Fulvio
Grimaldi per l’Antidiplomatico
In
Siria i jihadisti democratici tornano carnefici
CISGIORDANIA,
LA NUOVA NAKBA
Occultata dalle intemperanze e improvvisazioni di Trump,
comprese le oscenità sul cimitero dei vivi di Gaza e le nequizie deontologiche
e morali di un sistema politico-mediatico italiota, sistematicamente
depistatore e menzognero, dovremmo passare sopra la nuova Nakba che lo Stato
terrorista dei soli ebrei sta infliggendo agli umani veri di Cisgiordania.
Nakba che è ormai il quarto fronte aperto dai necrofagi impiantati
dall’anglosfera in Medioriente, dopo Gaza, Libano, Siria. Paesi, popoli, che si
vorrebbero frammenti di cadaveri per comporre la Grande Israele.
La troupe era composta da Sandra e me e nel documentario “Araba
Fenice, il tuo nome è Gaza” potete vedere cosa abbiamo girato in
Cisgiordania e, soprattutto a Hebron, oggi nuovo obiettivo della sostituzione
etnica che faccia della Cisgiordania la Giudea e Samaria della mistificazione
biblica.
Da Hebron che, con la pulizia etnica dilagante dal Nord
della Cisgiordania al Sud, era rimasta relativamente fuori dalla furia
stragista e devastatrice delle bande di coloni e dell’esercito, mi arrivano
famigliari e care voci. Quanto di oppressione nazirazzista avevamo visto e
documentato allora, si è duplicato, quadriplicato, esteso e potenziato fino ad
assumere i tratti genocidi di Gaza. Dopo Nablus, Jenin, Tulkarem, e decine di
centri abitati, dopo lo svuotamento della Valle del Giordano, anche Hebron deve
scomparire.
La pulizia etnica strisciante, operata allora tramite
terrore ancora episodico, al quale assistevano impotenti i soliti nostri
ridondanti “peacekeepers”, in ispecie Carabinieri (e ce lo confessavano
frustrati), è diventata sterminio. Tutto calcolato, tutto pianificato
meticolosamente. Loro, commettendo la solita, abusiva rivendicazione storica,
direbbero “fin dai tempi di Mosè”. Noi sappiamo che la matrice è il sionismo
allestito dal colonialismo storico alla fine dell’800.
Arrivando a Hebron dalle colline che la circondano,
costellate di villaggi agropastorali di antichissima cultura, si scende a fondo
valle correndo lungo una fiumana di abitazioni, moschee, botteghe, officine,
scuole, sedi istituzionali. Alla fine, stop. Il nulla. Il nulla dove era il
centro della comunità, del suo vivere insieme, il grande mercato medievale
arabo. Solo serrande chiuse. E pattuglie dell’esercito occupante che già solo
con l’atteggiamento, se non con le canne del fucile che ti guardano, digrignano:
“Via da qui!”.
E’ ancora vivo e lotta insieme alla sua comunità il medico,
laureato in Italia, che ci ha accolto sulla porta della casa da cui era stato
espulso, ma in cui erano trattenuti, sequestrati, dall’occupante militare
israeliano insediatosi nel piano alto, moglie e figli piccoli.
Mentre il dottor Jussef, ci raccontava come dal tetto i
soldati, utilizzando i suoi famigliari come scudi umani, si divertivano a
sparare contro le case abitate sul lato opposto della piazza, questi stessi
fucilatori, accortisi della nostra presenza, dall’alto ci mostravano il dito
medio.
Prima del mercato antico c’era uno dei mille e mille posti
di blocco dedicati all’esasperazione della vita dei titolari di questi luoghi.
Riuscimmo ad attraversarlo e, passando per il dedalo di vicoli e corridoi
ingrigiti, tra bazar defunti dietro alle saracinesche, superando uno spiazzo
vuoto nel quale restavano solo le tracce delle fondamenta di edifici
commerciali rasi al suolo, risalimmo verso la cittadella storica. Allora
occupata da 500 ebrei sionisti di origine statunitense. Ogni strada di accesso
a questo territorio stuprato, ogni sua via di comunicazione interna, era percorsa,
con la regolarità di un servizio pubblico urbano, da pattuglie e blindati di
militari. A volte a scorta di nugoli famigliari in abito nero, cappello nero e
treccine. E inevitabilmente occhiate sospette, sguardi torvi.
Ma si resisteva. Accadendo ogni giorno, nella zona della
città che la truffa di Oslo aveva concesso alla libertà di movimento – sempre
parziale e spesso interrotta – venivano improvvisate barricate a contrasto dei
pattugliamenti e delle irruzioni in case, negozi, università, municipio. E
all’arrivo dei blindati o dei soldati appiedati, le venivano date fuoco.
Partivano i sassi. Che soddisfazione parteciparvi. Il tempo di vita che mi
riconosco non buttato è sicuramente quello che mi ha visto a fianco di chi tirava
sassi, e anche altro.
Oggi Hebron ospita ancora circa 200.000 palestinesi, sotto
tiro di 800 coloni che rivendicano tutta la città perché datagli dal loro dio.
Sono pochi i maschi che nel corso di questi anni non siano passati per le
carceri israeliane della tortura, comprovata mille volte dalle proprie carni,
più che dai racconti. Sono poche le famiglie che non siano state terrorizzate
dalle incursioni notturne di chi, bastonato chi rimaneva, sequestrava padri,
madri figli e li portava dove sarebbero rimasti. Anche per anni, nudi,
denutriti, vessati, senza imputazioni, processi, difesa: detenzione
amministrativa. Dal 1967 è toccato a circa 700.000 palestinesi. Sono molte le
case demolite perché un loro inquilino dava motivo per sospettarne…
La situazione è precipitata in tutta la Cisgiordania a
partire dal 7 ottobre dell’Alluvione di Al Aqsa. Ma nel Sud da questi ultimi
giorni.
Da Hebron ci giungono voci di ancora sopravviventi. Nei
giorni dopo l’operazione liberatoria di Hamas, nel carcere della città arrivarono
donne di Gaza. Vestiti insanguinati, lo jihab strappato, sistemate per terra,
il cambio con indumenti zeppi di pulci. Entrano soldati, gli mettono le manette
di nastro che stringono i polsi fino a gonfiarli, bendano gli occhi, le
costringono a terra con la faccia nella polvere, le insultano, le minacciano
cani poliziotti. E le portano via. Le
fanno rientrare nelle loro celle una volta che vi hanno fatto esplodere
candelotti lacrimogeni. Quelli tossici, CS, quelli che a me, nei miei scontri a
Ramallah durati pochi minuti, hanno lasciato una bronchite cronica. Figuriamoci
il loro sistema respiratorio sottoposto alla gassificazione fin dall’infanzia….
Intanto, dai coltivatori e allevatori sulle colline attorno
a Hebron hanno iniziato a essere incorporati dai coloni migliaia di ettari di
terra, intere greggi, milioni di ulivi. E gli acquedotti e le reti elettriche distrutti. E chi si
ostina a non togliersi dai piedi, si ritrova la casa devastata, le stanze
bruciacchiate dalle granate di gas, la macchina a fuoco, i cellulari rubati,
tutti i percorsi ostruiti, cancellati. Lo vivono ora ogni giorno, ogni notte,
ogni ora quelli di Um Al-Khair, Khirbet Zan, Tuwani, Sheb Al-Butom., villaggi a
corona intorno a Hebron, assediati e soffocati dagli insediamenti dei coloni.
A Hebron visitammo, superando con disagio gli ostili
frammezzi militari ebraici, la storica Moschea di Abramo, luogo sacro
dell’Islam. Baruch Goldstein, fanatico decerebrato del partito di Meir Kahane,
padrino e ispiratore delle attuali formazioni fasciste dei ministri
annessionisti, Smotrich e Ben Gvir, nel 1994 vi ammazzò a mitragliate 29
palestinesi. Il suo ritratto è appeso nell’ufficio di Itamar Ben Gvir, capo di
Otzama Yehudit, “Potere Ebraico”.
Torniamo a Nord, alla nuova Nakba, a quella innescata dal
regime ebraico-nazista senza alcun bisogno dell’innesco-pretesto del 7 ottobre
(un autodafè, se mai ce n’è stato uno!), a partire dal rogo che, parecchio
prima, il 26 febbraio 2003, con un raid di coloni, incenerì la citta
palestinese di Howara.
Solo nei primi due mesi di gazificazione - ricordiamoci:
accuratamente preparata dalle incursioni della polizia del presidente Abu Mazen
- 50.000 palestinesi espulsi dalle loro terre, case, comunità, nel nulla della
nuova Nakba. E’ l’inizio. Con i confini verso Giordania, Libano, Egitto, Siria,
chiusi, quando non superati da Israele con le cosiddette “zone cuscinetto di
sicurezza” (da annettere domani) nel territorio degli altri Stati, per questi
50.000 e quelli che seguiranno è prevista solo la dissoluzione. Evaporare, come
l’acqua.
DOVE ISRAELE BUTTA L’OCCHIO, PARTONO GLI STERMINII
Una tale decomposizione, in combutta con i fratelli
jihadisti, la contigua setta sionista ha iniziato a infliggerla alle
popolazioni di Latakia, Tartus, Hama, Oms, la regione della Siria abitata da
sunniti insieme a una locale maggioranza di sciti alawiti, della stessa
confessione e cultura politica dei protagonisti della liberazione e della
rivoluzione laico-socialista. E in questa area, infatti, che si stanno
verificando i primi episodi importanti di una resistenza organizzata e
operativamente efficiente.
Occultati dalle cancellerie corresponsabili dell’episodio
siriano della guerra agli arabi, già da settimane filtravano notizie sulla
ripresa delle atrocità jihadiste, sotto copertura dell’abito e della cravatta
di Ahmed Sharaa-Al Jolani, in varie zone della Siria occupata e trisquartata
tra turchi, israeliani e mercenariato curdo degli USA.
Incontenibile nella loro ferocia stragista, fatta di
esecuzioni di massa, crocefissioni, persone bruciate vive, scuoiate, annegate, stuprate,
i “liberatori della Siria” sono tornati a mostrare il volto esibito durante i
13 anni dell’aggressione colonialista, eufemizzata in “guerra civile” Tutte
cose documentate anche nel mio “Armageddon sulla via di Damasco” girato in
piena guerra. I mercenari Al Qaida dell’aggressione turco-israelo-statunitense
diffondevano in tutto il paese le immagini delle loro atrocità a danni di
civili di cellulare in cellulare, con l’intento di terrorizzare e castrare ogni
volontà di resistenza.
Hanno esibito buone
maniere nel momento delle cerimonie democratiche di insediamento a Damasco. Tanto
goffe e bugiarde, quanto applaudite da quel nostro mondo che vi si riconosce,
ma che dice di amare il diverso. Tanto da ucciderlo, o farlo uccidere appena
può (vedi Siria). Ma la vera natura di questi mostri allevati e armati dalla
CIA e da Erdogan (Netaniahu ne faceva curare i feriti in cliniche israeliane) è
riesplosa appena le telecamere di servizio coloniale si sono ritirate. Insieme
ai primi sussulti di una resistenza, per ora apparsa a macchie di leopardo.
Una fin qui occultata campagna di esecuzioni, anche di
massa, distruzione di abitati, arresti, sequestri, maltrattamenti, massacri di
soldati dell’esercito siriano, di amministratori, funzionari, impiegati dello
Stato abbattuto, addirittura bombardamenti da elicotteri, tutto riservato con
particolare accanimento a cristiani e sciti, raggiunge ora l’apice nella
regione siriana che scende verso il Mediterraneo. Al 10 di marzo le persone
assassinate erano oltre 1.300 nella sola provincia di Latakia. Insieme ai
membri dei gruppi di resistenza e ai miliziani jihadisti, in maggioranza
civili.
Non pare che il tentativo della popolazione di trovare
protezione rifugiandosi nelle vicinanze delle basi russe, navale a Tartus e
aerea, Khmeimim, a Latakia, abbia impedito la continuazione dell’eccidio.
Del resto sul destino di queste basi non sai è ancora saputo nulla di
definitivo. Pare siano in corso colloqui tra Mosca e le nuove autorità di
Damasco.
Il mondo tace. Al capo massacratore, lasciato fare per 13
anni, e ora riscattato dalla promessa di sparpagliare i resti della Siria ai
piedi degli squartatori, tutto è consentito.
Torniamo in Cisgiordania. I coloni, smaltita la fuga di
molte decine di migliaia dalla Galilea colpita da Hezbollah, garantiti da
questo regime, hanno ripreso a immigrare e dovrebbero aggirarsi intorno al
milione. La loro rapina a mano armata di territorio a oltre due milioni di
palestinesi della Cisgiordania e assicurata dagli armamenti ricevuti, dalla
libertà giuridica di delinquere a tutti i livelli purchè sia ai danni dei
nativi, dal costante rinforzo prestato dall’IDF e dal collaborazionismo armato
e di intelligence dell’ANP. E, ora, dopo i tentennamenti di Biden, anche dal
benestare di Trump. in vista dei resort da far sorgere in queste valli
ubertose.
La violenza armata, ormai quotidiana e che non si ferma alla
distruzione e poi allo sgombero di interi campi profughi (Jenin, Tulkarem, Nur
Shams…) mediante pogrom di coloni, carri armati, ruspe, addirittura raid di
cacciabombardieri, ripete pari pari il genocidio di Gaza.
La distruzione mirata di acquedotti, reti elettriche,
depositi di viveri, sistemi fognari, la cancellazione o ostruzione delle vie di
comunicazione, i 900 posti blocco, spesso improvvisati, i quasi 200.000
lavoratori che traevano il sostentamento delle loro famiglie da lavori per
imprese israeliane, predispongono all’invivibilità, all’inedia e, quindi, allo
spodestamento e alla desertificazione del cuore della Palestina. Per il quale
sarà previsto la riabilitazione attraverso un piano di rinascita tipo “Riviera
di Gaza”.
E’ un’altra Nakba. Sotto i nostri occhi. Come nel 1948. E
seguenti.
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