martedì 25 novembre 2025

La musica è finita, gli amici se ne vanno (https://youtu.be/Sy6aw6FjzG) --- SIRIA, NAZIONICICIDO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITA’ --- E le stelle stanno a guardare https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-

 

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Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il nemico. (Berthold Brecht)

Nell’aprile venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione, avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di negazione e spoliazione.

Nella primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco, dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine. Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic.

Primavera araba, o terrorista?

Le autorità riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria repressione del “dittatore Bashar el Assad”. Opportunità lungamente vagheggiata, preparata e qui immediatamente utilizzata, come di norma per tutte le “primavere arabe”, dalla Tunisia, dove prevalsero, alla Libia, dove ne impedì la disfatta l’intervento degli amici di Gheddafi da lui finanziati, Sarkozy e Berlusconi, all’Egitto, dove fallirono.

Dissero nei nostri media che la dittatura non consentiva alla stampa estera di entrare nel paese e seguire gli eventi. Sentivo questo dalle tv straniere che a Damasco tutti potevano liberamente seguire, pure la RAI, sebbene esentati dal canone. Cosa di cui il corrispettivo era negato a casa nostra. Strano corto circuito della libera informazione nel mondo libero, riflettevo, mentre mi trovavo su un pullmino, accanto a un collega della Franklfurter Allgemeine e a una cinquantina di altri inviati di media internazionali. Eravamo diretti a OMS, nel cuore del paese.

Lo strumento jhadista

Al Sharaa da Al Jolani

Ci riceve il governatore e ci spiega una situazione che, dopo una serie di episodi terroristici, con bande armate di jihadisti di Al Qaida che avevano fatto irruzione in città provenendo dalla vicina Turchia, era stata riportata dalle forze dello Stato alla normalità. Relativa, visto che, visitando poco dopo un ospedale in pieno centro, veniamo fatti bersaglio dalla strada di raffiche di mitra che, passate per le finestre, fanno buchi nelle pareti sopra le nostre teste. Evento ricorrente, commentano compassati i sanitari.

In una grande palestra scolastica, scortato da ragazzi dell’organizzazione giovanile del partito Baath (Partito Arabo del Risorgimento Socialista), incontriamo una cinquantina di cittadini di Oms, donne, uomini, ragazzi. Ci raccontano ciò che, tradotto solo a sprazzi da un accompagnatore, si riferisce a una serie di episodi di violenza subiti da congiunti e amici. Le immagini video sono raccapriccianti: vi si vede di tutto, quanto a ferocia, brutalità, orrore. Persone impiccate, annegate in gabbie, bruciate vive, scuoiate, accecate, buttate nei fiumi, ammanettate e bendate, dall’alto del ponte, appese vive agli alberi e fatte segno di spari, soldati siriani prigionieri, stesi a terra, legati, poi fulminati a uno a uno con colpi in testa. Attorno alle vittime, festanti, gli esecutori con le bandiere nere di Al Qaida.

La cosa più tremenda è come i video siano arrivati nelle mani di queste persone, madri, figli, amici. Glieli hanno spediti via cellulare gli stessi autori.

Comprendendo nel bottino di Al Jolani-Al Sharaa anche qualche bomba e qualche sicario Nato, specie turco, stanno nel conto siriano di questo delegato di NATO e Israele 600.000 morti, 7 milioni di sfollati interni e 5 milioni di rifugiati in campi profughi in Turchia. Non tutti manodopera qualificata, sbolognata via Turchia nelle industrie tedesche. Il resto trattenuto a vegetare lì in cambio di 1 miliardo di euro dall’UE

Quello che racconto è tutto in rete, scaricabile qui https://fulviogrimaldi.gumroad.com/l/iurxx 

Da tagliagole a interlocutore istituzionale.

Il loro capo aveva poi rinominata Al Nusra l’organizzazione storica e, infine, per togliersi ogni stigma terrorista, si era fatto leader dell’opposizione rispettabile, sotto la sigla di Hay'at Tahrir al-Sham, Tuttavia sempre con in testa la corona di 10 milioni di taglia con cui gli USA, assieme a Turchia, Israele e Arabia Saudita, facevano finta di disconoscerne la paternità. Si era dato il nome di battaglia di Abu Mohamed al Jolani. Oggi ha ricuperato il nome vero, Ahmed Al Sharaa.

E’ presidente della Siria, almeno della capitale e dintorni, almeno di quanto basta per perpetuare gli stessi orrori dei 14 anni di guerra, oggi selezionando le componenti della popolazione non gradite al jihadismo: alauiti sciti, cristiani, drusi, curdi, altre minoranze più ridotte. A ottobre si contavano 9000 vittime, ora, a novembre, altre 180. Sgraditi sterminati dopo la presa del potere. Tuttora li prendono, uno per uno. Mentre Israele prosegue nelle sue annessioni a pezzi precedute da incursioni con stabilimenti di presidi militari e posti di blocco, 60 nelle ultime 10 sett6imane.  E le stelle stanno a guardare: la “nuova Siria” ricondotta nell’alveo democratico.   

Ormai privo di taglia, ma tuttora munito di scure, il tagliagole è stato riconosciuto e ricevuto con tutti gli onori, tappeti rossi e sorrisi, a Mosca e a Washington. Gli mancano Prevost, Mattarella e Meloni. Capiterà. Resta sul piedistallo eretto dalla massima virtù del nostro Zeitgeist, spirito del tempo: la realpolitik.

 

Nel dicembre del 2024 la Siria soccombe. Per il suo presidente, Bashar el Assad, raccoglitore di vastissimi consensi in tutte le consultazioni elettorali, anche quelle in guerra riconosciute corrette dagli osservatori ONU, ho potuto constatare l’adesione e l’amore del popolo. Da quando, nel 2000, è succeduto al padre, Hafez, sono state innumerevoli le manifestazioni di sostegno, intensificate nei momenti di pressioni estere, che ho visto percorrere il paese nel corso di anni segnati da uno sviluppo impetuoso, non impedito dalle solite pesanti sanzioni.

Non hanno lasciato traccia nella coscienza della popolazion le manipolazioni propagandistiche sciorinate da aggressori e complici che, peraltro, mai avrebbero notato qualcosa di anormale nella “democratica opposizione ad Assad”. Era destinata al pubblico occidentale la giustificazione di questa ennesima operazione coloniale, affidata al peggiore dei mercenariati imperiali, con l’invenzione di una successione di nefandezze: come i gas utilizzati contro oppositori a East Ghouta, mai poi riscontrati dalla relativa Agenzia ONU, o la testimonianza di un transfuga, “Caesar”, su esecuzioni di massa nelle carceri siriane (foto di cadaveri che poi risultarono di militari siriani caduti in battaglia).

Bashar el Assad

Non bastava la guerra

Il nazionicidio della Siria si compie nell’inverno del 2024. Un paese, che, aggredito nel 2011, dal 2015 aveva potuto valersi del sostegno militare della Russia, si è ritrovato improvvisamente abbandonato, al colmo di una crisi economica resa catastrofica, più che dalle distruzioni belliche, dal sequestro che gli occupanti USA avevano imposto dei territori nel nord-est. Territori occupati dalle truppe americane anche grazie al sostegno di un collaborazionismo curdo, molto magnificato dalle sinistre in Occidente. Forze curde, di un enclave che pure aveva goduto, come ogni minoranza, degli stessi diritti di tutti i cittadini siriani, collegate al PKK in Turchia, approfittarono del loro sponsor a stelle e strisce per espandere la presa su terre e città arabe. Protetti dagli USA, i curdi invasero terre arabe, occuparono le strutture pubbliche, ne cacciarono gli abitanti. Il nord-est era la regione da cui provenivano il petrolio e i prodotti agricoli necessari alla vita della popolazione e al funzionamento dell’economia. Da lì il governo traeva i mezzi per mantenere in piedi l’esercito. Che, in assenza, privato della paga e di ogni sostentamento, senza più l’appoggio aereo di Mosca, provato e decimato da 14 anni di combattimenti, non poteva che sfaldarsi.

A compiere l’opera di distruzione del paese venne, nel febbraio del 2023, un terremoto che devastò gran parte della regione centro-settentrionale. Una Siria che, nelle guerre arabo-israeliane, era stata l’avversario più combattivo e temuto dello Stato sionista, si ritrovava, già minata nella tenuta umana e nella funzionalità delle infrastrutture, dei trasporti, dei rifornimenti, saccheggiata dalle sanzioni USA e UE, impoverita dalla rapina delle sue materie prime. Il tutto aggravato dalla mancanza di soccorsi che di solito la “comunità internazionale” riserva alle vittime di simili tragedie. I governi europei e quello turco (salvo nelle zone sotto controllo suo e del terrorismo islamista) rifiutarono ogni aiuto.

Se si tiene conto del quadro geopolitico segnato dal ritiro dei russi dalla contesa, e di chi costituiva il fronte avverso alla sopravvivenza della Siria, sulla quale la triplice Turchia-Israele-curdi nutriva annosi appetiti territoriali, o integralisti religiosi (wahabiti), l’esito, dopo 14 anni di resistenza, non poteva che essere scontato. Il terrorismo jihadista, guidato dai qaedisti Al Baghdadi e Al Jolani, finanziato da sauditi e qatarioti, addestrato in Giordania e Turchia dai marines, integrato da quadri militari turchi, si era insediato al confine con la Turchia, nella provincia di Idlib. Qui per anni aveva gestito, sotto supervisione politico-militare turca, una milizia fondamentalista islamica, governando tutte le funzioni e gli affari di un para-Stato a detrimento della popolazione siriana di oltre venti milioni, espropriata di diritti e attività. Comunità autoctona che ogni tanto si ribellava e veniva duramente repressa.

L’operazione, parte il 24 novembre e si assicura la presa quasi immediata di Aleppo, prodigio archeologico e culturale del paese, da sempre sognata dai turchi capitale di una sua nuova regione. E’ coronata a Natale dall’insediamento a Damasco del nuovo potere battezzato nell’oceano di lacrime e sangue fatti versare a 20 milioni di siriani. Una successione quasi incredibile di eventi, ma la cui origine, causa e dinamica, sono spiegati dai vari interventi di attori esterni. Abbiamo già detto della continuità del terrorismo jihadista dal tempo dell’aggressione criminale NATO, da noi eufemizzata in “guerra civile”, a quello della “liberazione dalla dittatura di Assad” e dell’instaurazione della “democrazia”.

Parola d’ordine, disunire ciò che unisce

Il progetto, affidato alla brutalità di contractors subumani che conosce l’eguale storico soltanto in quanto oggi si va compiendo su Gaza, ha il compimento strategico, ma probabilmente non politico, né geografico, con la spartizione della Siria tra Israele, Turchia, curdi e un ridotto jihadista a Damasco, finora tollerato a fini di proiezione dell’illusione di uno Stato rimesso in sesto nominalmente democratico. Tanto per far capire che l’esito definitivo non è quello di un Israele che, fin da quando curava i jihadisti feriti nelle sue cliniche del Golan, considerava questo terrorismo il mezzo, non il fine. Il che spiega i suoi bombardamenti, “di avvertimento”, sui palazzi del neoregime a Damasco, l’avanzata delle truppe israeliane dalle falde del Golan, altura fondamentale per il controllo di Libano e Siria rubata alla Siria fin dal 1967, e l’occupazione della regione di Sweida, a sud. Il pretesto era quello della difesa dei drusi, alleati anche nella Palestina occupata, contro presunti abusi di beduini sunniti protetti dal nuovo regime.

Dal versante nord, l’appropriazione della storicamente ambita Aleppo, gioiello di un passato arabo da turchizzare, e di tutta l’area fino al la centrale Oms, si inserisce in un neoimperialismo ottomano che si estende dall’Asia Centrale e Occidentale al Nordafrica e abbraccia tutto il Mediterraneo orientale. La convivenza di due poteri senza scrupoli di diritto internazionale e dell’altrui sovranità, espansioniste nella stessa area statale, succede alla connivenza e alla cointeressenza alla distruzione del caposaldo della forza e della dignità araba, ma resta fragile alla luce dei caratteri egemonici che caratterizzano le ambizioni delle due entità.

La fetta curda

 Area storica curda in Siria –  area appropriata oggi

Al momento l’attrito maggiore, nella pausa dello scontro tra filo-israeliani e i gangster di Al Sharaa, è quello tra Damasco e la nuova realtà fattasi largo sotto protezione statunitense nel nord-est della Siria. I curdi, usciti grazie a quella tutela, interessata a minare alla base l’unità pluralista e inclusiva della Siria, dalla loro area nell’estremo nord-est, al confine con il Kurdistan iracheno, si sono appropriati di una vasta area comprendente le maggiori risorse minerarie e agricole siriane. La stessa che ospita le basi e 2.500 militari USA. Una regione che va da Afrin, sul confine turco, alla capitale Raqqa e a Deir Ezzor, già sottratte all’ISIS (più dai bombardamenti USA, per la verità, che dai combattenti delle sedicenti Forze Democratiche Siriane. In effetto integralmente curde).

 Manifestazione curda in Siria con bandiere israeliane

Con riferimento all’annoso conflitto interno tra secessionisti (o autonomisti) curdi e Ankara, la presenza curda in larga parte della Siria risulta ad Ankara altrettanto intollerabile quanto quella su suolo turco. Intolleranza che si esprime in occasionali attacchi armati e bombardamenti turchi, ma che resta contenuta dalla protezione americana e israeliana di cui questa minoranza gode.

 

 

La mia Siria

Arrivai in Siria, subito dopo essere stato espulso da Israele, alla fine della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967. Con Iraq, Egitto di Nasser e. pro tempore, di Sadat, Libia, Libano, la Siria era l’insuperabile e, dal punto di vista israeliano, il più vicino e tosto, intralcio all’eliminazione della Palestina e alla espansione verso il Grande Israele. Era, questo, il cuore della grandezza storica e moderna araba.

A partire da Palmira, il gioiello urbano dalla triplice tradizione, aramaica, fenicia, greca e romana, devastato dai mercenari NATO dell’ISIS nel solco della necessità imperiale di annientare qualsiasi segno di identità. Fu Al Jolani a fra trucidare Khaled al Asad, il direttore del sito, martire per non aver voluto rivelare dove erano stati custoditi i reperti più preziosi. Insieme a Omar al Khayyam, la grande moschea degli Omayyadi, il souq (mercato) di Al-Hamidiyah che al tempio conduce come una freccia, un lungo viale dai mille colori e suoni, costellato di botteghe che odorano di Medioevo. Vi ho comprato tutte le mie kefieh. E poi tante antiche città e castelli storici, come Bosra, Palmira, Aleppo, Krak des Chevaliers e Qalʿat Salah al-Din, Patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO.

Il tutto popolato da una gente, in maggioranza giovane e istruita, consapevole della sua storia e identità nazionale e araba, formata da un’istruzione assicurata a tutti e garantita da una sanità di altissimo livello, pure gratuita. Giovani dei due generi che non differivano da quelli che potevi incontrare a Londra o Amsterdam, comprensivi di tutte le componenti confessionali ed etniche di un paese mosaico da millenni.

Ebbi la fortuna di intervistare Nūr al-Dīn al-Atāsī, da poco presidente della Siria, cui succedette nel 1970 Hafez el Assad, entrambi esponenti della rivoluzione nazionale e socialista del Baath, l’organizzazione fondata da Michel Aflak. Un intellettuale cristiano  che aveva studiato alla Sorbona e il cui partito divenne protagonista della liberazione dal dominio francese e della conquista dell’indipendenza nel 1946. Si fece poi  garante anche della libertà del Libano contro le incursioni israeliane e le rivendicazioni dell’antico padrone coloniale francese.

La vendetta contro quella rivoluzione è stata perseguita incessantemente dai colonialismi europei, sionisti e statunitensi, fino all’epilogo consumatosi nell’inverno del 2024. Il racconto che al-Atāsī mi fece della Siria e che cosa volesse che diventasse la sua società, una volta liberatasi dell’onere di dover contenere l’infezione neocoloniale e sionista, assomigliava a quanto da noi ci si riprometteva che fossimo al momento della liberazione dal nazifascismo.

La Siria prima di Al Sharaa, prima della Sharìa, prima del velo.

 

Siria e Israele destini paralleli e contrari

Si potrà individuare un equilibrio tra passo e contrappasso, confrontando il suicidio israeliano con il nazionicidio della Siria. Da un lato l’avventura militare risoltasi in genocidio senza vittoria e con la perdita secca in termini umani (suicidi, diserzioni, rifiuti, migrazione al contrario), economici (i costi della guerra, la perdita di quadri professionali, la scomparsa di investimenti esteri), di credibilità e legittimazione. Ma è nel destino di uno Stato, nato, cresciuto e morituro fuorilegge, compiere la missione che s’è dato: oggi, avendoli definiti terroristi, lo Stato fuorilegge decreta che i suoi prigionieri, combattenti della libertà, attualmente 10mila nelle carceri della tortura verificata, debbano essere condannati a morte. Dopo Marzabotto, le Fosse Ardeatine. E in Cisgiordania il genocidio strisciante va assumendo i caratteri totali di Gaza. Uno Stato deciso a non morire da solo.

E le stelle stanno a guardare.

Dall’altro lato, l’annichilimento di una realtà identitaria, culturale, di comunità sovranazionale, di valore strategico regionale e ben oltre, segnata dal felice sposalizio di antico e moderno, laicità, pluralismo, fiducia nell’uomo. Chi ci rimette, ma in misura rimediabile, sono i giusti. Chi di più, gli ingiusti. Perché i giusti, come hanno sempre prevalso sull’oscurità, prevarranno anche stavolta. I fascismi, sotto qualsiasi forma si propongono, alla fine soccombono. Tempo al tempo. Ma la Storia sta dalla parte dell’umanità.

 

 

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