Fulvio
Grimaldi per l’AntiDiplomatico
“Tu ucciderai tutti gli
uomini, tutte le donne, tutti i bambini, tutte le bestie” (Libro di Giosuè 6:21, relativamente a
Gerico, oggi Cisgiordania)
Va premesso un dato incontrovertibile. Quello della misura in cui alla
sedicente comunità internazionale festante (celebrano un deserto e lo chiamano
pace) gliene freghi del popolo palestinese. Lo dimostra la grottesca e oscena
farsa di un Piano di Pace che quel popolo di 15 milioni non lo prende
minimamente in considerazione. Primo, con riguardo all’irrisolto peccato
d’origine dello Stato ebraico, stragista, espropriatore, razzista, che ne esce
rafforzato; secondo, per la totale cancellazione dalla scena della Cisgiordania,
con i suoi 2,5 milioni, e dei cinque milioni di profughi. Ciò che resta sono:
un frammento di Palestina dalle grandi prospettive immobiliariste e
petrolifere, affidato a Trump, Blair e BP; e un altro frammento, premio di
consolazione allo Stato ebraico che ne faccia la base di partenza per il Grande
Israele.
Primum, inventarsi qualcosa che tolga di mezzo flottiglie e milioni in
piazza
9 ottobre, sono passati tre giorni dalla proclamazione della” pace” a Gaza e,
a detta di Trump, in tutta la regione. Pace in primis per tagliare le gambe a
quella che, con flottiglie, milioni in piazza e riemersione dello Stato
Palestinese, era diventata un intralcio di portata mondiale. Pace, peraltro, celebrata
da Israele con la continuità delle bombe e della fame e che trova una sua
particolare interpretazione anche in Cisgiordania. Per esempio, con quei coloni
che il 9 ottobre scendono dal loro insediamento, come tutti i sacrosanti giorni
dal 1967, per praticare la convivenza con chi c’era prima e ancora insiste a star
lì. A forza di devastazioni, incendi, omicidi.
Essendo, secondo Trump e i suoi corifei, giunto il tempo della pace per i
palestinesi, questo 9 ottobre la pace la si pratica dalle parti del villaggio
di Deir Jarir. Alla fine della pacificazione c’è un villaggio distrutto, alcune
case in fiamme, uliveti sradicati, fili elettrici tagliati, l’acquedotto
spaccato, una scuola bucherellata dalle raffiche, Jihad Mohammed Ajaj, 26 anni,
ucciso con una pallottola in testa e tre suoi famigliari feriti e poi
ricoverati nel presidio medico della Mezzaluna rossa a Ramallah. Qui giunti dopo
ore in fin di vita poiché le strade sterrate riservate ai palestinesi sono
costellate di arcigni posti di blocco e interrotte dalle grandi strade a due
carreggiate riservate ai coloni.
E’ uno di dozzine di episodi che si succedono senza soluzione di continuità
da quando i padri di Israele, Ben Gurion, Golda Meir, Benachem Begin, utilizzando
gli irregolari delle bande Stern, Irgun e Haganah, adottarono il terrorismo
come metodo di controllo – e riduzione - delle popolazioni autoctone. Metodo
che ha subito un formidabile crescendo dal giorno 7 ottobre, quando Hamas ha
fatto riapparire la Palestina sul proscenio del mondo. Metodo, anche, che in
questo frammento di Palestina non pare frenato dall’ola di pace lanciata dallo
studio ovale, né messo in discussione dai vaticinatori dello Stato di
Palestina.
Amici, avete tenuto testa, anche appigliandovi a qualche fortuita ciambella
di verità (ho provato a lanciarne una anch’io da questa piattaforma) nell’onda
anomala lanciata dal maremoto propagandistico israeliano sull’epocale evento
del 7 ottobre? Siete riusciti a uscire indenni dalla narrazione neobiblica su
quello sterminio di innocenti ebrei (quasi tutti uccisi da fuoco amico, metà
erano militari IDF) da parte di sanguinari terroristi, stupratori e friggitori
di neonati decapitati? Veleno anche più tossico perchè condiviso da laboratori,
detti “alternativi” o “antagonisti”, dei quali eravamo abituati a fidarci? Tutti
a sostegno del mantra che il genocidio era dovuto e giustificato, o almeno da
comprendere, in risposta alle atrocità del 7 ottobre.
Del resto la chiave è sempre il “cui bono”, a chi è convenuto. E
qui, però, le risposte sono due e in contrasto fra loro. Per l’una, grandi
vantaggi ne hanno tratto Netanyahu e la sua compagine di psicopatici: il via
libera, da tempo pianificato, allo sterminio di tutti i palestinesi, tutti chiamati
Hamas, con tanto di tacito, esplicito, o a mezza bocca, consenso della
maggioranza dei governi e media, ora coronato da un Piano di Pace che non sarebbe
che la resa incondizionata di quel popolo e della sua resistenza. Per l’altra,
tutto il contrario: col genocidio Israele ha tirato troppo la corda, ha perso
l’incondizionato sostegno del mondo, da vittima si è rivelato carnefice, è
precipitato in una lacerante crisi interna, viene isolato economicamente e
politicamente, insomma s’è scavato la fossa.
Dopo Gaza, Cisgiordania (ciò che ne rimane)
Ora toccherebbe a quell’ultimo frammento di Palestina sparpagliato e
schiacciato tra le nuove città che ospitano 900.000 coloni, ribattezzato, in
vista dell’annessione definitiva come da dettato biblico, Giudea e Samaria. Il
cosiddetto “Piano di pace” di Trump non prevede nei suoi 21 punti, che ne fanno
il piano di ricolonizzazione anglosassone di Gaza, nessun accenno alla
Cisgiordania. Forse che, nel disegno degli immobiliaristi, lasciare alla mercè
dei coloni, di Netaniahu, Ben Gvir e Smotrich, la “Giudea e Samaria” con quei suoi
quattro ulivi, sia la moneta con cui a Israele il consorzio Trump-Blair-Kushner
paga la molto più appetibile “Riviera di Gaza”, con il gas miliardario al largo
assicurato alla BP tramite Tony Blair? Che su questo baratto possano aver dato
il loro consenso al Piano i governi arabi, in qualche modo fruitori del
raccolto a venire?
Sebbene per quanto si va facendo alla Cisgiordania non si sia ancora
addotto nessun presunto massacro di “innocenti civili”, tipo quello del Nova Rave
di giovani allegri, piazzato proprio in vista del - e dal - campo di
concentramento “Gaza”, bene in vista dei carcerati e morituri. Ma diamo tempo
al tempo. Per ora, sulla criminalizzazione di quegli altri frammenti
sparpagliati di residui palestinesi, prevale la tattica del silenzio. Che serva
alla ripetizione, su quello straccio già insanguinato di Palestina, di quanto è
stato fatto a Gaza? E ad evitare che le uova nel paniere di Trump, Netaniahu e
Blair vengano rotte da un nuovo concorso, in terra e in mare, di popolo
imbandierato di Palestina?
Nella guerra dei 6 Giorni del 1967, Israele aveva occupato tutta la Minipalestina
che una squilibrata assemblea generale dell’ONU aveva strappato ai
conquistadores sionisti. 26 anni dopo, gli Accordi di Oslo. La Minipalestina
occupata e già frastagliata in isolotti incomunicanti da una proliferazione di
insediamenti dichiarati illegali dall’ONU, è ulteriormente frantumata in tre
aree ad amministrazioni distinte. Ne parliamo dopo.
Yitzak Rabin, il premier che una certa narrazione ci presenta come l’eccezione
includente rispetto ai governi della cancellazione tout court dei palestinesi, invitava
i soldati israeliani a “spezzare le ossa” ai ragazzini palestinesi che
lanciavano sassi nella prima Intifada. Ha poi fatto tanto il conciliatore da produrre,
con sodali internazionali vari, gli accordi-truffa di Oslo, chiodo nella bara
dello Stato Palestinese. Accordi sottoscritti anche da uno stanco Arafat che si
riteneva soddisfatto del grazioso riconoscimento dell’OLP come interlocutore e
della costituzione di una cosiddetta Autorità Nazionale con bandierina
palestinese sul palazzo della Muqata’a a Ramallah.
Corre una certa somiglianza tra i tripudi suscitati allora da questa
“sistemazione” del conflitto israelo-palestinese e gli osanna oggi dedicati
alla farsa pacifista di Trump che, come gli illusionisti di Oslo, evita
accuratamente di sfiorare il nocciolo della questione.
Stroncata la seconda Intifada, ricupero di coscienza e combattività del
popolo espropriato e colonizzato, diretta da Fatah con Marwan Barghuti
segretario, l’ANP finisce in mano al più classico dei Quisling, Mahmud
Abbas-Abu Mazen, e alla sua cricca di burocrati collaborazionisti, voraci e
ladri. Si crea un condominio dell’intelligence e della repressione israelo-palestinese,
impegnato a sopprimere sul nascere ogni singulto di resistenza. Condominio che
subisce qualche crepa quando il Partito Hamas, emerso negli anni ‘80 come
alternativa politica a detto condominio, vince a larga maggioranza le elezioni
nei territori occupati del 2006. Sconfitto un tentativo di golpe di Fatah,
assume il governo della striscia di Gaza, ma il potere in Cisgiordania gli
viene negato dall’opposizione militare e poliziesca congiunta dell’ANP e di
Israele.
Un’altra spartizione farlocca
Si consolida la grande mistificazione del cammino verso la graduale
costituzione dello Stato di Palestina, come deliberata ripetutamente dall’ONU, con
il diritto al ritorno dei profughi della Nakba e del 1967 e col divieto di
costruzione di colonie che iniziano a frantumare la continuità del previsto
Stato. Lo strumento sono Oslo e quell’architettura del territorio diviso in
zone da una conduzione tricefala: l’A, sotto controllo dell’Autorità
palestinese, la B sotto una surreale amministrazione congiunta
palestino-israeliana, la C, area delle colonie, sotto esclusivo controllo
israeliano. Nella C ricade una larga striscia di territorio lungo il fiume Giordano,
che costituisce anche il confine con la Giordania, concorre a chiudere
l’assedio ai territori del presunto futuro Stato e assicura a Israele il
controllo sulle acque del fiume e su vaste zone irrigabili e coltivabili.
E’ anche una presa di possesso finalizzata a garantire a Israele la
sicurezza rispetto a incursioni da Libano o Giordania. Incursioni anche recenti
di Hezbollah e, più lontane nel tempo, quelle dei Fedayin dalle loro basi in
Giordania, delle quali fui partecipe anch’io, assumendo la figura composita del
cronista e del combattente.
Il grande equivoco delle tre zone, in cui solo nella A si poteva tirare
qualche momento di sollievo da un’occupazione invasiva e spietata, presi tra le
vessazioni delle incursioni militari e degli infiniti controlli ai posti di
blocco, intesi a compromettere la vita civile, quella economica, gli
spostamenti. Mi ricordo la blindatura del valico di Qalandiya, tra Ramallah,
zona A, e l’area di Gerusalemme, divisa tra B e C, scientemente destinato a
interrompere il flusso di lavoratori e cittadini verso scuole, ospedali, uffici
amministrativi, posti di lavoro. Provocava file sterminate di viaggiatori
esasperati, a piedi o su mezzi. L’intenzione punitiva era esaltata dal blocco,
a fine di controlli e perquisizioni, delle ambulanze con a bordo malati,
incidentati, o altri con ragioni d’urgenza. Per non essere potuti giungere in
tempo a destinazione, molti pazienti morivano, donne partorivano
nell’ambulanza. C’è tutto nel mio documentario “Fino all’ultima Kefiah!”.
Quanto alla zona sotto “esclusivo” controllo palestinese (che non evitava
incursioni delle forze di sicurezza israeliane), di come fosse rispettata, mi
ricordo per qualcosa che mi porto dentro ancora oggi, un quarto di secolo dopo.
Nella zona A, da Ramallah, la sede dell’ANP, bastava spostarsi di poche
centinaia di metri per ritrovarsi in una specie di terra di nessuno,
formalmente A, ma di cui l’esercito se ne infischiava. Giorno dopo giorno vi si
rinnovava la contesa tra chi doveva sottomettersi e chi sottometteva, i primi
con i sassi, i secondi con lacrimogeni e, a volte, pallottole.
Fui testimone di uno di questi episodi dalla cadenza quotidiana. Blindati
dell’esercito occupante penetrano nell’area A, li fronteggiano nugoli di
ragazzi e ragazze, spuntati come funghi, mobilitati da un’organizzazione
invisibile. Ho negli occhi l’immagine di una donna anziana, dalle vesti lunghe
e col velo, che riempie di sassi un secchio, lo mette a disposizione dei
giovani lanciatori. Poi, impazientita, li raccoglie da terra e li lancia lei
stessa. I blindati, a circa 50 metri, dopo qualche lacrimogeno, rispondono col
fuoco. Per l’oretta che rimango lì, ne vengono colpite tre ragazze. Le
recuperano ambulanze comparse dal nulla. Non ho sentito un lamento.
Un altro giorno si tratta di eliminare un posto di blocco, con tanto di
massi di cemento e torretta di sorveglianza, che impedisce il passaggio degli
studenti verso la loro università, Bir Zeit. Ai palestinesi ci uniamo noi, un
gruppo di solidali europei. Niente armi da fuoco dai blindati sulla collina,
stavolta, ma un bombardamento a tappeto di gas CS, detto lacrimogeno, ma
proibito per la sua tossicità dalla Convenzione di Ginevra. Vomitiamo in tanti,
c’è chi perde i sensi. La mia mai sopita bronchite cronica, e chissà quante
altre, venne innescata quel giorno. Per contrappasso, mi è stata curata,
durante ripetute visite nella regione, anche da pneumologi arabi.
Hebron, insediamenti tombali
A Hebron la doppia gestione era concepita dagli israeliani in modo da innestare
nel cuore della comunità araba un nugolo di coloni di estrazione statunitense,
virulentamente anti-arabi e di fanatico impegno millenarista. 500 subito, ora
migliaia, per i quali erano stati fulmineamente eretti enormi palazzoni su
terreni della città vecchia della quale erano state rase al suolo le prestigiose
testimonianze storiche risalenti al Medioevo. Dei genocidi elemento costitutivo
è la cancellazione delle identità radicate nella Storia. Si pensi a cosa ha
fatto a Palmira, in Siria, l’ISIS, mercenariato dei turchi e della NATO, dopo
aver ucciso il suo custode, l’archeologo Khaled al-Asaad, per non avere
rivelato agli attaccanti dove erano conservati i reperti più preziosi.
Incontro un medico che ha studiato in Italia. I militari gli hanno preso e
occupato la casa in centro. Cacciati In mezzo a una strada anche i suoi
bambini. Lui, davanti al portone, ci racconta. Loro, sui tetti, ci gratificano
di sberleffi, poi sparano alle case al di là della piazza. Accorrono dei ragazzi
e ci mostrano proiettili di mitra rimbalzati dai muri. Che lo si racconti in
Italia…
Ogni due per tre, i soliti lanciatori di pietre ed erettori di barricate da
dare alle fiamme all’arrivo dei militari, cercano di ricordare a se stessi e al
mondo che quella è la loro terra, fin da quei secoli che le macerie dell’antico
mercato non possono più rievocare. Tutto finisce poi come a Ramallah e Bir
Zeit. Ma riprende. Non ha mai cessato di riprendere. Con o senza Hamas.
Barricata di traverso alla strada principale di Hebron, fiamme, blindati
arrivano e sparano. Ce la caviamo in un androne. Dai muri partono schegge. Incontriamo
dei carabinieri italiani. Stanno lì nel ruolo di peace-keepers, o qualcosa del
genere. Compilano rapporti. Non fanno né caldo, né freddo a nessuno.
Quelle di allora erano definite scaramucce, eufemismo per mezzo secolo di
brutale e feroce tirannia e indefessa rivolta. A partire dal 7 ottobre
dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa” e della relativa risposta “Hannibal” (tecnica
militare che non guarda in faccia a nessuno, con il risultato di 250 coloni
fatti prigionieri e un numero imprecisato di civili e soldati uccisi nel fuoco
incrociato), la Cisgiordania diventa terreno di guerra vera e propria.
Soprattutto di vendetta sanguinaria, contro genti relativamente inermi, per
quanto a Israele viene inflitto dalla Resistenza a Gaza. A Jenin e in altri
campi profughi e centri abitati, da varie matrici storiche, nasce
l’organizzazione combattente “Tana di leoni”.
C’era una volta Jenin
La violenza repressiva delle forze armate, anche aeree, dello Stato
sionista, è sostenuta da incursioni di coloni armati e le sostiene Si abbatte
su centri abitati palestinesi, che si tratti di città, villaggi e soprattutto
campi profughi, o coltivazioni, fondamentali per la sussistenza: uliveti,
vigneti, frutteti. Si arriva a tagliare reti elettriche, sabotare presidi
sanitari, contaminare acquedotti. E di pochi giorni fa l’assassinio di uno dei
realizzatori del documentario “No other land”, drammatica testimonianza
di una vita resistente sulla terra che è sua, ma che è diventata impraticabile,
a partire dalle vie di comunicazione vietate e a finire con gli ulivi
sradicati.
Va ricordato, a disonore dell’ANP che, per mantenere la del tutto
fantasmatica rappresentanza di un popolo che collettivamente la disconosce, agevola
i pogrom di coloni e IDF con preventivi interventi della sua polizia, mirati a
individuare elementi e nidi di una crescente resistenza e trasmettere
informazioni ai colleghi con la stella di David. Resistenza animata oltre che
da Hamas, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dalla fazione
dissidente di Fatah e da comitati locali. Gli assalti di coloni, supportati
dall’IDF da terra e con elicotteri dal cielo, devastano città come Nablus,
Jenin campo di profughi della Nakba, vivace centro culturale, raso al suolo E
poi Tulkarem, Nur Shams, Tubas. Ne risultano decine di migliaia di sfollati
allo sbando.
Intanto Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e caporione dei coloni,
annuncia l’imminente annessione di Giudea e Samaria, cioè di quanto, persa Gaza
mutata in “giacimento d’oro immobiliarista” (sempre Smotrich), resta della
Palestina possibile.
Traggo da fonti recenti e da un dettagliato rapporto diffuso dall’Associazione
Palestinesi in Italia (API) una serie di dati.
Dal 7 ottobre 2023 in Cisgiordania esercito, polizia e
coloni israeliani hanno effettuato 38.359 attacchi a terre, proprietà e vite
palestinesi. I coloni hanno creato 114 nuovi insediamenti, cacciando dai loro
centri abitati 33 comunità autoctone. Sono stati sequestrati circa 5.500 ettari
di terreno agricolo di cui 2000 costituenti riserva naturale. Vi sono state
costruite strade riservate agli ebrei, torrette militari, zone militari cuscinetto
attorno alle colonie. Sono in corso di costruzione per coloni 37.415 nuove
unità abitative. Il totale dei posti di blocco e barriere sale a 916, delle
quali 243 eretti dal 7 ottobre 2023.
In quello stesso periodo i coloni hanno appiccato 767
incendi su terreni agricoli, effettuato 1.014 demolizioni con la distruzione di
3.679 strutture palestinesi. A inizio settembre i palestinesi uccisi sono
1.079, i feriti 8.015, gli arrestati 22.633, le case distrutte 7.712, i luoghi
sacri violati 1.034, gli attacchi a personale medico 314. 10.945 strade di
comunicazione sono state sbarrate, 73.000 sono gli sfollati, il 90% dei campi
profughi è stato obliterato.
Al regista palestinese Basel Adra coloni e soldati hanno
distrutto il villaggio, Masafer Yatta, di cui ci racconta nel suo “No other
Land”, premiato con l’Oscar. Sono sue le ultime parole su questo lembo di
Palestina, frantumato in mille pezzetti, ma che vogliono che sia il primo passo
dello scarpone chiodato sionista verso il Grande Israele. Nel mondo si
festeggia la “pace”.
“L’occupazione continua, più brutale che mai. Il cessate
il fuoco non è la fine, Gaza è distrutta… In Cisgiordania, solo negli ultimi
giorni, hanno ucciso 15 persone e nemmeno uno di loro è in carcere. Bruciano
villaggi e i palestinesi devono lasciare le loro comunità, 40 villaggi si sono
spopolati e la costruzione di avamposti e di insediamenti è incessante. Trump e
il suo governo sono favorevoli ai coloni e agli insediamenti… L’attenzione è
tutta su Gaza e su questo cessate il fuoco. Ma dovrebbe essere sul popolo
palestinese, sui nostri diritti… L’Autorità palestinese non ha alcun potere e
non ho fiducia nei paesi del Golfo. Sia il governo, sia l’opposizione hanno
votato che non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.
Così stanno le cose. C’è da celebrare? Ai palestinesi non
rimane che la loro Resistenza. Unita alle piazze del mondo.
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