mercoledì 30 luglio 2025

Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina… UNA LATINOAMERICA A FISARMONICA

 

Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina…

UNA LATINOAMERICA  A FISARMONICA

 

Per semplificare e non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti, progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi anti-yankee”. Sarebbe il minimo, ma preziosissimo, sindacale. Usiamo questa qualifica per chi difende la sovranità e respinge la manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni tra liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor (ricordate? Pinochet-Cile, Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori Perù…).

La rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo indigeno presidente, Evo Morales.  Da presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione della legge costituzionale sul tema.

Buoni, cattivi e così così

Le due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste, di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.

Appunto, un aprirsi e chiudersi a fisarmonica. Da un lato, il tentativo di ricuperare la “normalizzazione totalitaria” degli anni ’70 (e Trump ha subito iniziato, schiaffeggiando i reprobi con l’inasprimento delle sanzioni); dall’altro la persistenza di coriacee e importanti aree di contrasto, più o meno coerenti con le premesse rivoluzionarie. Con la Bolivia in alto mare, sbattuta tragicamente da venti contrari, abbiamo di qua Venezuela, Nicaragua, usciti integri da una serie di operazioni colorate e clericali, il Messico di Claudia Sheinbaum, erede dell’ottimo Obrador, il Brasile ricuperato dal disomogeneo Lula (condanna “l’invasione” russa), Cuba, Honduras vittorioso sul golpe di Hillary Clinton, in posizione equivoca (colpo al cerchio colpo alla botte) il Cile di Gabriel Boric, ex-leader studentesco.

Sul fronte opposto c’è il disastro argentino dell’”anarcocapitalista” Xavier Milei, intimo di Trump e Netaniahu e gradito molto per analogie ideologiche (visti i recenti abbracci), nel suo piccolissimo, da Giorgia Meloni e compari. Ha appena fatto condannare dalla Corte Suprema a 6 anni di prigione Christina Kirchner che, col marito che l’aveva preceduta alla presidenza, ha dato all’Argentina due quadrienni di sovranità e decenza sociale.

Poi competono per essere i più volenterosi amici yankee, paesi di recente golpe o manipolazione elettorale, o definitivamente in marcia sotto le stelle e strisce: Ecuador, Perù, Salvador, Paraguay, Guatemala, Panama (il cui Canale è stato recentemente comprato da Blackrock).

Merita una menzione particolare, nei Caraibi in varia misura neocolonizzati, la disgraziata Haiti, primo popolo nero a ribellarsi al dominio francese, con Tussaint Louverture, a cavallo di ‘700 e ‘800. Assoggettata dagli USA per punizione di quell’offesa ai bianchi, affidata a una dinastia di brutali dittatori, i Duvalier (che, tra parentesi ospitavano, come anche il dittatore Somoza del Nicaragua, la da poco canonizzata Madre Teresa), Haiti seppe riscattarsi con Jean Bertrand Aristide, ex-sacerdote salesiano. Nelle prime elezioni democratiche, 1991, fu eletto presidente; poi di nuovo 1994-1996 e 2001-2004, quando venne rimosso dal solito golpe yankee, esiliato in Sudafrica e Haiti tornò quella di prima.

Il controllo yankee su una popolazione che aveva dato pericolosi segni di volere e sapere decidere il proprio destino, preferì l’opzione caos, su modello ISIS, o delle bande criminali installate dai distruttori della Libia a Tripoli. Si allestiscono gang di maras e pandillas a spargere terrore e intimidazione, da elezioni che nessuno controlla spuntano via via presidenti che durano l’espace d’un matin. Spedizioni ONU di peacekeeping, prima con brasiliani, poi con kenioti, che aggiungono le proprie violenze e i propri saccheggi, vengono presto sopraffatte dal mercenariato criminale del neocolonialismo. Fine del discorso, per adesso.

Mentre l’Honduras, la cui dirigenza antimperialista di Manuel Zelaya era stata eliminata da un golpe, con il non inconsueto aiuto dei Servizi israeliani, ha ricuperato la sua sovranità vincendo le elezioni con Xiomara Castro, moglie del presidente spodestato, Manuel Zelaya, che aveva inserito il paese nel fronte antimperialista dell’ALBA, creato da Ugo Chavez.

Era il 2009 ed ero lì. Consentitemi un ricordo: l’incredibile resistenza di massa del popolo honduregno che, giorno dopo giorno, ho visto organizzarsi, scendere dalle colline della periferia e assediare l’ambasciata USA, solo per essere sistematicamente aggredito, gasato, pestato, ferito, anche ucciso, dal regime dei golpisti. Ricordo che, fuggendo da una carica, passo accanto a una scuola di elementari e media. Mentre ancora riecheggiano spari e lanci di gas, dalle finestre scende in strada un coro: bambini che cantano “El pueblo unido, jamas serà vencido”. Era l’inno che accompagnò la lotta contro Pinochet. Lo racconto nel documentario “ Il ritorno del Condor”.

Non ho menzionato, nell’elenco dei “bravi e resistenti”, la Colombia, da poco entrata nello schieramento antimperialista, unico paese integralmente NATO fuori dall’Europa. Nelle elezioni del 2022, finalmente oneste, viene eletto Gustavo Francisco Petro Urrego, un economista e politico colombiano con cittadinanza italiana. Petro, leader del partito Colombia Humana, è Presidente della Colombia dal 7 agosto 2022 ed è sopravvissuto a diversi tentativI di assassinio. Tra i suoi atti “eversivi”, oltre alla pressante richiesta a Washington di chiudere le basi, la rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, definito Stato Genocida, il riconoscimento della Palestina, con contemporanea promessa di uscita dalla NATO, di appena pochi giorni fa.

Ovviamente l’impero non è rimasto inattivo. A Petro è rimasta la funesta eredità delle precedenti presidenze vassalle di Alvaro Uribe e della sua copia sbiadita, Juan Manuel Santos: la peggiore criminalità organizzata narcotrafficante dell’America Latina e relative bande armate (con stretti legami a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e, quindi, allo Stato italiano), la CIA, Pentagono e ONG come USAID. Questo radicato potere, confortato da tolleranza e complicità degli USA di cui alimenta le banche, va facendosi in quattro per ricuperare la per loro fondamentale “Israele latinoamericana”. E per sabotare l’amicizia, risalente a Bolivar e ora ristabilita da Petro, tra i due vicini che guardano a Nord, Colombia e Venezuela, forte attrazione per le ex-repubbliche delle banane all’Alleanza antimperialista ALBA, si moltiplicano incursioni, infiltrazioni e attentati alle infrastrutture venezuelane di quelle stese milizie.

Casi di “recuperi Condor” dei gringos, recenti e significativi, a difesa delle rispettive posizioni strategiche nei paesi in questione, sono l’Ecuador e il Perù. Il primo, dove si trova la più grande base USA del continente, già liberatosi dai cappi imperialisti, aveva vissuto un periodo di orgoglio, equità sociale, ricupero di sovranità e libera scelta di relazioni, con Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017. Una successione di presidenti usciti dalle solite manipolazioni, di cui alcuni risultati anche mentalmente instabili, era stata messa in crisi da una potente sollevazione popolare, chiamata “Revolucion Ciudadana” e aveva creato le condizioni per la vittoria di Correa.

Due volte è poi diventato presidente restauratore Daniel Noboa, grosso imprenditore del giro di Guayaquil, santuario dell’élite ecuadoriana, in fruttuosi rapporti con gli USA. Dall’ultima tornata, esce vincitore di pochissimo sulla deputata Luisa Gonzales, collaboratrice di Correa e leader della sempre viva Revolucion Ciudadana. Tutti i sondaggi della vigilia davano per prevalente la Gonzales, che continua a utilizzare strumenti giuridici per mettere in questione il risultato, Ovviamente, Noboa ha rifiutato il riconteggio chiesto dall’avversaria.

Resta da dire brevemente del Perù, altro paese dalle ricche risorse e, dunque, dal peso economico significativo: Di conseguenza golpizzato, anche per la sua posizione strategica incastonata tra due entità non care agli USA, il Venezuela di Nicolàs Maduro e il Brasile.di Lula, recentemente molto attivo ospite del vertice, a Rio de Janeiro, della coalizione dei BRICS. Pedro Castillo, indigeno, presidente per 18 mesi tra 2021 e 2002, era il solito candidato elettorale che non avrebbe dovuto vincere. Nel dicembre del 2022, fallisce un tentativo di impeachment, a seguito del quale il parlamento si scioglie, non senza aver prima proclamato la decadenza del presidente, averlo arrestato e gettato in prigione. Dove è rinchiuso tuttora.

Dopo essersi consultata con il generale Laura Richardson, capo del Comando Sud degli USA, da quel che rimane del parlamento si fa nominare presidente Dina Boluarte, ex vice di Castillo. Al golpe rispondono per mesi mobilitazioni di massa da tutti gli angoli del paese, eminentemente della maggioranza indigena, che vengono violentemente represse. Dal carcere, Castillo rinnova la condanna della cricca golpista, tra l’altro appoggiata anche dai Fujimori, dei quali aspira ancora al potere Keiko Sofia, figlia del despota Alberto, presidente dal 1990 al 2000. Fujimori, di origine giapponese, fu responsabile di numerosi massacri, con particolare ferocia dei militanti rivoluzionari di Sendero Luminoso. Condannato per crimini contro l’umanità, morto in prigione, pianto da Washington.

 

Bolivia, chi l’acqua l’ha vinta e ne ha tratto una rivoluzione

E con questo arriviamo al nodo più problematico e sconcertante, la Bolivia. Il paese che agli inizi del millennio provò a uscire dalla sudditanza e dal sottosviluppo originato dallo sfruttamento selvaggio delle sue risorse (gas naturale, litio e minerali metallici come argento, oro, stagno, zinco e piombo, oggi litio) da parte degli Stati Uniti, è lacerato da una dura, a volte violenta, contrapposizione tra forze e personaggi.

La storia della Bolivia rischia ancora una volta di cambiare di direzione. E’ lo svincolo non è verso destinazioni migliori nel senso che farebbe bene ai suoi abitanti, indigeni, ispanici e creoli, che, dopo precedenti storici segnati dal Condor nordamericano, per vent’anni hanno assaporato sovranità, eguaglianza, riscatto sociale e liberazione dal controllo Yankee.

Tutto esplode al cambio dei millenni, con la “Guerra dell’acqua”, da cui, sei anni dopo, sorgono il MAS, “Movimiento al Socialismo” e la presidenza rivoluzionaria dell’indigeno Evo Morales. Vale la pena dare un veloce sguardo a questa epopea di un popolo in lotta.

“La guerra dell’acqua” da noi segna, col referendum, la vittoria del popolo nella lotta per il bene fondamentale della vita. Ma segna anche, quasi da subito, la riappropriazione da parte di coloro che vantano la prelazione su beni e diritti e di leggi e costituzione se ne infischiano. In Bolivia, il cui popolo nell’occasione ha acquisito coscienza di sé e della sua forza, la guerra dura due anni, costa battaglie, morti e feriti, ma, forse per questo, è vinta per sempre.

Su raccomandazione della Banca Mondiale, nel giugno 1999, il Parlamento boliviano, sotto stretta osservanza di Washington, approva la “Legge sull’acqua e sul servizio fognario” che privatizza l’acqua e la mette in mano al consorzio multinazionali Agua de Tunari, dietro alla quale, dal paradiso fiscale delle Cayman, spunta il colosso USA Bechtel. Sistemi alternativi della raccolta dell’acqua, anche piovana, sono vietati. Il prezzo dell’acqua potabile è quadruplicato.

Passano quattro mesi di preparazione e contadini e tribù indigene di tutto il paese, rifiutando una vera e propria estinzione, che la legge avrebbe comportato, bloccano l’accesso a Cochabamba e nel gennaio 2000 organizzano un blocco regionale. Il regime tiene duro e, a marzo, si apre la battaglia finale. 50mila persone invadono Cochabamba, fulcro dello scontro, il governo di Ugo Banzer dichiara lo stato d’assedio e ne conseguono scontri nei quali polizia ed esercito uccidono decine di persone. La piazza non molla e il 10 aprile 2000 il regime è costretto ad annunciare l’annullamento del contratto. Nelle piazze si sente l’urlo: “El agua es nuestro, carajo!”

Non è un fuoco di paglia. Consapevole che si può vincere, il popolo avanza. Nasce il MAS  e nel 2006, con Evo Morales, capo dei cocaleros e con il concorso di contadini, minatori, operai, società urbana, trionfa nelle elezioni. Nei primi lustri tutto va per il meglio: La Bolivia si affianca al Venezuela, al Nicaragua e a Cuba nel solco della rivoluzione bolivariana. Riforme e nazionalizzazioni, alfabetizzazione, riduzione della povertà dal 35 al 15%, reti idriche, elettriche e di telecomunicazioni, un’assicurazione sanitaria universale. L’aspettativa di vita passa da 56 a 71 anni. Una luce nel continente post Condor. Ma un campanello d’allarme è il tentato golpe militare del 2016, che sfrutta uno scontento fin qui sopito, ma diffuso, di cui parleremo.

 

Da salvatore della patria a caudillo

 

 

Proprio per vedere l’evoluzione della Bolivia con le sue ricadute dalla Guerra dell’acqua, nel 2006 sono a La Paz, nella sede del Movimento al Socialismo, per intervistarne il leader, imminente capo dello Stato. E’ stata un’intervista frettolosa. Evo Morales, sotto assedio di troppi raccoglitori del suo verbo, risponde a spizzichi e bocconi: lo Stato binazionale da mettere in piedi, ricuperando la società indigena da sempre esclusa a favore dei ricchi feudatari bianchi di Santa Cruz, nel sudest; una scuola e una sanità tutta da sviluppare e sottratta ai padroni del privato; il regolamento dei conti con gli yankee, con la riappropriazione delle risorse, gas in testa, l’annullamento della presa economica strozzina  delle multinazionali e la rimozione della camicia di forza delle presenze e basi militari USA.

E questo diventa veramente il cammino della nuova Bolivia. Che però, con l’eccessiva concentrazione dei poteri, politici, civili, sindacali, imprenditoriali, nelle mani del presidente e della sua squadra, sempre più un cerchio magico, perde slancio, convinzione e risultati.

Nel 2016, Morales propone di ricandidarsi per un terzo mandato, contro il dettato della Costituzione. Ne chiede l’avallo in un referendum, che perde. Ma sfida il voto e il dettato della Carta e si fa esonerare dal divieto da un tribunale elettorale apposito. La conseguente, graduale, perdita di consenso popolare rivelatasi nel referendum, offre l’occasione del sovvertimento alla mai rassegnata élite filo-USA, con alla guida Fernando Camancho, ras di Santa Cruz, che riesce a reclutare anche elementi dell’esercito. Nel novembre del 2019, su questi presupposti, scatta il colpo di Stato e la senatrice Janine Nanez (ora in carcere per 10 anni), del Partito di destra Unidad Democratica, viene posta sul più alto scranno dello Stato-

Si può datare l’inizio della fine per l’indiscutibile protagonista del riscatto boliviano, al tentativo anticostituzionale di farsi eleggere per un terzo mandato. Ma la fine, non dichiarata, percepita da seguaci e oppositori, è segnata dall’immediata fuga di Morales, nelle ore del golpe, in Messico e poi in Argentina, quando i suoi compagni di partito e di governo restano ad affrontare 24 mesi di scontri con una popolazione irriducibile, brutali repressioni, massacri, torture, prigioni.

L’8 novembre dell’anno dopo, la resistenza popolare costringe i golpisti alla resa. Pensano di salvarsi con nuove elezioni, che però sono vinte a larga maggioranza da Luis Arce, fedelissimo di Evo e suo sagace ministro dell’economia per tutta la durata del miracolo economico boliviano. Morales rientra e prova a ricuperare onore e seguito compromessi.

Seguono anni in cui la stretta intesa tra Evo e Arce si trasforma in rivalità e accanita guerra del secondo al primo, le organizzazioni e i partiti che avevano sostenuto il fondatore della nuova Bolivia si spaccano in fazioni contrapposte. Evo prova a forzare la mano mobilitando la propria base di cocaleros a Cochabamba e nel Chaparè, con ripetute marce sulla capitale, blocchi stradali, scontri con la polizia, che sconvolgono il paese e determinano una profonda crisi economica.

Episodio particolarmente squalificante è un incidente con la polizia. Con la sua e un’altra macchina del seguito, in viaggio da Cochabamba per andare ad assediare La Paz, la comitiva di Evo viola un posto di blocco antinarcotraffico e, inseguita dagli argenti, apre il fuoco. Morales dirà di essere stato aggredito, ma le foto mostrano una macchina crivellata di colpi. Quella della polizia.

Siamo all’oggi e alle elezioni del 17 agosto. Luis Arce se ne è elegantemente tirato fuori “nel nome dell’unità delle sinistre”, Alla presidenza si candida Andronico Rodriguez, 36 anni, presidente del Senato, cocalero come Evo, suo fedelissimo compagno e, come lui un tempo, sostenuto da una settore che va oltre la sua base sociale ed etnica. I sondaggi lo danno in testa.

Morales non si rassegna. I suoi sparano calunnie e accuse di tradimento. Nelle ultime settimane, rinnova gli attacchi a coloro che sono diventati suoi avversari o, quanto meno, competitori. Mai rassegnato, si candida a un quarto mandato presidenziale, con una nuova formazione politica, molto personalistica: “Evo Pueblo”. La quale manca dei presupposti giuridici per potersi iscrivere alla competizione. Alla negazione dell’iscrizione, Morales con i suoi cerca di invadere e occupare il Tribunale Supremo Elettorale. Viene respinto.

La situazione è questa. La buona sorte del gentile e nobile popolo, nelle sue articolazioni etniche quechua e aymara, è appesa al filo della stabilizzazione che ci si augura come risultato delle prossime elezioni. Ma è buona, la sorte, perchè rafforzata dalla debolezza della classe sociale e politica che per lunghi decenni aveva messo il paese all’incanto e il cui maldestro golpe, con conseguente rivolta di popolo, reminiscente della gloriosa Guerra dell’acqua, parrebbe averla messa fuorigioco. Almeno per un po’.

A chi il litio?

Resta da dire di un convitato di pietra. Nessuno ne parla, per quanto sia molto probabile che si muova nell’ombra delle intenzioni dei contendenti e, di più, susciti formidabili appetiti in attori esterni. Ha la forma e l’estensione di un enorme lago salato: è una delle più grande riserva di litio del mondo – la terra rara più preziosa di tutte –parzialmente condivisa da Argentina e Cile. Luis Arce ha gestito la nazionalizzazione di estrazione, produzione, distribuzione, sotto il secondo mandato di Morales. Ai cinesi la cura delle infrastrutture tecnologiche.

Amo questo paese, generoso, pieno di colori e dignità. L’ho percorso in lungo e in largo, non omettendo di rendere omaggio, a la Higuera, a colui che qui concluse una vita rispetto alla quale ci sentiamo tutti molto piccoli: Che Guevara, fonte d’amore e di fiducia.

La mia America Latina sta in questi docufilm: Americas Reaparecidas, L’asse del bene, Il ritorno del Condor, El camino del Sol, Angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero.                                                       

Youtube “Mondocane video” di Fulvio Grimaldi GAZA, VALSUSA, ANTIFASCISMI FASCISTI E CHI CI STA https://www.youtube.com/watch?v=cfi1OGKY3pg https://youtu.be/cfi1OGKY3pg

 

Youtube “Mondocane video” di Fulvio Grimaldi

GAZA, VALSUSA, ANTIFASCISMI FASCISTI E CHI CI STA

https://www.youtube.com/watch?v=cfi1OGKY3pg

https://youtu.be/cfi1OGKY3pg

 

  L’immagine grottesca di Mussolini nel programma dell’atlantosionista russofobo Aldo Cazzullo “Mussolini, il capobanda

 

Cosa hanno in comune, fatte le debite proporzioni, Gaza e la Val di Susa? Una lotta, per gli uni, quasi secolare, per gli altri, trentennale. In entrambi i casi mai abbandonata, per quanto costasse. Pagata con la vita e la devastazione, o con la devastazione e il carcere. In entrambi i casi una guerra, imposta, accettata, combattuta. In entrambi i casi una guerra di lunga durata, combattuta da avanguardie legittimate dal consenso e dal sostegno del loro popolo.

E se vogliamo insistere con i paralleli, che, a dispetto della gigantesca disparità tra le dimensioni, hanno una loro evidenza, ci ritroviamo davanti a un dato ontologico: la guerra dei pochi contro i tanti, padroni e lavoratori, feudatari e servi della gleba, colonizzatori e colonizzati, inoculatori e inoculati, èlite e il resto. Un aggregato di ricchi e potenti, cresciuti sull’esproprio di altri. I valsusini e chi si affianca a loro, come i palestinesi e chi ne condivide condizione, diritto, sofferenza, intento e obiettivi, sono epitome, compendio e simbolo della lotta per liberazione dell’essere umano. Costi quel che costi, in chiave speculare e contraria al whatever it takes del noto portavoce di chi, per rubare, arriva ad ammazzare.

Nel video passiamo in rassegna ciò che non dobbiamo più far fatica a riconoscere e con cui vogliamo misurarci, i crimini colonialisti inflitti ai protagonisti delle due vicende per sottometterli ed espropriarli, possibilmente annullarli, fisicamente nell’un caso, socialmente, politicamente e culturalmente nell’altro. Ma da questo dato, ormai di larghissima condivisione a livello mondiale, traiamo una constatazione che mi sembra strategicamente decisiva.

Al consenso per la lotta dei valsusini condotta nelle uniche forme possibili, consenso fattosi nei decenni sempre più consapevole e diffuso, non corrisponde, negli stessi ambiti, quello, altrettanto legittimo, necessario e morale, per i combattenti palestinesi. Negarlo, ignorarlo, non offrirlo equivale a svuotare di senso e di effetto la propria partecipazione al loro dolore. Israele e complici non aspettano altro che di ridurre l’antagonista a vittima, concedendo alla solidarietà la consolazione di essersi espressa secondo coscienza.

Resta da dire del programma tv di Aldo Cazzullo con Moni Ovadia, nel quale si ripercorrono, in termini di rituale esecrazione, vari momenti della vicenda mussoliniana, con particolare enfasi per ciò che quella dittatura ha comportato per la popolazione ebrea. E’ l’episodio di una nutrita e invasiva tendenza generale che vuole riesumare il fascismo in chiave negativa, ma anche affascinante (tipo “Gomorra” per la Camorra).

Operazione pianificata, portata avanti da una schiera di giornalisti (Corriere, Stampa, Repubblica, Giornale, Foglio, minori) che hanno in comune l’assoluta integrazione nella logica del riarmo, del melonismo crosettiano-piantadosiano, del sionismo che deve difendersi, del terrorismo di Hamas, della russofobia più ottusa, delle leggi Sicurezza, del privato su tutto, e via restringendo gli spazi di sovranità e democrazia.

Dunque, con evidenza abbagliante, antifascismo da cerimonia a promozione del fascismo del 2000 e a distrazione dal nazifascismo che compie il genocidio palestinese con Netaniahu, la maggioranza del suo popolo, da Trump e dai sicari europei. Stupisce che Ovadia ci fosse, a fare Mussolini nella versione più utile, quella dal balcone, e i suoi camerati, le sue vittime, i canti del regime, compresa Faccetta Nera e Giovinezza.

Intanto, a Gaza….

sabato 26 luglio 2025

Dal Greenwashing al Blackwashing, come distrarre da Gaza --- MONI, NO! --- Quando esibire antifascismo serve a promuoverlo.

 

Dal Greenwashing al Blackwashing, come distrarre da Gaza

MONI, NO!

Quando esibire antifascismo serve a promuoverlo.

  


Introduzione al tema

Moni Ovadia, che ritengo prezioso per aiutare i propagandati a distinguere tra ebreo e israeliano, ebreo e genocida, ebreo e Netaniahu, l’ho visto ieri sera nella Tv dei correligionari Cairo e Mentana. E lì lo stimato intellettuale ha dato il suo importante, decisivo, contributo a un’operazione che è tutto fuorchè limpida e che si presta a valutazioni fortemente negative.

Avrei dovuto incontrarmi con lui un paio di anni fa a Milano per un comizio di Francesco Toscano e Marco Rizzo sulla Palestina.. Avevo sollecitato più volte la diarchia al comando di DSP di partecipare alle mille e mille manifestazioni grandi e piccole che andavano incendiando il paese. Mi si rispondeva che “DSP, non fa iniziativa con altri”. Eppoi che si trattava di non far innervosire la Comunità ebraica. Ci sono i testimoni.

A Milano avrei dovuto parlare anch’io. L’iniziativa era per la Palestina, ma la Palestina non c’era. C’era l’ebreo Moni Ovadia, non allineato con il regime di Netaniahu, in giusta evidenza. Non c’era un equivalente rappresentante della Palestina, tanto meno della Resistenza, figurarsi. Poi, resisi conto, all’ultimo momento rimediarono un ragazzo palestiinese di passaggio e lo misero sul palco. In assenza programmata del relatore palestinese rinunciai anch’io.

Va detto con convinzione, vista la tendenza generale dei rappresentanit della comunità in Italia, che siamo fortunati a poter affiancare uno come Moni Ovadia alla presenza coraggiosa, lucida e consapevole, di molti intellettuali israeliani in vari paesi, critici del governo e sostentori del diritto a esitere dei palestinesi, come gli storici Ilan Pappè, Norman Finkelstein, Shlomo Sand.  E vorremmo anche disporre di organi di informazione israeliani, come Haaretz o Canale 12, che affrontano condizioni pesanti e pericolose per affermare la loro integrità rispetto al niagara di menzogne e inganni prodotti dalla giunta di Netaniahu. Come quando sono stati tra i primi a demistificare le truculente e false versioni fornite dal governo sulla battaglia del 7 aprile, che doveva per forza diventare una mostruosità di terroristi per giustificare la più terribile operazioni di terrorismo di Stato mai lanciata contro un intero popolo da rimuovere non solo dalla sua terra, ma dalla faccia della Terra.

Tutto questo mi è passato per la mente quando, sere fa, su La7 è passata un trasmissione a firma del giornalista del Corriere, Aldo Cazzullo, non nuovo a imprese del genere, intitolata “Mussolini, il capobanda” e che ospitava, appunto, Moni Ovadia.

Ho messo in cima, dopo l’occhiello esplicativo, il titolo-appello: “Moni, NO!” e spiego.

Antifasciti al passo dell’oca

Le nostre lande mediatiche, desertificate dal colonialismo (spesso autocolonialismo), sono popolate da una particolarissima specie di giornalisti. Pensate ai vari Paolo Mieli, Galli della Loggia, Maurizio Molinari, Panebianco, Polito, Fontana… Insomma la créme de la créme del mainstream unito e monofonico, militarizzato se pubblico, per il resto obbedientemente privato. Li potete trovare allineati, coperti e demoliti in qualcuno degli spassosi editoriali di Travaglio.

Sono quelli del Putin matto, canceroso, che fa combattere i suoi con le vanghe e stermina nobili oppositori, sebbene farabutti, razzisti e ladri, come Navalny. Sono quelli di Netanyahu vabbè, però i terroristi di Hamas e il 7 ottobre e Israele dovrà pure difendersi, mentre le iraniane è democratico che siano liberate dal velo anche a forza di bombe e Stato palestinese (dove?) forse si, ma solo se prima riconosce quello ebreo, quello del muro, dei coloni squadristi e dell’apartheid (incautamente riconosciuto da tutti fin da Oslo,1993). E’ Giorgia Meloni, non ci fa forse ben figurare nel mondo? Vedi che autorevolezza!  Gli americani, Merz, Starmer, Netaniahu, soprattutto Trump, l’apprezzano e con Zelensky - che si difende dall’autocrate di Mosca, massacrando i propri russi antifascisti, zittendo gli organismi anticorruzione, chiudendo i media e partiti, incarcerando gli oppositori, coltivando i nazisti Azov - gli abbracci sono arrivati a un punto che si rischia una progenie…

Ebbene questi, che affondano le radici nell’ossequio operoso a tutto quello che detta la massima potenza imperialista, colonialista, finanzcapitalista e guerrafondaia, attiva di guerra in guerra e campione assoluto di terrorismo (a volte delegato all’ISIS) politico, sociale e militare, si presentano come i nostri luminosi teorici e praticanti dell’antifascismo.

Non so se seguite Rai Storia, canale RAI senza pubblicità e dai contenuti seri. Qui il Mazzabubù, con il suo “Passato e presente”, è proprio quel Paolo Mieli che, da quando è partito il cecchinaggio su Gaza fino all’ultimo bimbetto, non fa che programmi su Mussolini, Hitler, Salò, le leggi razziali, gli orrori squadristici. Mussolini dal balcone vi si vede più spesso che il papa all’Angelus. E ha fatto scuola. Gli antifascisti e le loro narrazioni sugli orrori della dittatura pullulano.

Come l’altro giorno quella di Aldo Cazzullo, uno che cazzia Putin per voler radere al suolo l’Europa fino a Lisbona. Si intitolava, come detto, “Mussolini il Capobanda”. Cosa vi siete persi! Moni Ovadia vi faceva il narratore e impersonava un po’ tutti, fascisti malvagi e loro vittime, ebrei in massa e in prima linea. Da Mussolini sul balcone, a Mussolini con Hitler, a Mussolini della battaglia per la fertilità delle donne poverette, a quello del gas sugli etiopi, delle tasse alle coppie non prolifiche, delle reni spezzate alla Grecia, di Ciano e Starace, con ampio spazio sulle leggi razziali, la deportazione dai ghetti di Roma e Venezia, le vittime.  

Un Mussolini macchietta, grottesco, da fumetto, sagomato con l’accetta, riprodotto con grande impegno vocale da Ovadia. Cazzullo ci ha rifilato un Mussolini come  si è pouto rifilare a quelli che non sanno molto bene cosa quel fascismo, nella sua complessità capitalista, sia stato..

Ovadia li faceva tutti uguali, questi Mussolini, voce stentorea, in falsetto(?), pomposa, come fosse sempre sul balcone, anche quando maltrattava la moglie nascosta, Ida Walzer, o visitava i bimbetti delle colonie.  Ma anche Marinetti, D’Annunzio, Facta, De Vecchi, li faceva tutti come il Duce sul balcone. Cambiava un po’quando si trattava di vittime, Matteotti, i Rosselli, Gobetti, Liliana Segre, Gramsci. Ma anche questi, tutti uguali. Mica si potevano pretendere mille timbri. Mica era Gassman e Arnaldo Foà insieme. Testimone, non fine dicitore.

Però cantava, ah se cantava! Tutte le canzoni dell’epoca, Pippo Pippo non lo sa, La Strada nel bosco, Amapola., Non dimenticar le mie parole. E Cazzullo e la brava strumentista che si univano a fare impetuoso coro con Faccetta Nera, Giovinezza e perfino Lilì Marlen. L’atmosfera, con qualche perdonabile stonatura, ci avvolgeva. Benissimo ha invece cantato in conclusione un’antica e struggente canzone ebraica.

Blackwashing

Sarò prevenuto, fissato, di parte, ma a me è venuto un sospetto. Cosa si persegue con operazioni come queste? La nostra è l’informazione dei tempi di Meloni, Trump, Netaniahu, Zelensky, delle sette guerre di Obama, informazione tutta col pugnale tra i denti sul fronte della democrazia occidentale, compresa quella sionista, unica da quelle parti. Compresa quella di Trump che bullizza ogni vicino di tavola e a Gaza mette cocktail e sdraie per ricchi al posto di scheletri di bambini tra macerie. Compresa la neodemocrazia del neo-Fuehrer Merz che costruisce “L’esercito più potente d’Europa” sulle orme di Wehrmacht e Gestapo. Compresa quella del disciplinamento di tutte le società occidentali a forza di green pass, clima, minaccia russa, riarmo… E’ l’informazione che ci vuole quando bisogna serrare i ranghi e portarci in guerra contro arabi, russi, cinesi, iraniani. E contro i propri cittadini, meglio quando poveri.

Una volta di più, con questa ennesima trasmissione, abbiamo avuto a che fare con un manipolo squadrista di antifascisti da cerimonia, autentici depistatori dalle più atroci forme di totalitarismo sterminatore e ladro che stanno operando sotto i nostri occhi. L’evidenza ci indica soprattutto il mostro sion-statunitense, ma non solo. Qua ci si adopera anche per farci distogliere lo sguardo dai trucidi revanscisti con la camicia nera sotto la pelle che, con l’azzeramento del parlamento e l’assalto alla baionetta alla magistratura e a ogni controllo, nuotando nella corruzione, stanno sgretolando la Costituzione, la democrazia, la libertà. Antifascisti a passo dell’oca.

Vi eravate mica illusi, con i pigolii del vuoto spinto Tajani, o col silenzio complice della Meloni, o con l’entusiasmo armaiolo di Crosetto, che questo schifo di regime non continuasse, con Israele, a vendere armi e acquistare spioni. Con tutto quello che lega i due regimi sul piano etico, ideologico, fascista? E che uno come Cazzullo non gli desse spago?

Si chiamano armi di distrazione di massa. Elemento immancabile della Storia di classe, ma attualizzate alla grande nei nostri tempi, a partire dall’11 settembre e poi dal 7 ottobre. Al buon Moni Ovadia andrebbe chiesto di non farsi usare, né a Milano per la Palestrina senza palestinese, né per l’antifascismo dei fascisti.

martedì 22 luglio 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- False flag rivisitate --- SREBRENICA-ISIS, CERTEZZE O DUBBI?

 



https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__false_flag_rivisitate_srebrenicaisis_certezze_o_dubbi/58662_62064/

 

John McCain, senatore repubblicano, candidato alla presidenza USA nel 2008, in missione in Siria con il leader dell’ISIS Al Baghdadi e altri mercenari islamisti nell’assalto alla Siria.

 

ESTRATTI DALL’ARTICOLO

Nei giorni scorsi abbiamo dovuto subire il tornado, ricorrente intorno a ogni dannato 11 luglio, del trentennale del cosiddetto massacro, per molti genocidio, di Srebrenica in Bosnia che, secondo i celebranti, sarebbe avvenuto quel giorno dell’anno 1995, a conclusione della guerra di disfacimento della Federazione jugoslava. Per inciso, nella furia di commemorare quell’evento, arricchito costantemente di nuove macabre scoperte di salme dissotterrate e da dissotterrare negli anni a venire, anche ben trent’anni dopo, neanche il più rispettabile cronista o commentatore riesce a osservare almeno un frammento della buona regola del dubbio, visto il cui prodest, o almeno dell’attenzione a versioni altre del fatto…..

Che pure ci sono. E abbondanti e autorevoli, condotte con strumenti di verifica storica e scientifica. Tale è la disponibilità, tra indolenza, complicità e assoggettamento a quanto prevale nella narrazione pubblica, irrobustita da un’alluvione di immagini e testimonianze dirette, date per inoppugnabili. Ogni voce alternativa, ogni seme di dubbio, magari della dimensione di un granello di sabbia nel potentissimo ingranaggio, ha ormai assunto il carattere della blasfemia. 8000 vittime s’è detto e 8000 restano.

E’ una cifra che fa colpo. Non per nulla sarebbero 8000 anche i curdi sterminati da Saddam ad Halabja. Altro evento contestato, perfino dagli americani. Eppure, se 8000 fanno genocidio, cosa fanno i 150.000 calcolati da Harvard e Lancet a Gaza? Per Radio Radicale, 8000 sarebbero i trucidati dal regime siriano di Assad. Qualcuno ha contato 8000 vittime del Covid a Wuhan e 8000 precise sarebbero le vittime annuali dell’influenza in Italia e figuriamoci se non erano 8000 gli ebrei italiani deportati in Germania, mentre quanti pensati che siano, per Repubblica, i minori morti per incidenti stradali in Europa se non 8000? Come erano certamente 8000, prima ancora che qualcuno arrivasse munito di pallottoliere, i morti del terremoto 2016 tra le impenetrabili montagne del Nepal.

8000, numero apotropaico, di quelli che servono ad allontanare i flussi maligni. Quelli delle verità sconvenienti?

… Eppure il dubbio su Srebrenica ed eventi affini meriterebbe una qualche attenzione, quantomeno alla luce di quanto questa truculenta vicenda e il suo perpetuarsi forzoso nell’immaginario collettivo siano serviti e stiano servendo a demonizzare la Serbia, i serbi, ieri oggi domani sempre, elemento dissonante nei Balcani normalizzati, e a giustificare il crimine massimo di Norimberga, la guerra d’aggressione del 1999 contro Belgrado (con il nostro governo D’Alema-Mattarella, portatori d’acqua, anzi di bombardieri, con le orecchie)…..

A ogni false flag la sua guerra d’aggressione

Forse Srebrenica meriterebbe un approccio più problematico, almeno circospetto, se la si guarda incastonata in un mosaico dal quale spiccano vicende come

-       Racak, il finto massacro di 45 falsi civili kosovari ed effettivi miliziani UCK, allestito da William Walker, ambasciatore USA nell’OSCE, per innescare i bombardamenti del 1999. False Flash smascherata da una squadra di anatomopatologi finlandesi.

-       La False Flag allestita dai servizi italiani (SISMI) nel 2001su mandato USA con documenti fabbricati che avrebbero dimostrato come Saddam avesse acquistato dal Niger uranio arricchito (Yellow cake) per la sua bomba atomica.

-       Le “fosse comuni di Gheddafi” nelle quali il leader libico avrebbe sepolto masse di oppositori, che poi risultarono le normali fosse scavate nel cimitero di Tripoli in vista di defunti.

-       L' 8 giugno 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, per forzare l’intervento USA, la nave spia americana USS Liberty venne attaccata da forze aeree e navali israeliane in acque internazionali al largo del Sinai, causando 34 morti e 171 feriti.

-       Il 22 luglio 1946, camuffati da operai e da inservienti palestinesi, membri dell'organizzazione terroristica ebrea, Irgun, piazzarono un ordigno nell’Hotel King David, a Gerusalemme, sede amministrativa e militare britannica. 137 tra morti e feriti.  Fine del mandato britannico sulla Palestina, inizio del terrorismo sionista in tutta la regione.

-       4 agosto 1964, il presidente Johnson conferma che la corazzata USA Maddox è stata colpita da navi vietnamite nel Golfo del Tonchino. A conflitto terminato, la NSA (Agenzia di Sicurezza Nazionale) ammette che nessun attacco nordvietnamita si era mai verificato. Costo della bufala: 58.220 soldati USA e 3 milioni di vietnamiti.

-       Dicembre 1989, Timisoara. La manovalanza dei manovratori della destabilizzazione dell’ultimo bastione filosovietico e anti-gorbacioviano dei Balcani innesca una rivolta nella cittadina rumena ed esibisce alla stampa internazionale 19 corpi, riesumati da fosse comuni. Sarebbero parte di 12.000 uccisi dalla Securitade rumena. Tutto dimostrato falso. A Natale Ceausescu e la moglie Elena, subiscono una sommaria e barbara fucilazione.

-       21 agosto 2013, East Ghouta, Siria. In piena aggressione NATO affidata al mercenariato Al Qaida-ISIS, oggi collocato al potere da Turchia, USA e Israele, i media occidentali attribuiscono all’esercito di Assad l’uso di gas tossici contro civili uccidendo 1.400 persone tra cui molti bambini. Per Obama si tratta del superamento della linea rossa. Le foto dei bambini risultano scattate mesi prima, dopo un bombardamento NATO a Tartus. Investigatori dell’ONU e dell’OPCW, l’ente addetto al controllo delle armi biologiche e chimiche, smentiscono che gas siano stati utilizzati. Ma la bufala continua a essere diffusa.

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La lista potrebbe allungarsi fino a quasi segnare la motivazione di ogni aggressione bellica ad andare indietro di secoli. Insomma è una prassi di chi deve presentare un alibi per i suoi crimini di guerra. Concludiamo con due grandiose False Flag, ahinoi ancora sventolate da alcuni tra coloro che si ritengono affrancati dai condizionamenti delle mistificazioni: l’11 settembre delle Torri Gemelle “colpite da piloti sauditi” (almeno due, la terza non si sa…) e del Pentagono perforato, dove non c’era neanche un custode, o una donna delle polizie, da un Boeing 757 riuscito a volare all’altezza dell’erba sul prato antistante; e il 7 ottobre 2023 nella Palestina occupata, dove 1.200 persone e qualche decina di edifici sarebbero stati disintegrati, dai Kalashnikov di Hamas e non dai tank ed elicotteri dell’IDF intervenuti  in attuazione della “Dottrina Hannibal” ufficialmente proclamata (come risulta da ripetute inchieste, anche di media israeliani).

Sventola la falsa bandiera chi non dovrebbe

E’ solo un breve elenco che, però, dovrebbe servire a creare un’ambiente favorevole almeno alla diffidenza. La chiave per dare a questa diffidenza la dignità del giustificato e fortissimo dubbio, è una domanda-bisturi, tratta dalla saggezza antica: a chi conviene? Nei casi elencati, anzi, in tutti i casi di False Flag, il raggiungimento degli obiettivi che la provocazione si era proposti, fornisce una risposta chiara e incontrovertibile.

… Che larghi strati di società, passivizzati da poderose operazioni di disciplinamento psicologico e, quindi, comportamentale, tipo Covid-Green Pass, clima, terrorismi, minacce belliche, o TINA (There is no alternative), si adagino, per quieto per quanto subordinato vivere, nell’adattamento a contraddizioni logiche e storiche sesquipedali, sta nell’ordine delle cose. Che vi si conformino esponenti di punta della componente evoluta e critica, apparentemente esperta dei trucchi impiegati perche i pochi possano tenere sotto scacco i tanti, è sconfortante e, a volte, incredibile…..

Vorrei fondare queste considerazioni su due recenti esempi nella pubblicistica che si pone come antidotica rispetto ai condizionamenti di massa. Srebrenica, appena celebrato in mezzo mondo (occidentale) con ampie e ridondanti rievocazioni di orrende atrocità e nefandezze serbe; e l’ISIS, o Al Qaida, o Stato Islamico (se non è zuppa è pan bagnato, le diverse denominazioni servono a mascherare sotto una pluralità di sigle un unico progetto strategico), divenuto subitaneamente rispettabile e partneriabile, per aver tolto di mezzo l’ultimo grande e forte paese arabo in grado di infastidire Israele e USA.

Srebrenica, non solo una versione

Un illustre magistrato, senatore, uomo di sinistra, confortato dalla cronaca retrospettiva di un giornalista, ha contribuito, nella recente ricorrenza, a ribadire e dare certezza, su un quotidiano degno di rispetto, a quella che, secondo un numero riguardevole di ricerche, inchieste e testimonianze, risulterebbe invece una mega-False Flag realizzata nel luglio1995 in Bosnia. Obiettivo dell’operazione, giustificare il dissolvimento della Jugoslavia attivato da NATO, UE e Vaticano, a partire dai primi anni ’90 e criminalizzarne il cuore tuttora resistente, la Serbia.

Il famigerato Tribunale Criminale per la Jugoslavia all’Aja, allestito, equipaggiato e pagato dagli USA, quello che fece morire in carcere per mancanze di cure cardiache Slobodan Milosevic per non essere riuscito a provarne alcun “crimine di guerra o contro l’umanità”, avallò quella che fu un’invenzione del presidente bosniaco Alija Izetbegovic, da lui stesso più tardi parzialmente negata.

L’uccisione da parte delle forze serbe del generale Mladic di nientemeno che 8000 uomini e ragazzi assediati nell’enclave bosniaca della Serbia venne smentita da numerose investigazioni indipendenti (di cui la stampa continua a non prendere atto). Venne negata anche dai massimi responsabili ONU e CIA sul posto. Philip Corwin, durante gli eventi il più alto funzionario ONU in Bosnia, l’ex-dirigente CIA Robert Baer, in azione durante il conflitto, parlarono di una “frode gigantesca”, di “manipolazione” e di “marketing politico”.

Prima dell’arrivo delle forze serbe, truppe bosniache al comando di Naser Oric, rifornite per vie aera dagli USA, avevano occupato l’enclave, pur dichiarato zona demilitarizzata dall’ONU, e avevano compiuto una vasta “pulizia etnica” nei vicini centri serbi. Qui furono documentate 1.500 uccisioni tra il 1992 e il 1995. Ovviamente un massacro finito nelle pieghe oscure delle cronache. Che però non poterono esimersi dal riferire della condanna di Oric per crimini di guerra, con contorno di contrabbando e furto di aiuti umanitari destinati alla sua gente. Condanna poi annullata. Da chi? Ma dall’affidabile tribunale dell’Aja, no?

A impedire la continuazione dei massacri, le forze serbe presero il controllo di Srebrenica e evacuarono in sicurezza le famiglie musulmane, 20.000 persone, verso campi profughi gestiti dall’ONU. L’evacuazione venne confermata da inviati dell’americana AP (Associated Press) e, successivamente anche da funzionari ONU.

Giorni prima dell’arrivo del generale Ratko Mladic (oggi all’ergastolo all’ Aja insieme al presidente della Repubblica Srbska, Radovan Karadzic), 12.000 miliziani di Naser Oric, per evitare lo scontro con le truppe serbe, abbandonarono improvvisamente la città e si diressero in fuga verso la città bosniaca di Tuzla, a 80km. Durante questo trasferimento vennero ripetutamente attaccate dai serbi e persero in combattimento 2.000 uomini. Altri vennero fatti prigionieri e poi scambiati con catturati serbi.

Nel 2021, un accurato studio dello storico israeliano Gideon Greif conferma che non c’+è stato massacro e, tanto meno, genocidio e che la maggioranza dei musulmani, al netto di alcuni episodi di rappresaglia per le stragi di Naser Oric, caddero in combattimento durante la marcia da Srebrenica a Tuzla. Si afferma anche che a Pilica, 50 km a nord di Srebrenica, 1000 musulmani sarebbero stati giustiziati. L’inchiesta forense scoprì solo 150 corpi e che le vittime erano state uccise da un contingente croato sotto controllo dell’intelligence NATO. Resta misterioso anche il dato che decine di nomi di presunte vittime ricomparvero più tardi tra i candidati in elezioni della Bosnia Erzegovina.

Agghiacciante l’ammissione del Capo della Polizia di Srebrenica, confortata da analoghe dichiarazioni di funzionari musulmani, secondo cui il presidente bosniaco Izetbegovic li avrebbe informati confidenzialmente che l’improvvisa evacuazione di Srebrenica faceva parte di un accordo con il presidente USA, Bill Clinton. Clinton avrebbe detto a Izetbegovic che un intervento NATO (il successivo bombardamento) sarebbe stato possibile solo se ai serbi della Bosnia fosse stato imputata l’uccisione di almeno 5.000 musulmani a Srebrenica.

Al tentativo di far fuori la Serbia, ultimo intralcio alla “normalizzazione” NATO e UE dei Balcani occidentali, prima guerra intraeuropea con vista sull’URSS, tentativo che, come si vede, continua tuttora in vari modi, diede un contributo decisivo il nostro governo “de sinistra” D’Alema-Mattarella. Non pare che questi responsabili abbiano mai fatto ammenda, o pagato per questa pesante responsabilità. Anzi.

Campi e mercati della morte, tutti serbi

Srebrenica non fu che il culmine di una campagna di false flag finalizzate a preparare il terreno alla guerra totale poi lanciata, alla fine del secolo, a partire dalla consegna della provincia serba del Kosovo a bande di tagliagole, trafficanti di droga e organi, sotto patronato NATO e dall’espulsione di complessivamente 700.000 serbi dalle loro terre in Kosovo e nelle Krajine, poi croate.

In precedenza, 1992, c’erano stati i cosiddetti “campi della morte” serbi a Trnpolje in Bosnia. Tre giornalisti britannici visitano un campo di prigionieri bosniaci e rilevano l’ottimo trattamento loro riservato. Ma poi trovano persone libere all’esterno del campo e le riprendono attraverso fili spinati che circondano un magazzino, filmano un musulmano emaciato, gli chiedono di togliersi la maglia. Muore poco dopo di tubercolosi. Ma passa per vittima dei “campi della morte”. L’inganno viene documentato da un giornalista tedesco nel 1997. Non se ne parlò più. Lo stesso Izetbegovic, poco prima di morire: “Non c’erano campi della morte serbi”. Ma intanto, su quello spunto, iniziarono i raid NATO, a partire dalla no-fly zone.

Per non dilungarmi, salto l’universalmente accreditato “Massacro del Mercato di Sarajevo” o “Massacro del pane”1992-1995, il tiro al piccione sullo stradone al centro di Sarajevo che per anni sarebbe stato operato da cecchini serbi. Mi limito a ricordare che la Missione di Protezione dell’ONU giunse alla conclusione che questi attacchi “sono stati probabilmente allestiti dalla fazione bosniaca musulmana per ottenere consenso internazionale al proprio progetto e un intervento militare risolutivo”. Questi rapporti non sono mai stati resi noti. In compenso, sull’onda propagandistica scatenata, veleggiarono verso Sarajevo, a sostegno della demonizzazione dei serbi del “dittatore Milosevic”, migliaia di benintenzionati, tra frati, umanitari, ONG sorosiane, cooperanti e falchi mediatici.

ISIS contro, o per, l’Occidente?

Qui l’inversione dei fattori con il rovesciamento del risultato nel suo opposto, è troppo grosso. E troppo grosso è il personaggio che questo pesantissimo capovolgimento del reale ha voluto sollevare e scagliare addosso a un’evidenza da frantumare. Ci arriverete da soli a chi è.

… Abbiamo a che fare con un religioso, dell’Ordine considerato la crème de la crème della scienza politica e diplomatica non solo della Chiesa, giornalista dell’illustre “Civiltà Cattolica”, docente all’Università Gregoriana. E con un paginone sul migliore dei quotidiani generalisti in edicola.

Chi pensa ancora che, a partire dall’11 settembre e poi dalle successive guerre colonialiste, o di distruzione di popoli e paesi, di cui quell’evento è preso a giustificazione, l’estremismo terrorista islamico abbia giovato all’Islam e non piuttosto, e alla grande, a coloro che le nazioni islamiche le hanno attaccate una dopo l’altra? Chi può ancora pensare che, impadronendosene, o rendendole macerie e caos, al meglio preda di predatori multinazionali, l’Occidente abbia inteso combattere l’ISIS? O Daesh, o Al Qaida, o Al Nusra, o Tahrir al Sham, ora, dagli stessi “nemici dell’Islam terrorista” posti al potere nell’ultimo grande Stato resistente islamico, ma laico?....

Questo “chi”, a cui rivolgo la domanda, non ricorda come, nel corso di tutti i 13 anni di guerra USA-NATO-Turchia-Israele alla Siria, i proxy operativi di questo conflitto su procura, appunto gli Al Qaida et cetera, venissero addestrati nei campi del protagonista NATO in Medioriente, Recep Tayyip Erdoğan? O in quelli del vassallo monarchico della Corona Britannica, re Abdallah di Giordania?  E il cui soldo arrivava dagli stanziamenti sauditi e pentagonali. E i cui feriti nel conflitto si ritrovavano salutati ed elogiati dal premier Netanyahu in confortevoli cliniche e centri di riabilitazione sul Golan occupato?

Ma chi è partito da Bengasi, inalberando bandiere nere con scritte coraniche, per buttare giù un leader e un popolo che erano riusciti a rasentare benessere, felicità e sovranità, infastidendo enormemente il globalismo dei pochi con zanne sui tanti sdentati? In Siria? In Iraq? In Libia?

Non vi pare, guardando anche ai vari attentati islamisti compiuti qui e là in Europa e fuori, che questi orrori e la sempre incombente minaccia abbiano operato come un virus pandemico, o come il rischio di arrostire su un pianeta surriscaldato, o come l’imminente invasione dei bruti russi con i loro tank a rifornirsi dal benzinaio nel Vaticano? O, anche meglio, come i fascisti al guinzaglio dei Servizi di Stato e Alleanza quando venivano sguinzagliati per varie stragi? Che, cioè, la paura collettiva suscitata dovesse lubrificare un recupero del disciplinamento sociale funzionale al saccheggio capitalista e al mantenimento di quell’ordine.

Ebbene, c’è chi scrive, guardando il mondo a testa in giù, che “Lo Stato islamico è stato sconfitto nel 2019 da una coalizione di 14 Stati, con l’aiuto dell’aviazione statunitense”. Quei 14 stati euroatlantici che dal terrorismo islamico hanno tratto il beneficio di una rinascita neocolonialista e il pretesto per stabilizzarsi al potere.

Sono già lungo e non entrerò in tutti i dettagli su come questo portbandiera dei corifei di un terrorismo islamico autogerminato per condurre lo scontro definitivo di civiltà come auspicato e poi avviato dai molto operativi teorici del Deep State, a partire dal loro profeta, Samuel Huntington.

Il nemico che fa fuori i nemici dell’Occidente

L’esimio studioso arriva a vedere nell’Isis, o in altre forme dell’arcipelago terrorista, il grande nemico degli USA e dell’Occidente tutto, proprio come formulato dai neocon in vista dell’11 settembre e a seguire posto a base del PNAC, Programma del Nuovo Secolo Americano, quando si programmava la distruzione di ben sette Stati arabi e islamici e, di conseguenza, una strada libera per la neocolonizzazione di interi continenti e, nello specifico, per l’egemonia imperiale del Grande Israele in Medioriente.

L’esimio studioso trae dalle lezioni dell’ineguagliabile scuola di diplomazia del suo Ordine, sempre peraltro a fianco dei poteri costituiti, la certezza che i miliziani Isis scoperti nei paesi del Sahel erano lì per combattere la civiltà occidentale, in questo caso rappresentata dalle truppe e imprese francesi e NATO impegnate nella rapina delle risorse di quella regione (uranio, oro, petrolio, rame ecc.). Quando, in anni recenti, i popoli di Niger, Mali, Burkina Faso, Guinea, Chad, ritennero giunto il momento di cacciare i colonialisti, guarda caso, questi confusionari dell’ISIS intensificarono gli attentati terroristici, ma stavolta apertamente contro i nuovi governi sovrani. Che la loro precedente presenza fosse servita a giustificare il guinzaglio militare colonialista? Il dubbio (dubbio?) è lecito.

…Logica ferrea del nostro esimio studioso impone anche che furono nemiche mortali dell’Occidente le bande terroriste DAESH che dal 2011 al 2024 misero a ferro e fuoco la Siria e poi l’Iraq, dove si lasciarono dietro 200 fosse comuni. Che mai sfiorarono un solo militare NATO, ma compirono atrocità, paragonabili solo a quelle di Israele a Gaza, esclusivamente contro cittadini e soldati siriani e iracheni a Mosul. Sconfitti in Iraq dalle Unità di Mobilitazione Popolare, si concentrarono a rimuovere il bubbone antimperialista siriano, arrivare a Damasco, togliere il paese al suo popolo e consegnarlo alla democratica triade formato dal sultano turco, dal Jack lo squartatore di Tel Aviv, e dall’attuale Mohammed Al Jolani, ora Ahmed Sharaa. Nasce il “Califfato Islamico”. Primo ospite beneaugurante di riguardo, Donald Trump…

Tutto questo per “minacciare come in passato l’Occidente”.

Se poi uno va a sfrucugliare il retroterra dell’esimio studioso, si imbatte nella solita ferrea coerenza anche per quanto riguarda l’ormai screditatissima (perfino in Israele) narrazione del 7 ottobre 2023 di Hamas che “uccide 1.200 persone e ne rapisce 250”. Cosa che, insieme alla vittoria dell’ISIS a Damasco, avrebbe consentito a Israele assediata (sic) di finalmente “tagliare l’anello di fuoco che l’Iran gli aveva costruito intorno”. Segue tutto un gioire per come, “grazie all’assistenza degli USA, Israele sia riuscito a resistere agli attacchi missilistici iraniani, contrattaccare con successo, distruggendo per rappresaglia le difese aeree iraniane”. Dove correttezza e onestà dell’esimio sventolatore di False Flag gli consentono di invertire disinvolto l’ordine della successione di chi aveva attaccato e di chi aveva risposto. Notevole il risultato politico.

Come anche quello ottenuto citando “la fine della guerra su entrambi i fronti grazie al cessate il fuoco stipulato da Israele con Hezbollah e poi con Hamas”. Cessate il fuoco constatato solo dall’esimio studioso, ma non osservato da Israele neanche per 10 secondi, né in Libano, né sugli altri sei fronti su cui esercita la difesa della civiltà. Cosa di cui pare non aver contezza.

…. Concludendo, amaramente: se le False Flag per promuovere a forza di guerre ed eccidi gli interessi del potere imperialcapitalista e le briciole per i suoi alleati, rappresentano un apice di nequizia, chi di questo meccanismo da vannamarchi al sangue si fa legittimatore tra le nostre fila, a quale vertice può ambire?

 

 

domenica 20 luglio 2025

Fulvio Grimaldi in “Spunti di Riflessione” di Paolo Arigotti--- Medioriente, dalla Via della Seta alla Via della Morte --- SIRIA, MA NON FINISCE QUI https://youtu.be/vj1vaL33BPc

 

Fulvio Grimaldi in “Spunti di Riflessione” di Paolo Arigotti

Medioriente, dalla Via della Seta alla Via della Morte

SIRIA, MA NON FINISCE QUI

https://youtu.be/vj1vaL33BPc

Siria, non finisce qui (con Fulvio Grimaldi @MondocaneVideo )

 

 

Qui una sintesi del video

E le stelle (d’Europa) stanno a guardare, mentre la fine si avvicina. Quella dei palestinesi? No, quella dello Stato sionista. Non ci vuole Dante per vedere come, nella Storia, ogni criminale corre verso il contrappasso.

Con l’intervento in Siria, che del resto, bombarda impunito da 14 anni, lo Stato nato e formato e vissuto nell’illegalità e nel sopruso, ha aperto un altro fronte dei sette su cui imperversa, 7 di 16 paesi arabi più Iran (di cui tre dei maggiori già neutralizzati). Uno Stato illegittimo di 9 milioni di immigrati e una popolazione espropriata e ostile di quasi pari entità (senza calcolare 5 milioni di profughi che contano di tornare a casa), utilizza la massima parte delle sue risorse (di cui nessuna naturale e tutte assegnate) per sterminare autoctoni e popoli vicini ed espandere la lebbra delle occupazioni coloniche.

In Siria, Israele ha azzannato un boccone che rischia di andargli di traverso. Improvvisamente lo Stato degli Ebrei di cui le minoranze arabe musulmane e cristiane non sono ovviamente cittadine a pieno titolo, appare isolato. Lo squartamento del paese vicino, un tempo democraticamente unito nelle sue confessioni ed etnie, socialmente equo, di una resilienza tale da aver resistito a 14 anni di assalti della triade turco-israelo-atlantici (oggi al potere) e del suo mercenariato terrorista, presenta una prospettiva di scontro plurimo e di difficile esaurimento.

Al centro della tavola c’è il piatto forte. Tre sono i commensali, in ordine di prevalenza al momento: i Turchi in rappresentanza della Fratellanza Musulmana, impegnati nell’espansione della stessa e del loro sostrato territoriale, tra Balcani, Asia e Africa (ma centri di spionaggio turco ci sono anche in Europa). Hanno il merito principale della frantumazione della Siria, data la loro gestione diretta dell’ISIS (o come altro si chiama) e, di conseguenza si sono impadroniti della capitale, delle città principali, del centro e delle ricchezze archeologiche sopravvissute alle barbarie dei tagliagole dell’attuale “presidente”.

Israele raccoglie il frutto del suo sostegno politico agli invasori, concretizzato dai numerosi bombardamenti e dalla cura dei feriti jihadisti nelle cliniche sul Golan. Gli USA, con base militare ad Al Tanf, affacciata su tutto il paese ed altra in Kurdistan (con tanto di Delta Force) controllano la parte più ricca di risorse, nel nordest: petrolio e agricoltura, e i confini con Turchia e Iraq. Ai curdi, lo strapuntino niente male: la loro zona quadruplicata, dall’Eufrate a Raqqa.

Mentre il feudo turco appare consolidato, grazie al gemellaggio storico con l’attuale governance di Damasco, quello israeliano è in rapida e travolgente espansione. Facendo ricorso – nel nome della protezione di minoranze discriminate – ai drusi siriani, fratelli di quelli israeliani, da sempre disposti a militare nella polizia e nell’esercito IDF (l’ho potuto constatare de visu), ha suscitato una vera carneficina.  Almeno mille morti dal 13 luglio a seguito dell’attacco dei drusi sciti ai sunniti, detti beduini, perché provenienti dal deserto e un tempo allevatori e pastori. Il conflitto si era fatto quadripartito, con l’intervento, a sostegno dei “beduini” sunniti, di quello che il terrorista presidente chiama “esercito siriano” e non è che l’accozzaglia di tagliateste di Al Qaida, Al Nusra, Isis, o Hayat Tahir al-Sham, tagliagole sunniti, a sostegno dei “beduini” sunniti.

Ennesimo bagno di sangue, perfezionato dai morti e feriti sotto i simultanei bombardamenti d’avvertimento israeliani sul palazzo presidenziale e sul Ministero della Difesa dell’ex-tagliateste divenuto presidente grazie alla cravatta e all’obbedienza.

Non puoi fare una guerra ogni due giorni”, ha dettato al collega, in questo caso remissivo, un seccato Trump (ogni tanto torna da Mr. Hyde a Dr. Jekill), imponendo alle parti in causa il cessate il fuoco. L’inesorabile fato lo dimostrerà volatile e non strategico, reso improbabile dai rapporti di forze che in campo si guardano in cagnesco e puntano alla stessa preda..

Credo che la risposta del premier guerrapatico, forte del suo retroterra nella comunità finanziaria internazionale, con relativo portavoce “Wall Street Journal”, possa essere stata, sommessa, ma tremenda: “Vogliamo vedere cosa hai combinato con il pedofilo Jeffrey Epstein?” Con tanto di illustrazione sul quotidiano sodale, raffigurante il messaggio di Donald all’amicone e complice di bagordi: una donnina nuda con pube firmato e saluti non citabili.

Anche qui c’è una questione di rapporti di forza, quelli tra Bibi e The Donald e, più generalmente, Washington e Tel Aviv. Sottomessi e padroni sembrano alternarsi, più di quanto succedesse col predecessore democratico Biden e gli eurovassalli che gli reggevano lo strascico, quando su Israele non era ammessa discussione.

Oggi tutti discutono, dalla Terra del Fuoco all’Aja, da Città del Capo a Brasilia, da Oslo a, ovviamente, Ankara. Da Pechino al Vaticano. Figuriamoci come appassionatamente, da Tehran ai frustrati della Via della Seta negata! Bisbigli perfino da Meloni (ah quella chiesetta sfondata).

Dunque, a questo punto, Netaniahu tiene Trump per i suoi apparati di riproduzione (proprio quelli dal sospetto uso nel lupanare di Epstein. Ma tutto questo non modifica lo status, strategicamente antagonista, della Turchia rispetto a Israele. Né il fuoco di fila di indignazione, rabbia e voltastomaco, provati dal mondo per Israele, anche fuori dai bailamme mediorientale. E non più solo per il genocidio dei palestinesi.

Chissà come andrà a finire. Certo è che, perduta la corazza del vittimismo, della moralità, della democrazia, la spada di Israele farà ancora male, ma si va spuntando ed arrugginendo. The end is nigh, la fine è vicina. Quanto? Dipende da molti fattori, anche da noi.

Nel video cito un ricordo personale che mi avvicina al giro Epstein. Quando ero alla BBC, Londra, mi mandarono a intervistare Robert Maxwell (dal cognome debraicizzato), allora un rampante editore britannico, con ottimi riferimenti ebraici e israeliani. A portarci il tè, fu l’avvenente figlia Ghislaine, poi spedita ed assurta a musa e complice dei turbinii sessuali a casa Epstein. Ebreo anche lui. Lui è stato assassinato in carcere. Lei è ancora là e fa una paura matta a Trump e a molti. Stia in guardia.

Il senso di tutto questo è che gli spassi allestiti da Epstein non si limitavano agli inquinamenti pedofili. Quello era con ogni probabilità un centro del Mossad che, con questa sua irresistibile attrazione per fornicazioni proibite, indirizzata ai potenti statunitensi (e non solo, vedi il principe Andrea), si riforniva di dati e conoscenze per eventuali ricatti. Necessari a tener sotto schiaffo tutta una comitiva di potenti avventori americani, a beneficio dell’immunità di Israele. Epstein l’hanno fatto fuori, unico rimedio sicuro. Ma qualcosa è rimasto e può sempre funzionare. Qualche lista di nomi circola sott’acqua. E Trump lo sa.

Per quello Stato in Medioriente, pure in progressiva decadenza e alienazione rispetto al mondo, è ancora una ciambella di salvataggio.