martedì 14 ottobre 2025

Stato palestinese, dove? “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

 

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico

 Stato palestinese, dove?

 “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

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“Tu ucciderai tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i bambini, tutte le bestie” (Libro di Giosuè 6:21, relativamente a Gerico, oggi Cisgiordania)

Va premesso un dato incontrovertibile. Quello della misura in cui alla sedicente comunità internazionale festante (celebrano un deserto e lo chiamano pace) gliene freghi del popolo palestinese. Lo dimostra la grottesca e oscena farsa di un Piano di Pace che quel popolo di 15 milioni non lo prende minimamente in considerazione. Primo, con riguardo all’irrisolto peccato d’origine dello Stato ebraico, stragista, espropriatore, razzista, che ne esce rafforzato; secondo, per la totale cancellazione dalla scena della Cisgiordania, con i suoi 2,5 milioni, e dei cinque milioni di profughi. Ciò che resta sono: un frammento di Palestina dalle grandi prospettive immobiliariste e petrolifere, affidato a Trump, Blair e BP; e un altro frammento, premio di consolazione allo Stato ebraico che ne faccia la base di partenza per il Grande Israele.

 

Primum, inventarsi qualcosa che tolga di mezzo flottiglie e milioni in piazza

 

9 ottobre, sono passati tre giorni dalla proclamazione della” pace” a Gaza e, a detta di Trump, in tutta la regione. Pace in primis per tagliare le gambe a quella che, con flottiglie, milioni in piazza e riemersione dello Stato Palestinese, era diventata un intralcio di portata mondiale. Pace, peraltro, celebrata da Israele con la continuità delle bombe e della fame e che trova una sua particolare interpretazione anche in Cisgiordania. Per esempio, con quei coloni che il 9 ottobre scendono dal loro insediamento, come tutti i sacrosanti giorni dal 1967, per praticare la convivenza con chi c’era prima e ancora insiste a star lì. A forza di devastazioni, incendi, omicidi.

 

Essendo, secondo Trump e i suoi corifei, giunto il tempo della pace per i palestinesi, questo 9 ottobre la pace la si pratica dalle parti del villaggio di Deir Jarir. Alla fine della pacificazione c’è un villaggio distrutto, alcune case in fiamme, uliveti sradicati, fili elettrici tagliati, l’acquedotto spaccato, una scuola bucherellata dalle raffiche, Jihad Mohammed Ajaj, 26 anni, ucciso con una pallottola in testa e tre suoi famigliari feriti e poi ricoverati nel presidio medico della Mezzaluna rossa a Ramallah. Qui giunti dopo ore in fin di vita poiché le strade sterrate riservate ai palestinesi sono costellate di arcigni posti di blocco e interrotte dalle grandi strade a due carreggiate riservate ai coloni.

 

E’ uno di dozzine di episodi che si succedono senza soluzione di continuità da quando i padri di Israele, Ben Gurion, Golda Meir, Benachem Begin, utilizzando gli irregolari delle bande Stern, Irgun e Haganah, adottarono il terrorismo come metodo di controllo – e riduzione - delle popolazioni autoctone. Metodo che ha subito un formidabile crescendo dal giorno 7 ottobre, quando Hamas ha fatto riapparire la Palestina sul proscenio del mondo. Metodo, anche, che in questo frammento di Palestina non pare frenato dall’ola di pace lanciata dallo studio ovale, né messo in discussione dai vaticinatori dello Stato di Palestina.

 

Amici, avete tenuto testa, anche appigliandovi a qualche fortuita ciambella di verità (ho provato a lanciarne una anch’io da questa piattaforma) nell’onda anomala lanciata dal maremoto propagandistico israeliano sull’epocale evento del 7 ottobre? Siete riusciti a uscire indenni dalla narrazione neobiblica su quello sterminio di innocenti ebrei (quasi tutti uccisi da fuoco amico, metà erano militari IDF) da parte di sanguinari terroristi, stupratori e friggitori di neonati decapitati? Veleno anche più tossico perchè condiviso da laboratori, detti “alternativi” o “antagonisti”, dei quali eravamo abituati a fidarci? Tutti a sostegno del mantra che il genocidio era dovuto e giustificato, o almeno da comprendere, in risposta alle atrocità del 7 ottobre.

 

Del resto la chiave è sempre il “cui bono”, a chi è convenuto. E qui, però, le risposte sono due e in contrasto fra loro. Per l’una, grandi vantaggi ne hanno tratto Netanyahu e la sua compagine di psicopatici: il via libera, da tempo pianificato, allo sterminio di tutti i palestinesi, tutti chiamati Hamas, con tanto di tacito, esplicito, o a mezza bocca, consenso della maggioranza dei governi e media, ora coronato da un Piano di Pace che non sarebbe che la resa incondizionata di quel popolo e della sua resistenza. Per l’altra, tutto il contrario: col genocidio Israele ha tirato troppo la corda, ha perso l’incondizionato sostegno del mondo, da vittima si è rivelato carnefice, è precipitato in una lacerante crisi interna, viene isolato economicamente e politicamente, insomma s’è scavato la fossa.

 

Dopo Gaza, Cisgiordania (ciò che ne rimane)

 

Ora toccherebbe a quell’ultimo frammento di Palestina sparpagliato e schiacciato tra le nuove città che ospitano 900.000 coloni, ribattezzato, in vista dell’annessione definitiva come da dettato biblico, Giudea e Samaria. Il cosiddetto “Piano di pace” di Trump non prevede nei suoi 21 punti, che ne fanno il piano di ricolonizzazione anglosassone di Gaza, nessun accenno alla Cisgiordania. Forse che, nel disegno degli immobiliaristi, lasciare alla mercè dei coloni, di Netaniahu, Ben Gvir e Smotrich, la “Giudea e Samaria” con quei suoi quattro ulivi, sia la moneta con cui a Israele il consorzio Trump-Blair-Kushner paga la molto più appetibile “Riviera di Gaza”, con il gas miliardario al largo assicurato alla BP tramite Tony Blair? Che su questo baratto possano aver dato il loro consenso al Piano i governi arabi, in qualche modo fruitori del raccolto a venire?

 

Sebbene per quanto si va facendo alla Cisgiordania non si sia ancora addotto nessun presunto massacro di “innocenti civili”, tipo quello del Nova Rave di giovani allegri, piazzato proprio in vista del - e dal - campo di concentramento “Gaza”, bene in vista dei carcerati e morituri. Ma diamo tempo al tempo. Per ora, sulla criminalizzazione di quegli altri frammenti sparpagliati di residui palestinesi, prevale la tattica del silenzio. Che serva alla ripetizione, su quello straccio già insanguinato di Palestina, di quanto è stato fatto a Gaza? E ad evitare che le uova nel paniere di Trump, Netaniahu e Blair vengano rotte da un nuovo concorso, in terra e in mare, di popolo imbandierato di Palestina?

 

Nella guerra dei 6 Giorni del 1967, Israele aveva occupato tutta la Minipalestina che una squilibrata assemblea generale dell’ONU aveva strappato ai conquistadores sionisti. 26 anni dopo, gli Accordi di Oslo. La Minipalestina occupata e già frastagliata in isolotti incomunicanti da una proliferazione di insediamenti dichiarati illegali dall’ONU, è ulteriormente frantumata in tre aree ad amministrazioni distinte. Ne parliamo dopo.

 

Yitzak Rabin, il premier che una certa narrazione ci presenta come l’eccezione includente rispetto ai governi della cancellazione tout court dei palestinesi, invitava i soldati israeliani a “spezzare le ossa” ai ragazzini palestinesi che lanciavano sassi nella prima Intifada. Ha poi fatto tanto il conciliatore da produrre, con sodali internazionali vari, gli accordi-truffa di Oslo, chiodo nella bara dello Stato Palestinese. Accordi sottoscritti anche da uno stanco Arafat che si riteneva soddisfatto del grazioso riconoscimento dell’OLP come interlocutore e della costituzione di una cosiddetta Autorità Nazionale con bandierina palestinese sul palazzo della Muqata’a a Ramallah.

 

Corre una certa somiglianza tra i tripudi suscitati allora da questa “sistemazione” del conflitto israelo-palestinese e gli osanna oggi dedicati alla farsa pacifista di Trump che, come gli illusionisti di Oslo, evita accuratamente di sfiorare il nocciolo della questione.

 

Stroncata la seconda Intifada, ricupero di coscienza e combattività del popolo espropriato e colonizzato, diretta da Fatah con Marwan Barghuti segretario, l’ANP finisce in mano al più classico dei Quisling, Mahmud Abbas-Abu Mazen, e alla sua cricca di burocrati collaborazionisti, voraci e ladri. Si crea un condominio dell’intelligence e della repressione israelo-palestinese, impegnato a sopprimere sul nascere ogni singulto di resistenza. Condominio che subisce qualche crepa quando il Partito Hamas, emerso negli anni ‘80 come alternativa politica a detto condominio, vince a larga maggioranza le elezioni nei territori occupati del 2006. Sconfitto un tentativo di golpe di Fatah, assume il governo della striscia di Gaza, ma il potere in Cisgiordania gli viene negato dall’opposizione militare e poliziesca congiunta dell’ANP e di Israele.

 

Un’altra spartizione farlocca

 

Si consolida la grande mistificazione del cammino verso la graduale costituzione dello Stato di Palestina, come deliberata ripetutamente dall’ONU, con il diritto al ritorno dei profughi della Nakba e del 1967 e col divieto di costruzione di colonie che iniziano a frantumare la continuità del previsto Stato. Lo strumento sono Oslo e quell’architettura del territorio diviso in zone da una conduzione tricefala: l’A, sotto controllo dell’Autorità palestinese, la B sotto una surreale amministrazione congiunta palestino-israeliana, la C, area delle colonie, sotto esclusivo controllo israeliano. Nella C ricade una larga striscia di territorio lungo il fiume Giordano, che costituisce anche il confine con la Giordania, concorre a chiudere l’assedio ai territori del presunto futuro Stato e assicura a Israele il controllo sulle acque del fiume e su vaste zone irrigabili e coltivabili.

 

E’ anche una presa di possesso finalizzata a garantire a Israele la sicurezza rispetto a incursioni da Libano o Giordania. Incursioni anche recenti di Hezbollah e, più lontane nel tempo, quelle dei Fedayin dalle loro basi in Giordania, delle quali fui partecipe anch’io, assumendo la figura composita del cronista e del combattente.

 

Il grande equivoco delle tre zone, in cui solo nella A si poteva tirare qualche momento di sollievo da un’occupazione invasiva e spietata, presi tra le vessazioni delle incursioni militari e degli infiniti controlli ai posti di blocco, intesi a compromettere la vita civile, quella economica, gli spostamenti. Mi ricordo la blindatura del valico di Qalandiya, tra Ramallah, zona A, e l’area di Gerusalemme, divisa tra B e C, scientemente destinato a interrompere il flusso di lavoratori e cittadini verso scuole, ospedali, uffici amministrativi, posti di lavoro. Provocava file sterminate di viaggiatori esasperati, a piedi o su mezzi. L’intenzione punitiva era esaltata dal blocco, a fine di controlli e perquisizioni, delle ambulanze con a bordo malati, incidentati, o altri con ragioni d’urgenza. Per non essere potuti giungere in tempo a destinazione, molti pazienti morivano, donne partorivano nell’ambulanza. C’è tutto nel mio documentario “Fino all’ultima Kefiah!”.

 

Quanto alla zona sotto “esclusivo” controllo palestinese (che non evitava incursioni delle forze di sicurezza israeliane), di come fosse rispettata, mi ricordo per qualcosa che mi porto dentro ancora oggi, un quarto di secolo dopo. Nella zona A, da Ramallah, la sede dell’ANP, bastava spostarsi di poche centinaia di metri per ritrovarsi in una specie di terra di nessuno, formalmente A, ma di cui l’esercito se ne infischiava. Giorno dopo giorno vi si rinnovava la contesa tra chi doveva sottomettersi e chi sottometteva, i primi con i sassi, i secondi con lacrimogeni e, a volte, pallottole.

 

Fui testimone di uno di questi episodi dalla cadenza quotidiana. Blindati dell’esercito occupante penetrano nell’area A, li fronteggiano nugoli di ragazzi e ragazze, spuntati come funghi, mobilitati da un’organizzazione invisibile. Ho negli occhi l’immagine di una donna anziana, dalle vesti lunghe e col velo, che riempie di sassi un secchio, lo mette a disposizione dei giovani lanciatori. Poi, impazientita, li raccoglie da terra e li lancia lei stessa. I blindati, a circa 50 metri, dopo qualche lacrimogeno, rispondono col fuoco. Per l’oretta che rimango lì, ne vengono colpite tre ragazze. Le recuperano ambulanze comparse dal nulla. Non ho sentito un lamento.

 

Un altro giorno si tratta di eliminare un posto di blocco, con tanto di massi di cemento e torretta di sorveglianza, che impedisce il passaggio degli studenti verso la loro università, Bir Zeit. Ai palestinesi ci uniamo noi, un gruppo di solidali europei. Niente armi da fuoco dai blindati sulla collina, stavolta, ma un bombardamento a tappeto di gas CS, detto lacrimogeno, ma proibito per la sua tossicità dalla Convenzione di Ginevra. Vomitiamo in tanti, c’è chi perde i sensi. La mia mai sopita bronchite cronica, e chissà quante altre, venne innescata quel giorno. Per contrappasso, mi è stata curata, durante ripetute visite nella regione, anche da pneumologi arabi.

 

Hebron, insediamenti tombali

 

A Hebron la doppia gestione era concepita dagli israeliani in modo da innestare nel cuore della comunità araba un nugolo di coloni di estrazione statunitense, virulentamente anti-arabi e di fanatico impegno millenarista. 500 subito, ora migliaia, per i quali erano stati fulmineamente eretti enormi palazzoni su terreni della città vecchia della quale erano state rase al suolo le prestigiose testimonianze storiche risalenti al Medioevo. Dei genocidi elemento costitutivo è la cancellazione delle identità radicate nella Storia. Si pensi a cosa ha fatto a Palmira, in Siria, l’ISIS, mercenariato dei turchi e della NATO, dopo aver ucciso il suo custode, l’archeologo Khaled al-Asaad, per non avere rivelato agli attaccanti dove erano conservati i reperti più preziosi.

 

Incontro un medico che ha studiato in Italia. I militari gli hanno preso e occupato la casa in centro. Cacciati In mezzo a una strada anche i suoi bambini. Lui, davanti al portone, ci racconta. Loro, sui tetti, ci gratificano di sberleffi, poi sparano alle case al di là della piazza. Accorrono dei ragazzi e ci mostrano proiettili di mitra rimbalzati dai muri. Che lo si racconti in Italia…

 

Ogni due per tre, i soliti lanciatori di pietre ed erettori di barricate da dare alle fiamme all’arrivo dei militari, cercano di ricordare a se stessi e al mondo che quella è la loro terra, fin da quei secoli che le macerie dell’antico mercato non possono più rievocare. Tutto finisce poi come a Ramallah e Bir Zeit. Ma riprende. Non ha mai cessato di riprendere. Con o senza Hamas. Barricata di traverso alla strada principale di Hebron, fiamme, blindati arrivano e sparano. Ce la caviamo in un androne. Dai muri partono schegge. Incontriamo dei carabinieri italiani. Stanno lì nel ruolo di peace-keepers, o qualcosa del genere. Compilano rapporti. Non fanno né caldo, né freddo a nessuno.

 

Quelle di allora erano definite scaramucce, eufemismo per mezzo secolo di brutale e feroce tirannia e indefessa rivolta. A partire dal 7 ottobre dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa” e della relativa risposta “Hannibal” (tecnica militare che non guarda in faccia a nessuno, con il risultato di 250 coloni fatti prigionieri e un numero imprecisato di civili e soldati uccisi nel fuoco incrociato), la Cisgiordania diventa terreno di guerra vera e propria. Soprattutto di vendetta sanguinaria, contro genti relativamente inermi, per quanto a Israele viene inflitto dalla Resistenza a Gaza. A Jenin e in altri campi profughi e centri abitati, da varie matrici storiche, nasce l’organizzazione combattente “Tana di leoni”.

 

C’era una volta Jenin

 

La violenza repressiva delle forze armate, anche aeree, dello Stato sionista, è sostenuta da incursioni di coloni armati e le sostiene Si abbatte su centri abitati palestinesi, che si tratti di città, villaggi e soprattutto campi profughi, o coltivazioni, fondamentali per la sussistenza: uliveti, vigneti, frutteti. Si arriva a tagliare reti elettriche, sabotare presidi sanitari, contaminare acquedotti. E di pochi giorni fa l’assassinio di uno dei realizzatori del documentario “No other land”, drammatica testimonianza di una vita resistente sulla terra che è sua, ma che è diventata impraticabile, a partire dalle vie di comunicazione vietate e a finire con gli ulivi sradicati.

 

Va ricordato, a disonore dell’ANP che, per mantenere la del tutto fantasmatica rappresentanza di un popolo che collettivamente la disconosce, agevola i pogrom di coloni e IDF con preventivi interventi della sua polizia, mirati a individuare elementi e nidi di una crescente resistenza e trasmettere informazioni ai colleghi con la stella di David. Resistenza animata oltre che da Hamas, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dalla fazione dissidente di Fatah e da comitati locali. Gli assalti di coloni, supportati dall’IDF da terra e con elicotteri dal cielo, devastano città come Nablus, Jenin campo di profughi della Nakba, vivace centro culturale, raso al suolo E poi Tulkarem, Nur Shams, Tubas. Ne risultano decine di migliaia di sfollati allo sbando.

 

Intanto Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e caporione dei coloni, annuncia l’imminente annessione di Giudea e Samaria, cioè di quanto, persa Gaza mutata in “giacimento d’oro immobiliarista” (sempre Smotrich), resta della Palestina possibile.

 

Traggo da fonti recenti e da un dettagliato rapporto diffuso dall’Associazione Palestinesi in Italia (API) una serie di dati.

 

Dal 7 ottobre 2023 in Cisgiordania esercito, polizia e coloni israeliani hanno effettuato 38.359 attacchi a terre, proprietà e vite palestinesi. I coloni hanno creato 114 nuovi insediamenti, cacciando dai loro centri abitati 33 comunità autoctone. Sono stati sequestrati circa 5.500 ettari di terreno agricolo di cui 2000 costituenti riserva naturale. Vi sono state costruite strade riservate agli ebrei, torrette militari, zone militari cuscinetto attorno alle colonie. Sono in corso di costruzione per coloni 37.415 nuove unità abitative. Il totale dei posti di blocco e barriere sale a 916, delle quali 243 eretti dal 7 ottobre 2023.

In quello stesso periodo i coloni hanno appiccato 767 incendi su terreni agricoli, effettuato 1.014 demolizioni con la distruzione di 3.679 strutture palestinesi. A inizio settembre i palestinesi uccisi sono 1.079, i feriti 8.015, gli arrestati 22.633, le case distrutte 7.712, i luoghi sacri violati 1.034, gli attacchi a personale medico 314. 10.945 strade di comunicazione sono state sbarrate, 73.000 sono gli sfollati, il 90% dei campi profughi è stato obliterato.

Al regista palestinese Basel Adra coloni e soldati hanno distrutto il villaggio, Masafer Yatta, di cui ci racconta nel suo “No other Land”, premiato con l’Oscar. Sono sue le ultime parole su questo lembo di Palestina, frantumato in mille pezzetti, ma che vogliono che sia il primo passo dello scarpone chiodato sionista verso il Grande Israele. Nel mondo si festeggia la “pace”.

“L’occupazione continua, più brutale che mai. Il cessate il fuoco non è la fine, Gaza è distrutta… In Cisgiordania, solo negli ultimi giorni, hanno ucciso 15 persone e nemmeno uno di loro è in carcere. Bruciano villaggi e i palestinesi devono lasciare le loro comunità, 40 villaggi si sono spopolati e la costruzione di avamposti e di insediamenti è incessante. Trump e il suo governo sono favorevoli ai coloni e agli insediamenti… L’attenzione è tutta su Gaza e su questo cessate il fuoco. Ma dovrebbe essere sul popolo palestinese, sui nostri diritti… L’Autorità palestinese non ha alcun potere e non ho fiducia nei paesi del Golfo. Sia il governo, sia l’opposizione hanno votato che non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.

Così stanno le cose. C’è da celebrare? Ai palestinesi non rimane che la loro Resistenza. Unita alle piazze del mondo.

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