Maurizio Criscione di 9MQ intervista Fulvio Grimaldi
https://www.facebook.com/9MQ.cronaca.attualita/videos/331443953090545
In occasione di una bella iniziativa a Reggio Emilia,
Circolo ARCI Fenulli, su Gaza e la Palestina, è stata discussa la vexata
questio, la più “vexata” (lungamente dibattuta) di tutte: Come se ne esce?
Come si esce da uno Stato colonialista, razzista, predatore e vessatore di un
popolo, che conduce un genocidio da più di 80 anni, in forma strisciante che
via via si acutizza, fino a puntare oggi alla “soluzione finale” della totale
eliminazione.
Scartata l’ipotesi dei due Stati, uno grande e potente,
l’altro debole, frammentato e privo di sovranità e agibilità, da sempre
sabotata e ora ufficialmente affossata dal regime sionista, evidentemente
irrealistica la convivenza in uno Stato unico di carnefice e vittima, la
risposta che si imporrebbe è: non c’è via d’uscita. Così si è espresso a Reggio
anche un esimio relatore.
Invece la via d’uscita c’è, l’unica realistica, l’unica
possibile, l’unica giusta. E’ imposta da criteri geopolitici, economici e,
soprattutto, demografici. Per lo Stato sionista non c’è futuro. Anche perché la
Storia ci conferma come non ci sia colonialismo che non sia stato sconfitto.
In Israele e nei territori occupati e sequestrati ci sono 7,
45 milioni di ebrei, al 90% immigrati, a fronte di 7,53 milioni di palestinesi,
compresi i cittadini arabi di Israele, che sono il 21% della sua popolazione.
Gli ebrei sono già una minoranza tra il 46 e il 47% e il loro tasso di
riproduzione è fortemente inferiore a quello palestinese. L’abominevole umiliazione
dei civili maschi di Gaza, denudati, bendati, legati ed esibiti in ginocchio
alle telecamere, porta il segno di questa debolezza israeliana. Disseminati in
campi profughi tra Libano, Giordania, Iraq, Siria, Egitto, altri 5 milioni di
palestinesi sono decisi, non meno di quando furono espulsi, a esercitare il
diritto al ritorno, sancito dall’ONU.
Aggiungiamo che Israele, con i suoi 7.450.000 abitanti ebrei,
è circondata, volendo assediata, da 450 milioni di arabi che, grazie alla
sapienza politica della Resistenza e all’immenso sacrificio del popolo
palestinese di Gaza, hanno preso in misura decisiva coscienza del carcinoma
colonialista. Su quei 450 milioni è problematico esercitare il ricatto, o
eventualmente la rappresaglia, della bomba atomica israeliana. Ne verrebbe contaminata
a morte la stessa Israele.
Il rapporto di forza numerico volge ulteriormente al peggio
per Israele alla luce del costante e accresciuto esodo dei suoi giovani più
formati, soprattutto verso Canada, Australia e Regno Unito. Poco meno di un
milione si sono trasferiti negli Stati Uniti, 20.000 in Germania nel primo
ventennio di questo secolo. 470.000 israeliani hanno abbandonato il paese dopo
il 7 ottobre e l’operazione “Alluvione di Al Aqsa”. Le spinte sono
l’insufficiente disponibilità di occupazione ad alto livello, la perenne insicurezza,
il disgusto, ora accentuato, per quello che l’esercito israeliano è disposto a fare,
con conseguente desiderio di sottrarsi alla leva e al servizio di riserva. E di
evitarne i possibili esiti: al 28 dicembre, erano oltre 500 i caduti israeliani
(ammessi dal molto reticente governo). E gli 80mila evacuati dalla zona nord di
Israele a causa del conflitto con Hezbollah, cosa costeranno? Quanto
resisteranno negli alberghi, o in altre soluzioni d’emergenza, prima di
decidere di emigrare? Non
resta, probabile, possibile, necessaria, che la via d’uscita, non vista dal mio
amico relatore a Reggio Emilia.
la seconda Intifada, 2000-2005, quella guidata dal sei volte
ergastolano Marwan Barghouti, tuttora in cima alle preferenze nel caso di
quelle elezioni nei territori occupati che il collaborazionista Abu Mazen nega
dal 2006 (quando le vinse Hamas). Provocò, quell’insurrezione di massa, la
prima grande crisi di Israele da quella della guerra del 2003, quasi persa. Una
crisi economica e sociale, determinata dalla diffusa insicurezza, oscurò
l’orizzonte della Grande Israele. Si invertì il flusso dell’immigrazione, gli
arrivi cessarono del tutto e si erano fatte massicce le partenze. Il turismo,
importante voce del PIL, era svanito. Proprio come in questi mesi. Gli
investimenti esteri si erano ridotti al lumicino. Aggiungiamo la lacerazione
senza precedenti all’interno della società ebraica, dovuta sia al progetto
autocratico, con la guerra alla magistratura, di un esecutivo corrotto, sia al
cinismo mostruoso dell’abbandono degli ostaggi, abbandono più ai propri
bombardamenti che a Hamas
A questo crollo si era cercato rimedio con la sollecitazione
all’insediamento, nei territori nominalmente assegnati da Oslo ai palestinesi,
di coloni attirati da condizioni di estremo favore fiscale e disponibilità di
territorio. Gli 800.000 insediati e armati, oggi impegnati a terrorizzare e
devastare i centri abitati e le coltivazioni palestinesi, non hanno compensato
la fuga dei residenti.
Oggi la situazione è enormemente peggiorata. Il blocco
imposto dagli Houthi alle navi dirette ai porti israeliani, o a questo Stato in
qualche modo collegate, il disagio causato all’economia mondiale, hanno
determinato un’ulteriore vulnerabilità di Israele. Tra possibile guerra totale
con il Libano, l’inefficienza totale e il caos registrati il 7 ottobre, con
forze armate che sparano ai propri cittadini, le perdite e l’orrore di Gaza che
destabilizzano psicologicamente la società, la consapevolezza che ogni
concertazione con gli Stati arabi (gli Accordi di Abramo) è sfumata nel rogo
innescato a Gaza e che, anzi, il voto all’ONU dimostra che Israele ha contro
153 paesi su 193, ogni regolamento dei conti favorevole a Israele sul lungo
periodo si è tramutato in utopia. Tutto il disegno imperialista e
neocolonialista del Medioriente è stato messo in discussione dall’intelligenza
politica di Hamas.
Risulta definitivamente escluso da Israele, ma probabilmente
da tutte le parti in causa, al di là di ipocriti auspici, l’opzione dei Due
Stati diseguali. Appare reso impossibile, oltrechè dall’assoluta
indisponibilità dello “Stato degli ebrei”, come sancito per legge nel 2018,
dall’abisso scavato dai successivi regimi sionisti dell’apartheid, dell’odio,
della violenza repressiva, lo Stato unico binazionale. Potrebbe, Israele,
procrastinare la fine dello Stato sionista, deportando milioni di palestinesi
nei paesi arabi, a partire dal Sinai egiziano. A me esponenti del vertice
politico egiziano hanno assicurato che si tratterebbe di una linea rossa tale
da innescare una guerra, in cui non è difficile calcolare quanti altri nemici
di Israele, oltre allo Yemen degli Houthi, entrerebbero in campo. E dopo le
debacle di Afghanistan e Ucraina, sarebbe disposto un impero in crisi a
rischiare un’ulteriore, oneroso conflitto al quale si oppongono i quattro
quinti del mondo?
L’isolamento globale, che mina la capacità di manovra di
Israele e, altrettanto, quello di un impero in profondissima crisi economica,
sociale e geopolitica, porteranno al ridimensionamento dell’entità sionista-
Questo si verificherà sul piano delle complicità internazionali, come su quello
del suo potenziale militare (senza i rifornimenti statunitensi, Israele è una
tigre di carta), del resto strumentalmente sopravvalutato. Come dimostrano le
due guerre al Libano perse e l’incapacità, in tre mesi, di neutralizzare una
striscia di terra lunga 40 km e larga 10, per quanto decimata e spianata dai
bombardamenti. Isolamento che avrà le conseguenze più incisive sul piano dei
rapporti economici, degli scambi, degli investimenti con chi viene
universalmente considerato uno Stato paria. La campagna BDS, Boicotta
Disinvesti, Sanziona, dovrebbe raccogliere adesioni sempre più vaste.
I coloni, formazione violenta, di chiara natura fascistoide,
dovranno tornare ai paesi d’origine. Li imiteranno tutti coloro che ritengono
non si possa convivere con gli “animali palestinesi”. Sarà l’inizio della
decolonizzazione. Resteranno a vivere assieme ai palestinesi gli ebrei perbene.
Come succedeva prima dell’avvento del sionismo.
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