Un
mese dopo lo scatto di questa foto, Marwan Barghuti è stato arrestato a
Ramallah dall’IDF, violando la sua immunità di deputato del parlamento
palestinese. Nel 2004 è stato condannato a cinque ergastoli e ad ulteriori 40
anni di prigione, per colpe a lui attribuite: attacchi suicidi della Resistenza
a obiettivi militari. Dato che in nessuna di queste azioni è stato direttamente
coinvolto, è stato violato il principio giuridico fondamentale secondo cui la
responsabilità penale è personale.
Oggi
Barghuti ha 65 anni, è in carcere da 2004, non si è difeso in tribunale perchè
non gli ha riconosciuto legittimità. In ogni sondaggio in vista delle prime
elezioni da tenersi nei territori occupati dal 2006, vinte da Hamas, risulta
primo nelle preferenze della popolazione palestinese. In tutte le liste di
prigionieri che, nei vari scambi considerati nel corso dei negoziati tra il
2023 e oggi, Hamas ha collocato Barghuti al primo posto. All’atteggiamento di
apertura e di laicismo e al rispetto per la volontà degli elettori, così manifestato
da Hamas, il governo dello Stato sionista ha sistematicamente opposto un
rifiuto netto.
Oggi,
nelle fasi successive a quella della cessazione del fuoco e del primo scambio
di prigionieri, fasi 2 e 3 già valutate improbabili dal regime di Tel Aviv, il
quasi novantenne presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas
(Abu Mazen) si è candidato, ed è stato candidato dagli sponsor esterni della
tregua, all’amministrazione, in congiunzione con altri paesi, della Striscia di
Gaza “liberata” dalla presenza di Hamas e delle altre forze della Resistenza.
Per
questo compito l’ANP che con Abbas, dalle ultime elezioni del 2006, vinte da
Hamas, mantiene, grazie al consenso di Tel Aviv, il governo della Cisgiordania,
avendo rifiutato da allora ogni ulteriore consultazione popolare, si è
accreditata in vent’anni di collaborazionismo e, in particolare, con la recente
aggressione dei propri pretoriani armati alle roccaforti della resistenza. Nel
corso dell’intervento a Nablus, Jenin, Tulkarem e altri centri palestinesi,
reparti della polizia dell’ANP, forte di circa 80.000 uomini grazie ai proventi
in arrivo da Stati Uniti, Europa e imposizioni fiscali alla popolazione dei
territori occupati, hanno usato armi e ruspe per uccidere, ferire e distruggere
abitazioni e strutture pubbliche. Hanno perfezionato e completato quanto simultaneamente
compiuto dall’esercito e dai coloni. Israeliani.
Quando
chi scrive visitò nel 2002 i territori occupati, la leggenda di una soluzione
equa della questione di un popolo senza terra, senza Stato e con
un’amministrazione locale fortemente limitata dalla presenza e
dall’interferenza della potenza occupante (le famigerate zone A, B e C), nelle
organizzazioni della Resistenza si era già consolidata la consapevolezza di come
gli accordi di Oslo fossero pura retorica e, più che corroborare la prospettiva
di due popoli per due Stati, la stavano eliminando dall’orizzonte della Storia.
La
prima Intifada, negli anni ’80, in cui il ventenne Barghuti, già reduce da
ripetuti imprigionamenti, svolse il ruolo di dirigente (prima di essere
arrestato nel 1987 ed espulso in Giordania), aveva gettato i semi per
un’alterativa alle soluzioni illusorie concluse tra vinti, vincitori e i
padrini internazionali di questi ultimi. La convinzione che la violenza
dell’occupazione coloniale doveva essere contrastata con gli strumenti della
forza della popolazione oppressa, come da Carta ONU, trasse persuasività dal
fallimento di Oslo e provocò una netta, seppure all’esterno poco pubblicizzata,
frattura nel mondo politico palestinese.
Yasser
Arafat, storico Nelson Mandela della Palestina (cui si potrebbe contrapporre un
Marwan Barghuti-Che Guevara), corresponsabile degli accordi di Oslo e il gruppo
dirigente di Fatah, poi forza centrale di OLP e ANP, intrapresero la strada
senza ritorno della convivenza con l’occupante, alla luce, sempre più fioca,
della formula, sempre più stereotipo, dei “due popoli per due Stati”. Formula
ridicolizzata dal costante aumento degli insediamenti e del numero di coloni,
oggi arrivati a 800.000 e ininterrotti predatori di beni e terre palestinesi, quando
non preferiscono incendiare e devastare.
L’Intifada,
sotto la direzione di Barghuti, produsse una formazione di giovani resistenti,
detta Tanzim, che lentamente radunò attorno a sé una nuova generazione di
politici e combattenti palestinesi. Mentre la posizione rinunciataria e
collaborazionista del vecchio gruppo dirigente, appeso alla popolarità di un
Arafat in netto infiacchimento senile, conobbe un’emorragia di consensi, non
frenata da evidenti fenomeni di corruzione e dai ricatti subiti dal padrone
coloniale, crescevano l’autorevolezza e il sostegno popolare al gruppo di
Barghuti.
Ebbi
modo di constatare de visu il consenso della popolazione attraverso
l’ininterrotta e crescente mobilitazione contro l’occupante, sia nella forma
della sollevazione di massa nella cosiddetta “Intifada dei sassi”, sia
attraverso il reclutamento nelle formazioni paramilitari impegnate nello
scontro armato. Quanto all’obiettivo strategico, in una mia intervista,
Barghuti disse con grande enfasi: “Noi non scacceremo chi è disposto a
vivere in pace e amicizia con noi. Noi saremo su questa terra per sempre. E per
sempre lo saranno anche gli ebrei”. I cinque ergastoli e il rifiuto
israeliano di accettare lo scambio con Barghuti vanno riferiti alla prima parte
di questa affermazione.
Ebbi
l’occasione di assistere a un assai significativo convegno delle due anime di
Fatah in un teatro di Ramallah. La contrapposizione era visibile nello
schieramento sul palco. C’era, sul podio, il vecchio Arafat cui un suggeritore
alle spalle correggeva il discorso e ne riempiva i vuoti di parola e di
pensiero. Quando si perdeva, ripiegava sull’invocazione “Pace in Terra Santa”. Intorno a lui, di poco
più giovani, a spellarsi le mani, i burocrati della vecchia OLP e della nuova
ANP. Al margine, attorno a Barghuti, il gruppo dei giovani capi dell’Intifada
con le loro espressioni rispettose, ma perplesse.
Bisognava
agire prima che il rapporto di forze tra giovane anima della Palestina e il suo
vecchio corpo si risolvesse in senso non gradito ai colonizzatori di una
Palestina che, secondo i piani pubblicati nel 1980 dall’analista geopolitico e
consulente del governo israeliano Oded Yinon, prevedevano l’estensione su vasta
scala in Medioriente, di tale colonizzazione. Lo strumento essendo quello della
frammentazione degli Stati arabi unitari lungo linee etniche e confessionali. Così
Barghuti viene arrestato mediante l’irruzione dell’esercito di Tel Aviv nella
zona riservata al controllo palestinese.
Qualcuno
sospetta che l’operazione sia stata agevolata da Mohammed Dahlan, allora capo
dei servizi di sicurezza palestinesi e autore del fallito colpo di Stato
dell’ANP a Gaza contro Hamas nel 2006. Dello stesso Dahlan si è mormorato anche
in relazione ad avvelenamento e morte di Arafat nel 2004, due mesi dopo la
condanna di Marwan Barghuti. La strada ne è risultata sgombrata.
Di
Dahlan, che vive ad Abu Dhabi dove ha accumulato milioni di dollari e
influenza sulle decisioni dell’emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan, si è tornati
a parlare in vista del progettato ritorno dell’ANP di Abu Mazen a Gaza. Lo si
pensa utile come appaltatore di ricostruzioni (ci saremo anche noi, hanno detto
Tajani e Crosetto). Ma anche come custode di un cimitero lungo una Striscia.
Tempo
scaduto, sembrerebbe, usciti di scena i compagni di merende di Netaniahu, Biden
e Blinken, anche per Abu Mazen e i suoi progetti di connivenza-convivenza. Ora
c’è Trump, che vuole chiudere Gaza in un modo o nell’altro: troppo scandalo a
livello mondiale. Eppoi quanti decenni ci vorranno già solo per sgomberare
40.000 tonnellate di macerie! Per cosa, poi? Per far fare soldi a quelli del
Ponte sullo Stretto?
Concentriamoci
sulla Cisgiordania, più ampia, più ricca, già bell’e colonizzata! Il futuro
prossimo è quello. Erez Israel, la Grande Israele, comincia qui.
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