Al
momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La
voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il
nemico. (Berthold Brecht)
Nell’aprile
venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze
avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e
all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una
semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato
uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione
araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e
l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione,
avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi
quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di
negazione e spoliazione.
Nella
primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese
africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello
politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di
tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco,
dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono
dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro
l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi
si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a
contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia
echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e
alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in
entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine.
Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo
popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic.
Primavera
araba, o terrorista?
Le autorità
riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime
change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi
scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media
e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria
repressione del “dittatore Bashar el Assad”. Opportunità lungamente
vagheggiata, preparata e qui immediatamente utilizzata, come di norma per tutte
le “primavere arabe”, dalla Tunisia, dove prevalsero, alla Libia, dove ne
impedì la disfatta l’intervento degli amici di Gheddafi da lui finanziati,
Sarkozy e Berlusconi, all’Egitto, dove fallirono.
Dissero
nei nostri media che la dittatura non consentiva alla stampa estera di entrare
nel paese e seguire gli eventi. Sentivo questo dalle tv straniere che a Damasco
tutti potevano liberamente seguire, pure la RAI, sebbene esentati dal canone.
Cosa di cui il corrispettivo era negato a casa nostra. Strano corto circuito
della libera informazione nel mondo libero, riflettevo, mentre mi trovavo su un
pullmino, accanto a un collega della Franklfurter Allgemeine e a una
cinquantina di altri inviati di media internazionali. Eravamo diretti a OMS,
nel cuore del paese.
Lo
strumento jhadista
Al Sharaa da Al Jolani
Ci
riceve il governatore e ci spiega una situazione che, dopo una serie di episodi
terroristici, con bande armate di jihadisti di Al Qaida che avevano fatto
irruzione in città provenendo dalla vicina Turchia, era stata riportata dalle
forze dello Stato alla normalità. Relativa, visto che, visitando poco dopo un
ospedale in pieno centro, veniamo fatti bersaglio dalla strada di raffiche di
mitra che, passate per le finestre, fanno buchi nelle pareti sopra le nostre
teste. Evento ricorrente, commentano compassati i sanitari.
In
una grande palestra scolastica, scortato da ragazzi dell’organizzazione
giovanile del partito Baath (Partito Arabo del Risorgimento Socialista),
incontriamo una cinquantina di cittadini di Oms, donne, uomini, ragazzi. Ci
raccontano ciò che, tradotto solo a sprazzi da un accompagnatore, si riferisce a
una serie di episodi di violenza subiti da congiunti e amici. Le immagini video
sono raccapriccianti: vi si vede di tutto, quanto a ferocia, brutalità, orrore.
Persone impiccate, annegate in gabbie, bruciate vive, scuoiate, accecate,
buttate nei fiumi, ammanettate e bendate, dall’alto del ponte, appese vive agli
alberi e fatte segno di spari, soldati siriani prigionieri, stesi a terra,
legati, poi fulminati a uno a uno con colpi in testa. Attorno alle vittime,
festanti, gli esecutori con le bandiere nere di Al Qaida.
La
cosa più tremenda è come i video siano arrivati nelle mani di queste persone,
madri, figli, amici. Glieli hanno spediti via cellulare gli stessi autori.
Comprendendo
nel bottino di Al Jolani-Al Sharaa anche qualche bomba e qualche sicario Nato,
specie turco, stanno nel conto siriano di questo delegato di NATO e Israele 600.000
morti, 7 milioni di sfollati interni e 5 milioni di rifugiati in campi profughi
in Turchia. Non tutti manodopera qualificata, sbolognata via Turchia nelle
industrie tedesche. Il resto trattenuto a vegetare lì in cambio di 1 miliardo
di euro dall’UE
Quello
che racconto è tutto in rete, scaricabile qui https://fulviogrimaldi.gumroad.com/l/iurxx
Da
tagliagole a interlocutore istituzionale.
Il
loro capo aveva poi rinominata Al Nusra l’organizzazione storica e, infine, per
togliersi ogni stigma terrorista, si era fatto leader dell’opposizione
rispettabile, sotto la sigla di Hay'at Tahrir al-Sham, Tuttavia sempre con in
testa la corona di 10 milioni di taglia con cui gli USA, assieme a Turchia,
Israele e Arabia Saudita, facevano finta di disconoscerne la paternità. Si era
dato il nome di battaglia di Abu Mohamed al Jolani. Oggi ha ricuperato il nome
vero, Ahmed Al Sharaa.
E’
presidente della Siria, almeno della capitale e dintorni, almeno di quanto
basta per perpetuare gli stessi orrori dei 14 anni di guerra, oggi selezionando
le componenti della popolazione non gradite al jihadismo: alauiti sciti,
cristiani, drusi, curdi, altre minoranze più ridotte. A ottobre si contavano
9000 vittime, ora, a novembre, altre 180. Sgraditi sterminati dopo la presa del
potere. Tuttora li prendono, uno per uno. Mentre Israele prosegue nelle sue
annessioni a pezzi precedute da incursioni con stabilimenti di presidi militari
e posti di blocco, 60 nelle ultime 10 sett6imane. E le stelle stanno a guardare: la “nuova
Siria” ricondotta nell’alveo democratico.
Ormai
privo di taglia, ma tuttora munito di scure, il tagliagole è stato riconosciuto
e ricevuto con tutti gli onori, tappeti rossi e sorrisi, a Mosca e a
Washington. Gli mancano Prevost, Mattarella e Meloni. Capiterà. Resta sul
piedistallo eretto dalla massima virtù del nostro Zeitgeist, spirito del tempo:
la realpolitik.
Nel
dicembre del 2024 la Siria soccombe. Per il suo presidente, Bashar el Assad,
raccoglitore di vastissimi consensi in tutte le consultazioni elettorali, anche
quelle in guerra riconosciute corrette dagli osservatori ONU, ho potuto
constatare l’adesione e l’amore del popolo. Da quando, nel 2000, è succeduto al
padre, Hafez, sono state innumerevoli le manifestazioni di sostegno,
intensificate nei momenti di pressioni estere, che ho visto percorrere il paese
nel corso di anni segnati da uno sviluppo impetuoso, non impedito dalle solite
pesanti sanzioni.
Non
hanno lasciato traccia nella coscienza della popolazion le manipolazioni
propagandistiche sciorinate da aggressori e complici che, peraltro, mai
avrebbero notato qualcosa di anormale nella “democratica opposizione ad Assad”.
Era destinata al pubblico occidentale la giustificazione di questa ennesima
operazione coloniale, affidata al peggiore dei mercenariati imperiali, con
l’invenzione di una successione di nefandezze: come i gas utilizzati contro
oppositori a East Ghouta, mai poi riscontrati dalla relativa Agenzia ONU, o la
testimonianza di un transfuga, “Caesar”, su esecuzioni di massa nelle carceri
siriane (foto di cadaveri che poi risultarono di militari siriani caduti in
battaglia).
Bashar el Assad
Non
bastava la guerra
Il
nazionicidio della Siria si compie nell’inverno del 2024. Un paese, che,
aggredito nel 2011, dal 2015 aveva potuto valersi del sostegno militare della
Russia, si è ritrovato improvvisamente abbandonato, al colmo di una crisi
economica resa catastrofica, più che dalle distruzioni belliche, dal sequestro
che gli occupanti USA avevano imposto dei territori nel nord-est. Territori
occupati dalle truppe americane anche grazie al sostegno di un collaborazionismo
curdo, molto magnificato dalle sinistre in Occidente. Forze curde, di un
enclave che pure aveva goduto, come ogni minoranza, degli stessi diritti di
tutti i cittadini siriani, collegate al PKK in Turchia, approfittarono del loro
sponsor a stelle e strisce per espandere la presa su terre e città arabe. Protetti dagli USA, i curdi invasero terre arabe,
occuparono le strutture pubbliche, ne cacciarono gli abitanti. Il nord-est era
la regione da cui provenivano il petrolio e i prodotti agricoli necessari alla
vita della popolazione e al funzionamento dell’economia. Da lì il governo traeva
i mezzi per mantenere in piedi l’esercito. Che, in assenza, privato della paga
e di ogni sostentamento, senza più l’appoggio aereo di Mosca, provato e
decimato da 14 anni di combattimenti, non poteva che sfaldarsi.
A
compiere l’opera di distruzione del paese venne, nel febbraio del 2023, un
terremoto che devastò gran parte della regione centro-settentrionale. Una Siria
che, nelle guerre arabo-israeliane, era stata l’avversario più combattivo e
temuto dello Stato sionista, si ritrovava, già minata nella tenuta umana e
nella funzionalità delle infrastrutture, dei trasporti, dei rifornimenti,
saccheggiata dalle sanzioni USA e UE, impoverita dalla rapina delle sue materie
prime. Il tutto aggravato dalla mancanza di soccorsi che di solito la “comunità
internazionale” riserva alle vittime di simili tragedie. I governi europei e
quello turco (salvo nelle zone sotto controllo suo e del terrorismo islamista) rifiutarono
ogni aiuto.
Se
si tiene conto del quadro geopolitico segnato dal ritiro dei russi dalla
contesa, e di chi costituiva il fronte avverso alla sopravvivenza della Siria,
sulla quale la triplice Turchia-Israele-curdi nutriva annosi appetiti
territoriali, o integralisti religiosi (wahabiti), l’esito, dopo 14 anni di
resistenza, non poteva che essere scontato. Il terrorismo jihadista, guidato
dai qaedisti Al Baghdadi e Al Jolani, finanziato da sauditi e qatarioti,
addestrato in Giordania e Turchia dai marines, integrato da quadri militari turchi,
si era insediato al confine con la Turchia, nella provincia di Idlib. Qui per
anni aveva gestito, sotto supervisione politico-militare turca, una milizia fondamentalista
islamica, governando tutte le funzioni e gli affari di un para-Stato a
detrimento della popolazione siriana di oltre venti milioni, espropriata di
diritti e attività. Comunità autoctona che ogni tanto si ribellava e veniva
duramente repressa.
Parola
d’ordine, disunire ciò che unisce
Il
progetto, affidato alla brutalità di contractors subumani che conosce l’eguale
storico soltanto in quanto oggi si va compiendo su Gaza, ha il compimento
strategico, ma probabilmente non politico, né geografico, con la spartizione
della Siria tra Israele, Turchia, curdi e un ridotto jihadista a Damasco,
finora tollerato a fini di proiezione dell’illusione di uno Stato rimesso in
sesto nominalmente democratico. Tanto per far capire che l’esito definitivo non
è quello di un Israele che, fin da quando curava i jihadisti feriti nelle sue
cliniche del Golan, considerava questo terrorismo il mezzo, non il fine. Il che
spiega i suoi bombardamenti, “di avvertimento”, sui palazzi del neoregime a
Damasco, l’avanzata delle truppe israeliane dalle falde del Golan, altura
fondamentale per il controllo di Libano e Siria rubata alla Siria fin dal 1967,
e l’occupazione della regione di Sweida, a sud. Il pretesto era quello della
difesa dei drusi, alleati anche nella Palestina occupata, contro presunti abusi
di beduini sunniti protetti dal nuovo regime.
Dal
versante nord, l’appropriazione della storicamente ambita Aleppo, gioiello di
un passato arabo da turchizzare, e di tutta l’area fino al la centrale Oms, si
inserisce in un neoimperialismo ottomano che si estende dall’Asia Centrale e
Occidentale al Nordafrica e abbraccia tutto il Mediterraneo orientale. La
convivenza di due poteri senza scrupoli di diritto internazionale e dell’altrui
sovranità, espansioniste nella stessa area statale, succede alla connivenza e
alla cointeressenza alla distruzione del caposaldo della forza e della dignità
araba, ma resta fragile alla luce dei caratteri egemonici che caratterizzano le
ambizioni delle due entità.
La
fetta curda
Area storica curda in Siria – area appropriata oggi
Al
momento l’attrito maggiore, nella pausa dello scontro tra filo-israeliani e i
gangster di Al Sharaa, è quello tra Damasco e la nuova realtà fattasi largo
sotto protezione statunitense nel nord-est della Siria. I curdi, usciti grazie
a quella tutela, interessata a minare alla base l’unità pluralista e inclusiva
della Siria, dalla loro area nell’estremo nord-est, al confine con il Kurdistan
iracheno, si sono appropriati di una vasta area comprendente le maggiori
risorse minerarie e agricole siriane. La stessa che ospita le basi e 2.500
militari USA. Una regione che va da Afrin, sul confine turco, alla capitale
Raqqa e a Deir Ezzor, già sottratte all’ISIS (più dai bombardamenti USA, per la
verità, che dai combattenti delle sedicenti Forze Democratiche Siriane. In
effetto integralmente curde).
Manifestazione
curda in Siria con bandiere israeliane
Con
riferimento all’annoso conflitto interno tra secessionisti (o autonomisti)
curdi e Ankara, la presenza curda in larga parte della Siria risulta ad Ankara
altrettanto intollerabile quanto quella su suolo turco. Intolleranza che si
esprime in occasionali attacchi armati e bombardamenti turchi, ma che resta
contenuta dalla protezione americana e israeliana di cui questa minoranza gode.
La
mia Siria
A
partire da Palmira, il gioiello urbano dalla triplice tradizione,
aramaica, fenicia, greca e romana, devastato dai mercenari NATO dell’ISIS nel
solco della necessità imperiale di annientare qualsiasi segno di identità. Fu
Al Jolani a fra trucidare Khaled al Asad, il direttore del sito, martire per
non aver voluto rivelare dove erano stati custoditi i reperti più preziosi.
Insieme a Omar al Khayyam, la grande moschea degli Omayyadi, il souq (mercato)
di Al-Hamidiyah che al tempio conduce come una freccia, un lungo viale dai
mille colori e suoni, costellato di botteghe che odorano di Medioevo. Vi ho
comprato tutte le mie kefieh. E poi tante antiche città e castelli storici,
come Bosra, Palmira, Aleppo, Krak des
Chevaliers e Qalʿat Salah al-Din, Patrimonio dell’Umanità per
l’UNESCO.
Ebbi
la fortuna di intervistare Nūr al-Dīn al-Atāsī, da poco presidente della Siria,
cui succedette nel 1970 Hafez el Assad, entrambi esponenti della rivoluzione
nazionale e socialista del Baath, l’organizzazione fondata da Michel Aflak. Un
intellettuale cristiano che aveva
studiato alla Sorbona e il cui partito divenne protagonista della liberazione
dal dominio francese e della conquista dell’indipendenza nel 1946. Si fece poi garante anche della libertà del Libano contro
le incursioni israeliane e le rivendicazioni dell’antico padrone coloniale
francese.
La Siria prima di Al Sharaa, prima della Sharìa, prima
del velo.
Siria e Israele destini
paralleli e contrari
Si potrà individuare un
equilibrio tra passo e contrappasso, confrontando il suicidio israeliano con il
nazionicidio della Siria. Da un lato l’avventura militare risoltasi in
genocidio senza vittoria e con la perdita secca in termini umani (suicidi, diserzioni,
rifiuti, migrazione al contrario), economici (i costi della guerra, la perdita
di quadri professionali, la scomparsa di investimenti esteri), di credibilità e
legittimazione. Ma è nel destino di uno Stato, nato, cresciuto e morituro
fuorilegge, compiere la missione che s’è dato: oggi, avendoli definiti
terroristi, lo Stato fuorilegge decreta che i suoi prigionieri, combattenti
della libertà, attualmente 10mila nelle carceri della tortura verificata,
debbano essere condannati a morte. Dopo Marzabotto, le Fosse Ardeatine. E in
Cisgiordania il genocidio strisciante va assumendo i caratteri totali di Gaza. Uno
Stato deciso a non morire da solo.
E le stelle stanno a
guardare.
Dall’altro
lato, l’annichilimento di una realtà identitaria, culturale, di comunità
sovranazionale, di valore strategico regionale e ben oltre, segnata dal felice
sposalizio di antico e moderno, laicità, pluralismo, fiducia nell’uomo. Chi ci
rimette, ma in misura rimediabile, sono i giusti. Chi di più, gli ingiusti.
Perché i giusti, come hanno sempre prevalso sull’oscurità, prevarranno anche
stavolta. I fascismi, sotto qualsiasi forma si propongono, alla fine
soccombono. Tempo al tempo. Ma la Storia sta dalla parte dell’umanità.
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