martedì 25 marzo 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico--- --- BALCANI, TERRA DEI FUOCHI --- 26 anni fa a Belgrado: 70 anni di pace in Europa?


di Fulvio Grimaldi

Siamo al 26esimo anniversario dell’attacco NATO alla Serbia. Serbia riluttante a farsi mutilare del suo arto kosovaro a fini di impiantarci Bondsteel, la più grossa base USA d’Europa e di diventare la soluzione finale per la Jugoslavia. Un anniversario segnato da micce accese in tutti i Balcani, micce che paiono correre verso barili pieni di esplosivo.

Sergio Mattarella, che l’istituzione consacra rappresentante di tutti gli italiani (anche di quel quasi 70 per cento che non condivide la sua passione per la guerra e in difesa del governo golpista e dittatoriale dell’Ucraina), ripete a giradischi rotto che grazie all’UE abbiamo avuto 70 anni di pace in Europa. Lo ripete da protagonista, con D’Alema premier e i Comunisti Italiani di Diliberto e Rizzo soci di governo, della prima guerra NATO (rifiutata dall’ONU) di europei contro europei. Per la precisione, di europei aggressori contro europei aggrediti, neutrali e, colpa anche maggiore, socialisti, del tipo Cogestione.

Lo spazio aereo e marittimo che permetteva i 78 giorni di bombardamenti a tappeto, anche all’uranio impoverito, su 7 milioni di donne, uomini, vecchi e bambini serbi, era il nostro. E nostre erano le basi da cui decollavano i bombardieri. E nostro era il mare attraversato dalle navi militari e anche da qualche mercantile della Caritas scoperto pieno di armi. Armi d’offesa per i terroristi e trafficanti di droga e organi dell’UCK, al comando del poi sentenziato criminale di guerra Hashim Thaci, fidanzato morganatico di Madeleine Albright, Segretaria di Stato USA con il democratico Clinton.

Partivano da casa nostra i missili e le bombe che, con un gruppo di volenterosi, alternativi a Mattarella e ai pellegrini, chierici e laici, precipitatisi a Sarajevo a sostenere le buone ragioni del fascista bosniaco Izetbegovic e del fascista croato Tudjman, riuscimmo a dribblare. Vedemmo colpire la fabbrica Zastava, cuore operaio della Jugoslavia, i ponti sul Danubio, gli impianti petrolchimici di Pancevo, l’ambasciata cinese, la TV di Stato con dentro giornalisti e tecnici, case, scuole, treni, profughi cacciati dalle loro terre millenarie. E, per prima, la rete elettrica nazionale del cui spegnimento ci mostrarono il costo i medici dell’ospedale di Belgrado, indicandoci incubatrici vuote.

Seppellite, insieme ai “70 anni di pace” mattarelliani, la Jugoslavia e la Serbia, normalizzati a forza di NATO e UE i Balcani occidentali e orientali, oggi la regione protagonista e vittima di due guerre mondiali è tornata di attualità.

La Romania, caposaldo NATO verso oriente, da dove nel 2008 partì l’impegno della guerra alla Russia, deve a questa sua funzione il corollario dell’estinzione della democrazia, come esplicitata dalle vicende attorno al candidato presidenziale vanamente vincente Calin Georgescu. Ne sono conseguite turbolenze sociali che coinvolgono centinaia di migliaia di persone. I più anziani forse non sono immemori dell’altro scherzetto fattogli dall’Occidente con la strage fabbricata di Timisoara, creduta vera e dunque portata a giustificazione della fucilazione senza processo di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena.

Vediamo le varie turbolenze.

MACEDONIA DEL NORD

Qui, come nel caso della Serbia. dove la miccia sarebbe stata accesa da un disastro con vittime a Novi Sad, è stata una strage accidentale, ma dalle evidenti responsabilità colpose, a scatenare un prodromo di guerra civile.

Domenica 16 marzo, nell’incendio di una discoteca a Kocani, 100km da Skopje, sono perite 59 persone e ne sono rimaste gravemente ferite altre 155. La protesta si è subito diretta verso i palazzi delle istituzioni, tribunale, stazione di polizia. Anche qui la rabbia, fatta passare per reazione a carenze, inefficienze e corruzione delle istituzioni, ha assunto carattere nazionale con la mobilitazione degli studenti in tutte le maggiori città. Il malcontento, originato anche da quello che viene giudicato un cedimento di identità e sovranità nazionale alla Grecia, quando il governo accettò di aggiungere “del Nord” allo storico nome di Macedonia, rivendicato in esclusiva da Atene, pare anche rivolgersi contro l’ingresso del paese nella NATO nel 2020 e le conseguenti spese militari a discapito di un welfare già deficitario.

Resta anche da rivedere sullo sfondo storico il lungo periodo di tensione e di conflittualità aperta, provocate anni fa dalle rivendicazioni della minoranza albanese collegata, come in Kosovo, al sempre verde progetto della Grande Albania. Un progetto visto con favore dalla NATO, e che ha subito un contraccolpo quando Skopje, nel 2004, non è riuscita a far passare un decentramento di carattere federale che avrebbe costituito il primo passo in direzione delle ambizioni albanesi.

Dovrebbero colpire la simultaneità dei tempi e le affinità tra i protagonisti della mobilitazione rispetto a quanto accade in Macedonia e la sollevazione studentesca che, da dicembre, agita la Serbia. Non fosse che sono molti i feriti e i fuggiaschi dalla repressione in Macedonia che hanno trovato rifugio e assistenza in Serbia tra i militanti dei partiti che sostengono il contestato presidente Vucic.

ROMANIA

Sulla Macedonia del Nord potrebbero aver avuto ripercussioni sia la crisi esplosa nella vicina Serbia, che però, con tutte le sue nebulose contraddizioni, pare dover essere interpretata in senso politico opposto, sia l’apertura di una vera e propria faglia sismica in Romania. La grossolana violazione di ogni più elementare principio del diritto e della democrazia a seguito della vittoria elettorale di un candidato, Calin Georgescu, ostile all’impegno NATO contro la Russia, ha visto una forsennata escalation nell’abuso dei poteri istituzionali. Dall’annullamento delle elezioni, si è passati all’arresto di Georgescu su accuse totalmente fabbricate quando i sondaggi lo indicavano largamente favorito per una nuova tornata, con addirittura il 45% delle preferenze di voto.

Il dato che questa incredibile manomissione di ogni principio democratico avesse, non solo il tacito, ma addirittura l’espresso gradimento, della Commissione Europea, potrebbe essere tra i motivi per i quali tra i manifestanti macedoni, di cui sopra, non si nutra grande entusiasmo per l’entrata di Skopje nel consesso di Bruxelles.

KOSOVO E BOSNIA ERZEGOVINA

Sono, a partire dalla dissoluzione della Jugoslavia nell’ultima decade del secolo scorso, due gli strumenti che il neocolonialismo euro-atlantico adopera, alternativamente e periodicamente, per disfarsi dell’ostacolo coriacemente sopravvissuto al disfacimento della federazione: una Serbia non euronormalizzata, a dispetto della guerra NATO e del successivo colpo di Stato colorato.

Una Serbia che, a dispetto di un assedio geopolitico e propagandistico mai venuto meno dall’inizio del millennio, non rinuncia al diritto di rivendicare il Kosovo componente irrinunciabile della Serbia stessa, ai termini di una storia secolare e della risoluzione 1244 dell’ONU e a dispetto della metà dei 193 paesi dell’ONU, compreso l’aggressore Italia, che hanno riconosciuto l’indipendenza unilateralmente dichiarata.

Una Serbia rimasta fuori-Nato, pur tra vicini balcanici che sono tutti o NATO, o UE o tutti e due. A suo tempo aveva chiesto di entrare nell’UE, ma poi, vista la scarsa simpatia che Bruxelles e i suoi primi attori riservano a Belgrado e ai suoi sempre più stretti rapporti con Mosca e con Pechino, aveva capito di non essere bene accetta, almeno fintanto che si fossero mantenute queste sue liaisons dangereuses.

Il primo strumento sono le provocazioni a Belgrado realizzate attraverso i maltrattamenti della minoranza serba sopravvissuta alla pulizia etnica nel Kosovo. Entità inventata dalla NATO a presidio dei Balcani occidentali con la megabase Bondsteel, insediata anche a protezione di un Stato giudicato, fin dai tempi della presa di potere delle milizie narcotrafficanti UCK, ad alto tasso di criminalità mafiosa.

Sono note le traversie, vessazioni, prepotenze, periodicamente inflitte ai 100.000 serbi rimasti a Mitrovica, nel nord del Kosovo. Un costante tentativo, affidato al premier di Pristina, Albin Kurti, di portare i serbi all’esasperazione e, qujndi, a una reazione violenta che possa poi coinvolgere Belgrado e avvicinare quella resa dei conti che in Occidente si auspica fin dall’inizio della distruzione della Jugoslavia. Manovra che gode della tolleranza, se non della fattiva complicità, della KFOR, forza NATO creata nel 1999, perfettamente a suo agio in un processo di pulizia etnica che varia tra lo strisciante e l’accelerato.

L’altro strumento è quel coacervo di opposte nazionalità, culture, religioni, imposto da USA e complici anti-serbi con gli accordi di Dayton del 1995 e la creazione dello Stato tricefalo della Bosnia Erzegovina. Una entità creata in provetta, che pretende di unire le tre componenti etnico-confessionali, bosniaco-musulmana, croato-cattolica e serbo-ortodossa (la repubblica Srpska staccata dalla madrepatria). Una creazione passata sopra la testa delle popolazioni interessate, sottoposta al comando di una specie di vicerè coloniale europeo (oggi il democristiano tedesco Christian Schmid), dotato di poteri che superano quelli della direzione collettiva installata a Sarajevo.

Territorialmente e demograficamente la componente più grande, la repubblica Srpska con capitale Banja Luka, rappresenta ricorrentemente la pietra dello scandalo in una formazione in cui nulla è omogeneo, complementare, armonioso. Dalla presidenza federale, assegnata a turno a una delle tre componenti, è uscita negli ultimi giorni Banja Luka, rendendo evidente l’impossibilità di mantenere in vita un costrutto in cui due elementi, in rapporti di netta dipendenza da NATO e UE, sono fortemente schierati contro la terza, che, della madrepatria condivide la comunanza slava e la posizione.geopolitica.

Alla vigilia delle manifestazioni che stanno sconvolgendo la Serbia, a partire dalle proteste seguita al crollo di una pensilina a Novi Sad, con la morte di 15 persone e che è stato attribuitoalla corruzione e al malaffare delle autorità locali, poi nazionali, il presidente di Srbska, Milorad Dodik, è stato oggetto di un ordine d’arresto emanato da nientemeno che il governatore tedesco della federazione e poi avallato dalle autorità di Sarajevo. Il provvedimento ha provocato la rottura definitiva del rapporto tra la repubblica Srpska e le altre due componenti e quindi il disfacimento della direzione collettiva.

L’ordine di arresto, ovviamente ignorato a Banja Luka, rappresenta il momento culminante di una lunga serie di attriti e provvedimenti reciprocamente escludenti, campagna ovviamente pianificata là dove suole. Stavolta il casus belli era strategico: L’ONU aveva azzardato di proclamare una “giornata della memoria” per il massacro di Srebrenica del 1995, attribuito alle milizie serbe di Mladic e Karadzic (entrambi sotto processo all’Aja) e in cui sarebbero periti 8000 civili bosniaci. Giornata riconosciuta da croati e bosniaci, rifiutata dai serbi di Banja Luca che ne negano anche la motivazione..

Con questa giornata della memoria, fondata su evidenze discutibili, anzi negate da una serie di inchieste indipendenti secondo le quali le vittime nel villaggio serbo di Srebrenica, coinvolto nelle operazioni militari tra serbi e bosniaci, erano appena alcune decine e quasi tutte militari bosniaci caduti in combattimento. Una versione corroborata anche dalla comparsa, nelle successive liste elettorali bosniache, di molti dei presunti giustiziati.

L’operazione contro la repubblica Srpska avviene in contemporanea con la destabilizzazione che si sta cercando di attuare in Serbia, a partire dall’incidente di Novi Sad e che ha visto scendere in piazza i soliti studenti, fattisi conoscere come Otpor nella rivoluzione colorata del 2001 che portò alla caduta di Slobodan Milosevic e che, in una intervista a me, per Liberazione, si vantarono di essere stati istruiti in corsi tenuti da un generale statunitense a Budapest.

Fonti che frequento fin dal mio lavoro di inviato a Belgrado tra 1999 e anni successivi e che mi si sono sempre confermate affidabili, riconoscono la validità delle ragioni dei manifestanti quando denunciano episodi di corruzione, di malversazioni economiche e di decadimento dei diritti sociali. Peraltro anche attribuibili alle sanzioni occidentali mai levate.

Ma sostengono anche di avere ottimi motivi per individuare nella sommossa la manina dei soliti manovratori e degli obiettivi di destabilizzazione di un assetto serbo che non si rassegna alla perdita del Kosovo, che sostiene i buoni diritti della repubblica sorella in Bosnia Erzegovina e che non rinuncia alla solidarietà e collaborazione con i fratelli slavi russi e con gli attivissimi realizzatori cinesi delle infrastrutture per la Via della Seta nei Balcani.

Srebrenica non è un fenomeno isolato. E una delle tante operazioni chiamate False Flag e che sono diventate lo strumento principe per solidificare nella percezione dell’opinione pubblica la necessità di una guerra contro “dittatori” e devianti vari e per la difesa di sedicenti democrazie e diritti umani. Questo nell’immediato. A livello storico sono il criterio fondante per determinare chi è stato buono e chi cattivo. Lo abbiamo imparato, a fatica, per quanto riguarda la damnatio memoriae di certi imperatori romani invisi all’oligarchia senatoriale e ai rispettivi storici.

Dovremmo ricordarcene quando ci rifilano Srebrenica, o la strage di Racak che fece tirare le prime bombe su Belgrado, o gli 8000 (cifra prediletta) curdi gassati ad Halabja da Saddam (che poi non risultò avere armi chimiche), o Tripoli, con le fosse comuni delle vittime dei bombardamenti di Gheddafi (che non aveva bombardieri in volo), o East Ghouta, con i gas di Assad (poi negati dall’organismo ONU) sui bambini, o l’aereo PanAm di Lockerbie, prima abbattuto dai libici e ora dagli iraniani, o le giovani donne uccise dai poliziotti in Iran alla partenza di ogni rivoluzione colorata…. O, soprattutto, l’11 settembre, per poter fare la guerra a tutti i “terroristi”.

 

 

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