martedì 2 dicembre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta --- ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

 

 

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico

Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta

ANGELI E DEMONI NEL MESSICO

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__dal_cartello_zeta_alla_generazione_zeta_angeli_e_demoni_nel_messico/58662_63941/

 

https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE  (si combina bene con la lettura)

https://youtu.be/n1S-1XCrSnM  (qui s’impara anche lo spagnolo)

 

Di Zeta in Zeta

Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta provando a buttare per aria un po’ di governi.  Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…

Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato, amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800 primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali  tanto sangue è stato fatto versare da farci annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.

Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono intollerabili.

Rivoluzione colorata Zeta

Così Trump, sistemato il Venezuela con l’attivazione del killeraggio CIA, la minaccia aeronavale dell’imminenza di un intervento e con 50 milioni di dollari di taglia su suo “narcopresidente “Maduro, boss del cartello “Dei soli”, peraltro inesistente, dichiara qualche settimana fa, tra una buca di golf e l’altra: “ Ho dato un’occhiata a Città del Messico. Ci sono dei grossi problemi laggiù… Non sono affatto contento del Messico. Lancerò delle operazioni contro il Messico per fermare la droga? Mi sta bene. Qualsiasi cosa, pur di fermare la droga”.

Passano pochi giorni ed ecco che, puntuale, fa la sua epifania in Messico la Generazione Zeta. Prima una serie di chiassate antigovernative – corruzione, troppa violenza criminale, aver lasciato ammazzare un bravo sindaco anti-droga, Carlos Manzo – poi la prova di forza il 15 novembre. L’assalto violento a Città del Messico al Palazzo Presidenziale – 120 feriti, di cui 100 quasi inermi poliziotti –con l’abbattimento delle barriere di protezione e tentativo di penetrare nel palazzo. Decine di migliaia di “giovani Zeta” (Zeta come coloro che, con lo stesso vessillo pirata, hanno buttato per aria il governo di sinistra del Nepal e ci stanno provando con quello di Belgrado), di cui le immagini mostrano però soprattutto facce attempate, tipi da agiato ceto medio. Il che non toglie che all’evento dedichi il suo entusiastico commento la grande stampa che sta in, e guarda a, un Occidente in marcia verso i suoi migliori decenni della prima metà del ‘900, oggi condominio di Deep State, Trump, Netaniahu e Ursula.

 

Punta di lancia Zeta in Messico, Carlos Bello, padrone della prima TV messicana, “Azteca” e del Gruppo Salinas, potente aggregato di media, telecomunicazioni, attività finanziarie e supermercati, inquisito per un’evasione fiscale da 2,6 miliardi di dollari. Impunito, come usa da noi. Bello è anche sostenitore del neo partito “Forza e cuore per il Messico”, successore dei discreditati e sconfitti partiti di destra, PRI e PAN, che hanno tenuto la barra nazional-coloniale privatista, liberista e narcotraffichista, da cent’anni a questa parte.

Non potevano non annuire alle parole di Donald Trump, gli ex-Vicente Fox (il cui capo della Sicurezza, Genaro Luna, fu condannato per traffico di droga in combutta col cartello Sinaloa) e Felipe Calderon, vecchi sodali  di Clinton, Bush e Obama nel Palacio Nacional, sempre pronti a spostarsi tra Neocon democratici, il secondo Bush e il taumaturgo giallociuffato, a seconda di chi, dalla Casa Bianca, gli intimava di stare sull’attenti e non disturbare né CIA, né DEA, nè i loro narcoriferimenti messicani. Tra i quali nel Palacio si privilegiavano i cartelli Sinaloa e, ristupitevi delle coincidenze, lo Zeta.

C’è da meravigliarsi che in tutto questo abbiano svolto un ruolo di sostegno e “approvvigionamento” enti caritatevoli come CIA, Fondazione Ford, Open Society di George Soros, l’Atlas Network, una rete di centinaia di Think Tank pro-libero mercato, legata al Dipartimento di Stato (che finanziò pure il golpe anti-Chavez del 2002), il portale “Animal Politico” generosamente finanziato dalla National Endowment for Democracy (NED), braccio del regime USA per le iniziative di regime change?

Tra Chiapas, Belgrado e salvataggi in mare

Non è la prima volta che un movimento, con forti appoggi internazionali multilaterali, mette in discussione l’assetto istituzionale del paese. Nel 1998 mi accodo da cronista del TG3 a una spedizione in Chiapas organizzata dal gruppo di Luca Casarini, detto allora delle “Tute Bianche” e che si sarebbe fatto notare al G8 del 2001 a Genova. Lo avrei rivisto, segnato da analoga coloratura politica, nella Serbia dell’attacco Nato, ospite di una radio-tv di George Soros, B 92, impegnata contro il governo socialista di Milosevic. L’attualità lo vede processato per reati legati al traffico di migranti e, finalmente, coccolato da papa Bergoglio, per i meriti conseguiti con la supernave “Mediterranea, Saving Humans”. Un’altra nave, la Mare Jonio, con lo stesso Casarini, fu poi scoperta essersi fatta trasbordare 27 migranti, per 127mila dollari, da un mercantile dell’armatore danese Maersk, suscitando un processo della Procura di Ragusa, tuttora in corso, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Perché questa deviazione casariniana dalla spedizione delle Tute Bianche in Messico? Perché non potei evitare di constatare come la spedizione di Casarini tra gli indigeni Maya, mobilitati dal “Subcomandante Marcos”, già studente dell’università autonoma di Città del Messico, UNAM, fosse in qualche modo in sintonia politica con le altre sue imprese. E pure questa benvista e sostenuta dalla Chiesa.

Dopo la clamorosa occupazione, da parte dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), di San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas, in segno di protesta contro l’appena approvato NAFTA, accordo nordamericano di libero scambio, che consegnava l’economia messicana nelle mani di Wall Street, il movimento zapatista fu da noi considerato una specie di avanguardia anticapitalista. Arrivarono compagni entusiasti da mezzo mondo ad abbeverarsi alle fonti rivoluzionarie de La Realidad, municipio zapatista nella selva Lacandona.

Così noi con le Tute Bianche. Momento apicale e rivelatore fu un incontro con il leader spirituale del movimento, Samuel Ruiz Garcia, vescovo di S. Cristobal. Ci indirizzò a “liberare” la comunità oppressa del villaggio di Taniperla. Scoprimmo all’arrivo che pure quelli erano Maya, pure quelli autorganizzati, ma restii a inserirsi nel gruppo di Marcos. Motivo? Erano convinti protestanti, mentre quelli del “Sub” erano rigorosamente cattolici. Il nostro mandato era di aiutare Taniperla a tornare dalla parte dei buoni.

L’indirizzo politico di Marcos, segnato da un intransigente localismo indigenista che non gradiva commistioni con quanto di pur valido si muoveva in ambito nazionale messicano, trascinò la comunità maya a un’ostilità sempre più pronunciata verso le sinistre messicane. Al punto di organizzare spedizioni propagandistiche in moto, a cavallo, in giro per tutto il Messico, contro la candidatura di Andres Manuel Lopez Obrador, amatissimo – da operai, proletari e mondo antimperialista - sindaco di Città del Messico, leader del partito progressista “Morena” e candidato alla presidenza. “Obrador? ”, chiedeva retoricamente, “ma se sono tutti uguali!, parlano parlano, ma finiscono col fare le stesse cose dei liberisti”. Collocava il politico, sostanzialmente zapatista e rivendicatore della sovranità del Messico, a fianco di soggetti criminali come i narcopresidenti Salinas de Gortari, Vicente Fox e Felipe Calderon.

Queste spedizioni di Marcos e dei suoi seguaci contribuirono non poco a che Obrador fallisse alle elezioni presidenziali sia del 2004 (queste pesantemente manipolate), che del 2008. Ma non in quelle 2018, quando Marcos si era ritirato dalla scena (ricomparirà brevemente, nel 2024, per osteggiare la nomina di Claudia Sheinbaum, ingegnere, accademica, ecologista, erede di Obrador, a candidata alla presidenza) e ogni opposizione e tentativo di ripetere i trucchi del passato venne travolta da una marea incontestabile di voti.

 

 

 

 

Messico, i demoni

Mi ritrovai in Messico per un nuovo documentario una dozzina d’anni dopo, regnante Felipe Calderon, da tutti considerato vicino al cartello Sinaloa – ma neanche tanto lontano dagli altri cartelli, Juarez, Tijuana, Beltrán Leyva, del Golfo, Caballeros Templarios - e vicinissimo al Dipartimento di Stato che qui aveva dislocato alcune unità di forze speciali. Non certo per disturbare la sinergia tra cartelli, polizia messicana e DEA (ente USA “’per la lotta al narcotraffico”), visto che sono oltre 100 miliardi i dollari che entrano ogni anno nel sistema bancario USA, ma per dare una mano alle forze di sicurezza nazionali nel disciplinamento di eventuali rigurgiti antagonisti. Che c’erano, irriducibili.

Nei mesi da me trascorsi in Messico, tra 2008 e 2010, in un paese militarizzato oltre ogni misura, si contano 30.196 morti ammazzati, 23.500 donne in media ogni anno, 3.200 desaparecidos. Il 93% di questi delitti non viene indagato grazie all’intreccio omertoso e di interessi tra criminalità e autorità Ogni anno arrivano dal Sud 600.000 migranti. 20.000 risultano poi sequestrati, torturati, stuprati, uccisi, spesso decapitati, fatti sparire. Da 200 a 300 in media, sui due lati del confine USA, finiscono nelle mani di tagliagole a questo scopo reclutati.

Nella “guerra al narcotraffico” e nella caccia al migrante sono impiegati 180.000 effettivi, tra esercito, marina polizie federali e locali, più gli “specialisti” allora spediti in appoggio da Obama. Il cartello degli Zeta, il più efferato, è composto da ex-effettivi delle truppe d’èlite messicane, addestrate a Fort Bragg, Carolina del Nord. Almeno metà dei.2.500 municipi messicani erano sotto il controllo dei cartelli della droga.

In 3000 miliardi di dollari sono calcolati gli utili annuali del traffico di droga. Questo passa per i corridoi Colombia-Centroamerica-Messico, via terra, mare o aria (parallelo a quello che allora correva dall’Afghanistan, occupato dalla NATO, l’Iraq, pure occupato, Kosovo, Calabria. Sicilia, Occidente. Ne sapeva qualcosa Buscetta. Soldi che finiscono nelle disponibilità della finanza USA, a sostegno dell’economia più indebitata del mondo. Destinazioni privilegiate: New York, Florida, Texas e Arizona, stati che sostengono con donazioni l’80% delle campagne presidenziali. Sono 5 trilioni i dollari sporchi entrati neri circuiti finanziari USA nel primo decennio del secolo. Superavano tutti i trasferimenti da petrolio e armi. Coca e Fentanyl servono qui come servì l’oppio alla Regina Vittoria contro la Cina. Chi da noi se ne occupava con grande perizia e competenza era Pino Arlacchi, vicesegretario dell’ONU e responsabile della lotta al narcotraffico. Sono funzionari ONU che non hanno lasciato successori, come non li hanno lasciati segretari indipendenti e decisi come Kurt Waldheim, o Boutros Ghali.

Maquiladoras

E anche questo stato di cose che garantisce che il 19% più ricco superasse negli USA di 50 volte quello del 10% più povero, mentre il 60% dei messicani viveva sotto il livello di povertà. L’1% possedeva il 50% della ricchezza nazionale, il 70% raggiungeva a malapena i 2 dollari al giorno. Zero previdenza e assistenza sanitaria per metà della popolazione. Un dato quest’ultimo che riguardava anche le migliaia di operaie che, con contratti di mese in mese, anche per 10 anni, cacciate al primo errore e spesso consegnate ai boia narcos se provavano a protestare o sindacalizzarsi, impiegate nella maquiladoras, la catena di stabilimenti che le grandi industrie USA avevano dislocate a Chihuahua, nel nord del Messico. E che Trump aveva promesso di riportare a casa. Prima di preferire di dedicarsi alle guerre geopolitiche.

La terra, solo nel mio ieri, apparteneva al 97% a una trentina di latifondisti che di tutto si curavano fuorchè dell’alimentazione di base della popolazione. Il 3% restava a 400.000 piccolissimi contadini. 12 milioni di questi erano senza terra. Il 70% dei lavoratori erano sottoimpiegati e sottopagati.

Tutto questo alla faccia della prima rivoluzione del ‘900, quella di Emiliano Zapata e Pancho Villa, unici vincitori latinoamericani degli USA sul terreno di battaglia, prima di Cuba. La dittatura di Porfirio Diaz, solito fantoccio yankee, allora abbattuta, si ricostituì dopo un decennio. Un’altra spallata fu tentata dagli studenti nel ’68, sull’onda del movimento che in tutto l’Occidente, a partire dal Vietnam (oggi Palestina), prova a minare le basi fondanti del capitalismo imperialista. E fu la strage della Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, 400, forse 800 (il regime non li volle contare) ragazzi massacrati da esercito e politizia. Oggi li ricorda un museo cosparso di scarpe, borsette, libri, quaderni, bottiglie Molotov, barriere carbonizzate, foto di morti e feriti, facce. Presidente Gustavo Diaz Ordaz, dell’eterno PRI (Partido Revolucionario Istitucional).

 

Era questo il paese che attraversai dall’estremo sud, dove Messico e Guatemala sono separati dal fiume Suchiate. Da questo enorme corso d’acqua arrivava, attraversatolo su pneumatici di camion, l’alluvione dei disperati delle Repubbliche delle Banane diretti nel “paradiso nordamericano”. Quel “paradiso” promesso e oggi da Trump negato, aveva la sua anticamera nel cimitero dei vivi di Chihuahua e Ciudad Juarez, terreno di cacciatori statunitensi di teste, attestati sui due lati del confine. E lo zapatismo, ormai ombra di se stesso, ridotto a viale dello “zapaturismo” a San Cristobal per nostalgici e reduci di illusioni e sconfitte, ha provato a svolgere un ruolo in occasione della rivoluzione colorata degli Zeta (intesi come movimento). Ha riattivato in Chiapas una certa mobilitazione anticentralista, accompagnata dalla solita condanna di tutte indistinte le forze politiche, “tutte uguali”, anche quelle che stavano riscattando dignità e giustizia, diversamente dagli attivisti Zeta degli assalti ai palazzi del governo a Città del Messico nella prima metà di novembre.

Passa un treno merci. Sopra e ai lati, abbarbicati, centinaia di migranti centroamericani. Al confine sono scampati alle pandillas, le bande di giovani delinquenti che li spogliano di tutto, Qualcuno, a gambe divaricate, pende sospeso tra un vagone e l’altro. Viaggiano così per giorni, senza biglietto, assieme a sacchi di soia, zucchero, cemento. Qualcuno crolla e finisce sotto le ruote. Il treno rallenta. Un signore in disarmo che dimostra settant’anni, ma ne ammette 61, dice di andare in Nordamerica, da un nipote, per trovare quel lavoro che a casa sua non gli danno più: “Dopo i 40 ti buttano. Ma se non c’è speranza, non c’è più niente…”. Tanti che non ce l’hanno fatta a prendere il treno, li ho visti, tra cani inscheletriti e neri avvoltoi, rovistare tra i rifiuti della grande discarica di Tapachula, prima città dopo il confine. Arrivano caporali in auto e li pagano per aver ricuperato qualcosa di commerciabile. Al confine nord li aspettano i cacciatori di teste.

Messico, angeli contro demoni

Sono a Oaxaca nel centrosud del paese, città e Stato della perenne resistenza, sia indigena, degli indios Triqui, cui l’estrazione nordamericana sottrae acqua e foreste, sia creola e bianca. Nel 2006, al cambio tra i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon, una gigantesca rivolta di popolo, studenti, giovani e soprattutto, come poi vedrò ovunque nel Messico, donne. Calderon è stato insediato, grazie al fatto che aveva sottratto 1 milione di voti a Obrador, fatto provato dal Tribunale Supremo Elettorale. Ma lasciato correre.

La lucha sigue. la lotta continua, mi assicurano, con un termine che mi è famigliare, le donne, perlopiù operaie e insegnanti, che animarono una rivolta per la conquista di diritti fondamentali, sociali e ambientali, per l’istruzione e la sanità pubblica, contro la manomissione del territorio da parte delle multinazionali minerarie. Una sollevazione che, tenne in scacco le forze della repressione per settimane, Continuano a percorrere il territorio, a invitare delegazioni fraterne straniere, sfidano minacce e repressione.

Una repressione che, più a sud, Chiapas, è costata arresti e maltrattamenti alla comunità agricola “Lopez Hernandez” di mezzo migliaio di persone, parte della rete “Organizacion Campesina Emiliano Zapata”, che nulla ha a che fare con gli zapatisti dell’ex-Marcos. La loro autonomia, che aveva ridato vita e coltivazioni a 215 ettari di terre ancestrali, a suo tempo sottratte da un unico latifondista al quale gli spagnoli avevano assegnato 1.600 ettari. Il regime gli negava riconoscimento, scuola, sanità, l’acqua andava presa a 130 minuti di cammino. Quando gli uomini della comunità furono tutti arrestati, sono state le donne a mandare avanti i lavori sui campi e all’interno della comunità. La lucha sigue. Si capisce perché il Messico fosse allora il paese a più alto tasso di femminicidi.

Il cuore dell’elaborazione politica e della lotta al sistema totalitario che le presidenze PRI e PAN hanno continuato a rafforzare sono sempre state le università, in testa l’UNAM, Universita’ Nazionale Autonoma del Messico e l’UNAC, Università Autonoma di Ciudad Juarez. Nella prima incontro i ragazzi del Comitato Cerezo, sono quattro fratelli e una sorella tra i 22 e i 30 anni, tutti con alle spalle chi 5 e chi 7 anni di galera, comprese le torture, punizione di attività politiche nonviolente. Sono figli di una coppia tuttora latitante che militava nell’ERP, Esercito Revolucionario del Pueblo, una formazione guerrigliera marxista, diffusa in molti paesi latinoamericani in risposta alle dittature installate dal colonialismo yankee. All’UNAM hanno aperto uno sportello per l’assistenza agli studenti, in materia di corsi, controversie burocratiche, carenze accademiche, conflitti con le autorità dell’ateneo, o della città, o dello Stato. Continuano a rischiare, ma si espongono ed esprimono la certezza che prevarrà quanto va crescendo nel paese, attraverso anche la rivisitazione di rivoluzioni e riscatti passati e in collegamento con nuove realtà alternative emerse nel mondo.

La loro fiducia mi viene confermata a Chihuahua e nella città di confine Ciudad Juarez, dirimpetto a El Paso texano che, con i suoi 17 negozi di prodotti militari, è la generosa e semiufficiale fornitrice di armi alle gang sull’altro lato del Rio Grande/Rio Bravo e della penetrabilissima cortina USA di ferro e torrette che lo affianca.  Allora qualcuno chiamava questa regione El infierno del Norte. E a buon titolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Discesa all’inferno

La prima cosa con cui, arrivando a Chihuahua, capitale dello Stato omonimo, ci si scontrava, con tanto di trambusto emotivo, era un monumento. Monumento raffazzonato come da chi lo mette su in fretta, guardandosi alle spalle, forse inseguito, disperato. Una specie di quadro gigante, in faccia al grande palazzo barocco governativo, dalla cornice e base color sangue, costellata di chiodi, stracci di vesti intime insanguinate, manichini nudi spezzati e arti sparsi. E’ il monumento, non so se c’è ancora, al femminicidio. Quella strategia dell’intimidazione e del terrore che, assieme alle teste mozzate dei rivali nella lotta per il controllo degli stupefacenti, serviva ai poteri di allora – e dalle nostre parti anche adesso – per tenere in ceppi di paura i sudditi.

Terra allora desertificata, abbandonata da dio e dagli uomini che dovrebbero coltivarla e custodirla. Ricordo periferie vuote, case mezze costruite, sterpaglie dappertutto. Ricordo un angolino di quartiere, cento metri per venti, dove la gente si ritrovava a passeggiare, a far giocare i bambini con dei grossi pupazzi gonfiati, a chiedere e dare l’elemosina alla solita mamma india con due bimbetti appesi, ad ascoltare e fare musica, perfino a ballare. E ricordo una madre cui avevano ammazzato la figlia e che davanti al palazzo del governo protestava, protestava, finchè qualcuno non l’ha portata via. Ora figura su una delle croci rosa che ricordano donne ammazzate e che fioriscono dalla periferia di Chihuahua fino a quella di Ciudad Juarez, il cimitero dei vivi, a nord, sul confine. E, entrandovi, il più bel monumento a Don Chisciotte che abbia mai visto. Continua a lottare contro mulini a vento.

Qui ti devi muovere circospetto. Di giorno i padroni del luogo, quelli del traffico tra qui e la El Paso delle banche e dei corrieri verso l’interno degli States, impongono il coprifuoco per quando devono fare grossi spostamenti, o retate di importuni. Quando vedi passare automobili sfacciatamente senza targa, sai chi passa. C’è vita di notte, ombre seminude lungo viali bui, locali dove si balla e, al piano di sopra, dei video glorificano, davanti a maschi compiaciuti e sghignazzanti, le imprese dei narcos. Prostituzione e droga. E ciò di cui si nutrono i padroni. Ecco perché i femminicidi. Si rapisce, si abusa, di rifornisce la tratta, si uccide, si butta.  E’ anche questa la guerra dei ricchi ai poveri.

Ed ecco perché non dimenticherò mai Miriam Valdiviero, operaia, Marisela Ortiz, direttrice di una scuola, Irene Miramontes, Norma Ledezma, Norma Andrade, Virginia Berthaud: tutte madri di figlie perdute, scoperte, a volte dopo anni, senza vita e senza vesti, o mai ritrovate, ancora attese. Tutte impegnate in organizzazioni per la lotta al femminicidio, al sistema, al governo, a Felipe Calderon, presidente fellone. Associazioni che fanno elenchi, ricerche, denunce, mostre di foto con storie di donne, ma anche informazione, cultura, convegni, musica, manifestazioni. Si chiamano “Justicia para nuestras fijas”, ““Nuestras fijas del regreso a casa” e in tanti altri modi.

Con Marisela, nella cui scuola insegnanti donne offrono ai ragazzi vita, valori, soddisfazioni, alternativi a quelli per i quali i boss provano a reclutarli, ci spostiamo in macchina. Dalla radio c’è il bollettino del mattino su quanto è successo nella notte: di quartiere in quartiere, di paese in paese, un interminabile rosario di morti, sparizioni, bagni di sangue.

Chi non si lascia intimidire, nel cimitero dei vivi, sono i ragazzi dell’Università Autonoma di Ciudad Juarez. Leonardo Alvarado, loro professore di informatica e capo di un Comitato di Lotta, parte del Fronte Nazionale contro la Repressione che regolarmente sfida con manifestazioni i guardiani del finto ordine, ci parla, attorniato da ragazze e ragazzi, di un “Cuore della resistenza che batte, a dispetto degli emboli che gli spara il sistema”.

 Maria Davila contesta il presidente Calderon

Ma chi non dimenticherò mai è una piccola donna, Maria Davila di Ciudad Juarez, di una modestia pari alla sua granitica determinazione. E’ lei il Messico. Riassumo il racconto che mi ha fatto. Il 31 gennaio 2010 una classe di ragazzi delle superiori festeggia un compleanno. La polizia fa irruzione, spara a casaccio, ne uccide 17. Due erano figli di Maria. Il clamore del massacro costringe il presidente a intervenire. Dal palco, Felipe Calderon giustifica l’assurda mattanza accusando i ragazzi di aver fatto parte di una banda di malviventi. Maria Davila non ci sente più, si erge davanti al palco, da piccola diventa grandissima. Accusa il presidente di mendacio per coprire i suoi sicari. Costringe Calderon a ritrattare e poi ad allontanarsi sotto una grandine di fischi e improperi.

Siamo all’oggi, agli altri Zeta, a Claudia Sheinbaum, prosecutrice del riscatto lanciato nel 2018 da AMLO, Andres Manuel Lopez Obrador, quando finalmente i maneggi elettorali e di Marcos non sono riusciti a sottrargli la vittoria. I militari USA, che, fingendosi anti-narcos, contribuivano a mantenere l’ordine costituito, sono stati rimandati a casa. E subito Trump, come con Venezuela e Colombia, ha tuonato contro il paese, da sempre considerato appendice del grande vicino, attribuendo al suo governo il ruolo di capo narcotrafficante.

La lotta degli USA ai narcos è come la loro lotta ai terroristi islamici: li creano, fingono di combatterli attribuendoli agli Stati che hanno programmato di abbattere.

 

Il ritorno di Emiliano Zapata, subito “narcotrafficante” anche lui

Lopez Obrador e Claudia Sheinbaum

E così, dopo alcuni tumulti di preparazione, il 3,7,12 e 19 ottobre, essenzialmente destinati a impostare la narrativa dei media, ecco, il 15 novembre, gli Zeta assaltare il Palazzo, alla nepalese, serba, georgiana, primavera araba, ucraina, alla Otpor, quando si trattava di finirla con la Jugoslavia. Pretesti? I soliti stereotipi delle rivoluzioni colorate,buoni per ogni occasione. corruzione, violenza, autoritarismo, qui anche l’assassinio dell’anti-narcos sindaco di Uruapan Carlos Manzo, i

Il problema vero è che né Obrador, primo presidente di sinistra dopo Lazaro Cardenas negli anni ’30, né Sheinbaum, per quanto avessero fatto, in un mandato e un pezzetto, non erano riusciti ad estirpare del tutto il cancro secolare che era servito a imporre alla società la sottomissione al diktat del capitale nazionale e, soprattutto, nordamericano. Epperò, con la proclamata “Quarta Trasformazione”, 4T, si erano permessi di rafforzare le nazionalizzazioni (petrolio, elettricità), ripubblicizzare quanto era stato privatizzato, la riduzione delle spaventose diseguaglianze sociali con provvedimenti di ricupero sociale come l’aumento di tutte le prestazioni sociali, il ripristino delle risorse idriche e forestali, la promozione di infrastrutture come le ferrovie, provvedimenti per porre fine allo stillicidio della violenza sulle donne, un piano ambientale radicale di 6 anni con la fornitura di servizi idrici a tutte le abitazioni, la messa al bando della plastica monouso. E, priorità assoluta, migliaia di arresti di esponenti e manovalanza del narcotraffico, senza che ciò abbia significato la tradizionale militarizzazione di società e territorio.

E, particolarmente odiosi per il grosso vicino, fin dai tempi di Biden, i rapporti fattivi, o di solidarietà e condivisione, con entità invise ai Stelle e Strisce, come Palestina, Russia, Cina, Iran, BRICS. La vicinanza concreta con lo schieramento sovrano e antimperialista dell’America Latina, da Cuba al Nicaragua, dal Venezuela alla Colombia e all’Honduras. Sheinbaum, ebrea, dichiara di riconoscere lo Stato di Palestrina, accoglie il primo ambasciatore palestinese in Messico, stigmatizza il genocidio di Gaza. Da sindaco aveva reso irriconoscibile la capitale, disinquinandola e decongestionandola con corridoi preferenziali per autobus elettrici e l’ammodernamento della metro e la moltiplicazione di alloggi popolari, in una metropoli dagli affitti irraggiungibili. Oggi Claudia Sheinbaum ha il torto di godere di un indice di approvazione di oltre il 70%, in alcuni settori e stati federali, dell’80%.

Le donne che ho incontrato e quella che oggi regge le sorti di un Messico da restituire a Emiliano Zapata ci fanno riconoscere che oggi l’America Latina è donna.

Tutto questo basta e avanza per galvanizzare i nostri media a tratteggiare del Messico lo stesso quadro onesto, consapevole e rispettoso, proposto per il Venezuela del “narcos Maduro” (vedi il disinformato Pino Corrias sul Fatto Quotidiano del 27 novembre, un inconcepibile assist alle cannoniere di Trump). Siamo bravissimi a farci riconoscere.