martedì 23 dicembre 2025

“Democrazie vs Autocrazie” Ma che, davvero?--- --- TU CHIAMALO SE VUOI FASCISMO


 

“Democrazie vs Autocrazie” Ma che, davvero?

TU CHIAMALO SE VUOI FASCISMO

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Come inciso che c’entra poco col resto, ma di cui sento l’urgenza, rivendico in chiave consolatoria che siamo scampati perfino alla kermesse delle canotte nere su pelle bianca. Ovviamente non alla partecipazione, alla quale si sono concessi segmenti della nostra presunta opposizione alla ricerca di visibilità “whatever it takes” e felici di farsi masticare. Il costo politico e morale lo pagheranno al rientro. Comunque ci torno sopra.

Si passa a cose serie (per dire…).

Al cancelliere Merz, che riprendeva un meme di Hitler degli anni’30, “La Germania farà della Bundeswehr (intesa come Wehrmacht) il più potente esercito d’Europa”, ha risposto molto brutalmente il No alla Leva del 65% dei giovani e della maggioranza dei parlamentari (a favore il 55% degli attempati, cioè di quelli che non ci andranno. In Italia, a dispetto di quelli del “libro e moschetto” e di “Vincere!” ha detto NO il 68% dei potenziali candidati a fari macellare.

Armigero senza baffi, armigero con baffi

Ai Volenterosi europei che, a nome di paesi ignari e poveri in canna, annunciano la guerra, ovviamente “di difesa” alla Russia (per qualcuno già in corso, per altri, fra massimo tre anni); risponde invece, a passo di corsa, il molto baffuto, molto bislacco e molto medagliato Cavo Er Baffo Dragone. Forse, pensando di far rapporto ai sovrani della Triplice Intesa, annuncia: Maestà, per vincere dobbiamo assolutamente attaccare per primi (implicito: sennò come possiamo far credere a ‘sti cojoni che devono andare a farsi sparare?)

Il delirio associato al declino, implicito in quella forma di baffi, sopravvissuti a tutte le nostre Caporetto e altre infamie, segno distintivo di chi pone la forza sopra il diritto e quello con le stellette sopra quello senza, ha definitivamente spazzato via quanto restava, nei nostri Stati Maggiore, di poveri resti di neocorteccia. Che sarebbe quella che presiede al ragionamento logico. Succede quando i baffi alla Umberto arrivano a oscurare il lobo frontale.

Finchè c’è guerra, c’è Cingolani

Dopo questa sfilza di seminatori di balle terrorizzanti, non poteva mancare lo Zar della Guerra in fieri, anzi degli strumenti per farla fare (Anche da Israele? Come no!). Roberto Cingolani, oggi, dopo la fase spiritosa da Ministro dell’Ambiente, AD del colosso necrofago “Leonardo”. Che sta a Rheinmetall come il Duce stava al Fuehrer. Dopo la paura, il terrore e stavolta da chi se ne intende e ci sa fare: nel giro di 3 minuti, senza che noi ci si possa neanche infilare le mutande, figurati raggiungere il bunker atomico (che dai tempi von der Leyen è di famiglia), Mosca ci può disintegrare e fare di Roma ciò che gli astronauti insistono a dirci di aver visto sulla Luna. Cioè niente e nessuno.  

                  

Dipende da cosa consideriamo delirio e cosa raziocinio. Nell’era degli Hobbit, della contrapposizione secca tra luce e oscurità, dei maghi buoni e di quelli cattivi, delle obnubilazioni esoteriche in cui il cervello è messo all’angolo e ragiona solo la pancia autoproclamatasi spirito, insomma nell’era tolkeniana di colui che “ha la forza” e ne rivendica il monopolio (da noi Urso? Crosetto?), tutto deve finire nel classico Armageddon, catarsi catastrofica e parto della nuova era. Tutta questa cianfrusaglia la rivestono di un Medioevo mai esistito, ma funzionale a togliere dalla scena, a forza di kitsch, fantasie, draghi ed eroi, la realtà tosta e vera, dell’intelligenza contro la retorica, dell’illuminismo e dell’età della ragione. Che impone verità. Che richiede onestà. Che comporta diritto.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

 

Saltando, cantando, che male vi fo?

 

Esempio luminoso, inesorabilmente tolkiano, il grande fenomeno auto-erotico di Atreju. In queste occasioni si arriva, anche grazie alle abbondanti libagioni di sostanze apotropaiche caccia-intirizzimento (vin brulé), alla Giorgia in trasfigurazione. Scevra del peso della gravità che inchioda in basso il popolino, invasa dal dio, la nuova menade si dimena, dà in escandescenze e, con turbinio vorticoso degli arti divenuti lame rotanti, per fortuna solo nell’aria, mostra come si debbano tagliare a fette i nemici.                                                                                                                                                                                                                                                                              

Assistiamo ammirati a una specie di sabba della strega (ce ne sarebbe un’altra, la sorella, ma si conserva per il dopo) che, riflettendosi nei sussulti articolari e fonetici dell’intero convegno magico - “chi non salta comunista è” – (era a Napoli! E che cambia?), si allarga in sabba globale. Un festival di gabbamondo, a comprendere fattucchiere, saltimbanchi, cabalisti, che celebrano i superpoteri e le superconoscenze di cui è dotata la compagine governativa con tutte le sue ramificazioni.

Fondati sull’irrazionalità diffusa erano da sempre tutti i fascismi, che si presentino come monarchie assolute, giunte di tiranni, inviati di dio, pontificati e imperi, autocrazie, oligarchie, aristocrazie, totalitarismi, caudillismi, signorie, principati, marchesati, mafie, massonerie, Deep State, Trump… Tutta roba che opera in verticale, ma in orizzontale, compresi quei nostri vermiciattoli scappati da sotto le macerie di un regime finito in discarica e arrampicatisi impuniti sui palazzi del potere prima che noi ne savvertissimo il fetore.

Cingolani, Crosetto, Cavo Er Baffo Dragone, in questo quadro medieval-apocalittico, in cui si è rinnovata la minaccia dell’inferno ai disobbedienti, ma stavolta sotto forma non più di pena eterna, ma di combustione nucleare rapida, sono compratori e venditori di strumenti per distruggere e uccidere, bravi almeno quanto quelli degli “artigiani di qualità”, che però vendono solo sofà. Strepitosi pubblicitari dell’unica cosa che sembrerebbe riuscire a tenere in piedi un capitalismo che svaporerebbe se solo qualcuno dei poveri e gabbati volesse alzare gli occhi e dare uno sguardo all’Everest di debito sotto cui si divincola (37 trilioni solo gli USA: uno zombie che pare vivo solo perché ha dentro un meccanismo che abbaia).

Per nostra consolazione, tante volte basta un niente. Se i loro schiamazzi di guerra fanno salite le quote degli azionisti, i dividendi, i premi, i nascondigli nei Paradisi fiscali. Un battito di farfalla che parla di pace (tipo di questi giorni Trump in Ucraina) fa davvero miracoli: Leonardo, in borsa, meno 4,98; la Francese Thales meno 4,90%, la tedesca Rheinmetall meno 5,02%, Ogni volta che c’è un afflato di pace, parte la pressione ribassista sui titoli del settore guerra e ci viene a mente quel film, quello dei sogni (loro) e degli incubi (nostri) “che muoiono all’alba”.

Umanitaria? Purchè guerra sia

L’altra sera, ad Ancona, un dinamico Comitato No Guerra No Nato, ha ospitato insieme a me, Sara Reginella, la bravissima cronista dell’invasione NATO-Kiev del Donbass russo, quel Donbass liberato, che, a seguito del golpe nazista allestito da Obama, non ci stava a ripetere l’esperienza vissuta dai padri e nonni sotto il Gauleiter locale, Stepan Bandera e i suoi datori di lavoro SS e Gestapo. Reginella è stata anche la punta di lancia del ridottissimo e oscurato schieramento che, a dispetto della falsificazione – aggressore e aggredito - consacrata addirittura da un Quirinale appassionatamente atlantista, ha saputo rovesciare lo strumentale paradigma.  Quello che, con “l’invasione russa del febbraio 2022”, ha spazzato dalla mappa della Storia una serie di eventi che rovesciano il mantra aggressore-aggredito.

Il colpo di Stato dell’inverno 20013-2014, allestito da Obama, gestito sul campo, a Piazza Maidan, dalla sottosegretaria neocon Victoria Nuland con squadre armate naziste, culminato con la cacciata del presidente neutralista Yanukovic. Il referendum del 14 febbraio nel Donbass vinto con oltre l’80% dai separatisti antifascisti russi. Ai quasi 100 morti di Maidan, si sono aggiunti le 14.000 vittime dei bombardamenti e delle incursioni ucraine contro il Donbass con i reparti nazisti di Azov e Privy Sector, dal 2014 al 2022, anno che ha visto l’intervento di Mosca in difesa dei russi. Chi è l’aggressore?

Presentavamo due nostri libri, il suo: “Le guerre che ti vendono”, e il mio “Uno sguardo dal fronte”. “Le guerre che ti vendono”, nel quale Sara ha profuso le sue esperienze e competenze di psicologa e psicoterapeuta, è un agile, ma irrinunciabile, manuale di istruzioni su come sfuggire alle sempre più sofisticate, violente e pervasive, tecniche di manipolazione della realtà da parte dell’omertoso aggregato politico-economico-militare-mediatico. Quello che ci si è insediato sul groppone a colpi di persuasione occulta, manifesta, coatta, volontaria, a schiaffoni, e che, nell’attuale fase dell’accumulazione, è fondata su vendita, acquisto e consumo di armi. Insieme alle quali vendono, comprano e consumano le nostre vite.

 

Come ti educo il pupo (da combattimento)

Guerre contro le quali il primordiale e ancora vivo e vegeto istinto di preservazione della specie ti fornisce un codice genetico che, diversamente da quello individuato da Nordio, impostato sui cazzotti alle donne, le guerre te le fa odiare e ripudiare meglio di qualsiasi carta costituzionale. Come si è potuto dimostrare quando nelle scuole, sequestrate dal duo Crosetto-Valditara, le ghirlande e le pailettes con cui “educatori con le stellette” hanno fatto la cosmesi a bombe e cingoli, sono state lacerate di netto dal 68% di NO dei ragazzi alla leva, volontaria, od obbligatoria che sia. Disastro di un marketing che si affanna di fiera in fiera, di liceo in liceo, di schermo in schermo. Perchè senza gente che induci ad amare le armi e poi a usarle, disponendosi perfino a farsele piovere addosso, a cosa serve fabbricare missili?

Qui i fomentatori di guerre devono affrontare un paradosso. Far paura della guerra degli altri contro te, far apparire nobile e bella la guerra tua contro gli altri. Il che comporta un’acrobazia dialettica –ovviamente costruita intorno all’asse manicheo degli assoluti bene e male – che renda conciliabile l’inevitabile dissonanza cognitiva con quanto sei riuscito a difendere della tua razionalità.

Sara Reginella ci ricorda come d’un tratto le guerre siano diventate umanitarie Quella dei nostri cent’anni le ho attraversate tutte. E mi è capitato di partecipare anche all’inaugurazione di quelle “umanitarie”: Serbia, 1999. Quella del Vietnam era ancora del tipo “portiamo la civiltà ai primitivi”. I quali, se comunisti, anche cattivi. Poi è tutto un difendere i valori umani, esportare la democrazia, far valere le regole, abbattere dittature, salvare minoranze, anzi interi popoli. Sempre accertandosi che siano così carini da servire da quinte colonne a noialtri: berberi in Algeria, albanesi in Kosovo, palestinesi alla Abu Mazen, curdi in Siria, Iran e Iraq, musulmani turcofoni in XinJang e, recentemente, perfino alcuni  Aymara dell’ex-rivoluzionario boliviano Evo Morales.

Persuasori Occulti

Quando nel 1957 Vance Packard, quarantatreenne insegnante di giornalismo all'Università di New York, con il suo “I persuasori occulti”, rivelò al grande pubblico che l'alleanza sempre più stretta tra analisi e pubblicità minacciava subdolamente, ma scientificamente, la libertà d'opinione su qualsiasi argomento, venne arruolato nella schiera dei più grandi allarmisti. Fu invece uno dei più grandi profeti, meglio, chiaroveggenti, del nostro tempo in metempsicosi.

Con la differenza, non sostanziale, che allora la tua percezione della realtà, bisogni compresi, veniva compressa da chi ti voleva far consumare. Oggi, e da un bel po’, la realtà che a te, pesce rosso nella boccia concava che ti deforma la realtà, viene imposta è sempre quella, ma si è di molto estesa. Un pensiero autonomo, aderente a come stanno le cose fuori dalla boccia, costa sempre più fatica. E i persuasori sono altri, ben oltre i pubblicitari, oggi forse la categoria di persuasori meno occulta, più scoperta e perfino onesta, nella sua dabbenaggine infantilista.e buonista.

Il nemico è un altro. Il subdolone, che ti fare vedere lucciole per lanterne e viceversa, è lui, è il Cingolani della minaccia, il Crosetto dell’emergenza bellica, il Cavo Er Baffo Dragone dell’irrinunciabile attacco per primo. Ovviamente non sarebbero che comparse, al massimo figuranti di terza fila, se alla loro sostanza inconsistente non desse corpo quell’armada di rapinatori della realtà di cui ci parlano Reginella e molti analisti. Rapinatori della realtà che, dai persuasori occulti di Packard, si sono evoluti in blocco politico-economico-mediatico, agente in assoluta comunità d’intenti, senza più sbavature alla vietnamita, o irachena, o perfino ancora afghana-

Le lacerazioni al tessuto di una opinione comune dettata, che i persuasori hanno subito in quelle irruzione di una Storia non controllata, ma anche in occasione di eventi sismici interni, come quel ’68 che ha percorso mezzo mondo per una decina d’anni rischiando di mettere a repentaglio tutto il fabbricato, e in parte riuscendoci, hanno accelerato i tempi e i modi della riorganizzazione e del consolidamento. Che, nel nostro caso non è neanche in prima linea quello del riarmo da far passare come necessità ineluttabile, corroborata da nobili virtù. Ma ciò che la rende possibile. La varietà e diversità dell’informazione, già ritenuta fisiologica, si è fatta catechismo, legge mosaica cantata in coro da poche voci..

I becchini dell’informazione? Quelli dei soldi.

 Pluralismo dell’informazione ieri e oggi

L’editore puro era morto e seppellito da decenni. Lo squallore speculativo e amorale di una casta amorale come la discendenza Agnelli, con la sua svendita all’armatore greco Kyriakou di quelli che passavano (imperfetto, se non passato remoto) per i più autorevoli giornali italiani, con tutte la panoplia multimediale del gruppo GEDI, non è che l’epifenomeno burino della globalizzazione delle testate. Una riduzione ad paucis, in poche mani, iniziata qualche decennio fa e fattasi parossistica negli ultimi anni.

Sette tra i più sfondati miliardari del mondo, tutti del mondo High Tech e dei Fondi di Investimento, da Zuckerberg a Bezos e Murdoch, da Fink a Page e Musk, erano già padroni dell’informazione, detta social per prenderci per il culo, ma dettata dal loro logaritmo. Ora, catturati giornali come il Washington Post, o il Los Angeles Times, si lanciano all’assalto di colossi multimediali come Warner, Paramount, CNN, Discovery, Disney (di Blackrock). Sono tutti, oggi, follower di Trump, e sono tutti amici di Israele, con in prima linea le famiglie Ellison e Adelson, senza i dobloni dei quali Trump la presidenza se la poteva sognare. Il grafico che illustra il passaggio, in 40 anni, da un grande pluralismo di informazione agli oligopoli di oggi, esplicita anche il passaggio dalla democrazia all’oligarchia.

Disinformo, faccio paura, faccio la guerra, zittisco tutti



Abbiamo alle spalle una certa esperienza di come il politico si inserisca in operazioni che si presentano – e a volte sono – basate su presupposti scientifici, ma i cui propositi scientifici finiscono col diventare strumenti politici. Eminentemente di disciplina sociale finalizzata a nuove forme di frantumazione sociale, dominio e sfruttamento. Come? Con la paura, arma fine del mondo.

L’AIDS e la coesione sociale, per quanto riguarda i rapporti tra i generi, travolta da sospetto e paure. Il terrorismo che, con l’islamofobia, ha rinnovato lo sconfitto razzismo colonialista d’antan e ha rilanciato un’era di guerre. Il Covid che, con lockdown e Green Pass, diventa il più grande esperimento di casermizzazione della società. Il cambio climatico, funzionale a sovvertire abitudini, imporre costi e agevolare alternative di modi di produzione con relativa eterogenesi dei fini, quando si scopre che migliaia di kmq di terra, aria, mare, muoiono sotto l’impatto delle “innovative”, mentre intere economie nazionali vanno in rovina (ultimissime dall’Antartide: crescita dei ghiacci e freddo senza precedenti. Da 1400 giorni temperatura sotto i 20°). E tocca rimediare buttandosi sulle armi (e quindi sulle guerre).

Tutta questa vera e propria discesa agli inferi, nella quale, come rivela il poeta, riconoscere noi stessi attraverso il nostro passato, non ci fa incontrare Farinata degli Uberti, o la Sibilla, o padre Anchise, o Agamennone e, con le loro, le nostre verità. Ci mette alla mercè di un Cerbero che ci mostra come, nell’era della Forza, sistemare gli infedeli. Nel caso specifico, azzannando Jacques Baud, l’ex-ufficiale svizzero che figurava tra i migliori analisti militari e geopolitici, tanto da essere scelto consulente dell’ONU. E chi ha azzannato questo prestigioso e rispettato signore? Ursula von der Leyen che, in quanto presidente della Commissione UE è capo dell’Esecutivo e come, nel caso Meloni, Macron, Trump, in quanto capo dell’esecutivo, è a capo di tutto, alla faccia della divisione dei poteri. Al diavolo legislatori e magistrati.

Saremmo dunque finiti nella fase in cui quel tale, Trump, ha toccato l’albero e ha fatto un suo “Tana liberi tutti” al contrario. Nel senso liberi non noi, ma loro. Liberi di utilizzarli tutti, i mezzi della coercizione, quelli psicologici e quelli fisici. Succede quando si accorgono che, a un certo punto, anche la paura più paura rischia di dissiparsi quando lo scontro con quanto ci è rimasto di intelligenza della realtà fa più male alla paura che all’intelligenza.  E allora la partita può anche riaprirsi e spuntare da qualche parte una Bastiglia, o un Palazzo d’Inverno.

Cingolani-Crosetto-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara, quintetto perfetto

Abbiamo parlato del duo Crosetto-Cingolani. Ma forse tocca parlare di un trio, Crosetto- Cingolani-Cavo Dragone. Dove l’uno è portavoce dell’altro e tutti abbisognano che noi si temi la guerra altrui e si ami la nostra, magari d’attacco. Ma, poi, solo di terzetto si tratta? E allora Piantedosi? Non è il caso di intravvedere, nell’alba dove muoiono i sogni, un quartetto? Come farebbe il terzetto a tirare dritto là dove punta il baffo umbertino, cioè l’eroico assalto, senza che qualcuno gli spiani la strada, visto che quelli della persuasione ci hanno lasciato troppi dossi? Ecco che tocca al ministro di polizia.

E’ nel nuovo ordine delle euro-cose che questa funzione si renda operativo locale di Ursula, la quale, istruita da quanto Trump ha inflitto a Francesca Albanese, ha appena comminato sanzioni invalidanti (niente soldi, niente conti in banca, niente viaggi, niente lavoro, ostracismo dal mondo) a chi non sputa quando sente dire Putin, o Hamas. Ed è solo l’inizio della morte civile comminata.al dissenso.

Senza che Mattarella lo avesse dichiarato ufficialmente (lui si occupa di confini violati, ma solo dai russi), le libertà costituzionali, e anche quelle ONU, OSCE e UE, sono morte. Giorno dopo giorno, sanzione dopo sanzione, la lista di proscrizione si allunga. Siamo al delitto di “connivenza col nemico”. Democraticamente, senza che tutto ciò coinvolga minimamente una roba obsoleta come tribunali e giudici. Basta un’Ursula, esecutivo. Un decreto.

Dunque habemus quartettum. E perché non quintettum? Che ne dite di un bel Crosetto-Cingolani-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara? Ah no? E allora a chi fareste chiudere il cerchio della persuasione volens-nolens, se non da uno cui spetta allestire l’indispensabile scambio formativo tra caserma e aula, scuola e leva, dio-patria-famiglia-moschetto? Un bel ministro dell’Istruzione e del Merito? Scambio scuola-lavoro che vada oltre la pratica dello svuota- bidoni, o stagista alla catena, ma renda i nostri ragazzi, quindi tutta la società, come ai tempi del Balcone, o come Merz-Blackrock:ha vaticinato al Reichstag: “kriegstuechtig” (*)?

(*) Abile alla guerra, agguerrito.

 

 

sabato 20 dicembre 2025

GIU’ LE MANI DALL’ASKATAZUNA!

Gli ossificati delle dottrine katechistiche, i rattrappiti nelle formule a ripetizione, i necrotici del fuori tempo massimo, gli ignavi e tutti ricorrano a quanto dispongono di reattività, coscienza, dignità, lucidità e manifestino ovunque e a livello nazionale contro la fascistizzazione di questo regime di corrotti e squinternati. Chi ha mostrato di saper organizzare, organizzi.

Lo sgombero dell’Askatazuna, un vertice dell’intelligenza antagonista, è la chiave di volta concreta e simbolica della disintegrazione della libertà in Occidente, è l’epitome del tentativo di chiudere definitivamente ogni spazio di contrasto, è un punto di non ritorno nazionale e internazionale della lotta di classe e della conquista della realtà.

L’ASKATAZUNA E’ UN PEZZO DI PALESTINA


E’ FASCISMO, COMUNQUE VOGLIATE CHIAMARLO.

Dopo il Leoncavallo (peraltro già autodomato), l’indomabile Askatazuna, avanguardia di popolo, da trent’anni presidio NO TAV dell’ambiente e della sovranità popolare, primo centro italiano di elaborazione politica, culturale, sociale, fucina di creatività antagonista di alto livello intellettuale, cuore pulsante di una resistenza antifascista rispetto a ceti dirigenti corrotti, prevaricatori, ignoranti, vermi usciti da sotto le macerie dei monumenti del fascismo abbattuti, per inquinare di degrado a tutti i livelli, la nazione, il popolo, la società lo Stato. Un piede di porco tra le ruote dello schiacciasassi assolutista.

Intanto gli squadristi di Casa Pound, manovalanza dell’operazione della prevalenza della forza sul diritto, della menzogna sulla verità, della violenza dei pochissimi sui tantissimi, restano intoccabili, bene in vista nel taschino di Piantedosi (là dove il modello Netanyahu porta il nodo scorsoio del cappio)

L’inaccettabile sopruso che il ministro camicia nera Piantedosi infligge senza soluzione di continuità, sul modello delle censure e delle sanzioni di un potere esecutivo europeo che, come quello italiano, pretende il silenzio e l’annichilimento dei giusti e liberi, esige una risposta di popolo.

La Flotilla ce l’ha insegnato. E’ sempre lo stesso nemico.

martedì 16 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi --- America Latina, la nuova Heartland --- EL CONDOR PASA… Y REPASA

 

Fulvio Grimaldi

America Latina, la nuova Heartland

EL CONDOR PASA… Y REPASA

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Noi e l’America Latina…

Due parole per chiarire il titolo. Heartland, cuore della Terra, o terra-cuore, era per il mitivo geopolitico USA Zbigniew Brzezinski, nella configurazione della sua Grande Scacchiera, la regione del mondo di cui un impero doveva essere in possesso. per potere esercitare un dominio globale. Si trattava delle immense aree interne dell’Eurasia. Da qui il confronto epocale con l’URSS, divenuto Guerra Fredda.

Ciò che ci ha fatto intendere Donald Trump, con le sue recenti dichiarazioni sui propositi strategici degli USA, è uno spostamento drastico dell’attenzione e delle intenzioni, dall’Eurasia vagheggiata dal politologo di Jimmy Carter, alla più vicina e concreta America Latina. Ce ne siamo accorti, noi italiani? Non crediamo di avere buoni motivi per interessarcene?

Penso che per una volta noi italiani, abituati a denigrarci, a non considerare e neppure a ricordare chi si è speso per il nostro paese e con eccellenti risultati (Guerre e lotte di liberazione tra ‘800 e Resistenza partigiana), possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Parlo della Palestina, di come siamo stati pronti e determinati a conoscerla, sostenerla, difenderla in tutti i creativi modi con cui ci siamo mobilitati in massa, traendone anche consapevolezza politica più vasta e profonda dell’ambito colonialista specifico. Bene, bravi, 7+.

Ma l’America Latina? A suo tempo un discreto movimento per Cuba, poi per il Venezuela molto di meno, qualcosina per il Nicaragua… In America Latina vivono oltre 1,5 milioni di italiani registrati all'AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero), con le comunità più numerose in Argentina (circa 870.000) e Brasile (oltre 470.000), secondo dati aggiornati a circa il 2021/2022, ma il numero totale di persone di origine italiana è molto più elevato, contando decine di milioni di persone (oriundi). In Venezuela gli italiani registrati sono 150mila, ma quelli che si dicono italiani sono almeno 1 milione. Erano cinque, ma sono venuti via in tanti dopo il cambio di paradigma imposto al paese dalla rivoluzione bolivariana di Chavez e Maduro che ha posto fine a una casta di privilegiati di cui imprenditori italiani erano protagonisti.

Allora, lasciando da parte fenomeni planetari ed epocali, tipo Palestina o il conflitto ucraino, com’è che l’annunciato assalto trumpista al Venezuela, paese di 28,5 milioni di abitanti, protagonista del più grande rivolgimento continentale, a rischio di finire come Gaza, non colma né le piazze, né gli schermi, né le pagine dei giornali? E del Nicaragua veniamo a sapere qualcosina, solo perché i vescovi cattolici locali, protagonisti di una controrivoluzione antisandinista scatenata dal solito mercenariato ONG, si dicono perseguitati e repressi dal regime?

Questa situazione di assenza, sconoscenza, ignavia, meticolosamente perseguita dal nostro sistema politico-mediatico integrato, quando non sia il caso di ripetere a pappagallo le calunnie inventate da qualche yankee vorace di risorse naturali, non è casuale e neppure innocente. L’America Latina, superato qualche soprassalto di interesse giovanile per le dittature del Condor kissingeriano e relative resistenze armate, e per la rivoluzione cubana, da tempo catalogata e archiviata, è roba yankee. Roba del padrone. Che non gradisce ingerenze e meno gli altri se ne occupano e più è padrone di occuparsene lui.

Tanto più che, con Trump, ha vigorosamente manifestato una nuova strategia; quella che mette al centro l’America Latina e le sue sconfinate risorse, con simultaneo abbandono dell’Europa, derelitta con poco in dispensa, che di risorse da rapinare non ne ha e che, anzi, a suo tempo ha fatto danno prevalendo nel campo della manifattura. Un rilancio della dottrina Monroe, controllo USA sull’emisfero, che ora qualcuno chiama “Donroe”.

Qui diamo uno sguardo a una serie di sviluppi di stretta attualità, ma che non sembra siano considerati, dai soloni mainstream della nostra geopolitica, degni di notizia o addirittura di approfondimento. E pensare quale scossone darebbe agli equilibri mondiali ì’ipotesi, seriamente studiata, di un canale nell’ istmo tra Caraibi-Atlantico e Pacifico tracciato in Honduras o Nicaragua, che sostituisca quello di Panama, nodo scorsoio nordamericano dai cui porti si sta cercando di cacciare i cinesi.

Anni ’70, non solo Pinochet

Chi era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella resistenza quelli che se ne videro messi in discussione  la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di piombo”.

Noi invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”, operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.

Il Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non sono necessariamente tutti dei Cavo Dragone), ci indicarono chi erano i nuovi nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in standby il fascismo, ci stavano di nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.

Gli anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto “Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo, Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.

Cile, la sinistra con le scarpe della destra

Jeanette Jara e Antonio Kast

Mentre scrivo, il risultato del ballottaggio presidenziale cileno non è ancora stato comunicato. Ma è difficile che ci siano sorprese, anche perchè tra i due contendenti, la prima arrivata, comunista, non ha dietro di sé che quel triste 27% del primo turno. Mentre l’avversario postnazista si avvale, oltrechè del suo 23,9% anche di quanto gli portano i successivi terzo, quarto e quinto del primo turno, tutti che non si distinguono essenzialmente che per le facce e gli abiti che portano. Quanto all’essenziale – che Cile, quali rapporti di classe, che fare dei residui del pinochettismo, mai del tutto rimossi dal predecessore Boric, come trattare la minoranza emarginata dei Mapuche, e, soprattutto come rapportarsi a chi da sempre, con le sue forze economiche, militari e d’intelligence, prova a determinare le stagioni del paese – le differenze sono quelle che trovi tra una ‘ndrangheta e una camorra.

In Cile è andata male. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi sommovimenti, soprattutto studenteschi contro il tardo, ma irriducibile, pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo, non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.

Così alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, già ministra del lavoro con Boric, ma appena col 27%. Al ballottaggio era data per scontata la vittoria del primo dei due pinochettisti duri, arrivati secondo e terzo. Il Contendente di Jara è Josè Antonio Kast, del fascistoide Partito Republicano, figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità” di rifugiati del Reich, arrivato al 24%. Sono noti i suoi stretti legami con il partito spagnolo dell’ultradestra VOX, anche intensamente frequentato dalla nostra premier Meloni: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”….

Il quarto arrivato, Johannes Kaiser, Partito Nazionale Libertario, stessa risma e stessa matrice, contribuisce col 14%.all’affermazione dell’estrema destra. Al potenziale 38% ottenuto dai due al primo turno si dovrebbe sommare il 12,4% di un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta di Pinochet e, forse, il sorprendente 19,71% dell’immancabile “populista”, Franco Parisi, “Partito della Gente”, riuscito a scalzare Kaiser dal terzo posto. Ci si prospetta un personaggio che si girerà a seconda del vento che sente tirare.

Quanto ai risultati delle contemporanee elezioni legislative, la tendenza a destra è confermata dalla sua avanzata nella Camera dei Deputati, con 155 seggi, e nel Senato, con 23 seggi su 50.

Con la destra al 70%, anche se per un miracolo dovesse ora arrivare in testa Jeanette Jara, con il suo controverso sforzo di ricupare il voto moderato, vecchia tara, il Cile che neppure il “sinistro” Boric è riuscito ad estrarre dalle secche del pinochettismo diffuso, più o meno mimetizzato, rimane saldo nelle mani dei suoi potentati economici. Salvo una rivoluzione, che però non è alle viste neanche nei programmi del Partito Comunista di Jara. Una preoccupazione di meno per chi ha messo al centro della propria strategia “detta di Sicurezza”, da leggersi come aggressivamente colonialista, la rinnovata dottrina Monroe.

Che poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame, litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, nel recinto del famigerato “cortile di casa” Cortile in cui dare spazio ai giochi estrattivi delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.

Honduras-Trump, golpe elettorale in corso

Mentre scrivo, in Honduras alle prese dal 30 novembre con le elezioni presidenziali, in seguito a una valanga di calcoli sbagliati, voti spariti e pesanti ingerenze di Trump, il caos è totale. Il Partito al governo, Libre, ha chiesto l’annullamento delle elezioni.

Nel nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton, irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras, paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee, libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Troppo gravi le problematiche strutturali economico-sociali, superate solo in misura ridotta. Il tasso di povertà è calato dal 75% al 60%, ma l’insicurezza alimentare colpisce 1,7 degli 11 milioni di honduregni, grazie anche ai danni ai raccolti prodotti da siccità e inondazioni.

Alle elezioni presidenziali del 30 novembre Rixi Moncada, candidata di LIBRE (Libertad e Refundacion), il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua moglie e presidente dal 2022, si è dovuta accontentare, dopo metà dei voti contati, di un deludente terzo posto, inchiodata al 19’18%. Segno di quanto poco la popolazione ha apprezzato la gestione del dopo-vittoria del 2022 da parte di Xiomara Castro. Ma segno, forse più forte, di   quanto possa  l’intervento di Trump in un paese formalmente sovrano.

I conteggi, diventati estenuanti e chiaramente oggetto di manipolazioni, rilevati anche dagli osservatori UE, hanno poi avuto degli sbalzi che però riguardavano le rispettive posizioni dei due arrivati in testa: Nasry Tito Asfura del Partido Nacional Conservador, grande palazzinaro, tycoon di riferimento dei 25 massimi gruppi economici della regione, sospinto senza pudore da Trump, e Salvador Nasralla, Partido Liberal, una specie di Zelensky dagli analoghi trascorsi da divo TV e per Trump seconda scelta. Quasi appaiati dopo i primi conteggi, 40% all’uno, 39,80%, insieme rappresentano una estrema destra di quasi l’80%, Che è oggi la forza della destra nel paese, intimamente legata ai narcos.

Trump, i narcos, quelli veri, non vengono bombardati

 Trump e Asfura

Non per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere Milei, mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere Milei.  Nel caso di Asfura è arrivato a esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex-presidente Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Incredibilmente, insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche questo suo intimo e probabile successore. Liberato dalla sua prigione a New York e trasferito a Tegucigalpa per sostenere il suo emulo nell’attuale corsa al primato, questo ex-presidente narcos è stato fatto immediatamente riarrestare, a esecuzione di un mandato dell’Interpol,  da un per niente intimidito ministro della Giustizia honduregno.

Va dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di LIBRE. Basta questa sua iperattività per determinare l’affermazione del candidato tracimante profumo di stupefacenti a mettere in evidenza cosa intenda Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel segno della “lotta al narcotraffico”? Con la denuncia della candidata apparentemente sconfitta, del suo partito e addirittura del Consiglio Nazionale Elettorale, responsabile della convalida dei risultati, di un golpe elettorale in corso, i giochi si sono riaperti. La situazione resta confusa, Il rifiuto di riconoscere i risultati provvisori della presidente uscente, Xiomara Castro, si fonda su dati concreti. Il meccanismo degli scrutini prevede un duplice conteggio: quello elettronico del TREP, che calcola i risultati preliminari e nella cui pancia pare siano scomparse alcune decine di migliaia di voti, e quella dei verbali con i dati anagrafici, biometrici e le firme degli scrutinatori, di cui altre migliaia appaiono prive di questi accertamenti.  Accuse di frodi e manipolazioni, avanzate dalla sinistra si esprimono adesso anche in tumulti di piazza.

Incurante di tutto questo, Trump accentua la sua partecipazione attiva a un processo che non sembra finire mai e assume caratteri surreali. Quando, a 10 giorni dal voto, i conteggi incominciavano a dare atto di un momentaneo superamento di Asfura, Partido Nacional, da parte del liberale Nasralla, a Trump meno gradito, altro intervento a gamba tesa: “Se non vince Asfura, voi narcocomunisti non vedrete più un dollaro di aiuti americani e andrete in rovina…”

Difficile fare la cronaca di un processo che sembra arrotolarsi su se stesso. Assistiamo a un grottesco susseguirsi di colpi di scena, con scoperte di voti sottratti, ricomparsi, svaniti, interferenze esterne sempre più pressanti, con minacce trumpiane fino al livello israeliano della fame come arma di guerra, tumulti popolari davanti alle sedi del potere nella consapevolezza che si sta portando avanti un oscuro tentativo di negare la volontà degli elettori, sospensione temporanea dei conteggi a quasi due settimane dal voto. Evidentemente per chi puntava su un recupero di questo paese uscito dall’orbita USA, la posta in gioco è molto grande.

Un popolo contro i suoi schiavisti

Juan Orlando Hernandez e papa Bergoglio

Quando arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.

Gli honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e partiva.

Un golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta

La resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese. Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della società civile.

Berta Caceres

 

Il contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone uccise, incarcerate, fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel 2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di sbarramenti artificiali programmati.

La situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez, boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentaneamente fuori gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a 50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.

Va aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fatti.

Di fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Rixi Moncada e gli esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e i vertici di LIBRE si erano, in un primo tempo, dichiarati disposti a riconoscere la sconfitta. Passando sopra le incredibili interferenze di Trump che, già da sole, avrebbero dovuto invalidare l’intero processo elettorale. Senza neanche arrivare allo scandalo dell’amnistia a un ex-presidente in galera per narcotraffico e del quale il probabile nuovo presidente si dice orgoglioso figlioccio.

Poi però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva registrato alcune forti anomalie. Le ho ricordate qui sopra. A una prima conta superano il mezzo milione di voti. Conteggi sospesi e addirittura comunità richiamate al voto. A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.

Si vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli mancheranno gli aiutini del Nord.

 

 

 

 

Ecuador, condor in bilico

 Rafael Correa con Julian Assange

L’Ecuador, se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 2017, da una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale, inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al paese.

Lenin Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti, rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione centrodestra e filo-yankee-

Nel 2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano, liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi. Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare qualche peso alle accuse di elezioni rubate.

C’è però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove prospettive  Rivelando una coscienza politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano cristallizzati.

 Daniel Noboa

Con un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump, un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei suoi padrini.

Noboa, che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti “gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio infausto del M5S, ancora grillino)

La risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal 54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione militare yankee.

Ciò che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei cittadini.

Dal punto di vista del “combattente antidroga” che ha fatto del tema lo strumento per la riconquista del subcontinente, Noboa rappresenta l’asset principale. Secondo inchieste internazionali, condotte anche da un’esperta ONU della sicurezza antidroga, Carla Alvarez, docente al Centro di Alti Sudi sulle Armi di Quito, con Noboa l’Ecuador si sarebbe convertito in una base per le operazioni del narcotraffico internazionale. Mascherato da imprese bananiere, facenti capo alla sua famiglia, e con l’intervento logistico di mafie balcaniche, il 70% della cocaina destinata a USA ed Europa, partirebbe dai porti ecuadoregni.

Con tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela. Davanti alle cui coste siamo arrivati, per grazia dei bombardieri USA, a 22 imbarcazioni di pescatori affondate con 87 assassinii extragiudiziali. E al sequestro di una petroliera venezuelana diretta a Cuba, per rifornire il paese amico di energia a condizioni di favore. Pirateria di Stato di cui nessun magistrato pare voglia occuparsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 9 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico --- Alla ricerca della Bastiglia --- OCCIDENTE DA CARCERARE

 



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Cosa ha detto dell’Europa lo squinternato capo dell’Impero. Sembrava Gino Bartali, che non dava scampo a correzioni: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Finita la nostra civiltà (anche per merito suo), finita la libertà, tutti censurati, una specie di Titanic alla vista dell’iceberg. E ha ragione, tutte le ragioni. La cosa grottesca, drammatica è che una condanna così, senza attenuanti, ci venga, mica da Putin, ma da uno come lui: Il diavolo che da del cornuto a Mefistofele.

Osvald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”. Libro epocale del 1923, opera in due volumi di filosofia della storia che mia madre mi diede da leggere quando avevo 10 anni. Era l’aprile del 1945, la guerra era persa e Churchill stava radendo al suolo una città d’arte dopo l’altra, senza più ombra di soldati. Colonia, Francoforte, Dresda, Lipsia, Monaco…Il Medioevo, il Rinascimento, il Barocco, il Guglielmino.  Gli eventi davano senso al libro. Per il filosofo tedesco le civiltà, analogamente all'organismo umano, possiedono le quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. Per lui, analista più che visionario, l’ultima era quella che stavamo attraversando noi. Et pour cause, come stiamo percependo con la chiarezza di un cristallo lucidato.

Intendendo per Occidente quello che intendiamo, cioè Stati Uniti al piano di sopra, Israele, nell’appartamento sullo stesso pianerottolo (occupato abusivamente), Europa nella dependance, con l’incarico di tener fuori dai cancelli i propri popoli. Il tutto dotato di un tasso di criminalità senza pari nella storia della specie. L’unica ad esserne provvista.

Ammiragli neologisti

L’idiotismo militarista ha assunto una frenesia psicotica che non conosce né limiti, né raziocinio. L’Ammiraglio ne ha dato prova.  Ci ha dato l’impressione di assistere a una telenovela sudamericana, ornato da baffoni alla Umberto,  appesantito sul lato sinistro, destro di chi guarda, da mezzo chilo di medaglie conquistate nelle eroiche e defatiganti battaglie in difesa della patria aggredita, invasa, occupata. Ieri, tramite un giornale di pari grado suprematista, il Financial Times, ha raccomandato che è il caso di attaccare prima di essere attaccati. La logica della cui asserzione sfugge insieme ai candidati che, nei sudati incubi notturni di Cavo Dragone, sono lì, pugnale nei denti, pronti ad attaccarci: kosovari? Quelli del Benin? I malesi con Sandokan?

O i russi? Questo, il medagliato dei mille eroismi, non l’ha detto, ma l’ha pensato. Innovatore neologista, ha abbandonato il nom de plume con il quale gli ammiragli di oggi, chiamano l’attacco: Difesa. La sua pensata è stata più temeraria, da vero soldato: ha detto pane al pane, vino al vino (molto) e, appunto, attacco all‘Attacco. Anche a quello che ancora i vari Merz, Macron, Starmer, Crosetto, da umoristi conservatori, chiamano Difesa. E dopo Cavo Dragone, non più. Tana, liberi tutti.

Ma siccome è arduo trovare ammiragli e generali che pensano, è da escludere che quel pensiero sia stato suo. E’ di tutti quelli, da noi eletti perché pensassero al nostro bene Infatti, di qua e di là dall’Atlantico, si vanno operando a prosciugarci anche dell’ultima goccia di sangue (mille grazie, era mediaticamente infetto da Covid) per farne cingoli di carro armato, ali di bombardiere, fosforo, uranio impoverito (di cui le nostre centrali nucleari non sanno come disfarsi), incantevoli prodotti per la guerra ibrida. Su tutti la I.A., meraviglia delle meraviglie, grazie alla quale moriremo credendo di essere stati uccisi da Putin, invece era uno che stamane aveva saltato la fila del cappuccino al bar perché ammiraglio.

Di questa cosa. con cui un ometto, accecatoci con il popo’ delle sue abbaglianti medaglie, ottenute nelle aggressioni di un’Alleanza consacrata difensiva, aveva celebrato la fine dell’era apertasi a Piazzale Loreto, se ne è parlato grazie a un furibondo Mattarella, guardiano della Costituzione e custode di noi tutti? Neanche un sospiro. Neanche del suo consigliere spifferone Garofani, caro a Schlein. Macchè. Se i macigni fatti rotolare sul quotidiano dei padroni anglosassoni hanno riverberato, se ne è parlato grazie a qualche eretico quotidiano e a qualche manifestamente spazientita trasmissione. Per quante ore? 48? 72? Non esageriamo. Se tace Mattarella, il silenzio è d’oro per tutti. Qualche cittadino che si vede consegnato dai pupari di un ammiraglio di cartapesta, ma luccicante, alla mira di un contractor False Flag, magari il solito, collaudato, jihadista (ora detto russo), potrebbe fare come i ragazzi, uomini, anziani ucraini che, pur di sfuggire ai rastrellatori di Zelensky, si mutilano di tre dita.

Al buon Cavo Dragone era stato assegnato il compito di aprire le dighe onde potessimo tutti essere irrigati di fervore patriottico e affogare sì, ma al suono del Piave che mormorò. Il clamore del motto “attaccare per primi”, lanciato dalla camarilla politico-mediatica dell’Occidente per voce di un souffleur nascosto da una balconata di medaglie, ha di colpo fatto ammutolire i fin ieri assordanti echi delle esplosioni di Hiroshima, Dresda, Saigon, Gaza, Baghdad, Damasco, Tripoli, Belfast, Kabul. Quelli che si erano rannicchiati nel nostro subconscio, a sentinella perpetua contro i guerrafondai della sempre rinnovabile accumulazione capitalista, quando le altre rapine hanno esaurito il bottino e serve un’emergenza per tenerci a testa china mentre passa quest’altra, di accumulazioni.

Dove vai se la False Flag non ce l’hai?

E tutto questiomicidiale ambaradan come hanno fatto a renderlo una normalità per gente nata e cresciuta nell’idea che nessuno mai avrebbe osato a mettere in dubbio il primato della pace? Almeno a casa nostra, che siamo quelli giusti e civili e democratici. Nemo problema. Basta far volare un paio di droni sui paesi baltici o scandinavi, far apparire un sommergibile russo dove aveva pieno diritto di stare, ma ha un’espressione molto minacciosa, scoprire in Canada un aerostato meteorico cinese, finitovi per il vento, colpire una casa polacca con un missile russo, che poi era ucraino, causare un piccolo ritardo al volo di Stato della Supercommissaria tedesca, dire che la Romania è stata sorvolata da un Mig ed ecco che siamo in piena guerra ibrida di Putin.

Come giurano coloro, esponenti di 6 milioni di europei, metà infelici russi, su 450, a cui abbiamo affidato il nostro destino militare, economico, geopolitico: Kallas, Estonia, Esteri e Sicurezza, Dombrovskis, Lettonia, Economia, Kubilius, Lituania, Guerra. Chi meglio di loro? Quasi quasi mi faccio rappresentare dal mio bassotto.

Naturalmente l’autenticità della paternità di queste “provocazioni” è pari a quella degli ordigni di termite piazzate nei vari piani delle Torri Gemelle lungo le strutture d’acciaio, i cui effetti sono stati fatti passare per quelli causati da finti aerei Boeing lanciati contro gli edifici.

Ma intanto è diventato normale, anzi necessario, che le infrastrutture europee – strade, ponti, aeroporti, porti, ospedali , scuole, caserme dei vigili del fuoco, edifici pubblici – venissero orientate a svolgere nuove funzioni determinate dai comandi ad annullamento di tutte le altre (è la Schengen militare); che ponti insensati venissero costruiti per farci scappare da chi ci attacca da sud e che fosse così stupido da non fare la prima cosa che andrebbe fatta, bombardare quel ponte; che la leva sostituisse una gioventù dissipata in scapestratezze, o addirittura in studi e lavori, facendola volontaria, semivolontaria, obbligatoria, (e lì che si andrà a finire), a sorteggio, a lotteria, a piacere, donne sì, non binari rigorosamente no.

E poi, subito subito, che soldati venissero in classe a raccontare ai bambini delle elementari la bellezza ecologica della difesa della patria (perennemente minacciata dai russi) e ai ragazzi delle superiori quanto dulce et decorum est pro patria mori. Ovviamente rompendo teste locali, di ragazzi come noi, che so, in Afghanistan, o Niger. O che, viceversa, bambini e ragazzi venissero in poligono a veder cosa ci vuole, col mitra, a fare secco un bersaglio a forma di uomo, o come sta bene la bimbetta di 5 anni con un bel giubbotto antiproiettile. O che alle fiere degli armamenti più sofisticati e lucidi, che nelle piazze vanno ormai sostituendo le sagre del vermicello, i presidi portassero, su ordinanza del ministro-generale Piantedosi, bimbetti e adolescenti perché provino il brivido di sedersi nel cockpit di un F-35 a immaginare di bombardare una città. Come bene insegnano i videogiochi.

Modelli dell’Occidente

Ce l’hanno insegnato loro. I virgulti prediletti. Modelli esibiti come madonne pellegrine ovunque ci fosse una telecamera. Lo Zelensky che pur di fornire la sua ghenga di rubinetti d’oro, acquisiti con quei nostri eurosoldi che avrebbero dovuto difendere, non un esercito di capri espiatori spendibili, ma un manipolo di nazisti ladri. Il Netaniahu che, pur di continuare a masticare bambini, donne, bipedi e quadrupedi di ogni genere, e terre, da sostituire con coloni al cui confronto Mengele, Attila, o Nikolaj Džurmongaliev, kazako considerato il peggiore serial killer della Storia. Non li teniamo forse in piedi con le nostre armi, i soldi dei nostri ospedali, scuole, case, i nostri sorrisi?

 

E allora l’eroico Zelensky’ per la cui “causa” ci siamo privati di miliardi in armi che avevamo pagato per diventare nostre strade, case, ospedali, scuole, pensioni e che lì sono diventati bancarelle dove l’entourage del presidente intascava miliardi per ville, cessi d’oro, o vendeva quelle armi al primo mafioso o terrorista interessati.

E allora Trump, The Donald? Quello che ci ha fatto disimparare che il diritto prevale sulla forza, teorizzando e praticando il contrario, sparando dazi, puttanate da energumeno attempato e un po’ andato e altre da vegliardo infantilito e, soprattutto, tirando cazzotti verbali e muscolari un po’ dove gli gira. Capo dell’Occidente, plurinquisito e pluricondannato per zozzerie, sodale di uno che, per aver fatto del ricatto sessuale ai potenti la tecnica di arruolamento del Mossad, rigurgito di angiporto quanto di orride speculazioni immobiliari, uno per il quale etica ed estetica si identificano con una Trump Tower in faccia al Cremlino e una Las Vegas piantata su scheletri lungo le coste di Gaza. Uno che se c’è da saccheggiare e rapinare, si fa la pace; in caso contrario si mandano flotte, aviazione, Marines e CIA per l’ennesimo olocausto.

In Argentina, che con Milei s’è vista ridotta al 57% di poveri assoluti, ha intimato: o lo rivotate presidente, o non vi faccio avere quei 40 miliardi di dollari con i quali qualche buccia di banana potrebbe ancora arrivarvi. In Honduras, per far fuori alle elezioni coloro che avevano sconfitto il colpo di Stato di Obama e Hillary, a forza di minacce analoghe (e forse di manomissione del sistema di trasmissione di dati) ha fatto arrivare primi due pendagli da forca della cosca di Juan Orlando Hernandez, ex presidente honduregno, condannato nel 2024 per narcotraffico e in galera negli USA.

E se il presidente dello Stato razzista, Herzog, può amnistiare un genocida come Netaniahu, non può forse il presidente degli USA amnistiare un boss del narcotraffico, Juan Orlando, ex presidente honduregno, condannato, “dai giudici comunisti di Biden” a 24 anni per narcotraffico, perché si riprenda la repubblica e la faccia tornare quella “delle banane”? Sempre che non ci pensi, forte di narcoinvestitura, Nasry Asfura, indicato proprio da Donald, che di Juan Orlando è il figlioccio. E pensare che gli honduregni, faro rivoluzionario del Centroamerica ci avevano messo 10 anni per liquidare la dittatura installata con il golpe di Obama e Hillary nel 2009.

Del resto, siamo stati sempre bravi adepti. Quanto sopra non ha nulla di qualitativamente diverso da ciò che Meloni, Nordio, Piantedosi, questa nostra meravigliosa triade, hanno fatto, nel nome della legge uguale per tutti, tranne quella della Corte Penale Internazionale, con il torturatore libico Almasri.

Etica del potere: conflitto di interessi

Stiamo con un monarca assoluto che, per la gioia di cultori e corifei della guerra dei ricchi contro i poveri, è come Giosuè che ordinava alla sua tribù egiziana nomade, ma vogliosa di terre, di non lasciare vivi né neonato, né agnello, né tutti coloro che li curavano. E che per legittimare tutto questo sta mettendo il conflitto d’interesse a capo di ogni cosa. Regola numero uno: senza conflitto d’interesse (agevolato dalla nostra abolizione dell’Abuso d’Ufficio) non si fregano gli interessati legittimi e non si governa nel segno dello spirito del tempo. Che soffia impetuoso per chi prima vende e poi compra, o viceversa. Tipo Crosetto, già capo dell’AIAD, Federazione dei produttori d’armi, poi suo ministro.

O tipo Cingolani, AD dell’industria della morte Leonardo, quello dello “Scudo di Michelangelo”, a imitazione dell’Iron Dome israeliano, abbondantemente bucato da iraniani e yemeniti. L’altro giorno ha detto le davvero fatidiche parole. ”Sono in conflitto di interessi, ma vi dico chiaramente che bisogna investire sulla difesa (la chiama ancora così), perché non sta finendo la guerra, sta iniziando la nuova guerra… e senza nuove tecnologie ci sterminano”.

Credete che vi sia stato un cronista che gli abbia chiesto: “Chi ci stermina?” Ma noi lo sappiamo: ci assalteranno gli arcieri della Papuasia. Non è forse che dal Sud, come previsto da Tajani, ci arriva la minaccia e che, dunque, non si può fare assolutamente a meno della via di fuga costituita dal Ponte. Il peggio dal punto di vista logica e ambiente, ma, perbacco, il migliore dal punto di vista delle bombe.

Ma tutto questo sono quisquilie. Saranno curate dal tempo, come le crepe ignorate che hanno fatto finire nel Bisagno 43 persone in attraversamento. Mica sono stati arrestati! Come quelli della Commissione e dell’Europarlamento, poi scudati dall’omertà parlamentare, almeno la Gualmini, per la Moretti si vedrà.

E per un Occidente al tramonto, secondo Spengler, e da carcerare secondo tutti noi, ecco che la rincorsa al fondo del buco nero della corruzione e del malaffare vede l’UE superare di qualche incollatura il padrino fondatore USA. E a noi italiani, ne incameriamo il merito, facendoci, come d’abitudine, riconoscere. I mejo fichi del bigoncio.

 

 

 

 

 

UE: un Italian Job dopo l’altro

Ci aveva insegnato qualcosa il Qatargate, quella robaccia per cui un paesuccolo, senza popolazione, ma con una famiglia regnante di alcune migliaia di sbafatori e un sottofondo di schiavi importati, aveva riempito di dollari, trovati a riempire sacchi a casa loro, una schiera di eletti al nostro sommo consesso legislativo continentale. Meriti?  I soliti: quelli di essere stati tanto gentili da non parlare male di un paese, anzi di esaltarne i diritti umani, dove le donne non esistono (e poi parlano dell’Iran, dove sono la maggioranza dei laureati) e gli uomini muoiono come le mosche cadendo dai malfermi ponteggi delle Grandi Opere (Mondiali di calcio del 22). E fu la decapitazione morale di una ciurma di venduti, quasi tutti italiani. Come anche, poco dopo, quelli del caso Huawei, politici e lobbisti che raccattavano mazzette per non far escludere la società cinese dallo sviluppo della rete.

Ma questo è niente, siamo al plus ultra del rilievo dei personaggi e del carico di malaffare. Tanto da imporre sbalorditivi arresti (con rilasci veloci, come conviene in quei casi, ma processi duri a venire). Federica Mogherini, nientepopo’ di meno che ministra degli Esteri di Draghi (come stupirsi!) e poi addirittura Vicepresidente UE e Lady PESC (Commissaria  Esteri UE), e, fino all’arresto, capa del Collegio d’Europa Bruges. E di seguito, a colmare la discarica, Stefano Sannino ambasciatore, Cesare Zegretti dirigente Accademia UE e Capo Commissione per Medioriente e Nordafrica. Tutti nostri concittadini che avrebbero frodato, si sarebbero fatti corrompere o avrebbero corrotto in materia di appalti, in vista della nuova accademia per diplomatici europei, nel segno immarcescibile del conflitto d’interessi. Certo, come è che si biascica in questi casi? “Piena fiducia nella magistratura, ci mancherebbe. Chiarirò tutto”.

Nell’immondezzaio, poi, si sarebbero trovati in confortante compagnia di connazionali. I veterani del Qatargate con tanto di infiltrazioni marocchine. Con molta calma, e con pieno sconcerto del garantista Nordio, la Procura Federale di Bruxelles è arrivata a disporre la revoca dell’immunità parlamentare ad Alessandra Moretti, ma, pietosamente, non per Elisabetta Gualdini (entrambe PD). Nell’inchiesta hanno raggiunto l’eurodem Pier Antonio Panzeri, l’allora vicepresidente del Parlamento Eva Kaili e Francesco Giorgi, assistente del primo e compagno della seconda. Per rinfoltire la combriccola vi sopravvivono ancora Andrea Cozzolino, arrestato, Marc Tarabella e Maria Arena tutti trovati con colline di soldi in casa. L’iter è tuttora in corso.

Il pantano degli squali (chiedendo scusa a quelli con le pinne)

Tutto, del resto, nasce all’insegna della corruzione, della degenerazione legale, del nepotismo e amichettismo, della sopraffazione. A partire dall’ineffabile baronessa acquisita, von der Leyen, da ministro della Difesa nella Bundesrepubblik inquisita per un amichettismo che concorre con i vertiginosi primati del regime meloniano. Aveva reclutato per il suo ministero più consulenti, superpagati, ma di dubbia competenza, di quanti cortigiani avesse radunato il Re Sole. Non se ne è parlato più. Come non si parla più dell’oscenissimo Pfizergate. L’accordo tra Ursula e il compare Bourla per miliardi di nostri euro in cambio di miliardi di vaccini (in buona parte buttati), concordati in camera caritatis chattiana tra questa gatta e questa volpe. SMS che, quando qualcuno nel parlamento si è svegliato dal torpore euroindotto e ne ha chiesto ragioni e prove, non c’erano più. Ursula li aveva cancellati. Robetta, scambi tra innamorati. 

Ma oggi grazie al Belgio, la cui magistratura non si è trovato di fronte, a spingarda puntata, un qualche tonitruante Nordio, si è arrivati all’esito che in qualche modo conferma l’inequivocabile realtà del tramonto dell’Occidentale: l’arresto di intoccabili grazie a una legge che, mentre sotto Meloni, Trump, Netanyahu o Zelensky, deve essere uguale solo per chi si fa pestare dalle loro scarpe, per gli incorreggibili eurogiudici e quelli belgi resta ancora quella antica, uguale per tutti.

A questo punto toccherebbe trovare la Bastiglia. Ma la Bastiglia dov’è? Qualcuno ce la sa indicare?