martedì 28 ottobre 2025

FULVIO GRIMALDI PER L’ANTIDIPLOMATICO Trumpeggiando in Latinoamerica --- BOLIVIA, ECUADOR E PERU’, FATTO. VENEZUELA E COLOMBIA, DA FARE

 


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Bolivia, suicidio assistito dal padre della patria

Nel giro di vent’anni salvatore e affossatore della patria. Il percorso di Evo Morales, fondatore del Movimento al Socialismo (MAS), presidente della Bolivia dal 2006 al 20019 culmina nell’autodafè della rivoluzione. Nel secolo fattosi largo all’insegna del riscatto latinoamericano con il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, l’Argentina dei Kirchner, il Messico di Obrador, in continuità con i padrini Cuba e Nicaragua, la Bolivia rappresentava uno degli esempi più riusciti di socialismo alla bolivariana. Il che rende tanto più incomprensibile e doloroso un declino iniziato qualche anno fa e che culmina in quel rogo di conquiste e speranza, alimentato eminentemente dal suo stesso taumaturgo.

Le mie frequenti visite nel paese che, non per nulla, ha vissuto e tradotto in realtà la liberazione tentata dal Che Guevara, mi offrivano l’esperienza di un ininterrotto cammino di emancipazione: la riforma agraria, l’acqua sottratta alle multinazionali USA, la nazionalizzazione delle risorse, dal gas al litio e la conseguente equa distribuzione della ricchezza, lo Stato binazionale nel quale gli indigeni erano assurti a protagonisti del progresso, l’antimperialismo propagandato e operato a livello domestico e internazionale.

Una crepa si apre nel 2019. Il dettaglio di questo processo involutivo l’ho già raccontato sull’AntiDiplomatico. Qui parliamo di come è andata a finire.  

Evo Morales, con alle spalle tre mandati presidenziali, sfida il divieto della costituzione e rivendica la candidatura al quarto. Un referendum glielo nega. Lui insiste. Degli smarrimenti e delle contraddizioni così innescate approfitta il settore dei grandi terratenientes e imprenditori industriali, nostalgici di regimi autocratici che, insieme al padrinaggio degli USA, gli garantivano libertà di manovra economica fondata sull’emarginazione e sullo sfruttamento soprattutto dei nativi Quechua e Aymara. Il colpo di Stato del novembre 2019, che portò al potere la parlamentare conservatrice Jeanine Anez, fu spazzato via da una sollevazione popolare che, resistita a una sanguinosa repressione con decine di vittime, ha potuto imporre, l’anno dopo, nuove elezioni e la travolgente vittoria del MAS.

 

In assenza di Morales, rifugiatosi in Messico al momento del colpo di Stato (fuga che evidentemente non gli è stata perdonata), venne eletto il suo storico ministro dell’economia, Luis Arce, grande protagonista del riscatto sociale ed economico del paese. Rientrato in patria, con comprensibile perdita di credito, Evo impegnò ogni mezzo e tutto il suo seguito indigeno, i cocaleros di Cochabamba, per disconoscere e svalutare il governo di Arce (che, tra l’altro, dovette vedersela nel 2024 con un nuovo, effimero, tentativo di golpe militare). Arrivò a ricorrere a strumenti eversivi come posti di blocco in tutto il paese, marce sulla capitale, occupazione del Tribunale Elettorale che gli aveva negato l’ennesima candidatura. Venutogli meno l’appoggio del suo partito, il MAS, aveva creato dal nulla un partito di impronta personalistica, “Evo pueblo” che, però,.per mancanza di requisiti giuridici, non potè essere iscritto alle nuove elezioni.

Date queste lacerazioni del movimento che aveva sostenuto per vent’anni l’evoluzione del paese, il conseguente smarrimento e la perdita di fiducia delle masse, la crisi economica che tutto questo aveva provocato, la lotta senza quartiere di Evo a coloro che si trovavano a capo della direzione del paese e delle organizzazioni popolari e sindacali, l’esito delle nuove elezioni non poteva che essere scontato. Per evitare la frantumazione della sinistra, Arce aveva rinunciato di candidarsi, ma al ballottaggio Evo Morales, incredibilmente, dopo aver destabilizzato tutto il fronte di sinistra, non avendo ottenuto la candidatura, era arrivato a intimare al suo seguito di annullare la scheda, implicitamente aprendo così un’autostrada alla vittoria delle destre filo-yankee.

Alla vittoria nel primo turno di un candidato della destra, Rodrigo Paz Pereira, democristiano, con secondo arrivato Jorge Quiroga, sempre di destra, nel ballottaggio non poteva non verificarsi il trionfo degli stessi contendenti: Paz Pereira al 54,3%, Quiroga al 45,5%. Ha votato l’87% dei 7,9 milioni di boliviani. La sinistra del presidente del Senato, già delfino di Evo, Andronico Rodriguez, si è vista umiliata con il 3,2%. Le schede annullate su disposizione di Morales hanno rasentato il 20%.

Può sorprendere che i primi contatti telefonici di Paz Pereira, con tanto di auguri per la vittoria e di dichiarazioni di reciproco sostegno e vicinanza politica, siano stati con la golpista venezuelana Maria Corina Machado, e con Gideon Sa’ar, ministro degli esteri israeliano. Dopo questi, non potevano mancare Javier Milei, il presidente argentino dalla sega elettrica e last but not least, Donald Trump.

Ecuador, una partnership strategica con gli USA

 Noboa-Meloni

Nella capitale Quito e in tutto l’Ecuador, sottoposti a una feroce repressione, il 23 ottobre è stato sospeso lo sciopero generale nazionale che durava dal 20 settembre ed era l’ennesimo dall’elezione a presidente, considerata frutto di maneggi, di Daniel Noboa. Sciopero portato avanti soprattutto dalla maggioranza indigena organizzata nella CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador). Il bersaglio è il regime ultraliberista e autocratico di Daniel Oboa, imprenditore e membro della famiglia più ricca del paese e che controlla i maggiori gangli dell’economia finanziaria e produttiva del paese. Sciopero che per innesco ha avuto, in una società al 65% sotto, o appena sopra, la soglia di povertà e saccheggiata dal narcotraffico, la vittoria elettorale forse rubata a Luisa Gonzales, candida della Revolucion Ciudadana, movimento dell’ex-presidente Rafael Correa (In esilio in Belgio), data in largo vantaggio dai sondaggi pre-elettorali.

Alla lotta popolare, eminentemente indigena, Noboa ha risposto militarizzando il paese e dichiarando “il conflitto armato interno”. Il pretesto: la lotta contro l’impennata della criminalità organizzata. Che c’è e cresce, ma che in questo caso viene identificata con la resistenza sociale alla dittatura che va costruendosi con persecuzione degli oppositori, arresti di chi protesta, tortura di prigionieri politici, sparizioni forzate, ostacoli alla libera espressione. Per dare al regime una cornice legalitaria è stata abolita la Costituzione votata sotto Correa e ne è stata presentata un’altra, ovviamente impostata secondo criteri cari alla destra fondamentalista dell’argentino Milei, senza peraltro rispettare i termini della Corte Costituzionale e i dovuti passaggi parlamentari

Nell’immediato, la rivolta popolare è alimentata dalla misura governativa che ha eliminato il sussidio al diesel, combustibile indispensabile per l’operatività e, addirittura, la sopravvivenza delle imprese di trasporto, delle piccole e medie aziende dell’economia informale e dei lavoratori del settore agricolo. A ciò si è aggiunto un attentato alla sovranità del paese e alla salvaguardia ecologica del suo bene naturale più prezioso, le isole Galapagos, dichiarate dall’Unesco “Bene dell’umanità”.

Il presidente Noboa, eletto a capo cella coalizione ultraliberista e filoamericana Accion Democratica Nacional, che gode di generose sovvenzioni della NED (National Endowment for Democracy), faccia civile della CIA, dopo aver privatizzato quanto era privatizzabile dell’apparato produttivo e immobiliare del paese e dopo aver annullato le misure sociali ed ambientaliste di Rafael Correa, ha concesso che il Pentagono rimettesse piede, anzi stivale, nel paese con una nuova base militare.

Alle Forze Armate nordamericane, a suo tempo cacciate da Correa, è stato consentito lo sfruttamento delle isole Galapagos, un paradiso naturale vergine, per esercitazioni, costruzione di edifici, infrastrutture, impiego di navi, personale, armi, sommergibili nucleari, equipaggiamento militare. Questo, in contrasto con l’articolo 258 della Costituzione ecuadoriana che vieta qualsiasi attività che possa mettere in pericolo l’equilibrio ecologico dell’arcipelago. Pensare che fu la visita di Charles Darwin alle Galapagos nel 1835, durante il suo viaggio sul brigantino Beagle e la scoperta delle tartarughe giganti, a costituire la base per lo sviluppo della sua teoria dell'evoluzione per selezione naturale. Selezione ora governata dalla partnership strategica con le FFAA statunitensi.

Per gli esperti ONU del narcotraffico, la costa pacifica di Ecuador e Perù (quest’ultimo a sua volta vittima di “rivincite” yankee, come vedremo) e la Bolivia sono i punti di partenza dell’oltre 80% degli stupefacenti che finiscono sul mercato USA. Coltivazioni e traffico che si svolgono sotto gli occhi della DEA, l’ente statunitense per il controllo del narcotraffico e assicurano cospicui vantaggi al sistema bancario nazionale e ai successivi paradisi fiscali.

La vicenda ecuatoriana è sintomatica del tentativo yankee, cui Trump ha rinnovato vigore e determinazione, di riprendersi il “cortile di casa”. La riconquista di sovranità, autodeterminazione, equità sociale, protezione ambientale, vissuta dal paese sotto la presidenza di Rafael Correa dal gennaio 2007, quando ebbi l’opportunità di intervistarlo alla vigilia della sua elezione, al maggio 2017, subisce un’inattesa regressione con Lenin Moreno. Vice presidente con Correa, era stato eletto suo naturale successore e prosecutore dell’opera di riscatto, ma molto presto nel suo mandato aveva drasticamente invertito la marcia, per diventare l’ennesimo proconsole del colonialismo nordamericano in America Latina.

Nel 2022 gli succede Guillermo Lasso, che accentua la direzione regressiva del predecessore e, nel 2023 passa a Noboa il testimone della subalternità al padrone yankee, alle èlite economiche locali e al capitale finanziario internazionale, con poteri decisivi al FMI. Il “correismo” viene bandito come forza politica fuorilegge, e lo stesso Rafael Correa resta sotto processo per una serie di reati formulati da una magistratura “normalizzata”. Per Washington, nella partita con l’America Latina, un gol a porta vuota.

Perù, di autogolpe in autogolpe, all’ombra del US Southern Comand

A Lima, dal 10 ottobre, siamo al secondo golpe parlamentare in meno di 5 anni, nel senso che è lo stesso parlamento a far fuori il capo dello Stato uscito dalle proprie fila, ripetendo la mossa che, nel 2022, aveva defenestrato il presidente di sinistra Pedro Castillo. Il golpe dei parlamentari colloca nel palazzo presidenziale il già presidente del Congresso, José Jeri, eliminando dalla scena Dina Boluarte che aveva rivestito la medesima carica, prima di essere proiettata sulla poltrona fin lì occupata da Castillo.

Nella ripetizione del metodo non c’è però la continuità dell’intenzione politica. Prima del golpe del 2022, Castillo, maestro elementare e presidente di sinistra dal grande supporto popolare, specie nei settori indigeni, si era voluto liberare di un congresso dalla maggioranza di destra che ostacolava ogni suo provvedimento a favore delle classi popolari e in contrasto con la storica manomorta statunitense sul paese. La sua decisione di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni che, secondo i sondaggi, gli avrebbero assicurato una sicura maggioranza, provocò la rivolta dei parlamentari. Castillo fu destituito, arrestato, chiuso in prigione. Alla presidenza fu messa la fidata Dina Boluarte. Fidata anche perchè le aveva manifestato vicinanza, protezione e fiducia nientemeno che la comandante del Comando Sud statunitense, generale Laura Richardson.

Al golpe Boluarte e all’arresto di Castillo, che dura tuttora, seguirono mesi di manifestazioni e sommosse popolari che dalle Ande dilagarono fin nella capitale, furono represse con metodi pinochettiani, ma non si sono placate neppure oggi. Tanto che di nuovo si è attivato il parlamento e, accusata la Boluarte di non saper contenere l’espansione di quella che viene chiamata “criminalità” comune, l’ha sostituita con il presidente del Congresso, José Jeri, altro esponente della destra oligarchica filo yankee. Insomma, tutti giochi fatti in casa, casa del mai scomparso fujimorismo peruviano che ha avuto per capostipite Alberto Fujimori, sterminatore di oppositori (Sendero Luminoso) e, dal 1990 al 2000, dittatore sanguinario e ladro, morto in carcere. La figlia, Keiko, ininterrottamente candidata al ruolo del caro papà, resta in aspettativa.

Tutto questo avviene con l’accresciuto sostegno di Donald Trump, subito felicitatosi con il nuovo protetto della capa del Southern Comand, e con la continuità dei tumulti che, a Lima come nelle Ande, ribadiscono l’irriducibilità della sollevazione di popolo, tuttora sollecitata dagli appelli dal carcere di Pedro Castillo.

Ne discende che il 18 ottobre il primo ministro, Ernesto Alvarez, si dice costretto a dichiarare lo Stato d’emergenza a Lima per combattere chi, di nuovo, viene chiamato “criminalità comune” e relative bande giovanili. Pandillas che sono l’abituale pretesto in tutta l’America Latina per l’adozione di misure che restringano gli spazi di libertà e democrazia e le possibilità di organizzarsi in opposizione. A sua volta il nuovo capo dello Stato, Jeri, ha ingiunto al premier di preparare un “pacchetto di misure”, compreso l’impiego dell’esercito, per affrontare l’emergenza proclamata.

Dunque in Perù, come in Ecuador, sono sospesi diritti fondamentali, dalla libertà di assemblea, di riunione, di spostamento, ed è ribadita la facoltà di utilizzare le forze armate nei centri abitati. E di pochi giorni fa l’assassinio con una pallottola nel torace del musicista e attivista Eduardo Mauricio Ruiz Saenz, idolo delle giovani generazioni, rapper anti-sistema.  La generale Laura Richardson non ha obiettato.

 

 

 

Dalle armi di distruzione di massa ai narcoterroristi

 

Non contento di menare le mani un po’ qua e là tra Medioriente e le città USA governate dai Democratici, il Donald si è messo a fare il tiro a segno su barche e barchette nei Caraibi ma, da quando gli hanno spiegato che gli stupefacenti arrivano, invece, quasi tutti dal Pacifico, ora spara anche davanti a quelle coste. Il meccanismo è quello collaudato: dalla guerra contro armi di distrazione di massa inesistenti, per il petrolio, alla guerra contro narcos inesistenti, sempre per il petrolio.

Fino all’altro giorno i puzzoni che inondavano gli USA di Fentanyl erano Cina e Messico. Svaniti quelli, per manifesta inconsistenza, nell’iperuranio dell’avanti e indrè trumpiano, ora tocca a quella che minaccia di diventare la Grande Colombia vagheggiata da Simon Bolivar: Venezuela e Colombia uniti, anche nella lotta. Un rischio da affrontare subito con la denuncia della nuova configurazione di Venezuela e Colombia uniti nel narcotraffico. Tanto più che la Colombia, con l’elezione nel 2022 a presidente dell’economista Gustavo Petro, antiliberista, antimperialista, anti-israeliano, ha smesso di servire l’impero nel tradizionale ruolo riconosciuto al paese di “Israele latinoamericano”.

Sono sotto minaccia di chiusura le sette basi USA, i più potenti cartelli della droga del mondo vengono per la prima volta osteggiati, il potente apparato di paramilitari formato dal predecessore Alvaro Uribe è smantellato, si è cessato di spedire contractors terroristi nei vari scenari di regime change voluti dagli USA. Soprattutto Bogotà, ex-benevola patria di Pablo Escobar (che, sotto gli occhi della DEA, ente “antidroga” di Washington, ha fatto più per le banche USA e i suoi derivati nei paradisi fiscali di tutti i fondi avvoltoi messi insieme), da destabilizzatrice del Venezuela, con l’infiltrazione di quinte colonne, è passata a far fronte comune con il vicino e con gli altri paesi del raggruppamento anti-gringos A.L.B.A. creato da Chavez.   

Per inciso, e a proposito della presunta determinazione con cui gli USA, con Trump o senza, dicono di combattere il fenomeno, vogliamo ricordarci dell’Afghanistan degli anni di occupazione USA-NATO, quando i campi di oppio, a suo tempo desertificati dai Taliban, tornarono a rifiorire sotto l’affettuoso controllo dei militari di Bush e successori e l’eroina, magari transitando per la sicura base USA di Bondsteel nel Kosovo “liberato”, alluvionava l’Occidente?

Essendoci nell’immediato da ricavare più da un Venezuela depositario del più vasto giacimento di idrocarburi del mondo e, per i popoli della regione, modello nefasto di emancipazione nazionale e sociale, più che da Cina e Messico, giocoforza gli spacciatori, assassini di frotte di giovani statunitensi, è da qui che necessariamente devono arrivare.

Nel giro di meno di una settimana, all’obiettivo Venezuela, capeggiato, secondo l’inventiva di Trump, dal re dei narcos Nicolas Maduro, incoronato da una taglia cresciuta da 15 a 50 milioni per chiunque lo tolga di mezzo (acquolina in bocca a Maria Corina Machado), è stato affiancato il più recentemente nominato narcoimperatore colombiano. Per dare la relativa dimostrazione di potere che prevale sul diritto, tipica del ciuffo giallo, ai primi di ottobre si è radunata nel mare caraibico, di fronte alle coste dei due paesi e nelle loro acque territoriali, una prima flotta militare USA: navi, sommergibili, forza aerea e 10.000 Marines sul piede di guerra nella dependance Portorico.

Nella narrazione di Trump il narco-presidente venezuelano capeggerebbe addirittura un’inesistente “Narcocartello dei Soli”, per cui sarebbe urgente e giustificato l’ulteriore rafforzamento delle quasi trentennali sanzioni (a cui si attribuiscono una crisi socio-economica da 40.000 morti, alleviata solo dai soccorsi di Sud Globale, Cina e Russa), Trump ha annullato gli aiuti che gli USA avevano per anni fornito alla Colombia in forma di sovvenzioni, prestiti, agevolazioni tariffarie, armamenti. In un momento di distrazione dai campi di morte mediorientali, ne ha promesso altrettanti a Colombia e Venezuela: “Voi due che con la massiccia produzione di stupefacenti, che nessuno di voi cerca di stroncare, ma che introducete negli Stati Uniti, provocate morte, devastazione e caos, o eliminate questi campi assassini, o li elimineremmo noi, e in modo non piacevole. E se per ora abbiamo agito via mare, presto agiremo via terra”.

Detto fatto. Che non si tratta di mera retorica, Trump l’ha ribadito spedendo sabato scorso nelle stesse acque la più grande portaerei del mondo, la “Gerald Ford”, accompagnata da varie navi di sostegno e dalla minaccia di radere al suolo la capitale del Venezuela, Caracas. La risposta del paese bolivariano è stata una mobilitazione militare capillare che ha visto l’esercito affiancato da un milione di cittadini addestrati e impegnati nella difesa civile. Dopo il primo affondamento, nelle acque territoriali del Venezuela, di una lancia con 11 persone a bordo, si sono avuti altri quattro attacchi, l’ultimo con altre sei vittime, a imbarcazioni nelle stesse acque, tutte “adibite a trasporto di narcotici verso gli USA”. Secondo l’inchiesta condotta dal governo colombiano si trattava, nei casi accertati, di pescatori impegnati nel loro lavoro.

Ma il messaggio trumpista è arrivato e dovrebbe sovrastare con il suo clamore i dati per anni raccolti dalle agenzie antidroga dell’ONU, anche quando ne era a capo l’allora vice segretario dele Nazioni Unite, Pino Arlacchi, secondo cui il Venezuela è del tutto privo di coltivazioni di stupefacenti naturali o di sintesi, e non ne ha mai esportato neanche una bustina. Quanto alla Colombia, il paradiso dei narcos è diventato un purgatorio da quando, con Petro, gli si è mosso guerra. Sempre per l’ONU, al netto di limitati movimenti di marijuana nei Caraibi, tra Trinidad e Tobago, come ho ricordato sopra, è dalle coste del Pacifico che si muove verso gli USA l’83% del traffico di droga.

E quali sono i paesi che si affacciano sulle coste del Pacifico e che sono per l’ONU quelli  a maggiore densità criminale dell’intero subcontinente? L’Ecuador dell’oligarca Noboa e il Perù del golpista Jeri. Con alle spalle la Bolivia, paese ora tornato nella sfera di coloro che ne avevano fatto un coltivatore ed esportatore di cocaina. Tutti paesi contro i quali The Donald furioso non pronuncia alcuna minaccia.

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