Tregua
sì, tregua no, tregua bombe
Alla
luce della sempre più evidente mancanza di serietà e affidabilità di ciò che l’uomo-bluff
dice, o dice di fare, del carattere strumentale e propagandistico di quasi
tutte le sue bombastiche mosse - segno tragico dei tempi, anche in Europa e a
casa nostra – vediamo di ritrovare un po’ di sostanza passando dal piano
tattico, che l’improvvisatore di trovatone e trovatine ci impone, a quello
strategico. L’andazzo che il mondo aveva preso su una delle questioni che
l’accompagnano e segnano da quasi un secolo, Palestina o non Palestina, ha
preso improvvisamente un abbrivio e ha cambiato in profondità ogni cosa, ben
oltre la circoscritta questione mediorientale. Mi riferisco al 7 ottobre 2023,
di cui molto s’è detto su questa testata, ma guardando stavolta alle sue
ricadute che non finiscono di mettere in discussione ogni apparente equilibrio.
“Rashomon”
è il titolo del capolavoro cinematografico di Akira Kurosawa. Un film che ha
segnato un’epoca della settima arte e ci ha messo di fronte al drammatico
quesito se possa mai esistere una verità definitiva. Un boscaiolo, un monaco e
un vagabondo si interrogano sull'assassinio di un samurai e sullo stupro di sua
moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. All’uscita del film si è parlato a lungo di un “effetto Rashomon”.
Per chi conosce Pirandello, a partire da “Così è se vi pare”, le cose sono
ancora più oscuramente chiare. 
“L'effetto Rashomon”,
proprio come Pirandello, descrive lo sconcertante dato per cui differenti
testimoni, o commentatori, descrivono lo stesso evento in modo soggettivo,
totalmente diverso e contrario rispetto agli altri, formulando ognuno una
interpretazione, determinata dal proprio interesse e, eventualmente, dalla
propria posizione morale, ideologica, sociale, politica. Un relativismo che
rischia di rendere irraggiungibile le verità oggettiva.
Relativismo
che, oltre alla strumentale deformazione israeliana, quella di hasbara,
vale per gli eventi del 7 ottobre, dove a distanza di due anni e, forse, per
sempre, le verità variano a seconda di chi ci è stato, chi ha operato, chi è
intervenuto, chi ha subito, chi ha testimoniato, chi ha indagato. E perfino
all’interno di queste categorie il racconto diverge.
Della
“sindrome Rashomon” ho avuto dimostrazione in occasione del Convegno
internazionale su sionismo e problematiche connesse, organizzato a Roma il 25
ottobre scorso dal Fronte del Dissenso. Il mio intervento, centrato su un’analisi
della resistenza palestinese a Gaza a partire dagli eventi del 7 ottobre 2023,
ha stimolato le solite domande e obiezioni con cui uno si deve misurare quando
esce dalla narrazione maggioritaria. Eminentemente quella che nega a Hamas
paternità indipendente e autonomia di ideazione ed esecuzione dell’operazione
“Alluvione di Al Aqsa”.
Il
7 ottobre e hasbara
Il
racconto diffuso da Hasbara, l’informazione come diffusa da Israele,
secondo cui una torma di sanguinari terroristi si sarebbe avventata su pacifici
cittadini e su giovani che ballavano, compiendo ogni sorta di nefandezze, viene
ripetuta pedissequamente solo da chi è chiamato, o vocato, a puntellare comunque
ciò che dice Israele. A dispetto del rifiuto categorico del regime israeliano
di autorizzare un’inchiesta indipendente, il che già dice molto, e a dispetto
di una serie di inchieste, anche di media israeliani, condotte alla mano di
video, sopraluoghi e testimonianze. 
Sono
così svaporate le storie più truculente, subito diffuse da centrali e
ripetitori dell’hasbara. La realtà di una battaglia fra i combattenti che
intendevano far prigionieri dei coloni nei Kibbutz per poi scambiarli con detenuti
palestinesi, è corroborata dall’adozione della dottrina “Hannibal”, confermata da
politici e militari dell’IDF. Dottrina che impone di impedire in ogni modo che
il nemico possa catturare ostaggi, a costo di uccidere i sequestrati insieme ai
sequestratori. Il relativo ordine venne trasmesso agli elicotteri e carri
armati intervenuti in modo caotico dopo le ore della paralisi dovuta alla
sorpresa e alla neutralizzazione dell’apparato di difesa israeliano. Le
centinaia di auto bruciate, gli edifici sventrati e ridotti in macerie, mentre
vi si trovavano sia i coloni residenti, sia quelli di Hamas, testimoniano di
bombardamenti che non si possono far risalire agli RK 47 e agli RPG, armi
leggere degli incursori.
Qui
non interessano tanto le varianti nei resoconti dei fatti quanto i dubbi,
persistenti soprattutto tra le fila di chi è schierato dalla parte dei
palestinesi. Dubbi che originano dalla convinzione della insuperabile potenza
di Israele, garante della sua invincibilità. Certezza rafforzata dalla
rappresentazione che, per oltre un secolo ha dato di sè lo Stato ebraico. 
La
storia lontana e vicina di Israele offre valide smentite a questo mito. Nel
2003, guerra del Kippur, Israele, colpito di sorpresa, si vide vicino al
collasso, al punto che Moshè Dayan, ministro della Difesa, considerò l’uso
dall’arma atomica e che sugli attaccanti dovettero intervenire gli USA, anche
politicamente, per porre riparo al tracollo. Sia nel 2000 che nel 2006,
Hezbollah costrinse Israele a un umiliante ritiro dal Libano. Nello scambio di
missili tra Israele e il cuore dell’”Asse del male”, Tehran, le ferite di
Israele, a dispetto dell’assistenza contraerea di USA e petromonarchie, risultarono
più gravi di quelle iraniane e hanno richiesto l’intervento aggiuntivo di Washingto.
Il mitico Iron Dome è stato ripetutamente bucato anche dai razzi Hezbollah,
come dai missili e droni yemeniti. 
Hamas-Israele,
collisione o collusione?
Il
7 ottobre si verifica sullo sfondo della sproporzione di forze tra “il più
potente apparato militare della regione” con i suoi “più efficienti servizi di
intelligence del mondo”, e i gruppi guerriglieri di un carcere a cielo aperto,
assediato, sorvegliato, invaso e devastato ogni due per tre. Questa
sproporzione fornisce gli antecedenti storici funzionali all’interpretazione del
7 ottobre. Quella di una resistenza palestinese islamica fatta nascere negli
anni ‘80 per ridurre il ruolo dei laici di Al Fatah e dell’OLP, chiudendo un
occhio sulla sua crescita politica. Finanziata, con il consenso di Tel Aviv, dal
Qatar e, dunque, resa operativa anche militarmente, ma nella misura concessa da
Tel Aviv: razzi poco distruttivi lanciati da Gaza, che in compenso giustificavano
la ritorsione in forma di periodiche, devastanti, invasioni, a partire da
Piombo Fuso. Questa, vera prova generale del successivo genocidio, l’ho vissuta
sul campo e descritta nel documentario “Araba fenice, il tuo nome è Gaza”
A
forza di rappresentare Hamas e i suoi alleati, Jihad e FPLP, come minaccia
mortale alla sicurezza di Israele, Israele si preparava alla “soluzione
finale”. Così Hamas, almeno oggettivamente connivente, secondo questa teoria, avrebbe
lanciato l’attacco “terrorista” del 7 ottobre offrendo ai sionisti e al loro
sostegno internazionale l’atteso pretesto per la programmato “soluzione finale”.
Con il beneficio collaterale, per il premier israeliano, di scampare, grazie
all’interminabile emergenza guerra, ai processi per corruzione e malversazioni
varie che gli avrebbero stroncato la carriera.
Meno
drastici sull’implicita riduzione della Resistenza palestinese a utile idiota
della strategia israeliana sono coloro, i più numerosi e irriducibili, secondo
i quali, l’operazione “Alluvione di Al Aqsa”, non sarebbe stata concordata tra
i due contendenti, ognuno alla ricerca di un suo vantaggio, ma da parte di
Israele “si sarebbe lasciata accadere”. Numerosi segnali di preparativi
sarebbero stati recepiti ed elaborati dagli infallibili servizi di sorveglianza
israeliani, ma non avrebbero innescato alcun intervento preventivo. Grazie
all’effetto “terrorismo islamico”, potenziato dalle vittime di “Hannibal”,
governi amici e opinione pubblica avrebbero condiviso la rappresaglia, a
dispetto delle sue dimensioni spaventose.
Che
non sia andata proprio per niente come ipotizzato da quelli per i quali “hanno
fatto”, o dagli altri secondo cui “hanno lasciato fare”, lo dimostrano le
ricadute di quell’operazione e di quanto questo sasso nello stagno ha suscitato,
in misura del tutto inattesa, a livello locale e mondiale.
L’Alluvione
di Al Aqsa straripa nel mondo
Secondo
il quotidiano israeliano Haaretz, il governo che si era ripromesso di risolvere
definitivamente la questione dell’intralcio palestinese in uno Stato che, dal
2018, è stato sancito dei soli ebrei, avrebbe fallito tutti i suoi obiettivi. I
prigionieri catturati il 7 ottobre non sono stati liberati dall’IDF come
promesso; Hamas non è stato eliminato e continua a infliggere perdite
all’occupante. Insieme alle altre organizzazioni della Resistenza ha dovuto
essere coinvolto nella mediazione egiziana sulle successive fasi del “Piano di
pace”. Ha accettato la proposta di un’amministrazione palestinese
“tecnocratica” di Gaza, ma ha rifiutato il disarmo. Ha saputo rispondere alle
continue rotture degli accordi di tregua che fanno parte del modo israeliano di
rispettare i patti.
L’esercito
non fornisce cifre ufficiali, ma, secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth,
sarebbero 1.100 i soldati caduti, dei quali il 42% avevano meno di vent’anni e
141 erano oltre i quaranta, 18.500 sarebbero i feriti, 70 i suicidi, migliaia i
riservisti che rifiutano di presentarsi, altrettanti gli affetti da gravi
malattie post-traumatiche. Israele, che si era ripromesso la pulizia etnica dei
gazawi con la deportazione nel Sinai, o altrove, di quanti ne sarebbero
sopravvissuti, ha dovuto limitarsi al controllo del 53% di Gaza, poi esteso a
qualcosa come il 60%. Davanti a un mondo che si scopre stupefatto e ammirato dalle
immagini di centinaia di migliaia di palestinesi, ripetutamente sfollati, che,
a tregua proclamata, tornano alle loro case in macerie, affermando la volontà
di viverci per quanto invivibile fosse stata resa la loro terra. 
Sospeso
per poche ore lo sterminio con bombe, droni e missili e ritiratosi dietro la
Linea Gialla, da dove accontentarsi di cecchinare chi vi si avvicina, e rimpiazzata
la propria presenza sul territorio con clan criminali locali, con fiduciari
come il boss Abu Shaabab, collaudati nei saccheggi degli aiuti, l’intero
copione scritto da Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich s’è visto strappare pagine
importanti.
Restava
anche sospesa un’operazione parallela sulla via del Grande Israele: l’annessione
della Cisgiordania votata dalla Knesset e, per la sua inopportunità in termini
di pubbliche relazioni, per il momento azzerata dall’umiliante ukase di Trump. I
coloni dovranno accontentarsi di aggredire e uccidere palestinesi, bruciarne i
villaggi, distruggerne le coltivazioni e chiamare questo frammento di Palestina
biblicamente Giudea e Samaria. Uno schiaffo via l’altro, altrettanto bruciante:
le scuse all’emiro imposte a Bibi per il fallito attentato a dirigenti di Hamas
lì ospitati. Mossa con la quale Trump e il suo retroterra significavano che
l’alleanza con certi arabi, che rendono più di quanto Israele costi, gli
stavano a cuore, e a borsa, non meno della storica simbiosi con Israele. 
Il
soccorso di Trump: la finta pace
Del
resto l’irruzione sulla scena di Trump, a parte i rituali salamelecchi nella
Knesset a ribadire l’eterna alleanza e amicizia, non è stata una delle sue
ricorrenti improvvisate. Almeno nell’immediato, parrebbe il tentativo di
arginare la reazione dell’opinione pubblica mondiale a un genocidio risultato
indigeribile anche a stomaci forti. Reazione dalle proporzioni mai viste, in
forma di flottiglie, milioni di indignati e solidali per le strade in Occidente
e nel Sud globale, accentuati boicottaggi e disinvestimenti, governi fino
allora ignavi o complici, che dai loro elettori si vedono costretti a far buon
viso riconoscendo lo Stato di Palestina.
E
se Israele, nella sua incontrollata sfrenatezza, era riuscita a demolire
un’immagine morale basata sul vittimismo ontologico, con quell’accanimento su
bambini, donne, ospedali, giornalisti, umanitari, famiglie rifugiatesi sotto
tende, uccisione di moribondi per fame, trattamento disumano a civili catturati
a casaccio, distruzioni mai viste nella Storia, la sua caduta nella trappola
tesagli dalle flottiglie indica anche uno smarrimento di razionalità. 
Follia
collettiva che non impedisce il lucidissimo progetto – destino storico e
mistico per gli israeliani – di portare a compimento il genocidio, tregua o non
tregua. Uno stato fuorilegge che arriva a sfidare uragani di riprovazione e
finisce con lo svuotare i vari tentativi di Trump di ricuperargli un minimo di
credibilità e rispettabilità ventilando la fine della carneficina. Un pertinace
cupio dissolvi, insito nella prospettiva millenaristica, sembra segnare
la ripresa dei bombardamenti, con la cadenza del centinaio di assassinati al
giorno, di cui moltissimi i bambini per confermare la vocazione
all’infanticidio.
E, tanto
per ribadire l’assoluta inaffidabilità dello Stato sionista per quanto riguarda
accordi solennemente firmati, ecco che riprendono anche gli attacchi sul
Libano, del resto mai del tutto interrotti, compresi quelli all’Unifil, con
tanto di occupazione della fetta del Libano di cui la tregua libanese imponeva  l’evacuazione, ma che costituisce parte
integrante del Grande Israele.
Un
mondo ancora esterrefatto per quanto gli veniva fatto passare sotto gli occhi
da chi si professava, in un mondo di autocrati e terroristi, campione di
democrazia e morale, aveva seguito con entusiasmo l’impresa che, insieme a
portare soccorsi a un popolo al quale i suoi sterminatori li negavano, sfidava,
in termini di assoluta non violenza, i violatori del diritto internazionale. Ma
il trattamento riservato agli equipaggi delle flottiglie, illegalmente
abbordati da forze militari in acque internazionali, sequestrati, deportati e
poi maltrattati  sulla falsariga, edulcorata,
di quanto riservato ai gazawi, ha dimostrato un accanimento nell’errore,
oltrechè nella malvagità, oltre il limito dell’autolesionismo.
Israele,
un suicidio?
Trump
– e chi ne costituisce il motivatore e garante - è accorso per evitare il
peggio, salvare il salvabile, estrarre Israele da un isolamento fatale e dalla
perdita di qualsiasi credibilità politica e autorità morale: un paria tra le
nazioni. Ciò su cui, tuttavia, non ha potere di intervenire è il rischio di
implosione dello Stato. Che oggi non è più solo la massima espressione
dell’apartheid, vituperata dall’opinione pubblica mondiale, ma soffre di
profonde lacerazioni interne e di un abissale distacco della società dalla sua
classe politica.
Una
popolazione che ha vissuto per due anni il trauma dell’indifferenza del suo
governo per il destino dei concittadini prigionieri della Resistenza. Che vede
milioni di suoi cittadini, gli haredim, ribellarsi al servizio militare.
Che subisce l’ostracismo dei popoli un tempo solidali, che vive un’insicurezza
snervante per gli attacchi che subisce da nemici vari e che la costringono a
una vita nei bunker. Si aggiungano le difficoltà causate dal trasferimento di
professionisti dai luoghi di lavoro alla riserva militare impegnata in guerre
che non finiscono mai, dalla rottura di rapporti commerciali e accademici con
l’esterno e, soprattutto con il dato drammatico che i palestinesi tornano,
mentre gli israeliani partono.
Il
rapporto tra chi arriva nello Stato ebraico e chi ne parte si è invertito a
detrimento dell’immigrazione, condizione di sopravvivenza per Israele. Mancano
i dati dal 2024 ad oggi, quando comunque si sa di interi insediamenti,
specialmente in Galilea e ai margini di Gaza, abbandonati da coloni non più
rientrati. Un’informativa del parlamento, pubblicato il 20 ottobre, registra
145.000 abbandoni tra il 2020 e il 2024, con un forte aumento, fino al 44%, di
anno in anno. La maggioranza di costoro ha alle spalle 13 e più anni di
istruzione e il 26% ha una formazione accademica completa. Il parlamentare
Gilad Kariv l’ha chiamata, non un’ondata di emigranti, ma uno tsunami di
abbandoni.
E a
questo punto c’è solo una domanda da porre con riferimento alle diverse verità
alla Rashomon – “collusione, o lasciato fare” – che si scontrano sul 7
ottobre. E’ concepibile che Israele sia stato o colluso con Hamas, o connivente
nella misura in cui avrebbe lasciato accadere l’assalto, se poi i risultati
sono la catastrofe dello Stato Sionista che abbiamo illustrato? Non credo che
ci possa essere più di una risposta. La linea, dettata da Israele, più meno
ininterrottamente dalla spartizione del 1947 a ieri, il giorno 7 ottobre è
passata in altre mani. Con Trump e la farsa della “pace” si è cercato di
strappare l’iniziativa alla Resistenza. Funziona sul piano tattico, forse. Non
su quello strategico. Emersa dal buio dell’oblio coatto, silenziata fino al
genocidio, oggi al centro del mondo c’è la Palestina. Hamas ha imposto al mondo
di guardarla.
Col
7 ottobre è stata infranta l’idea che si debba chiedere al colonizzatore,
seppure con l’avallo della più vasta collaborazione di un mondo detto libero,
di gestire il destino e gli eventuali diritti del colonizzato. Per i “moderati”
della nonviolenza integrale (che è poi quella che garantisce il monopolio della
forza al padrone) tutto dovrebbe comunque essere conciliabile con chi, per
quanto espropriatore, razzista, pulitore etnico, vessatore e sterminatore, ha
il “diritto di difendersi”. Chi, come i coloni che hanno costruito i loro
kibbutz sulle macerie dei villaggi palestinesi bruciati e in faccia al carcere
a cielo aperto dove sono stati rinchiusi i superstiti, tale diritto se l’è
giocato. La questione morale sotterra la questione dei legulei.
Yahya
Sinwar, architetto del 7 ottobre, ha commesso un suicidio? Suo e di Gaza? O i
suicidari sono altri? Se autoimmolazione doveva essere, aveva il fine
strategico della resurrezione. 80 anni di esclusione, esproprio, persecuzione,
umiliazione, morte prolungata, significavano una fine senza fine, dove
l’annientamento vero era il trascinarsi tra i piedi la propria dignità. Il 7
ottobre è stata fatta la rivoluzione. Quella che, nelle parole di Walter
Benjamin, “non nasce da un’aspirazione per il futuro, ma dalla disperazione
del presente”. Il 7 ottobre ha posto un limite alla disperazione.
Da
quel momento si è tornati all’esserci, individuale e collettivo, a costo di
attraversare un mare di sangue. E Israele, accecato dal suo avatar biblico, è
caduto nell’imboscata. La sua sconfitta non è tanto quella dei risultati
mancati, che pure c’è, quanto quella, più rovinosa, della legittimità. A Gaza la
resistenza ha costretto Israele ad autoinfliggersi un collasso morale e questo
precede sempre la sconfitta politica. Vedi Algeria, Vietnam, Sudafrica. Il 7
ottobre il mondo si è capovolto. Un sondaggio in Cisgiordania e a Gaza nei
giorni scorsi ha visto un 66% di sostegno a Hamas in Cisgiordania e il 52% a
Gaza. Percentuali che aumentano di parecchi punti se viene considerato
l’insieme delle organizzazioni della Resistenza.
Avete
visto chi marciava alla testa delle centinaia di migliaia che tornavano alle
macerie delle loro case a Gaza City? Era Yahya Sinwar.
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