Mi ribolle il sangue, come suol dirsi, e mi bruciano i nervi. Mi scapperà un discorso retorico. Ma non sarà retorica.
Un primatista, un eroe, un simbolo della libertà in generale e della libertà di stampa su tutte, un faro del giornalismo mondiale, un combattente per la verità e contro la menzogna e il crimine politico-sociale-militare, è finito da anni in un buco nero, inseguito e azzannato da una muta di belve subumane, dimenticato, occultato, tradito, colpito alla schiena da coloro che si atteggiano a colleghi.
Julian Assange è nome, è simbolo, è parola nobile, è impegno, è invocazione, che nessuno dei sedicenti giornalisti, effettivi copywriter di una scadente agenzia di pubblicità italiota al servizio della crocchia mondiale del malaffare, osa pronunciare o mostrare. Gli brucerebbe la bocca, la faccia tutta, facendo il lavoro dell’acido muriatico sullo sporco profondo.
Julian Assange è una bandiera che svetta sul mondo in resistenza all’assalto finale dei congiurati del Nuovo Ordine Mondiale. Ha la colpa irrimediabile, da punire in eterno, di aver gettato un fascio di luce sulla verità per noi tutti più importante, più contraffatta e nascosta: chi governa la parte occidentale della Terra e allunga i suoi artigli sul resto, governa in nome esclusivamente di sé. Del crimine, dell’abuso, della morte, del male assoluto.
Dall’inizio della Storia gruppi di mostri travestiti da umani si sono uniti in setta e covo di potere per infliggere all’umanità un’ininterrotta serie di delitti, abusi, atrocità, stragi, fino al genocidio sistematico e prolungato, come previsto da guerre, sanzioni, neoliberismo, e oggi anche dal virus e dal 5G.
Nel momento in cui questo apparato di morte transnazionale, utilizzando i falsari della democrazia e profittatori di guerra statunitensi e Nato, si è scagliato contro un’umanità indocile, in particolare contro quella irachena e latinoamericana, il mondo dei manipolati, illusi, creduloni, è stato abbagliato e liberato dalla controverità del giornalista australiano Julian Assange e dal suo Wikileaks.
Centinaia di migliaia di documenti segreti, rivelatori dii crimini, hanno squarciato, come fosse carta velina, la parete di calcestruzzo eretta, virtuale, ma efficace quanto il muro in Palestina, a protezione della menzogna e dell’occultamento. Un muro costruito intorno ai colpevoli dal sicariato politico e “giornalistico” da loro assoldato. Un sistema di secretazione, collaudato nei secoli, si è disintegrato e ha mostrato al mondo “di che lacrime grondi e di che sangue…”
Julian Assange è in ceppi da quasi 9 anni. Prima rinchiuso a Londra, ma protetto contro i suoi persecutori, nell’ambasciata dell’Ecuador governato dall'antimperialista bolivariano Rafael Correa . Poi rinserrato e seviziato, attraverso privazioni ed esclusione, dal regime di Quito che i suoi persecutori erano riusciti a intestare a un loro fantoccio-boia. Poi, nel 2019, rapito a forza dalla polizia di uno Stato che vanta più sangue altrui sulla propria storia di qualsiasi altro, è rinchiuso in una prigione della tortura e dell’annientamento psicofisico. Il responsabile ONU per la denuncia della tortura, Nils Melzer, ha ripetutamente denunciato come tale il trattamento inflitto ad Assange.
Si sono sollevati contro le sevizie a Julian, ridotto in fin di vita, e contro gli abusi ai suoi legali, perfino i compagni di prigionia nel medievale carcere di massima sicurezza di Belsham. Ininterrotte sono state le proteste in tanti paesi, al cui oggetto, il giornalista imprigionato, si è poi andato sommando l'incalzare degli osceni abusi contro la libertà di stampa del nuovo bio-tecno-totalitarismo.
Violenze sempre più diffusamente e accanitamente esercitate su chi ancora pretende di informare onestamente, al di fuori e contro la palude della menzogna e dell’inganno e dei rospi che vi gracidano fandonie su soggetti che si sottraggono al dogma del pensiero unico.
Assange, che ha smascherato e svergognato la strategia necrofora della cosiddetta esportazione dei diritti umani, ci ha fornito le armi contro fenomeni di lacerazione, frode e sottomissione dell'umanità, come gli intenti umanitari del regime USA, l’antirazzismo di Antifa e di Black Lives Matter, i mandanti del terrorismo, le virtù del digitale, o la minaccia del Covid.
Lunedì 7 agosto è iniziato il processo per l’estradizione negli Stati Uniti del giornalista australiano. Processo tipo quelli dell’Aja sulla Jugoslavia, o di certa magistratura, a noi assai nota, cui vien fatto sapere sempre dove colpire. La “giudice”, Vanessa Baraitser, “specialista” del ramo e celebrata dal regime per poter esibire il primato del 90% di tutte le estradizioni concesso, ha respinto, come nelle udienze precedenti, ogni richiesta della Difesa.
E’ probabile che l’imbarazzo provocato ai potenziali giustizieri dalla crescita delle proteste in varie parti del mondo, possa impedire l’esecuzione di quella condanna. Forse non l’estradizione. Di certo non fermerà l’evidente intenzione degli inchiodati dalle rivelazioni di Assange di fargliela pagare e, con lui, a tutti quelli che ancora si ostinano a remare verso la luce. Assange dovrà morire in carcere.
A noi resta, o di imparare la lezione, del resto già spontaneamente assunta dai più, o di rendere omaggio al giornalista martire mettendo i nostri passi nelle sue orme. Passi che vorranno calpestare le tracce dell’incommensurabile vergogna lasciate dagli altri, prima che siano sepolti dal proprio silenzio.
Mi piace immaginare che le generazioni che verranno dopo di noi e dopo Julian Assange, se saranno libere, vorranno ricordare questo uomo e giornalista parafrasando i versi che Foscolo dedicò a Ettore.
E tu onore di pianti, Julian, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
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