E
anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla
candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi
e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare
qualche peso alle accuse di elezioni rubate.
C’è
però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove
prospettive Rivelando una coscienza
politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi
in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di
posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano
cristallizzati.
Con
un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump,
un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente
alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato
appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento
dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da
Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di
forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di
complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente
un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei
suoi padrini.
Noboa,
che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle
incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti
ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta
zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti
“gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui
quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun
bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio
infausto del M5S, ancora grillino)
La
risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un
tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal
54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione
militare yankee.
Ciò
che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa
del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a
riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi
senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel
mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e
la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico
verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca
nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono
qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei
cittadini.
Dal
punto di vista del “combattente antidroga” che ha fatto del tema lo strumento
per la riconquista del subcontinente, Noboa rappresenta l’asset principale.
Secondo inchieste internazionali, condotte anche da un’esperta ONU della
sicurezza antidroga, Carla Alvarez, docente al Centro di Alti Sudi sulle Armi
di Quito, con Noboa l’Ecuador si sarebbe convertito in una base per le
operazioni del narcotraffico internazionale. Mascherato da imprese bananiere,
facenti capo alla sua famiglia, e con l’intervento logistico di mafie
balcaniche, il 70% della cocaina destinata a USA ed Europa, partirebbe dai
porti ecuadoregni.
Con
tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i
narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela. Davanti alle cui coste siamo
arrivati, per grazia dei bombardieri USA, a 22 imbarcazioni di pescatori
affondate con 87 assassinii extragiudiziali. E al sequestro di una petroliera
venezuelana diretta a Cuba, per rifornire il paese amico di energia a
condizioni di favore. Pirateria di Stato di cui nessun magistrato pare voglia
occuparsi.

