https://www.youtube.com/watch?v=LwnygIhyC8I
Sul
Fatto Quotidiano, di cui mi sono occupato poco fa, ci sono due corrispondenti
sulla questione Israele-Palestina, una da Tel Aviv, Manuela Dviri, e una, Aya
Ashour, che era a Gaza e oggi è in Italia, ospite dell’Università di Siena.
Tutte
e due brave e tuttavia, per me, discutibili in quanto emblema della società
israelo-ebraica e di come questa vive tempi di vera e propria apocalisse sotto
casa. Poi c’è Anas Al-Sharif, il giornalista di Al Jazeera trucidato insieme a
cinque colleghi da un missile israeliano mirato alla tenda dove si sapeva
lavorare la redazione dell’emittente qatariota. Nessuno più illustrerà cosa
Israele fa a Gaza. Allo Stato sionista è costato già troppo. Forse tutto.
Manuela
Dviri è la classica interprete dello spirito travagliano sulla questione
Israele-Palestina. Nelle sue corrispondenze, animate da forte polemica
anti-Netaniahu, si illustra con grande evidenza la protesta dei famigliari dei
prigionieri israeliani in mano ad Hamas e si deplora l’atteggiamento
rinunciatario del regime nei loro confronti. Ultimamente, alla denuncia della
sorte degli “ostaggi”, si sono aggiunte quelle delle difficili, a volte
disperate, condizioni dei soldati di un IDF, caduti, mutilati piscologicamente,
suicidi, negli incessanti tentativi di conquista di Gaza. Su questo tema,
trattato di fretta, gli approfondimenti migliori, però, sono quelli di Haaretz
e di altri quotidiani israeliani.
E’
totalmente assente, nelle denunce e nelle deplorazioni di Dviri un anche minimo
riferimento alla sorte del popolo di Gaza, tantomeno a quella dei palestinesi
di Cisgiordania, destinatari di analogo genocidio, per ora in forma
strisciante. Silenzio totale.
Quella
della corrispondente da Israele del Fatto Quotidiano rispecchia con assoluta
fedeltà ciò che numerosi sondaggi ci dicono essere l’atteggiamento della
stragrande maggioranza degli occupanti della Palestina, sette milioni di
immigrati, invasori, occupanti, compresi quelli caduti nella battaglia del 7
ottobre, tra i quali, in quasi due anni, non è mai apparsa l’ombra di un
movimento, un gruppo, un nucleo, che chiedesse la fine del genocidio.
Questo
a dispetto del coraggio e della forza morale e correttezza politica di
tantissimi ebrei della diaspora, compresi illustri studiosi ancora residenti in
Israele, che incessantemente si impegnano nella denuncia degli orrori di
Israele sionista e dell’incommensurabile e inammissibile sofferenza del popolo
palestinese, con i legittimi diritti alla sua terra. Mi vengono in mente nomi
come Ilan Pappè, Norman Finkelstein, Shlomo Sand, Moni Ovadia, Jeff Halper, che
ho visto opporsi fisicamente alla demolizione di case palestinesi, Gilad
Atzmon, tanti altri, tutti molto distanti da Liliana Segre, le cui posizioni e
la cui nomina a senatrice a vita trovo immeritevoli dei consensi che ricevono.
Per
le cronache da Gaza, nel “quotidiano diverso”, c’era e c’è, ora dall’università
di Siena, Aya Ashour. Con grande e commovente sapienza narrativa, trasmettendo
via social sotto le bombe e fuggendo di tenda in tenda, ha riferito quanto di
enorme, di orribile, di infame andava succedendo nella guerra genocida lanciata
sul pretesto dell’incursione di Hamas del 7 ottobre nei territori occupati
vicini alla Striscia. Dando parole alle immagini che i 230 giornalisti
palestinesi uccisi ci inviavano a costante sfida, persa, della vita. Ho avuto
un denso scambio epistolare con la giovanissima Aya, in cui le ho espresso la
mia ammirazione e la mia riconoscenza per quanto andava facendo, anteponendo la
denuncia di immani sofferenze e relative colpe, alla cura di sé e della sua
famiglia.
Me
le ho espresso anche altro. Quanto mi sta a cuore, come tutti i miei
interlocutori sanno bene, la mancata completezza del racconto sulla Palestina,
dalle origini all’oggi di quella che si teme voglia essere una conclusione. Ciò
che ci parla della nobiltà, dell’immane coraggio, dei successi,
dell’imprescindibile necessità storica, politica, biologica, morale, della
Resistenza. Di quella di Hamas, Jihad, FPLP, dei Comitati Popolari. Di chiunque
lanci un sasso, un bastone, come Sinwar, un razzo, un ordigno esplosivo, una
pallottola. E, implicitamente, della
necessità di qualunque resistenza nel mondo, in quanto diritto indistruttibile
di qualsiasi individuo, o comunità, sottoposti a dominio, oppressione,
discriminazione, esclusione, sfruttamento. Genocidio, che permette tutte le
forme di contrasto. Proprio tutte.
Un’assenza
determinata da ignoranza, nel migliore dei casi, da opportunismo, da
giustificato, ma non perdonabile, timore di ritorsioni di regime (vedi la
qualifica di organizzazione terrorista inflitta dal regime di Starmer
all’associazione non violenta “Palestine Action”, insieme alla media di 30 arresti
al giorno di contestatori del genocidio israeliano). Mi è stato risposto con
toni e argomenti non dissimili da quelli utilizzati dalla propaganda sionista,
quando a Aya ho chiesto di parlare della resistenza che il popolo di Gaza
esprime. Una resistenza che, durando in condizioni impossibili da 22 mesi
(senza aggiungere i vent’anni di assedio, blocco, carcere a cielo aperto e
ripetute aggressioni) grazie all’evidente sostegno del popolo, riesce a
impedire la vittoria e tutti degli obiettivi postisi dalla giunta di Netaniahu,
come ribadisce Haaretz.
A
parallelo di questo, pongo quanto succede inevitabilmente, ancora oggi, quando
si ricorre agli innegabili e condannabili errori, colpe, delitti, ingiustizie,
eccessi, commessi da elementi, o formazioni, partigiani nella guerra di
liberazione, per uno sbilanciamento del giudizio sulle responsabilità dalla
parte che offende, nel contesto i nazifascisti, a quella che combatte l’offesa,
i partigiani. Aya ha lasciato a Gaza, nelle tende sotto bombardamento, le sue
sorelle, i genitori, nonni e altri congiunti della sua grande famiglia. Grazie
alla diplomazia italiana, al Fatto Quotidiano e all’Università di Siena, ha
avuto il lasciapassare per sottrarsi al genocidio, una casa, un impiego, la
sicurezza. Nessuno gliene vorrebbe.
Anche
se non mi sembra di gran buon gusto l’apodittica e indimostrabile affermazione,
da Aya pubblicata sul FQ, che metà dei palestinesi di Gaza vorrebbero lasciare
la striscia. E’ per questo che, morti di bombe, sete, fame, i gazawi da due
anni si rifiutano di andare nel Sinai, o in Somalia, o in Indonesia. E non
fuggono. E restano insieme. E scelgono di restare all’inferno. Sapendo che,
comunque, chi combatte ha rimesso loro e la Palestina al centro del mondo.
Condannando all’estinzione, fin da subito morale, i loro carnefici.
Detto,
ripetuto, ribadito ed enfatizzato questo, passiamo al problema generale, che
nel caso ebrei, si fa specificissimo. Sulle generalizzazioni, molto comuni e
troppo facili, spesso disputo con amici e compagni: “gli americani”, “gli
inglesi”, soprattutto dopo Hitler “i tedeschi (dei quali poi sono parzialmente
consanguineo), ma anche “gli adulti”, “i ragazzi”, “i governi” e, spesso, le
colpe dei governi che vengono fatte ricadere sui loro cittadini o sudditi. Poi
le categorie, “i medici”, “gli insegnanti”, nel ’68-’77 “gli studenti”-“gli
operai”” (onore sempiterno a loro!), “gli architetti” (mortacci loro, quelli
definiti “star”), eccetera, eccetera.
Sulla
bocca di tutti sono gli ebrei. Quelli che nella sua lettera a Travaglio, come
ricordato in un mio precedente pezzo, l’onesto lettore sospetta di un
imprinting che susciterebbe le storiche e attuali negatività, ostilità,
persecuzioni, di chi vi si deve confrontare. Per alcuni, come tale Maurizio
Molinari di Repubblica, o Paolo Mieli del Corriere, o l’innominabile che dirige
Il Giornale, tale è la frustrazione per non trovarsi, mitra o F-35 in mano, a
Gaza davanti a una folla di bambini che chiedono pane, da proporre in compenso
Netanyahu, Smotrich, Ben Gvir, alla prossima canonizzazione, o al prossimo
Premio Nobel della Pace (per niente impossibile: conferito a Begin, Kissinger,
Walesa, Obama…).
Anche
qui ogni generalizzazione è arbitraria e offensiva. Basterebbe un solo Pappè, o
un solo giornalista di Haaretz (che, a sfida di alluvioni di menzogne e di
rappresaglie, dimostra che, il 7 ottobre, a uccidere israeliani furono
soprattutto tank ed elicotteri israeliani), o un solo David Morgenstern di Tel
Aviv che si rifiuta di servire nell’IDF, a sbugiardare il generalizzatore.
Resta
il problema di come si proporzionino tra loro, i membri della giunta di
Netaniahu, i generali dissidenti dell’IDF, gli israeliani, gli ebrei della
comunità internazionale, gli ebrei compagni della porta accanto, quelli di
Noemi di Segni, o di Riccardo Pacifici. Però fa egemonia una domanda: cosa
aspettano gli ebrei di Israele a vedere che lì, a poche centinaia di metri,
l’olocausto dai loro predecessori subito è oggi ripetuto ai danni di coloro
sulla cui terra e sulle cui macerie essi, nuovi arrivati, hanno eretto le
proprie case?
E,
soprattutto, che differenza vedono tra i loro antenati di Varsavia, rivoltatisi
in forze contro chi ne distruggeva habitat e vita, per “morire in piedi
piuttosto che vivere in ginocchio”, e chi si rivolta in forze a Gaza?
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