Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo
incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”,
con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di
Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito
dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto
spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di
leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa
in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez
Obrador in Messico.
Per
tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo
internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la
determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze
interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
L’inizio
della fine si può fissare al 2019. Morales, contro la decisione della
maggioranza del suo Movimento al Socialismo (MAS), di forze sindacali e civili e,
soprattutto contro il dettato della sua stessa costituzione, insiste per candidarsi
a un terzo mandato. Un referendum convocato per dirimere la questione decreta
la sconfitta di Morales. Che, però ignora la sentenza e prova a farsi
rieleggere.
Della
destabilizzazione del quadro del potere così determinata, approfitta la mai
doma e sempre golpista estrema destra feudale e imprenditoriale del paese,
strettamente legata agli USA. Il colpo di Stato ha breve vita e viene
schiacciato dalla mobilitazione popolare e poi dal voto. Che vede vincitore,
non Evo Morales, l’uomo all’origine del trambusto, ma il suo decennale ministro
dell’economia, Luis Arce, primo responsabile dell’emancipazione sociale ed
economica del paese.
Perché
Arce e non Evo? Perché il presidente non era stato soltanto respinto quando s’era
incaponito sul quarto mandato, ma perché alle prime ore del golpe se l’era data
a gambe, fuggendo prima in Messico e poi in Argentina, lasciando compagni,
partito e popolo a vedersela con la sanguinosa repressione dei golpisti.
Le
conseguenze non potevano che essere quelle che oggi vediamo. Dopo il ritiro del
popolare Luis Arce, candidato più stimato e credibile, “per non contribuire
alla divisione della sinistra”, era inevitabile l’ampia vittoria al primo turno
di due candidati della destra, Rodrigo Paz Pereira (Democristiano) al 32,1% e l’ex-presidente
Jorge Quirora, e il più quotato tra i candidati del lacerato MAS, Andronico
Rodriguez, già delfino di Evo e presidente dell’Assemblea Nazionale, solo
quarto con l’8,11%. Disfatta totale e vittoria garantita delle destre al prossimo
ballottaggio.
La
parte finale della campagna elettorale unisce il tragico al grottesco. Morales,
perso il controllo del MAS, indifferente alla sconfitta nella candidatura al
terzo mandato nel 2019, aveva addirittura provato ad imporre, anche con la
pressione eversiva dei suoi seguaci, con posti di blocco e marce e occupazioni,
un suo quarto mandato. Ovviamente respinto dal Tribunale Supremo Elettorale,
anche perché presentato a nome di un improvvisato partitino, “Evo Pueblo”, intitolato
da Morales a se stesso e privo delle basi giuridiche per concorrere.
L’estremo
tentativo di restare in gioco induce Morales a una mossa tanto demenziale,
quanto suicida. Anzi, sociocida e nazionicida. Gira per il paese promuovendo il
“voto nullo”. Una buona quota dell’elettorato si fa convincere che si tratta
del sabotaggio di una truffa elettorale. Ma eliminata quella quota determinante
con l’annullamento della scheda, per la destra si apre un’autostrada.
Dopo
vent’anni, nei quali il popolo si era affrancato da sottosviluppo e dipendenza
e affermato padrone del suo destino, dopo secoli di dittature e democrature con
la vittoria, a costo di sangue e devastazioni, nella guerra per l’acqua, la
Bolivia è tornata al punto di partenza.
E
sullo sfondo geopolitico lumeggia l’immensa distesa dei più vasti giacimenti di
litio del mondo, parzialmente condivisi con Cile e Argentina. Arce ne aveva
nazionalizzato estrazione e produzione. Ai cinesi ne aveva dato in carico la
gestione. Ora qualcun altro uscirà da dietro le quinte.
Qui
sotto, Rodrigo Paz, Partito Democratico Cristiano.
Rodrigo Paz,
vincitore al primo turno
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