Venezuela,
diario di una rivoluzione
ASSASSINIO
DELLA FELICITA’
Quando
Iris fiorì
L’alberghetto
di Caracas si chiamava Cristal. Non me lo ricordavo. Se ne è ricordata, Sandra,
la Mnemosine di casa. Ma lei si chiamava Iris e non la dimentico. Siamo ai
primi del nuovo millennio, in mezzo a una rivoluzione. Iris lavorava al
Cristal, era un po’ sfiorita, curva e magra, il vestito lindo, ma stazzonato,
liso. Adibita a funzioni di scarto, neanche cameriera, o addetta al piano. La
incrociavamo nei corridoi, sempre indaffarata – e affaticata - su non si capiva
bene cosa. Portava, trasportava, spazzava. Non credo avesse famiglia, era
sempre lì, a tutte le ore. Ma venne il giorno della festa e il Comandante
avrebbe parlato e sarebbero stati centomila ad ascoltarlo. Tutto un fremito di
massa, ve lo giuro. Ti passava dentro, come toccare un filo elettrico.
Poi
vidi Iris. Ma non tra i tanti, per le strade, nelle piazze, alle finestre e dai
portoni. L’ho vista appoggiata a uno stipite del portone del Cristal.
Trasfigurata. Nessuno la vedeva, ma lei vedeva tutti. Non più chiusa nello stinto
indumento stazzonato, sfolgorava nella maglietta rossa con sopra Ugo Chavez. Come
tutti là fuori. Radiosa lei, radiosa la giornata, radioso il comandante lassù
sul palco che intonava “El cielo de la patria es el cielo mas divino… E
centomila esplodevano nel coro. Anche Iris era radiosa. Leggera, come sospesa a
mezz’aria. Poi qualcuno la richiamò dentro. La rivoluzione non aveva fatto in
tempo a toccarla. Ma lei l’aveva adocchiata.
Iris,
lì sullo stipite, mi ha fatto vedere la rivoluzione. E la rivoluzione profumava
di felicità. Intollerabile per quelli là fuori, infelici. Oggi con i cannoni e
missili puntati sulla felicità.
I
miei ricordi di buona parte del mio ultimo quarto di secolo, la più felice,
appunto, perché condivisa con tutto ciò che mi circondava, non saranno una
grande analisi politica, sociale, ideologica, ma sono quanto del Venezuela
custodisco e quanto sostiene la mia fiducia nell’uomo. Nella possibilità di
uscirne, dall’oggi di Trump, Netaniahu, Meloni, von der Leyen, Paolo Mieli,
Galli della Loggia- La possibilità, la certezza, del riscatto..
Il
link qui sopra vi porta a “Techos de carton” di Ali Primera, il
cantautore della rivoluzione sognata e voluta (morì in un molto sospetto
incidente automobilistico nel 1985.. Mancavano14 anni alla rivoluzione di
Chavez). Un musicista di grande inventiva, un poeta, un militante. Mi dà
l’impressione di qualcosa di eccelso, come un incontro magico tra Fabrizio de
Andrè, Lucio Dalla e Pierangelo Bertoli.
Ali Primera
Questa
canzone, che voglio immaginare stiate ascoltando, dice “Come è triste
ascoltare la pioggia sui tetti di cartone”/ Come è triste la vita della mia
gente nelle case di cartone / Ne scende l’operaio / Trascinando il passo per il
peso del dolore/ Vedi quanto soffro/ vedi quanto pesa la sofferenza / Sopra
lascia la moglie incinta/ Sotto sta la città. / Lui si perde nella sterpaglia /
Oggi è come ieri / Nella sua vita senza domani…”
Arrampicati
sulle colline tra il mare e Caracas e a ridosso della capitale, i ranchos,
che in Brasile chiamano favelas, al tempo di questa canzone ospitavano
milioni di poverissimi in migliaia di baracche di plastica, cartone, lamiera.
La bonifica iniziata da Chavez, proseguita da Nicolàs Maduro, successore del
Comandante dal 2013, le ha eliminate o trasformate in dignitosi quartieri. Non
è che una delle trasformazioni, radicali come forse solo a Cuba e in Nicaragua,
ma dalle dimensioni decuplicate, che ha fatto del Venezuela un modello di
governance e di convivenza che il colonialismo di predazione è tenuto
assolutamente a rimuovere.
Un
cortile di casa che molla la casa
Negli
anni di Chavez, il contagio diffuso dall’esempio del Venezuela ha mutato la
fisionomia del famigerato “cortile di casa yankee”, con la creazione di
aggregazioni impegnate nell’autodeterminazione e in più equi rapporti di
scambio. Il Mercosur, mercato di scambi latinoamericani, fuori e contro i
criteri padronali del WTO; la CELAC, Comunità di Stati Latinoamericani e dei
Caraibi, creata in alternativa all’OSA, Organizzazione degli Stati
Americani, di stretta obbedienza yankee; Petrocaribe, pura munificenza
solidaristica antimperialista, che provvedeva ai paesi in trincea risorse
energetiche a prezzi da Black Friday. Infine e su tutto l’ALBA, Alleanza
Bolivariana per le Americhe (Antigua e Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominicana,
Grenada, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent, Grenadine
e Suriname, Honduras), Stati che si sono ispirati al modello sociale e
antimperialista chavista.
Un aggregato
che in parte ha resistito, in parte si è lacerato e ha perso pezzi sotto il
rilancio di una specie di Operazione Condor 2, a partire dalle strategie
neocoloniali del Deep State e della prima presidenza Trump, caratterizzata da
feroci sanzioni ai paesi disobbedienti, in primis al capofila venezuelano. Ora,
col secondo Trump, il cui anelito al Nobel della pace prende la forma del moltiplicarsi
esasperato di un’aggressività economica e militare urbi et orbi, pare si sia a
una specie di resa dei conti tra velleità di ricupero di un impero liso e
cadente, passato al gangsterismo mafioterrorista, e le roccaforti
dell’emancipazione latinoamericana che resistono.
Per
quel che riguarda l’eterna bestia nera dei gringos, inventato un Venezuela
(dichiarato dall’ONU esente da problematica narcos) narcotrafficante, siamo
all’assedio delle coste venezuelane. E colombiane, ora che ai narcopresidenti e
ai paramilitari da utilizzare come contractors per le imprese sporche USA in
giro per il mondo (e soprattutto contro il Venezuela), è succeduto un
presidente, Gustavo Petro, solidale con Caracas e che si caratterizza già solo
per aver rotto le relazioni diplomatiche con lo Stato genocidario di Israele.
Trump
vi ha concentrato la più grande flotta mai vista dai tempi dell’invasione del
Panama, 10.000 Marines nella colonia Puerto Rico. Ha affondato una decina di
barche di pescatori chiamandoli narcotrafficanti (una sessantina di morti), si
è inventato il Venezuela produttore-esportatore di Fentanyl e Maduro capo
narcos di inesistenti cartelli e gli ha dedicato una taglia da 50 milioni
(subito offerta al pilota dell’aereo presidenziale, che l’ha respinta), ha
agevolato sedizioni sollecitando il Nobel della Pace alla golpista Maria Corina
Machado, ha autorizzato la CIA (implicito il Mossad, praticissimo della
regione) al lavoro sporco in Venezuela, assassinio compreso.
E
sogna, al momento è un’ipotesi, di bombardare e sfasciare le strutture
strategiche del Venezuela onde innescare un malessere che porti alle ennesime guarimbas
(tumulti scatenati dall’opposizione ogniqualvolta le elezioni erano vinte
da quello sbagliato e di cui un carattere distintivo erano i cavi d’acciaio
tesi attraverso la strada, destinati a decapitare poliziotti in motocicletta). Tanto
da arrivare alla sostituzione di Maduro con l’ennesimo fantoccio senza l’ombra
di una qualche credibilità, tipo Juan Guaidò (subito riconosciuto anche da
Roma), e al passaggio del più vasto giacimento di idrocarburi del mondo dallo
Stato, cioè dal popolo, a Exxon, Chevron e cugini esteri, con la conseguente
fine di quella pesante seccatura che sono il chavismo e il bolivarismo e il
loro perverso modello di equità sociale e autodeterminazione.
E
mica ci prova da ieri. Prima del ruggito tonitruante lanciato sulle coste
venezuelane dalla Gerald Ford, la più grande portaerei del mondo, aveva
cominciato a rosicchiare, a fare il topo, prendendola alla larga, tanto per
vedere “che effetto che fa”. Provato a massacrare il Venezuela con una
grandinata di sanzioni che nemmeno l’Iran (40.000 morti da carestie e
privazione di prodotti e strumenti sanitari negli anni del primo mandato), ma che
Maduro ha saputo parzialmente neutralizzare, sostenuto da Cina, Ruissia e Iran,
fino addirittura a recuperare, unico in Sudamerica, l’autosufficienza
alimentare.
Un
paese da pezzente a benestante
Chavez e il presidente dell’Iran Ahmadinejad
C’ero
quella volta, secondo mandato di Chavez, in cui allo stadio di Caracas decine
di migliaia e alcuni paracadutisti delle FANB (Forze Armate Nazionali
Bolivariane, quelle oggi, unite e coordinate con le milizie civili, mobilitate
alla difesa del paese) spettacolarmente volteggianti e poi atterrati ai piedi
del palco, celebravano la raggiunta alfabetizzazione del 97,8% di un popolo di
28,5 milioni. Quella dell’alfabetizzazione era la Mision Robinson. Le
Misiones sono una trentina di grandi progetti strategici nella marcia verso
il socialismo: casa, terra, sanità, governo locale, modellato sulla
Comune di Parigi, istruzione superiore, istruzione per adulti, terra a chi la
lavora, mercati dell’alimentazione a prezzi calmierati, cura veterinaria
gratuita, ambiente, diritti degli indigeni….
Quando
arrivai a tre anni dalla prima vittoria elettorale di Chavez e dalla nuova
Costituzione (che porta forti somiglianze con la nostra e, addirittura, con
quella, prodigiosamente ante litteram, della Repubblica Romana di Mazzini,
Saffi e Armellini, difesa da Garibaldi), la povertà era stata già ridotta dal
54 al 27%, la disoccupazione dal 17 al 7%, l’orario di lavoro era di 6 ore e
stavano sorgendo le prime delle 29 nuove università pubbliche che avrebbero
sottratto alla Chiesa il controllo dell’istruzione. Se ne risentì fortemente il
cardinale Pietro Parolin, allora nunzio apostolico in Venezuela e poi
segretario di Stato degli ultimi due papi.
Di
quel controllo, perseguito in tutto il mondo cattolico ebbi prova dove si era
esercitato nel senso di non esercitarlo. Ma in mancanza dell’oggetto. Cioè
della scuola, oggetto sconosciuto nelle aree degli indios della foresta. Quelli
sopravvissuti a un altro intervento dei diffusori della Croce, qualche secolo fa.
Insieme
a Sandra, compagna e collaboratrice nella realizzazione di documentari, percorremmo
l’Amazzonia venezuelana in una leggendaria navigazione fuori dal mondo, lungo
il Rio Orinoco, un fiume vasto come un mare che corre dal confine col Brasile
all’Atlantico. Gli indios vivevano in grandi palafitte lungo le rive, si
arrampicavano su alberi altissimi per non so quale scopo e pascolavano bufali
d’acqua e quando la nostra barca, poco più di una canoa, approdò a uno di questi
insediamenti, era da pochi giorni arrivato anche il primo insegnante delle Superiori
da inaugurare. Un primo intervento dello Stato in una comunità della caccia e
pesca che per il resto, cibo, abitazione, strumenti, era da secoli del tutto isolata
e, per mancanza di strumenti e percorsi, senza la minima voce politica in
capitolo.
Una
fortuita coincidenza segnò il mio arrivo in Venezuela con il primo tentativo
imperialista di regime change: il golpe militare dell’aprile 2002. Fu
tentato da un gruppo di ufficiali, richiamati all’ordine coloniale da
Washington, sfuggiti alla “rieducazione patriottica” che Chavez aveva iniziato
a promuovere tra i quadri, fin da quando era colonello dei paracadutisti sotto
il despota Carlos Andres Perez. Nominarono presidente Pedro Carmona, capo della
Confindustria. Colpo di Stato grottesco, subito neutralizzato da una
mobilitazione di massa. Sequestrato in una base militare, Chavez venne liberato
a furor di popolo nel giro di 48 ore. 48 ore che ai golpisti e alla polizia non
bonificata sono bastati per uccidere una sessantina di persone.
In
quelle 48 ore ero su un cavalcavia che supera il grande viale che dal centro
città porta alla collina di Miraflores, il palazzo presidenziale. Sotto,
passava un fiume di gente diretta al palazzo, a rivendicare il ritorno del
presidente. Sopra, un manipolo di uomini armati, manovalanza golpista,
sparavano sulla folla in basso. Li animava una giovane donna, Maria Corina
Machado, ormai ventennale esperta in golpismo, fiduciaria del Dipartimento di
Stato. Oggi Premio Nobel della Pace, va invocando l’intervento militare di
Trump.
Vinse
il popolo, ma dovette resistere al “paro”, una serrata della società
petrolifera PDVSA, ancora parte del cartello delle majors angloamericane, che
paralizzò il paese per riuscire là dove i militari felloni avevano fallito. Il
Chavez liberato s’era messo a girare il paese a infondere coraggio, fiducia,
resistenza. Raccontò di essere stato ospitato in pieno “paro” da una
vecchia signora che gli disse. “Quello che vedi bruciare nel forno è la mia
ultima sedia”. Non una goccia di combustibile, di carburante doveva uscire
dalle raffinerie e dai benzinai. Il governo reagì facendo aprire a forza
dall’esercito le stazioni di servizio. A >Caracas, un accogliente Ufficio
Giornalisti Stranieri mi aveva provvisto di lasciapassare e perfino di compagno
autista con vettura, Leopoldo, uomo dei ranchos.. Il “paro” doveva paralizzare
il paese, soffocarne l’economia, impedire che passasse nelle mani del popolo.
Misiones per un altro mondo
Con
Leopoldo, muniti di taniche forniteci dal Ministero dell’Agricoltura, andammo a
pizzicare la rivoluzione giovinetta dove iniziava a farsi le ossa. Da Zulia
sulle Ande, a Miranda affacciata sui Caraibi, all’immenso Bolivar, balcone sul
Brasile, in poco più di un mese ci facemmo buona parte dei 23 Stati della
Federazione. Ricordo, nella piana dello Stato di Guàrico, il mio primo Mercal.
L’omonima Mision aveva allestito in tutto il paese mercati di
generi di prima necessità a prezzi ridotti di due terzi Mercati che avrebbero
servito il 40% della popolazione, dal pane al riso e allo zucchero, dalle
zucche alla carne e alla farina, dai meloni ai mango, dalle uova al pollo, dai
vaccini agli esami per la patente e a quelli della vista e del sangue, gratuiti
questi. Dal produttore al consumatore, niente vampiri intermediari, caporali,
grandi distribuzioni. Una folla stupita, elettrizzata, sorrisi ovunque: la
fisionomia di tutta la rivoluzione.
Leopoldo
si commuoveva facilmente. Dal mangianastri in macchina uscivano le note di “Techos
de carton”, la canzone di Ali Primera sulle drammatiche condizioni di vita nelle
favelas, da dove anche lui veniva. Per la rabbia, tirava dei cazzotti al
volante. La faccia era rigata dalle lacrime. Mi portò tutto fiero, ormai
amicissimo, a incontrare per un caffè la sua famiglia, moglie giovanissima e
già due bambini. Li vedo ancora, mentre mi salutano dalla porta di una casetta
nuovissima, bianchissima di calce fresca, finalmente in muratura, bella gialla
e con tetto di tegole.
Incontro
Guadalupe nel mitico quartiere carachegno “23 de Enero”, avanguardia
della rivoluzione urbana. Quello che già nel Caracazo del 27 febbraio 1989,
aveva provato a buttare per aria il regime di Carlos Andres Perez, proconsole
degli Stati Uniti, per i quali aveva privatizzato ogni cosa, dal petrolio ai
minerali, alle acque, alle foreste, ai campi, ai trasporti. Anche nel 1992,
anno di un tentativo insurrezionale del colonello Chavez, “23 de Enero” era
stato l’innesco della lotta e la sanguinosa vittima della repressione.
Guadalupe
è una militante della Coordinadora Simon Bolivar e, forte di quei precedenti,
era stata alla testa dell’assedio ai golpisti del 2002. Ora partecipava al
lavoro di emancipazione del grande quartiere secondo i criteri proposti da
Chavez: autogestione, governo in simbiosi con la popolazione, alfabetizzazione,
un’università pubblica, asili, pronti soccorsi, nuclei di sviluppo endogeno (in
questo caso fabbriche di scarpe e di confezioni. In bella vista le magliette
rosse con il volto di Che Guevara, o la scritta, ubiqua nel paese,:”Socialismo
o barbarie”).
Incrociammo
Chavez in un piccolo aeroporto dello Stato di Cojedes, non ricordo dove. Gli
chiesi com’era andata con quel sequestro. Mi chiese da dove venissi. Poi,
affabilissimo e, come avrei notato sempre, di gioioso e allegro umore: “Ah,
dall’ Italia, dove avete ammazzato il vostro presidente. Lo sapete, no, che
sono stati i gringos a far ammazzate Moro? Pure qui ci stanno provando…Ma
qui abbiamo una rivoluzione che sa come rispondergli, ai gringos”
E mi diede appuntamento a San Carlos, nel sud, dove
avrebbe incontrato i contadini: “Quattro terratenientes avevano terre grandi
quanto il tuo paese. E non ne cavavano niente, solo rendita. Gliela toglieremo…”
A San Carlos mi chiamò sul palco e mi diede modo di riprenderlo da vicino, in
primo piano, lui e poi le facce della sua gente, con quello che vibrava tra
l’uno e gli altri (me lo ricordo bene perché ce l’ho nel mio documentario “Americas
Reaparecidas”. Un altro, successivo, fatto assieme a Sandra, si intitola “L’Asse
del bene”).
Il
primo dei travolgenti - per la folla,
come per lui, come per me – incontri con il suo popolo, lo vissi appunto a San
Carlos, davanti a migliaia di campesinos sin terra in camicia o
maglietta rossa bolivariana, arrivati da tutto lo Stato di Cojedes.
Annunciò il passaggio della terra nelle loro mani. Più tardi distribuì dei
titoli di proprietà. Con tanto di trattori., già allineati a decine lungo la
strada. Avrei visto una cerimonia analoga, in un rancho sopra Caracas, quando i
titoli di proprietà assegnati erano quelli delle case a coloro di cui parlava
la canzone di Primera, quelli de los techos de carton. Commozione
e gioia. Felicità.
Quelli
della rivoluzione
Blanca
Eekhout, sui vent’anni, laureanda, gestiva una radio libera sulla collina dei
ranchos sopra Caracas. Un’amica negli anni. Fu decisiva, grazie all’ascolto
raccolto con le sue trasmissioni a sostegno della rivoluzione e di come avrebbe
cambiato la vita sotto los techos de carton, per la mobilitazione contro
i golpisti e per la liberazione di Chavez. Fu un’intervista che mi diede a farmi
percepire corpo e ragioni della condizione dei milioni confinati nei ranchos dai
regimi precedenti e alle prospettive che il socialismo bolivariano gli apriva.
La ritrovai più tardi direttrice di “Vive”, emittente bolivariana nazionale e
poi ministra dell’Informazione e vicepresidente dell’Assemblea Nazionale.
Blanca
Eekhout, una voce bolivariana
I
quadri del nuovo Venezuela nascevano così. Ne ho incontrato tanti. Giovanissimi. Quale diversità abissale
rispetto alle facce, ai portamenti, alle competenze, al linguaggio dei nostri
notabili! Oggi sono perlopiù ancora quelli, fedeli alla consegna ricevuta,
anche in assenza dell’immenso carisma del comandante.
Era
un Venezuela in travolgente cambiamento e maturazione, tutti marcati da un
incontenibile entusiasmo, partecipati da un popolo che passava di conquista in
conquista, spazzando ostacoli interni e quelli che arrivavano dai tentativi di
sabotaggio. Alle prime sanzioni economiche comminate da Bush con, tra l’altro,
il blocco delle importazioni di prodotti e macchinari necessari
all’agricoltura, si reagì un po’ come da noi in guerra: allestendo orti in
tutti gli spazi pubblici. Ricordo come, affacciandomi dall’ albergo, vidi da un
giorno all’altro allargarsi ettari coltivati all’ombra di due grandi palazzi
ministeriali in pieno centro.
Nello
scambio con il resto del mondo, coltivato con grande impegno dalla nuova classe
dirigente, si consolidava, a partire dalle proprie coscienze e conoscenze, una
rivoluzione che si intendeva universale, da condividere con tutti, con lo
stesso impegno che l’imperialismo metteva a far accettare i suoi principi e
metodi. Si succedevano – e si succedono tuttora - le manifestazioni di
solidarietà e di lotta comune, le occasioni di incontro e di scambio di
esperienze, pensieri, sentimenti, progetti, forme di lotta. Personalmente
potemmo partecipare, nel corso degli anni, con Chavez, sempre amatissimo e
dinamicissimo protagonista e poi con Maduro, a iniziative come il Tribunale
Antimperialista, il Festival Mondiale della Gioventù e degli Studenti (una
festa incredibilmente gioiosa di 17.000 partecipanti da 100 paesi), il
Congresso Continentale degli Indigeni, di cui (ricordo la drammatica denuncia
degli indios colombiani sottoposti ai massacri dei paramilitari del presidente,
sodale dei narcos e famiglio degli USA, Alvaro Uribe) e, più recentemente e di
grande attualità, il Congresso Mondiale contro il Fascismo.
Venezuela
incontra il mondo
Chavez-Maduro, Festival Mondiale della Gioventù
A
Chavez, data l’immensa popolarità, ben oltre i confini del suo paese,
Washington fu costretta a risparmiare un’ostilità eccessiva, che si sarebbe
riverberata negativamente su nazioni e popolazioni non solo latinoamericane, paesi
che guardavano al nuovo Venezuela quanto meno con rispetto. Nel 2013, alla
morte prematura del comandante, su sua stessa indicazione gli succedette un
operaio, il sindacalista dei trasporti Nicolàs Maduro. Su Maduro, ora al terzo
mandato, corre il lemma, non è Chavez. Affermazione apodittica, nessuno lo è.
Ma è
il Venezuela che è Chavez e questo conta. Nulla del retaggio di Chavez è stato
abbandonato e tradito. Le misiones della radicale trasformazione
sociale continuano ad operare, ma gli ostacoli posti dall’Impero e dai
gaglioffi che nei governi europei ne assumono gli ordini di servizio, non
potevano, dato anche il contesto regionale cambiato in negativo, non imporre
rallentamenti e anche arretramenti. In particolare della diversificazione
produttiva, via dalla monoeconomia petrolifera, perseguita con accanimento da
Chavez. Che comunque il popolo resti compatto in difesa della sua scelta
bolivariana è ampiamente confermato dall’impressionante mobilitazione
civico-militare organizzata in risposta alle recenti minacce trumpiane.
Washington potrà forse scassare il Venezuela, ma riprenderselo, mai.
Le
sanzioni, a partire dal primo Trump, si sono fatte feroci e totalizzanti. Così
come la sovversione interna, fin lì rintanata nelle roccaforti
dell’imprenditoria privata sopravvissuta (in buona parte italiana,
particolarmente rabbiosa e reazionaria, di cui ho avuto squallida esperienza
nell’ambiente consolare di Caracas). Si calcolano in 40.000 le vittime delle
sanzioni negli ultimi sei anni. Ne è derivato inevitabilmente un forte indebolimento
dell’economia e, di conseguenza, una riduzione delle misure di protezione
sociale.
E’
su questo terreno che Washington prova ad affondare i suoi colpi con una
combinazione di pressione militare e sovversione interna, che si spera
alimentata da un crescente scontento popolare. Tutto questo è al momento
eminentemente un wishful thinking, un auspicio, negli ambienti
oltranzisti del rilancio imperialista. Rilancio che, tra Ucraina, Medio
Oriente, Africa, Indopacifico e il fronte interno segnato dalla vittoria del
“socialista” Zohran Mamdani a New York, si ritrova forse con tra le mani troppi
impegni. Resta il dato che per gli Stati Uniti di Trump, di Biden, di Obama, di Bush, di chiunque, e
per coloro che, come noi europei, gli beliamo dietro, un Venezuela così, un
qualsiasi paese così, è semplicemente inaccettabile. Va rimosso. Ne va della
vita come la vogliono costoro. Quelli del Forum Economico Mondiale, di
Bilderberg, di Blackrock, di Ursula.
Ci fu a
Caracas, indetto da Chavez e con la sua partecipazione durante tutti i tre
giorni, un convegno internazionale “In Difesa dell’Umanità”. Tema che potrebbe
apparire sovradimensionato, ma che, alla luce degli sviluppi in termini di
fascistizzazione e guerre a gogò, risulta oggi del tutto fondato. Chavez volle
raccogliere alcune domande dal pubblico. Io glie ne feci una e questo fu, più o
meno, il seguito delle battute.
F.G.
Comandante, le stesse vostre camicie rosse bolivariane le portavano da noi i
garibaldini. Cosa hanno in comune le due situazioni?
U.C. Lo
sai, Grimaldi, che quelle camicie Garibaldi, in Argentina chiamato “el diablo”
quando guidava i rivoluzionari uruguagi, le ha adottate dai macellai
dell’Uruguay, perché mimetizzavano il sangue? Poi, da voi in Italia è stato un
libertador al pari del nostro Simon Bolivar. Sono certo che Garibaldi si sia
ispirato a Bolivar. E voi italiani dovreste ispirarvi a lui. Ricorda che la
prima cosa che il nemico fa contro un popolo, è di fargli dimenticare e non
fargli onorare coloro che lo hanno liberato.
Come no.
Nessun commento:
Posta un commento