Fulvio
Grimaldi per L’Antidiplomatico
Da Ben
Gurion a Netaniahu: il passo più lungo della gamba
GRANDE
ISRAELE, GENOCIDIO O SUICIDIO?
Dall’occupazione
all’annessione
Ce
n’est que un debut. Permettetemi la blasfemia di adattare una parola d’ordine che aprì un
tempo di liberazione e giustizia a qualcosa che ne è l’opposto: schiavitù e
crimine. Cioè Gaza. E non solo.
Ci
vuole tutta l’insolenza accompagnata ad abissale ignoranza - i due binari sui
quali viaggia l’intera nostra compagine governativa - del trovatello berlusconiano
che un prodigio neofascista ha fatto diventare ministro egli Esteri, per
esigere (!) che, prima di venire ad esistenza, lo Stato palestinese (che non
c’è) debba riconoscere lo Stato israeliano che c’è da ottant’anni. Con la
consapevolezza di chi è convinto che non ce n’è per nessuno, Tajani sorvola sul
dato granitico del riconoscimento solennemente dichiarato, nel 1993, dalla
massima autorità palestinese, l’OLP di Arafat. Un leader, già ridimensionato
dalla cacciata da Beirut, rannicchiato in esilio a Tunisi, che si rassegna a coronare
l’ennesima turlupinatura sionista, della quale non verranno mai rispettate
neanche le forme.
Questa
manifestazione di competenza ed arguzia diplomatica, Tavjani l’ha espressa, con
il tempismo che rivela la sua oculatezza diplomatica- Erano le ore in cui si
materializzava la presunta elucubrazione onirica di Trump dell’oscena “Riviera
di Gaza”, apparecchiata, a forza di cocktail e aragoste, per Bibi, Donald, loro
consorti e altri della Fratellanza Epsteiniana, Quelli da Bibì tenuti ferreamente
per i santissimi in virtù dei ricattini sexy allestiti dal pedofilo ebreo
(ovviamente suicidato) su mandato del Mossad.
“Gaza riviera, dalla visione alla realtà” è la
solenne dichiarazione, a fine luglio, di una determinante quota di parlamentari
e ministri Knesset, riferendosi, appunto, al futuro distopico di una Gaza dove
fame, bombe, veleni, cecchini anti-bambini, avranno fatto togliere il disturbo a
un residuato di pezzenti umanoidi sgraditi a Jahvé. Ben Gvir: “Nessun
negoziato (altro che Hamas indisponibile), occupazione e incoraggiare l’emigrazione”.
Riviera Gaza
Scansando l’ironia, con la quale cerchiamo di
dribblare l’orrore, il ribrezzo e l’indignazione, ricordiamoci che Gaza del
libro “Palestina 1947-2025” è solo il capitolo più sanguinolento, ora
finalmente letto ad alta voce da tutta una serie di pali, complici e
addirittura sicari politici (i silenzi, le fughe, o le baggianate di Tajani),
militari (i nostri contributi alla tecnologia dello sterminio), mediatici (i
nostri mainstream). Capitolo recitato a voce alta quanto basti a silenziarne
gli altri di un tomo tanto pesante da contenere un secolo e mezzo Medioriente.
Il
preventivo è l’occupazione, il consuntivo l’annessione. Ci siamo. Per quella di
Gaza hanno già fatto circolare il rendering. Quella della Cisgiordania è in
stato avanzato e legittimato da autorità ministeriali. L’occupazione del Sud
del Libano fino all’acqua del prezioso fiume Litani, è garantita dal nuovo
ordine stabilitosi a Beirut a seguito dell’indebolimento di Hezbollah e grazie
ai “cessate il fuoco” per i quali Israele rade al suolo ogni due per tre pezzi
di Beirut e Libano.
Nella
fiammata di attenzione iniziale, ci siamo meravigliati come la Comunità
Democratica, che aveva posto (ipocrite)
taglie sulla testa dei tagliateste Al Qaida-Al Nusra-Isis-Daesh- Hayat
Tahrir al-Sham (HTS), precursori dell’IDF di Gaza, li avesse poi ritrovati a
Damasco in cravatta, riconosciuti, applauditi e accolti. La meraviglia si è
dissolta a forza di diverse migliaia di assassini perpetrati dai “liberatori da
Assad” ai danni di alcune minoranze riottose: Alawiti sciti, prima, drusi
semi-sciti e beduini sunniti, poi. Condizione ideale perché Israele potesse
proseguire nella scrittura di quel famoso tomo. Del resto, c’era poco da
meravigliarsi alla luce di come la gramigna del jihadismo sia stata seminata,
concimata, addestrata, finanziata per tutte le guerre coloniali e imperialiste
che la combine USA-UE-Sion ha preferito delegare, piuttosto che rischiare
contraccolpi come per il Vietnam.
Netaniahu
visita feriti Isis sul Golan
Mosul, Isis giustizia un prigioniero
Un
passo indietro. In effetti tutto inizia nel 1948, quando un’assemblea ONU, a
ciò non titolata, assegna alla minoranza immigrata ebraica la maggioranza della
Palestina storica e quando tale minoranza, super-armata dai suoi mandanti,
inaugura l’epoca del terrorismo bruciando villaggi e spedendone nel vuoto la
popolazione. Nel 1967, poi, viene scritto un altro capitolo, programmato da
lunga pezza.
Sono
inviato di Paese Sera alla Guerra dei Sei giorni, giugno 1967. L’esercito egiziano,
preso alla sprovvista grazie alla distruzione preventiva della sua aeronautica,
viene maciullata e ci basta un pullmino per accompagnare le truppe sioniste ad
occupare Gaza e nel Sinai. Al centro del paese che gli ebrei, pensandosi nella
bibbia, chiamano Giudea e Samaria, la presenza giordana dell’amico re Hussein fa
finta di non esserci, scompare e la Cisgiordania è occupata. Preventivo che nei
nostri giorni, con l’annuncio ministeriale dell’annessione, si fa consuntivo.
Più tosta è a Nord, dove la tenuta della Siria, bestia nera irriducibile, dalla
fondazione alla caduta di Assad, costringe il giornalista ad accompagnare le
truppe ospitato sulla torretta di un carro armato. E si scrivono i capitoli
Galilea e Golan.
Un
passo dopo l’altro, tocca alla Siria
Tank Israeliani
verso il Golan
Dal
quale Golan Israele che, millenarista, conosce i tempi lunghi, coglie oggi l’occasione
per scendere e dilagare ulteriormente in Siria. Si assicura il controllo del
triangolo cruciale del confine Israele-Libano-Siria (rifornimenti a Hezbollah e
Assad) e l’acquisizione del sudovest del paese, proiettato verso Giordania,
Arabia Saudita e Iraq. Anche qui, quanto ad attenzione mediatica, non si è
andati molto oltre le bombe d’avvertimento a Damasco e all’intervento
di Tel Aviv in presunta difesa degli storici vassalli drusi. Ma in effettiva
occupazione definitiva dell’area. Annessione in vista.
Mentre
a forza di bombardamenti su capitale, palazzi del potere e ogni struttura e
infrastruttura militare ereditata dalla Siria sgominata, si segnala ai vecchi
compari terroristi che l’amicizia dura finchè conviene. I tempi in cui
Netanyahu saliva sul Golan a salutare i feriti dell’ISIS curati in cliniche
israeliane, sono passati. Ora il vecchio compare è di troppo. Per i
fascismi è fisiologico. Dunque lo è per Netanyahu e Trump.
Tutto
questo viene scritto via via, sotto gli occhi dei contemporanei. Ma è la
trascrizione sul terreno di quanto una dettagliata bozza, fatta conoscere solo
agli intimi, aveva preannunciato e pianificato, con l’autorevolezza di chi si
era assicurato immunità e impunità grazie ad olocausti subiti e potenza
finanziaria costruita.
Il
bombardamento di Piazza Omayyadi a metà luglio ha una portata simbolica: è il
luogo dell’anima di Damasco, ospita il Monumento della Spada damascena e,
ricordando il glorioso califfato Omayyade che si stendeva dai Pirenei alle
steppe dell’Asia centrale, è l’emblema
della dignità e dell’orgoglio della nazione araba unita. Anatema per il
colonialismo. Oggi per i sionisti. Ne serviva l’umiliazione.
Damasco
bombardata
Una
conquista che ha per meta Eretz Israele, il Grande Israele. Che è realistico
pianificare al prezzo della frammentazione di ogni forma di unità araba, mirando
ad annullare il dato storico e antropologico che si tratta di una civiltà unita
da religione, cultura, lingua, volontà, ma capace di affermarsi nel segno del
pluralismo e della convivenza etnica, confessionale, tribale. L’intervento deve
essere, è stato, ed è tuttora, quello del divide et impera.
Occasione
più recente, i drusi. Non ha, il ministro degli Esteri, Gideon Saar, detto che
“l’idea di uno Stato unico e sovrano di Siria non è realistico”? E non
aveva aggiunto Rami Siman, docente di Arte Militare a Tel Aviv, “La Siria è
uno Stato artificiale. Israele lo deve far scomparire. Al suo posto ci saranno
cinque cantoni”. E l’immancabile Bezalel Smotrich: “La guerra finirà
solo quando la Siria sarà stata divisa”. Conclusioni logiche per chi,
mandante e mandatario, aveva realizzato che mai lo Stato sionista avrebbe
potuto, o dovuto, integrarsi nel mondo arabo e musulmano e che l’alternativa
obbligata erano l’assedio, la conquista e la frantumazione.
Da
Abramo, attraverso Herzl e Ben Gurion, a Netaniahu e ad…Abramo
Grande Israele,
fase 1 e fase 2
Tutto
questo ha un retroterra, è la progressiva attuazione di quanto scritto nella
bozza, intitolata ufficialmente “Grande Israele” e che prefigura una prima
fase: la Palestina del mandato britannico, più quanto già incorporato nelle
guerre a Libano, Siria, Egitto. Poi la fase seconda, sulla quale si lavora con
più discrezione, ma con incorrotta fedeltà alle determinazioni degli autori
della bozza.
Ricordiamo
alcune di queste leggi post-e para-mosaiche dettate a chi, nella formulazione
dei grandi padri della patria, non avrebbe mai dovuto essere difensivo, ma
sempre offensivo, Theodor Herzl, Golda Meir e David Ben Gurion, tra gli altri.
Così il fondatore dello Stato ad esclusività ebraica: “Nostro obiettivo è
fracassare Libano, Transgiordania e Siria… Li bombardiamo, avanziamo e
prendiamo Port Said, Alessandria e il Sinai… Dobbiamo creare uno Stato
dinamico, orientato all’espansione… Non esiste una sistemazione definitiva… che
riguardi il sistema di governo, i confini, (qualcuno specificava: “dal Nilo
all’Eufrate”, Israele è totalmente priva di acqua), gli accordi
internazionali”. Qualche decennio dopo, i neocon americani, sfruttando il
loro 11 settembre, pianificarono la guerra a sette Stati della regione.
Golda Meir e Ben Gurion
Ancora
Ben Gurion: “I confini delle ambizioni sioniste sono cosa del popolo
ebraico, nessun fattore esterno li può ridurre”. Di questa strategia la
Siria resta il gioiello della Corona. Dopo la disfatta dell’Iraq, è lo Stato
arabo più progredito, confina con la Palestina che della storia e dello spirito
siriani è parte. Israele coltiva con successo le minoranze curda e drusa, fino
al punto di renderle proprio mercenariato. Lusingandone aspettative premiali,
territoriali e di risorse, li si utilizza come cuneo per minare unità e
coesione nella comunità nazionale. Tattica analoga utilizzata contro l’Iran, in
collaborazione con USA, UE e relative ONG, utilizzando la leva armata delle
minoranze curde, sunnite e beluci.
Tutto
questo viene articolato dal consigliere di Ariel Sharon, Oded Yinon, nel famoso
documento operativo del 1982: “Una strategia per Israele negli anni ‘80”.
Vi si definisce la nazione araba, suddivisa dal colonialismo in 29 Stati, una
struttura artificiale che concilierebbe l’inconciliabile e che andrebbe
smantellata riducendola alle sue componenti tribali non statuali. Seguono le
guerre a Iraq, Siria, Libia, rivoluzioni colorate in Egitto, Tunisia, Algeria,
lo sfacelo del Sudan iniziato con il distacco del Sudan del Sud.
Nel
quadro geopolitico così perseguito avevano assunto importanza strategica gli
Accordi di Abramo, che sono tutto tranne accordi a favore della pacificazione
della regione. Si trattava di posizionare Israele come centro economico,
tecnologico, militare e di sicurezza della regione. Il solito Smotrich da a questa
visione di Israele il significato di perno del nuovo ordine regionale. Suo
l’onere e l’onore della difesa dalle minacce di Iran, Hamas e alleati. Israele
fornisce la forza e i vicini pagano il tributo. Ovviamente non si tratta di
partneriato, ma di dominio. Non integrazione, bensì appropriazione colonialista
della politica, dell’economia, della sovranità.
L’inviato
di Trump in Medioriente, Steven Witkoff, colui che ha accusato Hamas di
sabotare una tregua per aver chiesto la fine dell’aggressione e la liberazione di
prigionieri catturati a casaccio e detenuti senza accuse e processi, dà il suo
contributo: ”Se tutti questi paesi collaborassero , potrebbero diventare più
grandi dell’Europa… Possono lavorare nei settori dell’Intelligenza Artificiale,
della robotica, del Blockchain”, e, ça va sans dire, dello
spionaggio: vedi il regime Meloni, l’israeliano Paragon e il suo software
Graphite, infilato negli apparecchi degli italiani fastidiosi, o sospetti,
meglio se giornalisti impenitenti. Ovviamente la voce è di Witkoff, ma la
parola è di Trump. Ricordandone, a scopo di edificazione morale, i
condizionamenti epsteiniani.
Errori
di valutazione?
Ma
funziona tutto questo? O c’è qualche errore di valutazione?
E’
vero che per determinare una reazione di larga dimensione da parte di un po’
tutti, a partire dalla genuinità che va riconosciuta solo ai manifestanti
filoplaestiniesi, ci sono voluti quasi 2 anni
di
diluvio di esplosivi su tendopoli piene di famiglie le cui case erano ridotte
in macerie, sotto cui erano soffocate decine di migliaia di persone;
di
bambini incendiati col fosforo, di bambini abilmente mirati alla testa e al
cuore, di persone colpite, a seconda del bersaglio assegnato quel giorno, alle
gambe, o al capo, o ai genitali, a gara;
di
totale distruzione della struttura sanitaria di Gaza, con medici e pazienti
destinati a fosse comuni; di intelligenza artificiale che permette di colpire
239 giornalisti quando erano in casa con le famiglie;
di
stupro e tortura di prigionieri presi a casaccio; di diffusione di video in cui
si celebrano le proprie infamie inflitte a civili palestinesi;
di
esperimenti su cavie palestinesi, con nuove armi da poi vendere perché “testate
sul campo”;
di
droni che volano di notte diffondendo lamenti di bambini per fare uscire dalle
case le persone e sparargli; di fame finalizzata a estinguere una popolazione
di 2,3 milioni di civili. Eccetera.
Ce
n’è voluto. Ma quando le classi politico-mediatico-economiche, che hanno tenuto
lo strascico a Israele e l’hanno passato sopra l’oceano di sangue su cui
veleggia quel bastimento di pirati necrofili, si sono accorte di un certo
tremolio della terra che ne sostiene il potere, cioè l’indispensabile consenso
delle masse, hanno cambiato registro. Di colpo, tutti insieme, dal New York
Times a Repubblica, dalla CNN a La7, dai mostri atlantosionisti come Obama o
Meloni, alla bassa forza dei sicofanti nostrani. Qualcuno è arrivato a sibilare
la parola G.
Gaza, prigionieri dell’IDF
Dato
conto della lacerazione interna dello Stato degli ebrei, determinata non tanto
dal rifiuto del genocidio, quanto dalla spietatezza del regime verso la sorte
degli “ostaggi” (coloni) catturati il 7 ottobre, equivale a un piccolo ordigno
nucleare sulla compattezza del giudaismo mondiale la lettera firmata da oltre
1000 rabbini nel mondo. Al governo viene chiesto, con riferimento sia a Gaza
che alla Cisgiordania, di non utilizzare la fame come arma, porre fine alla
guerra e allo sterminio di civili, liberare i coloni detenuti da Hamas e
superare la profonda crisi morale dello Stato ebraico. Una quinta colonna che
amplifica le isolate voci ebraiche espressesi finora tra mille difficoltà e
rischi.
Da
un lato, la robusta rete dei governanti occidentali, complici dei mentecatti di
Tel Aviv, che per 80 anni ha dato copertura allo strisciante olocausto operato
da presunte vittime definite tali a prescindere, subisce drammatiche
lacerazioni, come attestano i rimbrotti per gli orrori di Gaza e la raffica di
riconoscimenti dello Stato di Palestina. La rottura di rapporti diplomatici,
ministri israeliani dichiarati persona non grata e, last but not least,
il processo della Corte Penale Internazionale. Dall’altro, rischia di finire in
vacca la costruzione, detta Accordi di Abramo, con cui i compari Bibì e Donald
avevano pensato di dare al Medioriente un nuovo ordine sionista, politico e
geografico, con incontestata egemonia israeliana.
In
ogni caso, la sconfitta strategica è data da qualcosa che non ci si era mai
sognata nel rapporto tra un Occidente per il quale lo Stato sionista era il
figlio prediletto. Nel preciso momento in cui Israele rovescia il tavolo su cui
giocava da 80 anni e proclama ufficialmente, con i suoi massimi organismi, che
uno Stato palestinese non ci sarà mai, e lo dimostra facendo sparire il popolo
di Gaza e annettendo la Cisgiordania, uno Stato amico e alleato dopo l’altro lo
smentisce clamorosamente, riconoscendo lo Stato di Palestina. 150 Stati su 192
riconoscono lo Stato Palestinese- Equivale al disconoscimento dello Stato
sionista, razzista, nazificato, dell’Apartheid. La macchina sionista è finita contro un muro.
Dal
massicidio al suicidio?
Difficilmente,
di fronte a un vento che fa arrivare anche tra i popoli dei principotti del
Golfo lo sdegno mondiale, il rifiuto del sionismo genocida, rifiuto quale
opportunistico, quale sincero e, comunque, necessitato, quel progetto di
normalizzazione colonialista avrà un futuro. Si tratta, gli sceicchi lo hanno
ben presente, di clienti irrinunciabili, fornitori o compratori, garanzia del
loro potere di aristocratici su masse senza nome, ma che già hanno dimostrato
(Bahrein 2011, un emirato in fiamme per mesi) una certa irrequietezza. Del
resto, assistendo, con tanto di brividi, al dilagare militare israeliano in
Libano, Siria, Yemen, agli interventi, neanche più tanto mimetizzati, in Sudan,
nel Caucaso, all’attacco all’Iran, per quanto malvisto dai regni sunniti, la
domanda si pone inesorabile: ma dove vogliono arrivare?
Tutto
questo, come il parossismo della malvagità raggiunto e superato a Gaza e in
Cisgiordania, sta minando alla base una coesione, non solo della società civile
israeliana, ma della forza sulla quale si regge tutto l’abnorme costrutto:
l’IDF, il millenarismo, le pretese di diritto divino, l’apartheid come visione
del mondo, l’indulgenza degli ignavi e la complicità dei sodali, assistita dall’immunità
guadagnata grazie a olocausto e all’ “unica democrazia del Medioriente”.
Gaza, caduto israeliano
Metà
dei riservisti richiamati non si presentano. 12.000 è il numero ufficiale dei
riservisti che si sono rifiutati di servire a Gaza. Oltre il 12% di quelli che
hanno partecipato alla guerra sono in cura per stress post-traumatico. Di
almeno 19 suicidi di soldati dall’inizio dell’anno si sa. Pare che siano una
cinquantina dal 7 ottobre. L’IDF ha dovuto attivare una linea di supporto
psicologico attiva 24 ore su 24. 40 alti ufficiali dell’unità d’elite 8200,
addetta a spionaggio, intelligenza artificiale e operazioni sporche, hanno
annunciato il rifiuto di partecipare a operazioni “illegali”. E neanche la
fabbricazione del 7 ottobre, non dissimile da quella dell’11 settembre e con
analoghe finalità, per quanto ottusamente rilanciata e ricreduta a dispetto
delle inchieste, riesce ad arginare l’isolamento. S’è mai visto uno Stato più
paria di questo agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e di molti dei
governi? Come farà a sopravvivere? Continuando a menare colpi all’impazzata a
destra e a manca?
Soldatesse
IDF
Per
questo grande stravolgimento di quanto sembrava assestato e irriducibile andrebbe
reso infinito merito, anche per il significato che ne discende all’intera
umanità degli oppressi, perseguitati e discriminati, ai partigiani della
Resistenza palestinese. Una resistenza, badate bene e non fatevi sviare dal
rilievo che si prova a dare a collaborazionisti alla Abu Mazen, o a occasionali
mercenari, sostenuta, a prezzo di indescrivibili sacrifici dal suo popolo.
Non
solo vittime
Resistenza
è una parola che i padroni conoscono bene e della quale hanno un terrore
fottuto perché coincide con le sconfitte subite. Per questo si affannano a
chiamarla terrorismo e a promuovere una cultura che vieta, a forza di
intimidazioni, addirittura di nominarla. E così che all’opinione pubblica viene
negata la conoscenza delle operazioni partigiane che hanno in grande misura
contribuito a determinare la crisi militare e politica di Israele. Senza di
loro, di Palestina, cioè di giustizia, diritti, libertà, non si parlerebbe più.
A
vedere come è posizionato Israele oggi nel mondo, rispetto al “gigante morale”
di appena due anni fa, si prospetta una fenomenologia nichilista non inusuale
per dominatori e imperi. Una frenesia di morte così incontenibile da travolgere
se stessa.
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