Crisi
Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina…
UNA
LATINOAMERICA A FISARMONICA
Per
semplificare e non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti,
progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi anti-yankee”. Sarebbe
il minimo, ma preziosissimo, sindacale. Usiamo questa qualifica per chi difende
la sovranità e respinge la manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni
tra liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor (ricordate? Pinochet-Cile,
Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori Perù…).
La
rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più
rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle
avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo
indigeno presidente, Evo Morales. Da
presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le
elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione
della legge costituzionale sul tema.
Buoni,
cattivi e così così
Le
due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi
equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la
vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a
Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta
insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte
un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in
Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste,
di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e
Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a
Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.
Appunto,
un aprirsi e chiudersi a fisarmonica. Da un lato, il tentativo di ricuperare la
“normalizzazione totalitaria” degli anni ’70 (e Trump ha subito iniziato,
schiaffeggiando i reprobi con l’inasprimento delle sanzioni); dall’altro la
persistenza di coriacee e importanti aree di contrasto, più o meno coerenti con
le premesse rivoluzionarie. Con la Bolivia in alto mare, sbattuta tragicamente
da venti contrari, abbiamo di qua Venezuela, Nicaragua, usciti integri da una
serie di operazioni colorate e clericali, il Messico di Claudia Sheinbaum,
erede dell’ottimo Obrador, il Brasile ricuperato dal disomogeneo Lula (condanna
“l’invasione” russa), Cuba, Honduras vittorioso sul golpe di Hillary Clinton,
in posizione equivoca (colpo al cerchio colpo alla botte) il Cile di Gabriel
Boric, ex-leader studentesco.
Sul
fronte opposto c’è il disastro argentino dell’”anarcocapitalista” Xavier Milei,
intimo di Trump e Netaniahu e gradito molto per analogie ideologiche (visti i
recenti abbracci), nel suo piccolissimo, da Giorgia Meloni e compari. Ha appena
fatto condannare dalla Corte Suprema a 6 anni di prigione Christina Kirchner
che, col marito che l’aveva preceduta alla presidenza, ha dato all’Argentina
due quadrienni di sovranità e decenza sociale.
Poi
competono per essere i più volenterosi amici yankee, paesi di recente golpe o
manipolazione elettorale, o definitivamente in marcia sotto le stelle e
strisce: Ecuador, Perù, Salvador, Paraguay, Guatemala, Panama (il cui Canale è
stato recentemente comprato da Blackrock).
Merita
una menzione particolare, nei Caraibi in varia misura neocolonizzati, la
disgraziata Haiti, primo popolo nero a ribellarsi al dominio francese, con
Tussaint Louverture, a cavallo di ‘700 e ‘800. Assoggettata dagli USA per
punizione di quell’offesa ai bianchi, affidata a una dinastia di brutali
dittatori, i Duvalier (che, tra parentesi ospitavano, come anche il dittatore
Somoza del Nicaragua, la da poco canonizzata Madre Teresa), Haiti seppe
riscattarsi con Jean Bertrand Aristide, ex-sacerdote salesiano. Nelle prime
elezioni democratiche, 1991, fu eletto presidente; poi di nuovo 1994-1996 e
2001-2004, quando venne rimosso dal solito golpe yankee, esiliato in Sudafrica
e Haiti tornò quella di prima.
Il
controllo yankee su una popolazione che aveva dato pericolosi segni di volere e
sapere decidere il proprio destino, preferì l’opzione caos, su modello ISIS, o delle
bande criminali installate dai distruttori della Libia a Tripoli. Si
allestiscono gang di maras e pandillas a spargere terrore e
intimidazione, da elezioni che nessuno controlla spuntano via via presidenti
che durano l’espace d’un matin. Spedizioni ONU di peacekeeping,
prima con brasiliani, poi con kenioti, che aggiungono le proprie violenze e i
propri saccheggi, vengono presto sopraffatte dal mercenariato criminale del
neocolonialismo. Fine del discorso, per adesso.
Mentre
l’Honduras, la cui dirigenza antimperialista di Manuel Zelaya era stata
eliminata da un golpe, con il non inconsueto aiuto dei Servizi israeliani, ha
ricuperato la sua sovranità vincendo le elezioni con Xiomara Castro, moglie del
presidente spodestato, Manuel Zelaya, che aveva inserito il paese nel fronte
antimperialista dell’ALBA, creato da Ugo Chavez.
Era
il 2009 ed ero lì. Consentitemi un ricordo: l’incredibile resistenza di massa
del popolo honduregno che, giorno dopo giorno, ho visto organizzarsi, scendere
dalle colline della periferia e assediare l’ambasciata USA, solo per essere
sistematicamente aggredito, gasato, pestato, ferito, anche ucciso, dal regime
dei golpisti. Ricordo che, fuggendo da una carica, passo accanto a una scuola
di elementari e media. Mentre ancora riecheggiano spari e lanci di gas, dalle
finestre scende in strada un coro: bambini che cantano “El pueblo unido,
jamas serà vencido”. Era l’inno che accompagnò la lotta contro
Pinochet. Lo racconto nel documentario “ Il ritorno del Condor”.
Non
ho menzionato, nell’elenco dei “bravi e resistenti”, la Colombia, da poco
entrata nello schieramento antimperialista, unico paese integralmente NATO
fuori dall’Europa. Nelle elezioni del 2022, finalmente oneste, viene eletto Gustavo
Francisco Petro Urrego, un economista e politico colombiano con cittadinanza
italiana. Petro, leader del partito Colombia Humana, è Presidente della
Colombia dal 7 agosto 2022 ed è sopravvissuto a diversi tentativI di assassinio.
Tra i suoi atti “eversivi”, oltre alla pressante richiesta a Washington di
chiudere le basi, la rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, definito
Stato Genocida, il riconoscimento della Palestina, con contemporanea promessa
di uscita dalla NATO, di appena pochi giorni fa.
Ovviamente
l’impero non è rimasto inattivo. A Petro è rimasta la funesta eredità delle
precedenti presidenze vassalle di Alvaro Uribe e della sua copia sbiadita, Juan
Manuel Santos: la peggiore criminalità organizzata narcotrafficante
dell’America Latina e relative bande armate (con stretti legami a Cosa Nostra,
‘ndrangheta e, quindi, allo Stato italiano), la CIA, Pentagono e ONG come USAID.
Questo radicato potere, confortato da tolleranza e complicità degli USA di cui
alimenta le banche, va facendosi in quattro per ricuperare la per loro
fondamentale “Israele latinoamericana”. E per sabotare l’amicizia, risalente a
Bolivar e ora ristabilita da Petro, tra i due vicini che guardano a Nord,
Colombia e Venezuela, forte attrazione per le ex-repubbliche delle banane
all’Alleanza antimperialista ALBA, si moltiplicano incursioni, infiltrazioni e
attentati alle infrastrutture venezuelane di quelle stese milizie.
Casi
di “recuperi Condor” dei gringos, recenti e significativi, a difesa delle
rispettive posizioni strategiche nei paesi in questione, sono l’Ecuador e il
Perù. Il primo, dove si trova la più grande base USA del continente, già
liberatosi dai cappi imperialisti, aveva vissuto un periodo di orgoglio, equità
sociale, ricupero di sovranità e libera scelta di relazioni, con Rafael Correa,
presidente dal 2007 al 2017. Una successione di presidenti usciti dalle solite
manipolazioni, di cui alcuni risultati anche mentalmente instabili, era stata
messa in crisi da una potente sollevazione popolare, chiamata “Revolucion
Ciudadana” e aveva creato le condizioni per la vittoria di Correa.
Due
volte è poi diventato presidente restauratore Daniel Noboa, grosso imprenditore
del giro di Guayaquil, santuario dell’élite ecuadoriana, in fruttuosi rapporti
con gli USA. Dall’ultima tornata, esce vincitore di pochissimo sulla deputata
Luisa Gonzales, collaboratrice di Correa e leader della sempre viva Revolucion
Ciudadana. Tutti i sondaggi della vigilia davano per prevalente la Gonzales,
che continua a utilizzare strumenti giuridici per mettere in questione il
risultato, Ovviamente, Noboa ha rifiutato il riconteggio chiesto
dall’avversaria.
Resta
da dire brevemente del Perù, altro paese dalle ricche risorse e, dunque, dal
peso economico significativo: Di conseguenza golpizzato, anche per la sua
posizione strategica incastonata tra due entità non care agli USA, il Venezuela
di Nicolàs Maduro e il Brasile.di Lula, recentemente molto attivo ospite del
vertice, a Rio de Janeiro, della coalizione dei BRICS. Pedro Castillo,
indigeno, presidente per 18 mesi tra 2021 e 2002, era il solito candidato
elettorale che non avrebbe dovuto vincere. Nel dicembre del 2022, fallisce un
tentativo di impeachment, a seguito del quale il parlamento si scioglie, non
senza aver prima proclamato la decadenza del presidente, averlo arrestato e
gettato in prigione. Dove è rinchiuso tuttora.
Dopo
essersi consultata con il generale Laura Richardson, capo del Comando Sud degli
USA, da quel che rimane del parlamento si fa nominare presidente Dina Boluarte,
ex vice di Castillo. Al golpe rispondono per mesi mobilitazioni di massa da
tutti gli angoli del paese, eminentemente della maggioranza indigena, che
vengono violentemente represse. Dal carcere, Castillo rinnova la condanna della
cricca golpista, tra l’altro appoggiata anche dai Fujimori, dei quali aspira
ancora al potere Keiko Sofia, figlia del despota Alberto, presidente dal 1990
al 2000. Fujimori, di origine giapponese, fu responsabile di numerosi massacri,
con particolare ferocia dei militanti rivoluzionari di Sendero Luminoso.
Condannato per crimini contro l’umanità, morto in prigione, pianto da
Washington.
Bolivia,
chi l’acqua l’ha vinta e ne ha tratto una rivoluzione
E
con questo arriviamo al nodo più problematico e sconcertante, la Bolivia. Il
paese che agli inizi del millennio provò a uscire dalla sudditanza e dal
sottosviluppo originato dallo sfruttamento selvaggio delle sue risorse (gas
naturale, litio e minerali metallici come argento, oro, stagno, zinco e piombo,
oggi litio) da parte degli Stati Uniti, è lacerato da una dura, a volte
violenta, contrapposizione tra forze e personaggi.
La
storia della Bolivia rischia ancora una volta di cambiare di direzione. E’ lo
svincolo non è verso destinazioni migliori nel senso che farebbe bene ai suoi
abitanti, indigeni, ispanici e creoli, che, dopo precedenti storici segnati dal
Condor nordamericano, per vent’anni hanno assaporato sovranità, eguaglianza,
riscatto sociale e liberazione dal controllo Yankee.
Tutto
esplode al cambio dei millenni, con la “Guerra dell’acqua”, da cui, sei anni
dopo, sorgono il MAS, “Movimiento al Socialismo” e la presidenza
rivoluzionaria dell’indigeno Evo Morales. Vale la pena dare un veloce sguardo a
questa epopea di un popolo in lotta.
“La
guerra dell’acqua” da noi segna, col referendum, la vittoria del popolo nella
lotta per il bene fondamentale della vita. Ma segna anche, quasi da subito, la
riappropriazione da parte di coloro che vantano la prelazione su beni e diritti
e di leggi e costituzione se ne infischiano. In Bolivia, il cui popolo nell’occasione
ha acquisito coscienza di sé e della sua forza, la guerra dura due anni, costa
battaglie, morti e feriti, ma, forse per questo, è vinta per sempre.
Su
raccomandazione della Banca Mondiale, nel giugno 1999, il Parlamento boliviano,
sotto stretta osservanza di Washington, approva la “Legge sull’acqua e sul
servizio fognario” che privatizza l’acqua e la mette in mano al consorzio
multinazionali Agua de Tunari, dietro alla quale, dal paradiso fiscale
delle Cayman, spunta il colosso USA Bechtel. Sistemi alternativi della raccolta
dell’acqua, anche piovana, sono vietati. Il prezzo dell’acqua potabile è
quadruplicato.
Passano
quattro mesi di preparazione e contadini e tribù indigene di tutto il paese,
rifiutando una vera e propria estinzione, che la legge avrebbe comportato, bloccano
l’accesso a Cochabamba e nel gennaio 2000 organizzano un blocco regionale. Il
regime tiene duro e, a marzo, si apre la battaglia finale. 50mila persone
invadono Cochabamba, fulcro dello scontro, il governo di Ugo Banzer dichiara lo
stato d’assedio e ne conseguono scontri nei quali polizia ed esercito uccidono
decine di persone. La piazza non molla e il 10 aprile 2000 il regime è
costretto ad annunciare l’annullamento del contratto. Nelle piazze si sente
l’urlo: “El agua es nuestro, carajo!”
Non
è un fuoco di paglia. Consapevole che si può vincere, il popolo avanza. Nasce
il MAS e nel 2006, con Evo Morales, capo
dei cocaleros e con il concorso di contadini, minatori, operai, società urbana,
trionfa nelle elezioni. Nei primi lustri tutto va per il meglio: La Bolivia si
affianca al Venezuela, al Nicaragua e a Cuba nel solco della rivoluzione
bolivariana. Riforme e nazionalizzazioni, alfabetizzazione, riduzione della
povertà dal 35 al 15%, reti idriche, elettriche e di telecomunicazioni,
un’assicurazione sanitaria universale. L’aspettativa di vita passa da 56 a 71
anni. Una luce nel continente post Condor. Ma un campanello d’allarme è il
tentato golpe militare del 2016, che sfrutta uno scontento fin qui sopito, ma
diffuso, di cui parleremo.
Da
salvatore della patria a caudillo
Proprio
per vedere l’evoluzione della Bolivia con le sue ricadute dalla Guerra
dell’acqua, nel 2006 sono a La Paz, nella sede del Movimento al Socialismo, per
intervistarne il leader, imminente capo dello Stato. E’ stata un’intervista
frettolosa. Evo Morales, sotto assedio di troppi raccoglitori del suo verbo,
risponde a spizzichi e bocconi: lo Stato binazionale da mettere in piedi, ricuperando
la società indigena da sempre esclusa a favore dei ricchi feudatari bianchi di
Santa Cruz, nel sudest; una scuola e una sanità tutta da sviluppare e sottratta
ai padroni del privato; il regolamento dei conti con gli yankee, con la
riappropriazione delle risorse, gas in testa, l’annullamento della presa
economica strozzina delle multinazionali
e la rimozione della camicia di forza delle presenze e basi militari USA.
E
questo diventa veramente il cammino della nuova Bolivia. Che però, con l’eccessiva
concentrazione dei poteri, politici, civili, sindacali, imprenditoriali, nelle
mani del presidente e della sua squadra, sempre più un cerchio magico, perde
slancio, convinzione e risultati.
Nel
2016, Morales propone di ricandidarsi per un terzo mandato, contro il dettato
della Costituzione. Ne chiede l’avallo in un referendum, che perde. Ma sfida il
voto e il dettato della Carta e si fa esonerare dal divieto da un tribunale
elettorale apposito. La conseguente, graduale, perdita di consenso popolare
rivelatasi nel referendum, offre l’occasione del sovvertimento alla mai
rassegnata élite filo-USA, con alla guida Fernando Camancho, ras di Santa Cruz,
che riesce a reclutare anche elementi dell’esercito. Nel novembre del 2019, su
questi presupposti, scatta il colpo di Stato e la senatrice Janine Nanez (ora
in carcere per 10 anni), del Partito di destra Unidad Democratica, viene posta
sul più alto scranno dello Stato-
Si
può datare l’inizio della fine per l’indiscutibile protagonista del riscatto
boliviano, al tentativo anticostituzionale di farsi eleggere per un terzo
mandato. Ma la fine, non dichiarata, percepita da seguaci e oppositori, è
segnata dall’immediata fuga di Morales, nelle ore del golpe, in Messico e poi
in Argentina, quando i suoi compagni di partito e di governo restano ad
affrontare 24 mesi di scontri con una popolazione irriducibile, brutali
repressioni, massacri, torture, prigioni.
L’8
novembre dell’anno dopo, la resistenza popolare costringe i golpisti alla resa.
Pensano di salvarsi con nuove elezioni, che però sono vinte a larga maggioranza
da Luis Arce, fedelissimo di Evo e suo sagace ministro dell’economia per tutta
la durata del miracolo economico boliviano. Morales rientra e prova a ricuperare
onore e seguito compromessi.
Seguono
anni in cui la stretta intesa tra Evo e Arce si trasforma in rivalità e
accanita guerra del secondo al primo, le organizzazioni e i partiti che avevano
sostenuto il fondatore della nuova Bolivia si spaccano in fazioni contrapposte.
Evo prova a forzare la mano mobilitando la propria base di cocaleros a
Cochabamba e nel Chaparè, con ripetute marce sulla capitale, blocchi stradali,
scontri con la polizia, che sconvolgono il paese e determinano una profonda
crisi economica.
Episodio
particolarmente squalificante è un incidente con la polizia. Con la sua e
un’altra macchina del seguito, in viaggio da Cochabamba per andare ad assediare
La Paz, la comitiva di Evo viola un posto di blocco antinarcotraffico e,
inseguita dagli argenti, apre il fuoco. Morales dirà di essere stato aggredito,
ma le foto mostrano una macchina crivellata di colpi. Quella della polizia.
Siamo
all’oggi e alle elezioni del 17 agosto. Luis Arce se ne è elegantemente tirato
fuori “nel nome dell’unità delle sinistre”, Alla presidenza si candida
Andronico Rodriguez, 36 anni, presidente del Senato, cocalero come Evo, suo
fedelissimo compagno e, come lui un tempo, sostenuto da una settore che va
oltre la sua base sociale ed etnica. I sondaggi lo danno in testa.
Morales
non si rassegna. I suoi sparano calunnie e accuse di tradimento. Nelle ultime
settimane, rinnova gli attacchi a coloro che sono diventati suoi avversari o,
quanto meno, competitori. Mai rassegnato, si candida a un quarto mandato
presidenziale, con una nuova formazione politica, molto personalistica: “Evo
Pueblo”. La quale manca dei presupposti giuridici per potersi iscrivere alla
competizione. Alla negazione dell’iscrizione, Morales con i suoi cerca di
invadere e occupare il Tribunale Supremo Elettorale. Viene respinto.
La
situazione è questa. La buona sorte del gentile e nobile popolo, nelle sue
articolazioni etniche quechua e aymara, è appesa al filo della stabilizzazione
che ci si augura come risultato delle prossime elezioni. Ma è buona, la sorte,
perchè rafforzata dalla debolezza della classe sociale e politica che per
lunghi decenni aveva messo il paese all’incanto e il cui maldestro golpe, con
conseguente rivolta di popolo, reminiscente della gloriosa Guerra dell’acqua,
parrebbe averla messa fuorigioco. Almeno per un po’.
A
chi il litio?
Resta
da dire di un convitato di pietra. Nessuno ne parla, per quanto sia molto
probabile che si muova nell’ombra delle intenzioni dei contendenti e, di più,
susciti formidabili appetiti in attori esterni. Ha la forma e l’estensione di
un enorme lago salato: è una delle più grande riserva di litio del mondo – la
terra rara più preziosa di tutte –parzialmente condivisa da Argentina e Cile.
Luis Arce ha gestito la nazionalizzazione di estrazione, produzione,
distribuzione, sotto il secondo mandato di Morales. Ai cinesi la cura delle
infrastrutture tecnologiche.
Amo
questo paese, generoso, pieno di colori e dignità. L’ho percorso in lungo e in
largo, non omettendo di rendere omaggio, a la Higuera, a colui che qui concluse
una vita rispetto alla quale ci sentiamo tutti molto piccoli: Che Guevara,
fonte d’amore e di fiducia.
La
mia America Latina sta in questi docufilm: Americas Reaparecidas, L’asse
del bene, Il ritorno del Condor, El camino del Sol, Angeli
e demoni nel laboratorio dell’Impero.
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