Non
solo RAI, La7, Mediaset
La
BBC, magistra informationis, che mi avviò, con notevole rigore e
ricchezza di istruzioni, al mestiere che da quegli anni ’60 cerco di praticare,
quanto meno con integrità, è sotto schiaffo. Uno schiaffone non da poco,
somministrato nientemeno che da oltre un centinaio di suoi giornalisti, alcuni
tra i più prestigiosi e da più di 300 professionisti del reparto audiovisivo.
Il documento, pubblicato su tutti i media, denuncia dell’augusta “Auntie”
(zia, come la si chiama da sempre) le indecenti manipolazioni, falsità,
distorsioni, gli occultamenti. Il tutto sotto il titolo “Disinformazione
sistematica dell’informazione BBC sul conflitto israelo-palestinese e,
specificamente, su Gaza”.
I
rimproveri, a volte dure proteste, mirati personalmente al direttore generale
Tim Davie e che chiedono le dimissioni di Sir Robbie Gibb, Consiglier
d’Amministrazione e già capo delle Comunicazioni del governo tory di Theresa
May, parlano di strutturale faziosità filo-israeliana e filoccidentale, di
censure editoriali, pressioni interne e silenziamento delle voci fuori dal
coro, con minacce di rappresaglie a chi non sta agli “ordini di servizio”.
“Ci
hanno negato il nostro lavoro di giornalisti. Ci hanno censurato articoli
critici di Israele. Si pretende da noi una neutralità che in realtà si traduce
nell’invisibilizzazione della sofferenza dei palestinesi e della loro
resistenza”, dichiara il testo. Con particolare indignazione viene poi
menzionata la cancellazione del documentario “Medici sotto attacco”, che
documenta le distruzioni e stragi israeliane di tutti gli ospedali di Gaza.
Il
documento, che solo un’allucinazione potrebbe immaginare ripetuto dai
giornalisti e dipendenti del nostro servizio pubblico e magari indirizzato
anche a Enrico Mentana, così conclude: “Siamo collassati in termini dei
nostri tradizionali standard deontologici. Non stiamo informando con
correttezza e contesto, né rappresentando le vittime palestinesi con umanità.
Si priorizza la protezione di Israele da qualsiasi critica piuttosto che
riferire la verità”. E, con riferimento alle differenze di valutazione
degli eventi d’Ucraina rispetto a quelli in Palestina:” Perché utilizziamo
termini come “massacro” o “crimine di guerra” per gli uni e non per gli altri?
Perché la voce dei palestinesi viene sistematicamente presentata come sospetta?
Attingendo
alle stesse fonti e formulando interpretazioni basate sulla stessa linea
politico-editoriale, si può estendere la denuncia della narrazione BBC su Gaza
a quasi tutta l’informazione generalista in Europa e nell’Occidente politico.
Basti pensare che Hamas, movimento di liberazione, è sulla lista delle
organizzazioni terroristiche. Israele no. E neppure gli USA. E neppure i
fascisti italiani. Con, tuttavia, elementi in controtendenza che si sono potuti
manifestare e, in alcune occasioni, anche imporre, grazie alla sicumera
editoriale dei disinformatori, che gli ha fatto commettere peccati di
avventatezza e faciloneria.
Il
vero e il falso delle Mille e una giornate mediorientali
E’
il caso, ancora poco evidenziato, della Resistenza delle organizzazioni
militanti e combattenti in Cisgiordania e, soprattutto, a Gaza, ma anche dei
missili che a Israele arrivano dallo Yemen, e che colpiscono porti e complessi
industriali, e dei colpi a mercantili diretti a Israele (vedi qui
l’affondamento del cargo greco “Magic Seas” nei giorni scorsi, di cui gli
yemeniti hanno poi tratto in salvo l’equipaggio).
Ma
è soprattutto il caso della “guerra dei 12 giorni” di Trump e Netaniahu,
trasformata da debacle strategica in epopea sion-statunitense. Le iniziali
narrazioni, diffuse a trombe spiegate più dal bimbominchia Trump che dal suo
più cauto ed esperto compare di Tel Aviv, a costante rischio di sputtanamento
agli occhi di una popolazione insofferente, sono già state rosicchiate da
risonanti voci dal sen fuggite e pubblicate da media impertinenti qua e là.
Vale
la pena riassumere in un breve elenco quanto tra immagini satellitari, media
israeliani come “Times of Israel”, o “Haaretz”, autorevoli
quotidiani pur nettamente filo-atlantici e filo-israeliani, come “The
Telegraph”, ammissioni dei Servizi Segreti del Pentagono (DIA) e persino la
rete Starlink, hanno documentato, a dispetto del divieto di fotografare e
riprendere, che il governo di Netanayahu impone ai cronisti. Del resto, perfino
lo stesso Donald Trump aveva parlato “di danni senza precedenti inflitti a
Israele”.
E’
lo stesso Trump che, peraltro, aveva scrupolosamente taciuto su quanto i
missili iraniani avevano fatto alla più grande base USA in Medioriente, Al
Udeid, in Qatar. Immagini satellitari, diffuse anche da Associated Press, hanno
rilevato la scomparsa di una cupola geodesica (adibita allo studio delle
modificazioni della crosta terrestre) subito dopo il raid. Al posto della
struttura, chiamata Radome, che conteneva il cuore dei sistemi di comunicazioni
militari utilizzati dalle forze statunitensi, i satelliti rilevavano uno
spiazzo vuoto.
E,
come ciliegina sulla torta è arrivato il racconto del Pulitzer, Seymour Hersh,
su ciò che effettivamente era stato fatto alle centrali nucleari iraniane, per
le quali già la DIA, su dati ottenuti dal CENTCOM, Comando Centrale delle FFAA
USA, aveva ammesso che nessuna distruzione completa era riuscita. E Hersh è
quello, inoppugnabile, del massacro di Mi Lay in Vietnam e del Nord Stream
fatto saltare dagli USA nel Baltico (altro che “Panfilo ucraino”!).
Detto
ciò che hanno subito le tre centrali iraniane di Fordow, Natanz e Isfahan,
dove, secondo DIA e Hersh e ovviamente gli iraniani, nessuna delle celebrate
Bunkerbusters, sganciate dai superbombardieri B-2 Spirit è riuscita
a perforare la roccia fino alla profondità utile di 80 metri e quindi a
distruggere le centrifughe e i reattori adibiti all’arricchimento dell’uranio.
Uranio che, a detta ormai di tutti, era stato allontanato e messo al sicuro
nelle settimane precedenti ai raid. Secondo Hersh, il programma nucleare
iraniano non è stato annientato, ma soltanto ritardato nel tempo.
Va
precisato che tale programma, in tutti gli anni dal 2018, quando Trump rescisse
l’accordo USA-Iran sull’arricchimento dell’uranio a fini civili, non aveva mai
previsto l’arricchimento oltre la soglia del 60%, quando per la bomba atomica,
del resto bandita in perpetuo dalla massima autorità iraniana, ne occorre il
90%. A questo proposito va ricordata un’altra fenomenale sola a
demolizione della credibilità del premier israeliano. Ne parliamo dopo.
Cosa
i missili iraniani hanno colpito in Israele
Secondo
le fonti citate sopra, confermate dalle immagini satellitari, questi i più
rilevanti obiettivi distrutti o danneggiati durante i 10 giorni di lanci di
missili e droni iraniani, in gran parte passati attraverso le difese antiaeree
israeliane e USA di Patriot e Iron Dome.
- Il complesso militare e
dell’intelligence di Kirya, detto il “Pentagono israeliano”.
- L’Istituto Weizman delle
Scienze, che partecipa al programma nucleare.
- Il Quartiere Generale
dell’Intelligence Militare a Herzliya, con i centri di spionaggio delle unità
d’élite 2800, 504 e 9900.
- Il quartiere generale
operativo del Mossad.
- Le basi aeree di Nevatim e
Tel Nof, che ospitano gli F-15 e gli F-35 e i centri di comando delle Forze di
Difesa Israliana a Tel Aviv e Haifa.
- La raffineria di Bazan a
Haifa, il più grande centro di trattamento di carburanti del paese.
- Una megacentrale elettrica
ad Ashdod
- Il complesso Rafael di
Sistemi di Difesa Avanzati, a nord di Haifa.
- La zona industriale di
Kiryat Gat, centro di produzione di microprocessori e di equipaggiamento
militare ad alta tecnologia.
- Il Parco Tecnologico
Avanzato di Gav-Yam, nei pressi di Beersheba.
Nel
corso di questi attacchi non sono morte che 28 persone, mentre i bombardamenti
israeliani sull’Iran hanno determinato 600 vittime, oltre a quelle a cui si è
mirato direttamente a livello di dirigenze scientifiche e militari.
A
Gaza il mese più letale per Israele
Se
giugno è stato uno dei mesi più nefasti per Israele, lo è stato anche per la
letalità sofferta a Gaza negli scontri con i combattenti di Hamas e della Jihad
Islamica. Tra gli episodi più recenti quelli di un ordigno esploso in una casa
a Khan Yunis perquisita dall’IDF i cui 6 soldati israeliani sono morti e altri
14 sono rimasti feriti e, il 23 giugno, l’attacco di un singolo combattente
palestinese a un blindato israeliano sul quale è salito e vi ha introdotto una
granata che avrebbe ucciso l’intero equipaggio di 7. Ce ne occupiamo dopo.
L’informazione
palestinese sugli episodi di guerra combattuta è carente. Per ragioni diverse,
sia in patria, che nella diaspora. In quest’ultima si preferisce evidenziare lo
sterminio e le atrocità subite dalla popolazione civile, elementi tragici ritenuti
più propizi alla formazione di solidarietà per le vittime e della condanna
dello Stato occupante. Per notizie sulla guerra combattuta valgono
testimonianze dirette, la prestigiosa agenzia araba in Libano Al Mayadeen,
parzialmente Al Jazeera del Qatar e la piattaforma internazionale “Resumen” che
opera dall’Argentina. Oltre a fonti mediatiche israeliane, residui di
democrazia, che non si attengono rigorosamente ai diktat di discrezione.
E’
rigido costume dell’informazione politica israeliana minimizzare perdite,
carenze, danni subiti, arretramenti. Serve a mantenere alto il morale di una
popolazione che, a forza di missili iraniani, libanesi, yemeniti, iracheni e da
Gaza, sono anni che deve rifugiarsi nei bunker al suono delle sirene e, dunque,
vivere in condizioni di insicurezza sistematica. E quanto possa essere
destabilizzante psicologicamente il ricorrente urlo delle sirene, me lo ricordo
bene dalle esperienze tra il 1940 e il 1945.
E
se lo ricordano i 10.000 israeliani emigrati in Grecia a partire dal 7 ottobre
della mattanza IDF e gli altri 80.000 partiti per rientri nei vari paesi
d’origine.
Una
cifra fornita dall’IDF prima del mese di giugno, parlava di 438 tra soldati e
ufficiali caduti a Gaza. Osservatori che si basano su varie fonti, mediatiche,
di intelligence, anche famigliari, calcolavano in un migliaio le vittime
israeliane a partire dal 7 ottobre 2023, non comprese quelle morte quel giorno,
civili e militari, a causa del fuoco incrociato nel caotico e improvvisato
intervento di carri armati ed elicotteri contro gli incursori palestinesi e a
seguito dell’adozione della “Dottrina Hannibal” da parte dell’IDF.
Carta
perde carta vince?
Carta
perde, carta vince. E’ il giochino che praticavano qualche decennio fa, in
piazza e vicino alle stazioni, gruppetti di imbroglioni. Chi mescolava e
disponeva le carte, chi si fingeva passante e, ovviamente, vinceva indovinando
la carta giusta. Oggi il mescolamento e la disposizione dell’informazione, con
particolare e cinica perizia sui conflitti, ripete precisamente quel trucco. E
chi solleva le carte dell’informazione perde sistematicamente. Non più soldi,
ma la realtà.
Poi
però ci sono le crepe. Le apre l’eccesso di zelo, la consolidata affermazione
di impunità e irresponsabilità che rende disattenti, il formicolio di rifiuto e
rivolta che si verifica anche nelle società più blindate sul piano mediatico e
del controllo sociopolitico.
Prendiamo
l’esempio di colui che vorrebbe essere considerato il più astuto e impunibile
di tutti: Benjamin Netanyahu. La tracotanza del trentennale premier della
colonizzazione forzata e genocida, simbolo e rompighiaccio del declino di
Israele nel momento in cui ha provato ad esprimere la massima potenza espansiva
bellica, si fa uccidere dal ridicolo.
Un
ridicolo attenuato solo dalla disponibilità mediatica a dimenticare e far
dimenticare. Cosa rimane di credibile, rispettabile, accettabile di un
personaggio, leader tra i grandi, che, scoprendosi ciarlatano e imbonitore, si
è espresso così nel tempo?
1995
a CBS, L’Iran saprà produrre bombe nucleari entro tre, massimo cinque anni
(numeri magici, ora attualizzati per la minaccia di attacco russo). 1996, in
Parlamento, Il tempo sta per scadere. 2006 su Headline Prime: L’Iran
può costruire 25 bombe atomiche l’anno, tra 10 anni ne potrà possedere 250. 2012,
ITB Times, L’Iran c’è molto vicino. Tra sei mesi possederà uranio arricchito
al 90% con cui produrre bombe nucleari. 20212, 67ma Assemblea generale
dell’ONU, Netaniahu disegna una bomba e dice che l’Iran sta passando dal 70%
al 90% di arricchimento dell’uranio, necessario per costruire la bomba. 2015,
Tra poche settimane l’Iran avrà il materiale necessario per creare un
arsenale di bombe nucleari. 2018, CNN, Hanno le competenze per produrre
armi nucleari in pochissimo tempo.
Per
tutto quest’arco di trent’anni di bomba atomica imminente, l’Iran, certificato
dall’AIEA, che conduceva periodiche ispezioni in tutti i centri di ricerca e
produzione nucleare, non arricchiva l’uranio oltre al 3,5%, per salire al 20%
in virtù del trattato concluso con gli USA di Obama e, poi, al 60% , dopo che
Trump aveva annullato il trattato e né USA né l’UE avevano sospeso le sanzioni.
Arricchimenti utili alla produzione di isotopi per la radioterapia del cancro e
di energia elettrica.
Queste
certificazioni dell’agenzia ONU per l’energia atomica venivano rilasciate
quando direttore generale era l’egiziano Mohamed El Baradei, persona corretta e
integra. Il suo successore dal 2019, l’argentino Rafael Grossi, che ha avuto la
stessa libertà di ispezione dei siti e che Tehran ha cacciato dal paese nei
giorni scorsi, si è invece prestato. Il 6 giugno, con intervento chiaramente propedeutico
all’attacco di 4 giorni dopo, senza che nulla fosse mutato nella ricerca
nucleare iraniana, ha ventilato: in Iran “in effetti, si sarebbe vicini all’arricchimento
per la produzione della bomba atomica”. Netanyahu e Trump ringraziano.
E’
genocidio, ma anche guerra con due contendenti
Un
qualsiasi cronista, analista, osservatore, commentatore che sappia dove mettere
il naso e buttare lo sguardo, fuori dal
terreno inquinato dell’informazione atlantica, per sapere cosa sta succedendo
in Medioriente (ma vale anche per il conflitto USA-Russia in Ucraina), sa che a
Gaza si tratta, sì, di genocidio, ma non solo. E, a veder quante notizie siano
disponibili sulle attività militari della Resistenza palestinese nelle sue
varie articolazioni, si chiede quanto debbano essere colmi i cestini nelle redazioni
di coloro che quelle notizie non danno.
E’
una domanda che mi posi quando, inviato di Liberazione a Baghdad durante e dopo
l’aggressione del 2003, confrontai l’uragano di denunce che si abbatterono su
noi per dirci delle armi di informazioni di massa e poi dei trionfi militari
riferiti dagli embedded, e l’assoluto silenzio, sia sul campo di
sterminio in cui l’Iraq andava mutandosi, sia sulla massiccia e capillare
battaglia dei resistenti iracheni. Che si protrasse per almeno otto anni e
inflisse agli occupanti perdite e danni mai resi pubblici. Dopo il 2011 gli
USA, coadiuvati da Israele e da turchi e sauditi, inventarono e allevarono
l’ISIS, o Stato Islamico. Fecero finta di avversarlo, ma lo sostennero con
rifornimenti, per aver la scusa di distruggere nodi strategici, città e
infrastrutture in Iraq e Siria. Vedi le due grandi città in posizioni
strategiche, Raqqa e Mosul.
A
proposito di Mosul e di Kirkuk, centri della regione petrolifera irachena, furono
polverizzati dai bombardamenti USA per assegnarne le macerie ai vassalli curdi,
a garanzia di futuri sfruttamenti. Allora si fece di tutto per oscurare e poi
eliminare dalla Storia quella mai sopita resistenza irachena che si era poi
concretizzata nelle Unità di Mobilitazione Popolare, settore iracheno dell’Asse
della Resistenza patrocinato dall’Iran e comprendente, oltre a Hamas, gli
yemeniti e gli Hezbollah. Furono le UMP, e solo queste, più tardi incorporate
nell’esercito iracheno, a liberare Mosul
Così
capita con i combattenti e i combattimenti della Resistenza palestinese, a Gaza
e, in misura ancora immatura (anche perchè minata dal collaborazionismo
operativo dell’ANP) in Cisgiordania. Operazioni quotidiane, imboscate,
eliminazione con ordigni esplosivi lungo i percorsi, martellamento con mortai,
scontri a fuoco, eliminazione di carri armati e blindati, tra Gaza City e
Rafah, passando per Khan Yunis e Bei Hanoun, di cui nessuna fonte a ovest di
Cipro dà conto.
Casualmente,
anche da media israeliani indisciplinati come Haaretz, o Hadashot
Bezman, o Canale 12, o Yedioth Ahronoth (che parla di
“prezzo troppo alto in vite di soldati, pagato per risultati mancati), balza
all’occhio attento la notizia di 60 soldati israeliani caduti a Gaza negli
ultimi due mesi (Haaretz); o dei 40 militari uccisi o feriti quando l’edificio
che avevano occupato saltò per aria nel quartiere di Al Sheyaiya a Gaza City; o
del tank Merkava dato alle fiamme a Khan Yunis; dei cinque soldati uccisi e dei
14 feriti, del Battaglione Netzah Yehuda, a Beit Hanoun; del soldato morto e dei
tre feriti della Brigata Corazzata Revohot, a nord di Gaza, ammessi dallo
stesso esercito; dei video girati dalla Brigata Al Qassam a Ma’an, a sud di
Khan Yunis, che illustrano l’imboscata a una colonna di veicoli blindati
trasporto truppe e del successivo arrivo di elicotteri a prelevare morti e
feriti.
A
fine giugno, il comando israeliano ammise 438 caduti a Gaza, tra ufficiali e
truppa. Cifra riduttiva secondo la stampa di Tel Aviv.
Queste,
alcune delle operazioni condotte dalla Resistenza nelle due settimane tra fine
giugno e inizio luglio. E l’elenco potrebbe continuare. E forse giustificare
anche i 1.300 suicidi di militari israeliani, denunciati dalla pubblicazione Hadashot
Bezman e i rifiuti opposti al reclutamento da centinaia di riservisti.
In
questo gioco del nascondino rispetto alle perdite subite e rispetto al
fallimento strategico di una guerra dell’esercito più potente della regione,
contro alcune migliaia di guerriglieri, su un’area di 40x12km, che non ha
raggiunto nessuno degli scopi prefissati: conquista del territorio,
cancellazione della Resistenza, svuotamento della Striscia, svolge un ruolo
decisivo l’immagine. Quella di una forza onnipotente, invincibile da 80 anni,
moralmente e materialmente superiore a tutti, di cui non dovrebbe essere
possibile immaginare una sconfitta, il fallimento del progetto. Guai! Guai,
anche per la continuità di un soccorso esterno diplomatico, tattico,
strategico, propagandistico, politico, che potrebbe venir meno alla vista che,
dopotutto, non ne vale la candela.
Terroristi
i partigiani quando sono palestinesi?
E
finchè, nel mondo che osserva e in qualche modo partecipa, si aderisce a questo
modulo e si occulta una lotta di liberazione anticoloniale, antifascista,
antirazzista, che dovrebbe vederci tutti a fianco, sotto la spaventevole
montagna di vittime e sul fondo di un oceano di sangue, Israele e i suoi
complici sono soddisfatti. E’ vero che hanno ammazzato i giornalisti di Gaza a
centinaia, ma le immagini delle vittime, sconvolgenti, ma anche paralizzanti,
le hanno fatte passare. E pour cause: meglio vittime che combattenti. Chi le
vede, si netta la coscienza compatendo e anche genuinamente soffrendo. E
manifesta. Contro il genocidio. Mai per chi lo combatte. Come insegnano gli espulsi dalle università, i
convegnisti cui si nega la sala, i blogger “terroristi” che parlano di Hamas,
l’assenza di cartelli per Hamas nelle manifestazioni, è rischioso.
Da
noi qualcuno è venuto da fuori, è stato definito liberatore e ha sostituito
un’occupazione con un'altra. Ma il riscatto
lo dobbiamo ai partigiani, quando gli italiani hanno cessato di essere vittime. Ce lo siamo
dimenticato? Ogni singolo israeliano che si riconosca nello Stato
dell’Apartheid è un occupante. Terroristi i partigiani quando sono palestinesi?
Al
contrario della metafora di cui sopra, dei biscazzieri della “carta vince carta
perde”, la domanda su chi in questa congiuntura, tra Israele, Palestina, Iran,
Usa, mondo, ha vinto e ha perso, merita una risposta chiara. Ha perso chi si
era proposto certi risultati e non li ha ottenuti (ricordate? Hamas, Gaza,
palestinesi, tutti via, giù il regime degli Ayatollah, distruzione del
potenziale nucleare e missilistico, frantumazione dell’unità nazionale). Vince
chi quei risultati li ha sventati. Poi c’è il piano morale. E lì non c’è
nemmeno discussione.
Disse
il Napoleone degli inizi: “La religione è quella cosa che impedisce ai poveri
di assassinare i ricchi”. Per il tema che abbiamo trattato, qualcun altro ha
detto: “La non-violenza integrale è il disarmo unilaterale che impedisce agli
schiavi di liberarsi dagli schiavisti”.
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