martedì 12 agosto 2025

YT Mondocane Video di Fulvio Grimaldi --- Gaza, ultimi 6 giornalisti ammazzati, 150.000 morti almeno…--- COME LA METTIAMO TRA ISRAELE, NETANIAHU, EBREI, SIONISTI, ANTISEMITISMO? E HAMAS?

 



https://www.youtube.com/watch?v=LwnygIhyC8I

https://youtu.be/LwnygIhyC8I

 

Sul Fatto Quotidiano, di cui mi sono occupato poco fa, ci sono due corrispondenti sulla questione Israele-Palestina, una da Tel Aviv, Manuela Dviri, e una, Aya Ashour, che era a Gaza e oggi è in Italia, ospite dell’Università di Siena.

Tutte e due brave e tuttavia, per me, discutibili in quanto emblema della società israelo-ebraica e di come questa vive tempi di vera e propria apocalisse sotto casa. Poi c’è Anas Al-Sharif, il giornalista di Al Jazeera trucidato insieme a cinque colleghi da un missile israeliano mirato alla tenda dove si sapeva lavorare la redazione dell’emittente qatariota. Nessuno più illustrerà cosa Israele fa a Gaza. Allo Stato sionista è costato già troppo. Forse tutto.

Manuela Dviri è la classica interprete dello spirito travagliano sulla questione Israele-Palestina. Nelle sue corrispondenze, animate da forte polemica anti-Netaniahu, si illustra con grande evidenza la protesta dei famigliari dei prigionieri israeliani in mano ad Hamas e si deplora l’atteggiamento rinunciatario del regime nei loro confronti. Ultimamente, alla denuncia della sorte degli “ostaggi”, si sono aggiunte quelle delle difficili, a volte disperate, condizioni dei soldati di un IDF, caduti, mutilati piscologicamente, suicidi, negli incessanti tentativi di conquista di Gaza. Su questo tema, trattato di fretta, gli approfondimenti migliori, però, sono quelli di Haaretz e di altri quotidiani israeliani.

E’ totalmente assente, nelle denunce e nelle deplorazioni di Dviri un anche minimo riferimento alla sorte del popolo di Gaza, tantomeno a quella dei palestinesi di Cisgiordania, destinatari di analogo genocidio, per ora in forma strisciante. Silenzio totale.

Quella della corrispondente da Israele del Fatto Quotidiano rispecchia con assoluta fedeltà ciò che numerosi sondaggi ci dicono essere l’atteggiamento della stragrande maggioranza degli occupanti della Palestina, sette milioni di immigrati, invasori, occupanti, compresi quelli caduti nella battaglia del 7 ottobre, tra i quali, in quasi due anni, non è mai apparsa l’ombra di un movimento, un gruppo, un nucleo, che chiedesse la fine del genocidio.

Questo a dispetto del coraggio e della forza morale e correttezza politica di tantissimi ebrei della diaspora, compresi illustri studiosi ancora residenti in Israele, che incessantemente si impegnano nella denuncia degli orrori di Israele sionista e dell’incommensurabile e inammissibile sofferenza del popolo palestinese, con i legittimi diritti alla sua terra. Mi vengono in mente nomi come Ilan Pappè, Norman Finkelstein, Shlomo Sand, Moni Ovadia, Jeff Halper, che ho visto opporsi fisicamente alla demolizione di case palestinesi, Gilad Atzmon, tanti altri, tutti molto distanti da Liliana Segre, le cui posizioni e la cui nomina a senatrice a vita trovo immeritevoli dei consensi che ricevono.

Per le cronache da Gaza, nel “quotidiano diverso”, c’era e c’è, ora dall’università di Siena, Aya Ashour. Con grande e commovente sapienza narrativa, trasmettendo via social sotto le bombe e fuggendo di tenda in tenda, ha riferito quanto di enorme, di orribile, di infame andava succedendo nella guerra genocida lanciata sul pretesto dell’incursione di Hamas del 7 ottobre nei territori occupati vicini alla Striscia. Dando parole alle immagini che i 230 giornalisti palestinesi uccisi ci inviavano a costante sfida, persa, della vita. Ho avuto un denso scambio epistolare con la giovanissima Aya, in cui le ho espresso la mia ammirazione e la mia riconoscenza per quanto andava facendo, anteponendo la denuncia di immani sofferenze e relative colpe, alla cura di sé e della sua famiglia.

Me le ho espresso anche altro. Quanto mi sta a cuore, come tutti i miei interlocutori sanno bene, la mancata completezza del racconto sulla Palestina, dalle origini all’oggi di quella che si teme voglia essere una conclusione. Ciò che ci parla della nobiltà, dell’immane coraggio, dei successi, dell’imprescindibile necessità storica, politica, biologica, morale, della Resistenza. Di quella di Hamas, Jihad, FPLP, dei Comitati Popolari. Di chiunque lanci un sasso, un bastone, come Sinwar, un razzo, un ordigno esplosivo, una pallottola.  E, implicitamente, della necessità di qualunque resistenza nel mondo, in quanto diritto indistruttibile di qualsiasi individuo, o comunità, sottoposti a dominio, oppressione, discriminazione, esclusione, sfruttamento. Genocidio, che permette tutte le forme di contrasto. Proprio tutte.

Un’assenza determinata da ignoranza, nel migliore dei casi, da opportunismo, da giustificato, ma non perdonabile, timore di ritorsioni di regime (vedi la qualifica di organizzazione terrorista inflitta dal regime di Starmer all’associazione non violenta “Palestine Action”, insieme alla media di 30 arresti al giorno di contestatori del genocidio israeliano). Mi è stato risposto con toni e argomenti non dissimili da quelli utilizzati dalla propaganda sionista, quando a Aya ho chiesto di parlare della resistenza che il popolo di Gaza esprime. Una resistenza che, durando in condizioni impossibili da 22 mesi (senza aggiungere i vent’anni di assedio, blocco, carcere a cielo aperto e ripetute aggressioni) grazie all’evidente sostegno del popolo, riesce a impedire la vittoria e tutti degli obiettivi postisi dalla giunta di Netaniahu, come ribadisce Haaretz.

A parallelo di questo, pongo quanto succede inevitabilmente, ancora oggi, quando si ricorre agli innegabili e condannabili errori, colpe, delitti, ingiustizie, eccessi, commessi da elementi, o formazioni, partigiani nella guerra di liberazione, per uno sbilanciamento del giudizio sulle responsabilità dalla parte che offende, nel contesto i nazifascisti, a quella che combatte l’offesa, i partigiani. Aya ha lasciato a Gaza, nelle tende sotto bombardamento, le sue sorelle, i genitori, nonni e altri congiunti della sua grande famiglia. Grazie alla diplomazia italiana, al Fatto Quotidiano e all’Università di Siena, ha avuto il lasciapassare per sottrarsi al genocidio, una casa, un impiego, la sicurezza. Nessuno gliene vorrebbe.

Anche se non mi sembra di gran buon gusto l’apodittica e indimostrabile affermazione, da Aya pubblicata sul FQ, che metà dei palestinesi di Gaza vorrebbero lasciare la striscia. E’ per questo che, morti di bombe, sete, fame, i gazawi da due anni si rifiutano di andare nel Sinai, o in Somalia, o in Indonesia. E non fuggono. E restano insieme. E scelgono di restare all’inferno. Sapendo che, comunque, chi combatte ha rimesso loro e la Palestina al centro del mondo. Condannando all’estinzione, fin da subito morale, i loro carnefici.

Detto, ripetuto, ribadito ed enfatizzato questo, passiamo al problema generale, che nel caso ebrei, si fa specificissimo. Sulle generalizzazioni, molto comuni e troppo facili, spesso disputo con amici e compagni: “gli americani”, “gli inglesi”, soprattutto dopo Hitler “i tedeschi (dei quali poi sono parzialmente consanguineo), ma anche “gli adulti”, “i ragazzi”, “i governi” e, spesso, le colpe dei governi che vengono fatte ricadere sui loro cittadini o sudditi. Poi le categorie, “i medici”, “gli insegnanti”, nel ’68-’77 “gli studenti”-“gli operai”” (onore sempiterno a loro!), “gli architetti” (mortacci loro, quelli definiti “star”), eccetera, eccetera.

Sulla bocca di tutti sono gli ebrei. Quelli che nella sua lettera a Travaglio, come ricordato in un mio precedente pezzo, l’onesto lettore sospetta di un imprinting che susciterebbe le storiche e attuali negatività, ostilità, persecuzioni, di chi vi si deve confrontare. Per alcuni, come tale Maurizio Molinari di Repubblica, o Paolo Mieli del Corriere, o l’innominabile che dirige Il Giornale, tale è la frustrazione per non trovarsi, mitra o F-35 in mano, a Gaza davanti a una folla di bambini che chiedono pane, da proporre in compenso Netanyahu, Smotrich, Ben Gvir, alla prossima canonizzazione, o al prossimo Premio Nobel della Pace (per niente impossibile: conferito a Begin, Kissinger, Walesa, Obama…).

Anche qui ogni generalizzazione è arbitraria e offensiva. Basterebbe un solo Pappè, o un solo giornalista di Haaretz (che, a sfida di alluvioni di menzogne e di rappresaglie, dimostra che, il 7 ottobre, a uccidere israeliani furono soprattutto tank ed elicotteri israeliani), o un solo David Morgenstern di Tel Aviv che si rifiuta di servire nell’IDF, a sbugiardare il generalizzatore.

Resta il problema di come si proporzionino tra loro, i membri della giunta di Netaniahu, i generali dissidenti dell’IDF, gli israeliani, gli ebrei della comunità internazionale, gli ebrei compagni della porta accanto, quelli di Noemi di Segni, o di Riccardo Pacifici. Però fa egemonia una domanda: cosa aspettano gli ebrei di Israele a vedere che lì, a poche centinaia di metri, l’olocausto dai loro predecessori subito è oggi ripetuto ai danni di coloro sulla cui terra e sulle cui macerie essi, nuovi arrivati, hanno eretto le proprie case?

E, soprattutto, che differenza vedono tra i loro antenati di Varsavia, rivoltatisi in forze contro chi ne distruggeva habitat e vita, per “morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio”, e chi si rivolta in forze a Gaza?

 

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