Zakaria Zubeidi, leader delle Brigate di Al Aqsa, fondatore e direttore del “Teatro della Libertà” a Jenin, nel momento della sua liberazione.
Per il “Ringhio del bassotto” Paolo Arigotti intervista
Fulvio Grimaldi
Medio Oriente: ha perso chi ha vinto - Il
ringhio del bassotto, con Fulvio Grimaldi
Partiamo dalla constatazione del trionfo registrato da
Hamas, a nome, nel segno e per merito del popolo palestinese di Gaza e dalla
speculare sconfitta strategica di chi si era assegnato ottant’anni di vittorie.
Poi vedremo che cosa c’è da prendere e cosa da buttare delle smargiassate della
coppia di bulli che va ora riunendosi a Washington per organizzare una qualche
soluzione B.
L’evidenza della vittoria di Hamas è abbagliante. Partito
politico che nasce e si sviluppa con crescente consenso popolare, al punto da
vincere, 2006, le ultime elezioni che ANP e Abu Mazen hanno permesso nei
territori occupati. Poi forza armata di Resistenza sostenuta quasi
esclusivamente dal proprio popolo, in condizioni di sostanziale isolamento
politico per quanto riguarda la dimensione internazionale, araba e islamica. Ciò
che arrivava dal Qatar e che l’Egitto lasciava passare non cambiava nulla sul
piano strategico.
Una forza politica e
sociale ridotta a operare come talpe sottoterra, ma che resiste, opponendosi in
termini validissimi, dolorosissimi per un esercito pure abituato a fare da
rullo compressore incontrastato (salvo in Libano nel 2006, cacciato da
Hezbollah nel giro di un mese). Un’aggressione dai caratteri apocalittici,
armata da buona parte dell’Occidente politico, ha ridotto a suolo lunare lo
spazio vitale del suo popolo, facendo ricorso a tutti gli strumenti – bombe, fosforo,
fame, negazione di sanità, inquinamento, carcerazioni di massa - per un
genocidio che imponesse la resa e l’annientamento delle sue difese.
E, a fronte, un paese che sta in piedi grazie alle continue
trasfusioni fattegli dal fratello grosso. Un paese la cui capacità operativa
mantiene una certa efficienza grazie alla facoltà, garantitagli dal fratello
grosso, di far piovere morte e distruzione illimitate dal cielo. Ma anche un
paese la cui superiorità è stata
profondamente compromessa, sul piano materiale come su quello morale, dai rovesci
subiti, a Gaza come in Libano, nel confronto militare sul terreno.
La situazione di Israele, che ha dovuto rinunciare a quanto
si era ripromesso di ottenere dallo scatenamento di una guerra senza limiti e senza
scrupoli, è segnata da una crisi esistenziale dello Stato e della società. Il
regime si regge a fatica contro un rifiuto di massa che si manifesta in un interrotto
assedio alle sedi del Potere. Un potere anche inseguito, nella figura del suo
capo, da ineluttabili esiti processuali. Fuggono a centinaia di migliaia gli
immigrati, fuggono gli investitori, si inceppa una delle più floride e avanzate
economie in seguito al passaggio coatto nell’esercito, da uffici, officine e
centri di ricerca, delle sue forze professionali più qualificate.
L’operazione “Alluvione di Al Aqsa” del 7 ottobre,
prescindendo dalla ricostruzione mediatica israelo-occidentale, dimostra, alla
luce degli esiti, la grande intelligenza politica di chi l’ha ideata. Donald
Trump, che ora ci riprova, nel suo primo mandato era riuscito ad avviare, dopo
decenni di tentativi non risolutivi (Camp David, Oslo), quella sparizione della
questione palestinese, nodo cruciale del postcolonialismo globale, che doveva
costituire l’abbrivio della normalizzazione regionale. E la ripartenza della
marcia verso Eretz Israel.
I suoi Accordi di Abramo con quattro importanti Stati arabi
(Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco) che, sullo sfondo della paralisi della
Siria invasa, avrebbe dovuto avviare questo processo e perfezionarsi a breve
con l’ingresso, strategicamente determinante, dell’Arabia Saudita, sono saltati
per aria insieme ai centri di comando israeliani ai valichi di Gaza assaltati
da Hamas.
Con il 7 ottobre, una Palestina alla quale si era pensato di
aver tagliato voce, capacità di iniziativa, riferimenti esterni, presenza nella
coscienza collettiva, al punto da ridurla a un residuo della Storia, più
vittima per cui penare caritatevolmente che soggetto cui riconoscere diritti di
lotta e di riscatto. è ripiombata con forza incontenibile sullo scenario
mondiale. Più di quanto era riuscita a fare con due sollevazioni di massa
pluriennali, le intifade. L’eco che questo evento cataclismatico ha suscitato,
è riverberato di continente in continente. Il grumo criminale al potere aveva creduto
di superare l’affronto alla sempre vantata sicurezza, trasformandolo in occasione
per la “soluzione finale”. La soppressione fisica del suo protagonista.
Ma, alla lunga, se il blitz non chiude la faccenda,
operazioni di tale portata hanno bisogno di partecipazione politica, morale ed
emotiva ad amplissimo raggio. In effetti, questa si è manifestata, ma in senso
contrario a quella che si immaginava, assicurata dal vittimismo strutturale
costruito sull’olocausto.
Un popolo che, organizzato dalle sue avanguardie combattenti
e con esse coincidente, marcia a centinaia di migliaia a riprendersi le sue
case e cose, i suoi luoghi, i suoi cimiteri, la sua memoria, per quanto in frantumi,
secondo il giornale israeliano Haaretz è invincibile.
La risposta offerta da Trump ai suoi sodali fasciosionisti è
di una tracotanza che solo lo smarrimento dettato dagli eventi può aver
determinato. “Ripuliamo Gaza di quella roba”. E “mandiamoli in Giordania ed
Egitto”. Immaginare che governi possano aderire a un progetto che li renderebbe
inconciliabili in eterno con la propria popolazione, con ogni singolo cittadino
arabo o musulmano, oltre a destabilizzare ogni prospettiva di coesione sociale
e di rispettabilità internazionale.
A Rafah ho potuto vedere a cosa era disposto il popolo
egiziano. Chilometri dal valico a Suez con centinaia di Tir allineati in attesa
di entrare a Gaza, colmi di aiuti per decine di migliaia di tonnellate che i
cittadini di questo paese avevano raccolto, spesso a proprie spese. Tutte le
ambulanze del paese erano state mandate a raccogliere i feriti che dalla
Striscia erano potuti uscire. Medici e infermieri di primissima qualità per
competenza e passione, in ospedali che a noi risulterebbero avveniristici, si
impegnavano in turni massacranti per curare centinaia di bambini giunti con
amputazioni infette, denutrizione, tumori da mesi non curati. Ricordo le
lacrime di un giovane ortopedico che si affannava attorno a una bambina con due
schegge nel torace.
Vorrei vedere, con una simile gente, cosa succederebbe a un
governo che accettasse di soccombere al ricatto dei responsabili di tutto
questo.
E infatti, la risposta è stata immediata, ferma ed univoca. Non
è però detta l’ultima parola.
Verranno messe in atto, specie nei confronti dell’ostacolo
egiziano, le più sporche operazioni di destabilizzazione degli specialisti
della corruzione, dei colpi di Stato, delle rivoluzioni colorate. Si
attiveranno ONG, accreditate tra i benpensanti per aver aggrottato le ciglia
sugli stermini di bambini a Gaza, ma che su ciò che spiana la strada ai diritti
umani come concepiti a Langley sanno come muoversi.
Amnesty International ha tempestivamente diffuso un rapporto
sui “gravi limiti alla libertà d’espressione e alle cadute democratiche” che
segnerebbero, nell’Egitto di Al Sisi, la sorte degli oppositori. Human Rights
Watch, quella del “viagra dato da Gheddafi ai suoi soldati per stuprare meglio le
donne libiche”, non è da meno. Ci ricordiamo come siano girevoli le porte tra queste
ONG e il Dipartimento di Stato USA? Da Google ce lo evidenzia, per esempio,
Suzanne Nossel, collaboratrice di Hillary Clinton. Quella che esultava sul
corpo martoriato di Gheddafi. Quella del golpe in Honduras. Quella di Maidan a
Kiev.
Noi, intanto, ci siamo portati da tempo avanti col lavoro
con il nostro Giulio Regeni.
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