“Spunti
di riflessione” – Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti
IL
PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI
Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni
tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una
connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista.
Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.
Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa
e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di
genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri
accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico, Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non si sono sognati di levare il dito dal
grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.
La questione del momento ci fa però deviare da un piano di
pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati.
I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere
se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione
esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo
potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma
nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico,
morale, umano Trattasi della
proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in
Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di
storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo
chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.
Cioè una roba che ha visto confluire da quelle parti, nel
segno del colonialismo dai colonialisti rilanciato dopo la debacle subita a
metà del secolo scorso e con la scusa di un olocausto inflitto a una parte di
loro, un flusso di persone provenienti da ogni pizzo. Persone a cui si
riconosceva di essere, non solo vittime (il che le rendeva intoccabili), ma
anche popolo eletto, migliore di tutti gli altri e dunque impunito e
insindacabile, titolare di una terra con la quale non ha avuto nessun rapporto
né storico, né culturale, né linguistico, ma che aveva ogni diritto di
sottrarre a chi ci stava da sempre.
Tutto questo delirio di onnipotenza sembra però aver fatto
perdere la testa al regime di Tel Aviv. E non solo, visto che i sondaggi
continuano a ripeterci che dietro a Netanyahu e ai suoi macelli ci sta un
75-80% della popolazione. Infatti, a saltare sulla sedia all’ennesimo eccesso
di violazione di ogni accordo e legge, non è stata quella società che pure
aveva manifestato contro Netanyahu sulla questione dei prigionieri in mano a
Hamas, ma il partner e foraggiatore Trump. Uno, cioè, che tiene in piedi la baracca
sionista, Il suo stop all’annessione della Cisgiordania votata dal Knesset
segue l’incazzatura per il bombardamento dell’alleato stretto Qatar, con tanto
di imposizione di umilianti scuse all’emiro.
Siccome l’unico risultato della fase uno del bombastico
piano di pace sembra essere stata, a parte lo scambio dei prigionieri, la
concessione a Israele di tenersi un 53% della Striscia, quello meno devastato e
sfruttabile, dal quale continuare a uccidere chiunque si avvicinasse a
un’invisibile linea gialla, le prospettive di una fase due sembrerebbero ora coperte da una fitta nebbia.
La famosa forza di stabilizzazione composta da paesi arabi
amici e da chissà chi altro, rimane in grembo a Giove, mentre le formazioni
della Resistenza, Hamas, Jihad e Fronte Popolare, non hanno dato il minimo
segno di essere disposti a consegnare le armi. Quelle armi con le quali hanno
impedito per oltre due anni a Israele di divorare la Striscia. E ne hanno fatto
barcollare, non solo la strategia Grande Israele, per ora arenatasi nel divieto
trumpiano di israelizzare la Cisgiordania, ma addirittura il ruolo colonialista
assegnatogli 150 anni fa da Balfour.
Non esagero. L’operazione Alluvione di Al Aqsa, che ha preso
di sorpresa tutte le capacità di intelligence, sorveglianza, difesa, di
Israele, ricorda un’altra situazione nella quale lo Stato ebraico si è trovato
a braghe calate. Nei primi cinque giorni della guerra del Kippur, anche quella
non prevista dai suoi infallibili servizi, Israele, prima di recuperare grazie
agli USA, aveva rasentato la disfatta. E, secondo Moshe Dayan, addirittura
l’esistenza. Tanto che il ministro della Difesa aveva ipotizzato, in un
disperato Consiglio di guerra, il ricorso all’arma atomica.
E’ vero che nei 24 mesi di guerra Israele ha potuto compiere
un genocidio, ma se l’obiettivo era, dicendo di voler eliminare Hamas, quello
di eliminare due milioni e passa di palestinesi, uccidendoli tutti, o
costringendoli a un esodo da qualche parte dopo aver reso invivibile la loro
terra, quel risultato è stato mancato. Lo ha reso evidente quella stupefacente
marcia di ritorno, di centinaia di migliaia dei dieci volte sfollati, alle loro
case in macerie a Gaza. E quel piano di pace che, certamente risolutivo di
niente, l’armiere di Israele ha dovuto imporre ai soci che non stavano andando
da nessuna parte.
Da nessuna parte se non in quel deserto politico e morale in
cui oggi Israele appare paralizzato, a dispetto di affannose e scriteriate
fughe in avanti, come l’annessione della Cisgiordania, tosto bloccate da chi
sembra avere il mestolo in mano,
Dall’inizio dell’anno Israele registra la perdita di 40.000
unità del suo personale di colonizzazione. Dal 7 ottobre 2023 sarebbero
200.000. Mentre si è seccato da tempo il flusso degli arrivi. Israele si è
vista colpire dall’Iran, con efficacia occultata dalle voci ufficiali, e viene
bersagliata quotidianamente dai droni e missile degli irriducibili yemeniti,
con conseguente blocco di porti e aeroporti e di altre infrastrutture
logistiche. Una popolazione, che la questione degli “ostaggi” ha profondamente lacerato
minandone la fiducia nella propria classe politica e che si trova costretta
ogni due per tre a rifugiarsi nei bunker, non può alimentare grande voglia di
restare, né costituire richiamo per nuove immigrazioni.
L’isolamento e la presa di distanza da parte di una
collettività internazionale che, riconoscendo lo Stato di Palestina, ha
provocato conseguenze materiali pesanti anche sul piano economico. Sulla
saldezza della società israeliana si abbattono la crisi nei rapporti
accademici, i boicottaggi dei prodotti di consumo, le proteste contro la
consegna di armi, i disinvestimenti perfino nel campo della tecnologia, già
messo in crisi da trasferimento di migliaia di giovani dai laboratori alle
unità di combattimento. Queste, poi, sono pesantemente indebolite dalla perdita
sul campo di centinaia di soldati e dal rifiuto e dalla diserzione di migliaia
di riservisti.
In questo contesto c’è da verificare fino a che punto il
tradizionale appoggio e soccorso fornito allo Stato ebraico dai correligionari
della finanza statunitense e internazionale non stia manifestando riserve
rispetto al radicalismo di Netanyahu e dei suoi sostenitori-condizionatori
ultrà. Come c’è da verificare se la truffa-fuffa di pace di un oligarcha
immobiliarista che sconcerta tutti nel suo alternarsi tra carezze e cazzotti,
riesca a rilanciare la formula di Abramo, ad allargarla e includere nei suoi
vagamente onirici progetti tutta la carovana del Golfo, Egitto e Giordania
compresi.
Monarchie assolute e dal bagno di sangue facile che, tra
l’altro, rischiano di doversela vedere, presto o tardi, con una base popolare
di arrabbiati, insoddisfatti, e con un’idea del conflitto in Palestina
dissimile da quello di chi li tiene sotto il tacco.
Le incognite e variabili, anche se sfuggono a molti, sono
tante e si faranno sentire.
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