lunedì 3 febbraio 2025

L’asse terrestre spostato dai palestinesi --- --- HA PERSO CHI HA VINTO

 

 Zakaria Zubeidi, leader delle Brigate di Al Aqsa, fondatore e direttore del “Teatro della Libertà” a Jenin, nel momento della sua liberazione.

Per il “Ringhio del bassotto” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi

https://youtu.be/G4TbIgcBGNo

Medio Oriente: ha perso chi ha vinto - Il ringhio del bassotto, con Fulvio Grimaldi

 

Partiamo dalla constatazione del trionfo registrato da Hamas, a nome, nel segno e per merito del popolo palestinese di Gaza e dalla speculare sconfitta strategica di chi si era assegnato ottant’anni di vittorie. Poi vedremo che cosa c’è da prendere e cosa da buttare delle smargiassate della coppia di bulli che va ora riunendosi a Washington per organizzare una qualche soluzione B.

L’evidenza della vittoria di Hamas è abbagliante. Partito politico che nasce e si sviluppa con crescente consenso popolare, al punto da vincere, 2006, le ultime elezioni che ANP e Abu Mazen hanno permesso nei territori occupati. Poi forza armata di Resistenza sostenuta quasi esclusivamente dal proprio popolo, in condizioni di sostanziale isolamento politico per quanto riguarda la dimensione internazionale, araba e islamica. Ciò che arrivava dal Qatar e che l’Egitto lasciava passare non cambiava nulla sul piano strategico.

 Una forza politica e sociale ridotta a operare come talpe sottoterra, ma che resiste, opponendosi in termini validissimi, dolorosissimi per un esercito pure abituato a fare da rullo compressore incontrastato (salvo in Libano nel 2006, cacciato da Hezbollah nel giro di un mese). Un’aggressione dai caratteri apocalittici, armata da buona parte dell’Occidente politico, ha ridotto a suolo lunare lo spazio vitale del suo popolo, facendo ricorso a tutti gli strumenti – bombe, fosforo, fame, negazione di sanità, inquinamento, carcerazioni di massa - per un genocidio che imponesse la resa e l’annientamento delle sue difese.

E, a fronte, un paese che sta in piedi grazie alle continue trasfusioni fattegli dal fratello grosso. Un paese la cui capacità operativa mantiene una certa efficienza grazie alla facoltà, garantitagli dal fratello grosso, di far piovere morte e distruzione illimitate dal cielo. Ma anche un paese  la cui superiorità è stata profondamente compromessa, sul piano materiale come su quello morale, dai rovesci subiti, a Gaza come in Libano, nel confronto militare sul terreno.

La situazione di Israele, che ha dovuto rinunciare a quanto si era ripromesso di ottenere dallo scatenamento di una guerra senza limiti e senza scrupoli, è segnata da una crisi esistenziale dello Stato e della società. Il regime si regge a fatica contro un rifiuto di massa che si manifesta in un interrotto assedio alle sedi del Potere. Un potere anche inseguito, nella figura del suo capo, da ineluttabili esiti processuali. Fuggono a centinaia di migliaia gli immigrati, fuggono gli investitori, si inceppa una delle più floride e avanzate economie in seguito al passaggio coatto nell’esercito, da uffici, officine e centri di ricerca, delle sue forze professionali più qualificate.

L’operazione “Alluvione di Al Aqsa” del 7 ottobre, prescindendo dalla ricostruzione mediatica israelo-occidentale, dimostra, alla luce degli esiti, la grande intelligenza politica di chi l’ha ideata. Donald Trump, che ora ci riprova, nel suo primo mandato era riuscito ad avviare, dopo decenni di tentativi non risolutivi (Camp David, Oslo), quella sparizione della questione palestinese, nodo cruciale del postcolonialismo globale, che doveva costituire l’abbrivio della normalizzazione regionale. E la ripartenza della marcia verso Eretz Israel.

I suoi Accordi di Abramo con quattro importanti Stati arabi (Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco) che, sullo sfondo della paralisi della Siria invasa, avrebbe dovuto avviare questo processo e perfezionarsi a breve con l’ingresso, strategicamente determinante, dell’Arabia Saudita, sono saltati per aria insieme ai centri di comando israeliani ai valichi di Gaza assaltati da Hamas.

Con il 7 ottobre, una Palestina alla quale si era pensato di aver tagliato voce, capacità di iniziativa, riferimenti esterni, presenza nella coscienza collettiva, al punto da ridurla a un residuo della Storia, più vittima per cui penare caritatevolmente che soggetto cui riconoscere diritti di lotta e di riscatto. è ripiombata con forza incontenibile sullo scenario mondiale. Più di quanto era riuscita a fare con due sollevazioni di massa pluriennali, le intifade. L’eco che questo evento cataclismatico ha suscitato, è riverberato di continente in continente. Il grumo criminale al potere aveva creduto di superare l’affronto alla sempre vantata sicurezza, trasformandolo in occasione per la “soluzione finale”. La soppressione fisica del suo protagonista.

Ma, alla lunga, se il blitz non chiude la faccenda, operazioni di tale portata hanno bisogno di partecipazione politica, morale ed emotiva ad amplissimo raggio. In effetti, questa si è manifestata, ma in senso contrario a quella che si immaginava, assicurata dal vittimismo strutturale costruito sull’olocausto.

Un popolo che, organizzato dalle sue avanguardie combattenti e con esse coincidente, marcia a centinaia di migliaia a riprendersi le sue case e cose, i suoi luoghi, i suoi cimiteri, la sua memoria, per quanto in frantumi, secondo il giornale israeliano Haaretz è invincibile.

La risposta offerta da Trump ai suoi sodali fasciosionisti è di una tracotanza che solo lo smarrimento dettato dagli eventi può aver determinato. “Ripuliamo Gaza di quella roba”. E “mandiamoli in Giordania ed Egitto”. Immaginare che governi possano aderire a un progetto che li renderebbe inconciliabili in eterno con la propria popolazione, con ogni singolo cittadino arabo o musulmano, oltre a destabilizzare ogni prospettiva di coesione sociale e di rispettabilità internazionale.

A Rafah ho potuto vedere a cosa era disposto il popolo egiziano. Chilometri dal valico a Suez con centinaia di Tir allineati in attesa di entrare a Gaza, colmi di aiuti per decine di migliaia di tonnellate che i cittadini di questo paese avevano raccolto, spesso a proprie spese. Tutte le ambulanze del paese erano state mandate a raccogliere i feriti che dalla Striscia erano potuti uscire. Medici e infermieri di primissima qualità per competenza e passione, in ospedali che a noi risulterebbero avveniristici, si impegnavano in turni massacranti per curare centinaia di bambini giunti con amputazioni infette, denutrizione, tumori da mesi non curati. Ricordo le lacrime di un giovane ortopedico che si affannava attorno a una bambina con due schegge nel torace.

Vorrei vedere, con una simile gente, cosa succederebbe a un governo che accettasse di soccombere al ricatto dei responsabili di tutto questo.

E infatti, la risposta è stata immediata, ferma ed univoca. Non è però detta l’ultima parola.

Verranno messe in atto, specie nei confronti dell’ostacolo egiziano, le più sporche operazioni di destabilizzazione degli specialisti della corruzione, dei colpi di Stato, delle rivoluzioni colorate. Si attiveranno ONG, accreditate tra i benpensanti per aver aggrottato le ciglia sugli stermini di bambini a Gaza, ma che su ciò che spiana la strada ai diritti umani come concepiti a Langley sanno come muoversi.

Amnesty International ha tempestivamente diffuso un rapporto sui “gravi limiti alla libertà d’espressione e alle cadute democratiche” che segnerebbero, nell’Egitto di Al Sisi, la sorte degli oppositori. Human Rights Watch, quella del “viagra dato da Gheddafi ai suoi soldati per stuprare meglio le donne libiche”, non è da meno. Ci ricordiamo come siano girevoli le porte tra queste ONG e il Dipartimento di Stato USA? Da Google ce lo evidenzia, per esempio, Suzanne Nossel, collaboratrice di Hillary Clinton. Quella che esultava sul corpo martoriato di Gheddafi. Quella del golpe in Honduras. Quella di Maidan a Kiev.

Noi, intanto, ci siamo portati da tempo avanti col lavoro con il nostro Giulio Regeni.

 

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