venerdì 24 ottobre 2025

“Spunti di riflessione” –--- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- --- IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

 

“Spunti di riflessione” – Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

https://youtu.be/hyZdcIC_urM

 

 

 

Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista. Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.

Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico,  Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non  si sono sognati di levare il dito dal grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.

La questione del momento ci fa però deviare da un piano di pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati. I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico, morale, umano  Trattasi della proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.

Cioè una roba che ha visto confluire da quelle parti, nel segno del colonialismo dai colonialisti rilanciato dopo la debacle subita a metà del secolo scorso e con la scusa di un olocausto inflitto a una parte di loro, un flusso di persone provenienti da ogni pizzo. Persone a cui si riconosceva di essere, non solo vittime (il che le rendeva intoccabili), ma anche popolo eletto, migliore di tutti gli altri e dunque impunito e insindacabile, titolare di una terra con la quale non ha avuto nessun rapporto né storico, né culturale, né linguistico, ma che aveva ogni diritto di sottrarre a chi ci stava da sempre.

Tutto questo delirio di onnipotenza sembra però aver fatto perdere la testa al regime di Tel Aviv. E non solo, visto che i sondaggi continuano a ripeterci che dietro a Netanyahu e ai suoi macelli ci sta un 75-80% della popolazione. Infatti, a saltare sulla sedia all’ennesimo eccesso di violazione di ogni accordo e legge, non è stata quella società che pure aveva manifestato contro Netanyahu sulla questione dei prigionieri in mano a Hamas, ma il partner e foraggiatore Trump. Uno, cioè, che tiene in piedi la baracca sionista, Il suo stop all’annessione della Cisgiordania votata dal Knesset segue l’incazzatura per il bombardamento dell’alleato stretto Qatar, con tanto di imposizione di umilianti scuse all’emiro.

Siccome l’unico risultato della fase uno del bombastico piano di pace sembra essere stata, a parte lo scambio dei prigionieri, la concessione a Israele di tenersi un 53% della Striscia, quello meno devastato e sfruttabile, dal quale continuare a uccidere chiunque si avvicinasse a un’invisibile linea gialla, le prospettive di una fase due sembrerebbero  ora coperte da una fitta nebbia.

La famosa forza di stabilizzazione composta da paesi arabi amici e da chissà chi altro, rimane in grembo a Giove, mentre le formazioni della Resistenza, Hamas, Jihad e Fronte Popolare, non hanno dato il minimo segno di essere disposti a consegnare le armi. Quelle armi con le quali hanno impedito per oltre due anni a Israele di divorare la Striscia. E ne hanno fatto barcollare, non solo la strategia Grande Israele, per ora arenatasi nel divieto trumpiano di israelizzare la Cisgiordania, ma addirittura il ruolo colonialista assegnatogli 150 anni fa da Balfour.

Non esagero. L’operazione Alluvione di Al Aqsa, che ha preso di sorpresa tutte le capacità di intelligence, sorveglianza, difesa, di Israele, ricorda un’altra situazione nella quale lo Stato ebraico si è trovato a braghe calate. Nei primi cinque giorni della guerra del Kippur, anche quella non prevista dai suoi infallibili servizi, Israele, prima di recuperare grazie agli USA, aveva rasentato la disfatta. E, secondo Moshe Dayan, addirittura l’esistenza. Tanto che il ministro della Difesa aveva ipotizzato, in un disperato Consiglio di guerra, il ricorso all’arma atomica.

E’ vero che nei 24 mesi di guerra Israele ha potuto compiere un genocidio, ma se l’obiettivo era, dicendo di voler eliminare Hamas, quello di eliminare due milioni e passa di palestinesi, uccidendoli tutti, o costringendoli a un esodo da qualche parte dopo aver reso invivibile la loro terra, quel risultato è stato mancato. Lo ha reso evidente quella stupefacente marcia di ritorno, di centinaia di migliaia dei dieci volte sfollati, alle loro case in macerie a Gaza. E quel piano di pace che, certamente risolutivo di niente, l’armiere di Israele ha dovuto imporre ai soci che non stavano andando da nessuna parte.

Da nessuna parte se non in quel deserto politico e morale in cui oggi Israele appare paralizzato, a dispetto di affannose e scriteriate fughe in avanti, come l’annessione della Cisgiordania, tosto bloccate da chi sembra avere il mestolo in mano,

Dall’inizio dell’anno Israele registra la perdita di 40.000 unità del suo personale di colonizzazione. Dal 7 ottobre 2023 sarebbero 200.000. Mentre si è seccato da tempo il flusso degli arrivi. Israele si è vista colpire dall’Iran, con efficacia occultata dalle voci ufficiali, e viene bersagliata quotidianamente dai droni e missile degli irriducibili yemeniti, con conseguente blocco di porti e aeroporti e di altre infrastrutture logistiche. Una popolazione, che la questione degli “ostaggi” ha profondamente lacerato minandone la fiducia nella propria classe politica e che si trova costretta ogni due per tre a rifugiarsi nei bunker, non può alimentare grande voglia di restare, né costituire richiamo per nuove immigrazioni.

L’isolamento e la presa di distanza da parte di una collettività internazionale che, riconoscendo lo Stato di Palestina, ha provocato conseguenze materiali pesanti anche sul piano economico. Sulla saldezza della società israeliana si abbattono la crisi nei rapporti accademici, i boicottaggi dei prodotti di consumo, le proteste contro la consegna di armi, i disinvestimenti perfino nel campo della tecnologia, già messo in crisi da trasferimento di migliaia di giovani dai laboratori alle unità di combattimento. Queste, poi, sono pesantemente indebolite dalla perdita sul campo di centinaia di soldati e dal rifiuto e dalla diserzione di migliaia di riservisti.

In questo contesto c’è da verificare fino a che punto il tradizionale appoggio e soccorso fornito allo Stato ebraico dai correligionari della finanza statunitense e internazionale non stia manifestando riserve rispetto al radicalismo di Netanyahu e dei suoi sostenitori-condizionatori ultrà. Come c’è da verificare se la truffa-fuffa di pace di un oligarcha immobiliarista che sconcerta tutti nel suo alternarsi tra carezze e cazzotti, riesca a rilanciare la formula di Abramo, ad allargarla e includere nei suoi vagamente onirici progetti tutta la carovana del Golfo, Egitto e Giordania compresi.

Monarchie assolute e dal bagno di sangue facile che, tra l’altro, rischiano di doversela vedere, presto o tardi, con una base popolare di arrabbiati, insoddisfatti, e con un’idea del conflitto in Palestina dissimile da quello di chi li tiene sotto il tacco.

Le incognite e variabili, anche se sfuggono a molti, sono tante e si faranno sentire.

Nessun commento: