martedì 4 novembre 2025

Il 7 ottobre come Rashomon --- IL GIORNO E LA STORIA

 


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Tregua sì, tregua no, tregua bombe

Alla luce della sempre più evidente mancanza di serietà e affidabilità di ciò che l’uomo-bluff dice, o dice di fare, del carattere strumentale e propagandistico di quasi tutte le sue bombastiche mosse - segno tragico dei tempi, anche in Europa e a casa nostra – vediamo di ritrovare un po’ di sostanza passando dal piano tattico, che l’improvvisatore di trovatone e trovatine ci impone, a quello strategico. L’andazzo che il mondo aveva preso su una delle questioni che l’accompagnano e segnano da quasi un secolo, Palestina o non Palestina, ha preso improvvisamente un abbrivio e ha cambiato in profondità ogni cosa, ben oltre la circoscritta questione mediorientale. Mi riferisco al 7 ottobre 2023, di cui molto s’è detto su questa testata, ma guardando stavolta alle sue ricadute che non finiscono di mettere in discussione ogni apparente equilibrio.

“Rashomon” è il titolo del capolavoro cinematografico di Akira Kurosawa. Un film che ha segnato un’epoca della settima arte e ci ha messo di fronte al drammatico quesito se possa mai esistere una verità definitiva. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano sull'assassinio di un samurai e sullo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. All’uscita del film si è parlato a lungo di un “effetto Rashomon”. Per chi conosce Pirandello, a partire da “Così è se vi pare”, le cose sono ancora più oscuramente chiare.

“L'effetto Rashomon”, proprio come Pirandello, descrive lo sconcertante dato per cui differenti testimoni, o commentatori, descrivono lo stesso evento in modo soggettivo, totalmente diverso e contrario rispetto agli altri, formulando ognuno una interpretazione, determinata dal proprio interesse e, eventualmente, dalla propria posizione morale, ideologica, sociale, politica. Un relativismo che rischia di rendere irraggiungibile le verità oggettiva.

Relativismo che, oltre alla strumentale deformazione israeliana, quella di hasbara, vale per gli eventi del 7 ottobre, dove a distanza di due anni e, forse, per sempre, le verità variano a seconda di chi ci è stato, chi ha operato, chi è intervenuto, chi ha subito, chi ha testimoniato, chi ha indagato. E perfino all’interno di queste categorie il racconto diverge.

Della “sindrome Rashomon” ho avuto dimostrazione in occasione del Convegno internazionale su sionismo e problematiche connesse, organizzato a Roma il 25 ottobre scorso dal Fronte del Dissenso. Il mio intervento, centrato su un’analisi della resistenza palestinese a Gaza a partire dagli eventi del 7 ottobre 2023, ha stimolato le solite domande e obiezioni con cui uno si deve misurare quando esce dalla narrazione maggioritaria. Eminentemente quella che nega a Hamas paternità indipendente e autonomia di ideazione ed esecuzione dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa”.

Il 7 ottobre e hasbara

 

Il racconto diffuso da Hasbara, l’informazione come diffusa da Israele, secondo cui una torma di sanguinari terroristi si sarebbe avventata su pacifici cittadini e su giovani che ballavano, compiendo ogni sorta di nefandezze, viene ripetuta pedissequamente solo da chi è chiamato, o vocato, a puntellare comunque ciò che dice Israele. A dispetto del rifiuto categorico del regime israeliano di autorizzare un’inchiesta indipendente, il che già dice molto, e a dispetto di una serie di inchieste, anche di media israeliani, condotte alla mano di video, sopraluoghi e testimonianze.

Sono così svaporate le storie più truculente, subito diffuse da centrali e ripetitori dell’hasbara. La realtà di una battaglia fra i combattenti che intendevano far prigionieri dei coloni nei Kibbutz per poi scambiarli con detenuti palestinesi, è corroborata dall’adozione della dottrina “Hannibal”, confermata da politici e militari dell’IDF. Dottrina che impone di impedire in ogni modo che il nemico possa catturare ostaggi, a costo di uccidere i sequestrati insieme ai sequestratori. Il relativo ordine venne trasmesso agli elicotteri e carri armati intervenuti in modo caotico dopo le ore della paralisi dovuta alla sorpresa e alla neutralizzazione dell’apparato di difesa israeliano. Le centinaia di auto bruciate, gli edifici sventrati e ridotti in macerie, mentre vi si trovavano sia i coloni residenti, sia quelli di Hamas, testimoniano di bombardamenti che non si possono far risalire agli RK 47 e agli RPG, armi leggere degli incursori.

Kibbutz distrutto

 

Qui non interessano tanto le varianti nei resoconti dei fatti quanto i dubbi, persistenti soprattutto tra le fila di chi è schierato dalla parte dei palestinesi. Dubbi che originano dalla convinzione della insuperabile potenza di Israele, garante della sua invincibilità. Certezza rafforzata dalla rappresentazione che, per oltre un secolo ha dato di sè lo Stato ebraico.

La storia lontana e vicina di Israele offre valide smentite a questo mito. Nel 2003, guerra del Kippur, Israele, colpito di sorpresa, si vide vicino al collasso, al punto che Moshè Dayan, ministro della Difesa, considerò l’uso dall’arma atomica e che sugli attaccanti dovettero intervenire gli USA, anche politicamente, per porre riparo al tracollo. Sia nel 2000 che nel 2006, Hezbollah costrinse Israele a un umiliante ritiro dal Libano. Nello scambio di missili tra Israele e il cuore dell’”Asse del male”, Tehran, le ferite di Israele, a dispetto dell’assistenza contraerea di USA e petromonarchie, risultarono più gravi di quelle iraniane e hanno richiesto l’intervento aggiuntivo di Washingto. Il mitico Iron Dome è stato ripetutamente bucato anche dai razzi Hezbollah, come dai missili e droni yemeniti.

Hamas-Israele, collisione o collusione?

Il 7 ottobre si verifica sullo sfondo della sproporzione di forze tra “il più potente apparato militare della regione” con i suoi “più efficienti servizi di intelligence del mondo”, e i gruppi guerriglieri di un carcere a cielo aperto, assediato, sorvegliato, invaso e devastato ogni due per tre. Questa sproporzione fornisce gli antecedenti storici funzionali all’interpretazione del 7 ottobre. Quella di una resistenza palestinese islamica fatta nascere negli anni ‘80 per ridurre il ruolo dei laici di Al Fatah e dell’OLP, chiudendo un occhio sulla sua crescita politica. Finanziata, con il consenso di Tel Aviv, dal Qatar e, dunque, resa operativa anche militarmente, ma nella misura concessa da Tel Aviv: razzi poco distruttivi lanciati da Gaza, che in compenso giustificavano la ritorsione in forma di periodiche, devastanti, invasioni, a partire da Piombo Fuso. Questa, vera prova generale del successivo genocidio, l’ho vissuta sul campo e descritta nel documentario “Araba fenice, il tuo nome è Gaza”

A forza di rappresentare Hamas e i suoi alleati, Jihad e FPLP, come minaccia mortale alla sicurezza di Israele, Israele si preparava alla “soluzione finale”. Così Hamas, almeno oggettivamente connivente, secondo questa teoria, avrebbe lanciato l’attacco “terrorista” del 7 ottobre offrendo ai sionisti e al loro sostegno internazionale l’atteso pretesto per la programmato “soluzione finale”. Con il beneficio collaterale, per il premier israeliano, di scampare, grazie all’interminabile emergenza guerra, ai processi per corruzione e malversazioni varie che gli avrebbero stroncato la carriera.

Meno drastici sull’implicita riduzione della Resistenza palestinese a utile idiota della strategia israeliana sono coloro, i più numerosi e irriducibili, secondo i quali, l’operazione “Alluvione di Al Aqsa”, non sarebbe stata concordata tra i due contendenti, ognuno alla ricerca di un suo vantaggio, ma da parte di Israele “si sarebbe lasciata accadere”. Numerosi segnali di preparativi sarebbero stati recepiti ed elaborati dagli infallibili servizi di sorveglianza israeliani, ma non avrebbero innescato alcun intervento preventivo. Grazie all’effetto “terrorismo islamico”, potenziato dalle vittime di “Hannibal”, governi amici e opinione pubblica avrebbero condiviso la rappresaglia, a dispetto delle sue dimensioni spaventose.

Che non sia andata proprio per niente come ipotizzato da quelli per i quali “hanno fatto”, o dagli altri secondo cui “hanno lasciato fare”, lo dimostrano le ricadute di quell’operazione e di quanto questo sasso nello stagno ha suscitato, in misura del tutto inattesa, a livello locale e mondiale.

L’Alluvione di Al Aqsa straripa nel mondo

Hamas libera soldatesse israeliane

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il governo che si era ripromesso di risolvere definitivamente la questione dell’intralcio palestinese in uno Stato che, dal 2018, è stato sancito dei soli ebrei, avrebbe fallito tutti i suoi obiettivi. I prigionieri catturati il 7 ottobre non sono stati liberati dall’IDF come promesso; Hamas non è stato eliminato e continua a infliggere perdite all’occupante. Insieme alle altre organizzazioni della Resistenza ha dovuto essere coinvolto nella mediazione egiziana sulle successive fasi del “Piano di pace”. Ha accettato la proposta di un’amministrazione palestinese “tecnocratica” di Gaza, ma ha rifiutato il disarmo. Ha saputo rispondere alle continue rotture degli accordi di tregua che fanno parte del modo israeliano di rispettare i patti.

L’esercito non fornisce cifre ufficiali, ma, secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth, sarebbero 1.100 i soldati caduti, dei quali il 42% avevano meno di vent’anni e 141 erano oltre i quaranta, 18.500 sarebbero i feriti, 70 i suicidi, migliaia i riservisti che rifiutano di presentarsi, altrettanti gli affetti da gravi malattie post-traumatiche. Israele, che si era ripromesso la pulizia etnica dei gazawi con la deportazione nel Sinai, o altrove, di quanti ne sarebbero sopravvissuti, ha dovuto limitarsi al controllo del 53% di Gaza, poi esteso a qualcosa come il 60%. Davanti a un mondo che si scopre stupefatto e ammirato dalle immagini di centinaia di migliaia di palestinesi, ripetutamente sfollati, che, a tregua proclamata, tornano alle loro case in macerie, affermando la volontà di viverci per quanto invivibile fosse stata resa la loro terra.

Sospeso per poche ore lo sterminio con bombe, droni e missili e ritiratosi dietro la Linea Gialla, da dove accontentarsi di cecchinare chi vi si avvicina, e rimpiazzata la propria presenza sul territorio con clan criminali locali, con fiduciari come il boss Abu Shaabab, collaudati nei saccheggi degli aiuti, l’intero copione scritto da Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich s’è visto strappare pagine importanti.

Restava anche sospesa un’operazione parallela sulla via del Grande Israele: l’annessione della Cisgiordania votata dalla Knesset e, per la sua inopportunità in termini di pubbliche relazioni, per il momento azzerata dall’umiliante ukase di Trump. I coloni dovranno accontentarsi di aggredire e uccidere palestinesi, bruciarne i villaggi, distruggerne le coltivazioni e chiamare questo frammento di Palestina biblicamente Giudea e Samaria. Uno schiaffo via l’altro, altrettanto bruciante: le scuse all’emiro imposte a Bibi per il fallito attentato a dirigenti di Hamas lì ospitati. Mossa con la quale Trump e il suo retroterra significavano che l’alleanza con certi arabi, che rendono più di quanto Israele costi, gli stavano a cuore, e a borsa, non meno della storica simbiosi con Israele.

Il soccorso di Trump: la finta pace

Del resto l’irruzione sulla scena di Trump, a parte i rituali salamelecchi nella Knesset a ribadire l’eterna alleanza e amicizia, non è stata una delle sue ricorrenti improvvisate. Almeno nell’immediato, parrebbe il tentativo di arginare la reazione dell’opinione pubblica mondiale a un genocidio risultato indigeribile anche a stomaci forti. Reazione dalle proporzioni mai viste, in forma di flottiglie, milioni di indignati e solidali per le strade in Occidente e nel Sud globale, accentuati boicottaggi e disinvestimenti, governi fino allora ignavi o complici, che dai loro elettori si vedono costretti a far buon viso riconoscendo lo Stato di Palestina.

E se Israele, nella sua incontrollata sfrenatezza, era riuscita a demolire un’immagine morale basata sul vittimismo ontologico, con quell’accanimento su bambini, donne, ospedali, giornalisti, umanitari, famiglie rifugiatesi sotto tende, uccisione di moribondi per fame, trattamento disumano a civili catturati a casaccio, distruzioni mai viste nella Storia, la sua caduta nella trappola tesagli dalle flottiglie indica anche uno smarrimento di razionalità.

Follia collettiva che non impedisce il lucidissimo progetto – destino storico e mistico per gli israeliani – di portare a compimento il genocidio, tregua o non tregua. Uno stato fuorilegge che arriva a sfidare uragani di riprovazione e finisce con lo svuotare i vari tentativi di Trump di ricuperargli un minimo di credibilità e rispettabilità ventilando la fine della carneficina. Un pertinace cupio dissolvi, insito nella prospettiva millenaristica, sembra segnare la ripresa dei bombardamenti, con la cadenza del centinaio di assassinati al giorno, di cui moltissimi i bambini per confermare la vocazione all’infanticidio.

E, tanto per ribadire l’assoluta inaffidabilità dello Stato sionista per quanto riguarda accordi solennemente firmati, ecco che riprendono anche gli attacchi sul Libano, del resto mai del tutto interrotti, compresi quelli all’Unifil, con tanto di occupazione della fetta del Libano di cui la tregua libanese imponeva  l’evacuazione, ma che costituisce parte integrante del Grande Israele.

 Reperti archeologici di Gaza

 

Un mondo ancora esterrefatto per quanto gli veniva fatto passare sotto gli occhi da chi si professava, in un mondo di autocrati e terroristi, campione di democrazia e morale, aveva seguito con entusiasmo l’impresa che, insieme a portare soccorsi a un popolo al quale i suoi sterminatori li negavano, sfidava, in termini di assoluta non violenza, i violatori del diritto internazionale. Ma il trattamento riservato agli equipaggi delle flottiglie, illegalmente abbordati da forze militari in acque internazionali, sequestrati, deportati e poi maltrattati  sulla falsariga, edulcorata, di quanto riservato ai gazawi, ha dimostrato un accanimento nell’errore, oltrechè nella malvagità, oltre il limito dell’autolesionismo.

Israele, un suicidio?

Trump – e chi ne costituisce il motivatore e garante - è accorso per evitare il peggio, salvare il salvabile, estrarre Israele da un isolamento fatale e dalla perdita di qualsiasi credibilità politica e autorità morale: un paria tra le nazioni. Ciò su cui, tuttavia, non ha potere di intervenire è il rischio di implosione dello Stato. Che oggi non è più solo la massima espressione dell’apartheid, vituperata dall’opinione pubblica mondiale, ma soffre di profonde lacerazioni interne e di un abissale distacco della società dalla sua classe politica.

Una popolazione che ha vissuto per due anni il trauma dell’indifferenza del suo governo per il destino dei concittadini prigionieri della Resistenza. Che vede milioni di suoi cittadini, gli haredim, ribellarsi al servizio militare. Che subisce l’ostracismo dei popoli un tempo solidali, che vive un’insicurezza snervante per gli attacchi che subisce da nemici vari e che la costringono a una vita nei bunker. Si aggiungano le difficoltà causate dal trasferimento di professionisti dai luoghi di lavoro alla riserva militare impegnata in guerre che non finiscono mai, dalla rottura di rapporti commerciali e accademici con l’esterno e, soprattutto con il dato drammatico che i palestinesi tornano, mentre gli israeliani partono.

Israeliani in partenza

Il rapporto tra chi arriva nello Stato ebraico e chi ne parte si è invertito a detrimento dell’immigrazione, condizione di sopravvivenza per Israele. Mancano i dati dal 2024 ad oggi, quando comunque si sa di interi insediamenti, specialmente in Galilea e ai margini di Gaza, abbandonati da coloni non più rientrati. Un’informativa del parlamento, pubblicato il 20 ottobre, registra 145.000 abbandoni tra il 2020 e il 2024, con un forte aumento, fino al 44%, di anno in anno. La maggioranza di costoro ha alle spalle 13 e più anni di istruzione e il 26% ha una formazione accademica completa. Il parlamentare Gilad Kariv l’ha chiamata, non un’ondata di emigranti, ma uno tsunami di abbandoni.

E a questo punto c’è solo una domanda da porre con riferimento alle diverse verità alla Rashomon – “collusione, o lasciato fare” – che si scontrano sul 7 ottobre. E’ concepibile che Israele sia stato o colluso con Hamas, o connivente nella misura in cui avrebbe lasciato accadere l’assalto, se poi i risultati sono la catastrofe dello Stato Sionista che abbiamo illustrato? Non credo che ci possa essere più di una risposta. La linea, dettata da Israele, più meno ininterrottamente dalla spartizione del 1947 a ieri, il giorno 7 ottobre è passata in altre mani. Con Trump e la farsa della “pace” si è cercato di strappare l’iniziativa alla Resistenza. Funziona sul piano tattico, forse. Non su quello strategico. Emersa dal buio dell’oblio coatto, silenziata fino al genocidio, oggi al centro del mondo c’è la Palestina. Hamas ha imposto al mondo di guardarla.

 

Col 7 ottobre è stata infranta l’idea che si debba chiedere al colonizzatore, seppure con l’avallo della più vasta collaborazione di un mondo detto libero, di gestire il destino e gli eventuali diritti del colonizzato. Per i “moderati” della nonviolenza integrale (che è poi quella che garantisce il monopolio della forza al padrone) tutto dovrebbe comunque essere conciliabile con chi, per quanto espropriatore, razzista, pulitore etnico, vessatore e sterminatore, ha il “diritto di difendersi”. Chi, come i coloni che hanno costruito i loro kibbutz sulle macerie dei villaggi palestinesi bruciati e in faccia al carcere a cielo aperto dove sono stati rinchiusi i superstiti, tale diritto se l’è giocato. La questione morale sotterra la questione dei legulei.

Yahya Sinwar, architetto del 7 ottobre, ha commesso un suicidio? Suo e di Gaza? O i suicidari sono altri? Se autoimmolazione doveva essere, aveva il fine strategico della resurrezione. 80 anni di esclusione, esproprio, persecuzione, umiliazione, morte prolungata, significavano una fine senza fine, dove l’annientamento vero era il trascinarsi tra i piedi la propria dignità. Il 7 ottobre è stata fatta la rivoluzione. Quella che, nelle parole di Walter Benjamin, “non nasce da un’aspirazione per il futuro, ma dalla disperazione del presente”. Il 7 ottobre ha posto un limite alla disperazione.

Da quel momento si è tornati all’esserci, individuale e collettivo, a costo di attraversare un mare di sangue. E Israele, accecato dal suo avatar biblico, è caduto nell’imboscata. La sua sconfitta non è tanto quella dei risultati mancati, che pure c’è, quanto quella, più rovinosa, della legittimità. A Gaza la resistenza ha costretto Israele ad autoinfliggersi un collasso morale e questo precede sempre la sconfitta politica. Vedi Algeria, Vietnam, Sudafrica. Il 7 ottobre il mondo si è capovolto. Un sondaggio in Cisgiordania e a Gaza nei giorni scorsi ha visto un 66% di sostegno a Hamas in Cisgiordania e il 52% a Gaza. Percentuali che aumentano di parecchi punti se viene considerato l’insieme delle organizzazioni della Resistenza.

Avete visto chi marciava alla testa delle centinaia di migliaia che tornavano alle macerie delle loro case a Gaza City? Era Yahya Sinwar.

 

 

 

 

 

 

 

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