mercoledì 30 luglio 2025

Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina… UNA LATINOAMERICA A FISARMONICA

 

Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina…

UNA LATINOAMERICA  A FISARMONICA

 

Per semplificare e non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti, progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi anti-yankee”. Sarebbe il minimo, ma preziosissimo, sindacale. Usiamo questa qualifica per chi difende la sovranità e respinge la manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni tra liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor (ricordate? Pinochet-Cile, Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori Perù…).

La rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo indigeno presidente, Evo Morales.  Da presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione della legge costituzionale sul tema.

Buoni, cattivi e così così

Le due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste, di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.

Appunto, un aprirsi e chiudersi a fisarmonica. Da un lato, il tentativo di ricuperare la “normalizzazione totalitaria” degli anni ’70 (e Trump ha subito iniziato, schiaffeggiando i reprobi con l’inasprimento delle sanzioni); dall’altro la persistenza di coriacee e importanti aree di contrasto, più o meno coerenti con le premesse rivoluzionarie. Con la Bolivia in alto mare, sbattuta tragicamente da venti contrari, abbiamo di qua Venezuela, Nicaragua, usciti integri da una serie di operazioni colorate e clericali, il Messico di Claudia Sheinbaum, erede dell’ottimo Obrador, il Brasile ricuperato dal disomogeneo Lula (condanna “l’invasione” russa), Cuba, Honduras vittorioso sul golpe di Hillary Clinton, in posizione equivoca (colpo al cerchio colpo alla botte) il Cile di Gabriel Boric, ex-leader studentesco.

Sul fronte opposto c’è il disastro argentino dell’”anarcocapitalista” Xavier Milei, intimo di Trump e Netaniahu e gradito molto per analogie ideologiche (visti i recenti abbracci), nel suo piccolissimo, da Giorgia Meloni e compari. Ha appena fatto condannare dalla Corte Suprema a 6 anni di prigione Christina Kirchner che, col marito che l’aveva preceduta alla presidenza, ha dato all’Argentina due quadrienni di sovranità e decenza sociale.

Poi competono per essere i più volenterosi amici yankee, paesi di recente golpe o manipolazione elettorale, o definitivamente in marcia sotto le stelle e strisce: Ecuador, Perù, Salvador, Paraguay, Guatemala, Panama (il cui Canale è stato recentemente comprato da Blackrock).

Merita una menzione particolare, nei Caraibi in varia misura neocolonizzati, la disgraziata Haiti, primo popolo nero a ribellarsi al dominio francese, con Tussaint Louverture, a cavallo di ‘700 e ‘800. Assoggettata dagli USA per punizione di quell’offesa ai bianchi, affidata a una dinastia di brutali dittatori, i Duvalier (che, tra parentesi ospitavano, come anche il dittatore Somoza del Nicaragua, la da poco canonizzata Madre Teresa), Haiti seppe riscattarsi con Jean Bertrand Aristide, ex-sacerdote salesiano. Nelle prime elezioni democratiche, 1991, fu eletto presidente; poi di nuovo 1994-1996 e 2001-2004, quando venne rimosso dal solito golpe yankee, esiliato in Sudafrica e Haiti tornò quella di prima.

Il controllo yankee su una popolazione che aveva dato pericolosi segni di volere e sapere decidere il proprio destino, preferì l’opzione caos, su modello ISIS, o delle bande criminali installate dai distruttori della Libia a Tripoli. Si allestiscono gang di maras e pandillas a spargere terrore e intimidazione, da elezioni che nessuno controlla spuntano via via presidenti che durano l’espace d’un matin. Spedizioni ONU di peacekeeping, prima con brasiliani, poi con kenioti, che aggiungono le proprie violenze e i propri saccheggi, vengono presto sopraffatte dal mercenariato criminale del neocolonialismo. Fine del discorso, per adesso.

Mentre l’Honduras, la cui dirigenza antimperialista di Manuel Zelaya era stata eliminata da un golpe, con il non inconsueto aiuto dei Servizi israeliani, ha ricuperato la sua sovranità vincendo le elezioni con Xiomara Castro, moglie del presidente spodestato, Manuel Zelaya, che aveva inserito il paese nel fronte antimperialista dell’ALBA, creato da Ugo Chavez.

Era il 2009 ed ero lì. Consentitemi un ricordo: l’incredibile resistenza di massa del popolo honduregno che, giorno dopo giorno, ho visto organizzarsi, scendere dalle colline della periferia e assediare l’ambasciata USA, solo per essere sistematicamente aggredito, gasato, pestato, ferito, anche ucciso, dal regime dei golpisti. Ricordo che, fuggendo da una carica, passo accanto a una scuola di elementari e media. Mentre ancora riecheggiano spari e lanci di gas, dalle finestre scende in strada un coro: bambini che cantano “El pueblo unido, jamas serà vencido”. Era l’inno che accompagnò la lotta contro Pinochet. Lo racconto nel documentario “ Il ritorno del Condor”.

Non ho menzionato, nell’elenco dei “bravi e resistenti”, la Colombia, da poco entrata nello schieramento antimperialista, unico paese integralmente NATO fuori dall’Europa. Nelle elezioni del 2022, finalmente oneste, viene eletto Gustavo Francisco Petro Urrego, un economista e politico colombiano con cittadinanza italiana. Petro, leader del partito Colombia Humana, è Presidente della Colombia dal 7 agosto 2022 ed è sopravvissuto a diversi tentativI di assassinio. Tra i suoi atti “eversivi”, oltre alla pressante richiesta a Washington di chiudere le basi, la rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, definito Stato Genocida, il riconoscimento della Palestina, con contemporanea promessa di uscita dalla NATO, di appena pochi giorni fa.

Ovviamente l’impero non è rimasto inattivo. A Petro è rimasta la funesta eredità delle precedenti presidenze vassalle di Alvaro Uribe e della sua copia sbiadita, Juan Manuel Santos: la peggiore criminalità organizzata narcotrafficante dell’America Latina e relative bande armate (con stretti legami a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e, quindi, allo Stato italiano), la CIA, Pentagono e ONG come USAID. Questo radicato potere, confortato da tolleranza e complicità degli USA di cui alimenta le banche, va facendosi in quattro per ricuperare la per loro fondamentale “Israele latinoamericana”. E per sabotare l’amicizia, risalente a Bolivar e ora ristabilita da Petro, tra i due vicini che guardano a Nord, Colombia e Venezuela, forte attrazione per le ex-repubbliche delle banane all’Alleanza antimperialista ALBA, si moltiplicano incursioni, infiltrazioni e attentati alle infrastrutture venezuelane di quelle stese milizie.

Casi di “recuperi Condor” dei gringos, recenti e significativi, a difesa delle rispettive posizioni strategiche nei paesi in questione, sono l’Ecuador e il Perù. Il primo, dove si trova la più grande base USA del continente, già liberatosi dai cappi imperialisti, aveva vissuto un periodo di orgoglio, equità sociale, ricupero di sovranità e libera scelta di relazioni, con Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017. Una successione di presidenti usciti dalle solite manipolazioni, di cui alcuni risultati anche mentalmente instabili, era stata messa in crisi da una potente sollevazione popolare, chiamata “Revolucion Ciudadana” e aveva creato le condizioni per la vittoria di Correa.

Due volte è poi diventato presidente restauratore Daniel Noboa, grosso imprenditore del giro di Guayaquil, santuario dell’élite ecuadoriana, in fruttuosi rapporti con gli USA. Dall’ultima tornata, esce vincitore di pochissimo sulla deputata Luisa Gonzales, collaboratrice di Correa e leader della sempre viva Revolucion Ciudadana. Tutti i sondaggi della vigilia davano per prevalente la Gonzales, che continua a utilizzare strumenti giuridici per mettere in questione il risultato, Ovviamente, Noboa ha rifiutato il riconteggio chiesto dall’avversaria.

Resta da dire brevemente del Perù, altro paese dalle ricche risorse e, dunque, dal peso economico significativo: Di conseguenza golpizzato, anche per la sua posizione strategica incastonata tra due entità non care agli USA, il Venezuela di Nicolàs Maduro e il Brasile.di Lula, recentemente molto attivo ospite del vertice, a Rio de Janeiro, della coalizione dei BRICS. Pedro Castillo, indigeno, presidente per 18 mesi tra 2021 e 2002, era il solito candidato elettorale che non avrebbe dovuto vincere. Nel dicembre del 2022, fallisce un tentativo di impeachment, a seguito del quale il parlamento si scioglie, non senza aver prima proclamato la decadenza del presidente, averlo arrestato e gettato in prigione. Dove è rinchiuso tuttora.

Dopo essersi consultata con il generale Laura Richardson, capo del Comando Sud degli USA, da quel che rimane del parlamento si fa nominare presidente Dina Boluarte, ex vice di Castillo. Al golpe rispondono per mesi mobilitazioni di massa da tutti gli angoli del paese, eminentemente della maggioranza indigena, che vengono violentemente represse. Dal carcere, Castillo rinnova la condanna della cricca golpista, tra l’altro appoggiata anche dai Fujimori, dei quali aspira ancora al potere Keiko Sofia, figlia del despota Alberto, presidente dal 1990 al 2000. Fujimori, di origine giapponese, fu responsabile di numerosi massacri, con particolare ferocia dei militanti rivoluzionari di Sendero Luminoso. Condannato per crimini contro l’umanità, morto in prigione, pianto da Washington.

 

Bolivia, chi l’acqua l’ha vinta e ne ha tratto una rivoluzione

E con questo arriviamo al nodo più problematico e sconcertante, la Bolivia. Il paese che agli inizi del millennio provò a uscire dalla sudditanza e dal sottosviluppo originato dallo sfruttamento selvaggio delle sue risorse (gas naturale, litio e minerali metallici come argento, oro, stagno, zinco e piombo, oggi litio) da parte degli Stati Uniti, è lacerato da una dura, a volte violenta, contrapposizione tra forze e personaggi.

La storia della Bolivia rischia ancora una volta di cambiare di direzione. E’ lo svincolo non è verso destinazioni migliori nel senso che farebbe bene ai suoi abitanti, indigeni, ispanici e creoli, che, dopo precedenti storici segnati dal Condor nordamericano, per vent’anni hanno assaporato sovranità, eguaglianza, riscatto sociale e liberazione dal controllo Yankee.

Tutto esplode al cambio dei millenni, con la “Guerra dell’acqua”, da cui, sei anni dopo, sorgono il MAS, “Movimiento al Socialismo” e la presidenza rivoluzionaria dell’indigeno Evo Morales. Vale la pena dare un veloce sguardo a questa epopea di un popolo in lotta.

“La guerra dell’acqua” da noi segna, col referendum, la vittoria del popolo nella lotta per il bene fondamentale della vita. Ma segna anche, quasi da subito, la riappropriazione da parte di coloro che vantano la prelazione su beni e diritti e di leggi e costituzione se ne infischiano. In Bolivia, il cui popolo nell’occasione ha acquisito coscienza di sé e della sua forza, la guerra dura due anni, costa battaglie, morti e feriti, ma, forse per questo, è vinta per sempre.

Su raccomandazione della Banca Mondiale, nel giugno 1999, il Parlamento boliviano, sotto stretta osservanza di Washington, approva la “Legge sull’acqua e sul servizio fognario” che privatizza l’acqua e la mette in mano al consorzio multinazionali Agua de Tunari, dietro alla quale, dal paradiso fiscale delle Cayman, spunta il colosso USA Bechtel. Sistemi alternativi della raccolta dell’acqua, anche piovana, sono vietati. Il prezzo dell’acqua potabile è quadruplicato.

Passano quattro mesi di preparazione e contadini e tribù indigene di tutto il paese, rifiutando una vera e propria estinzione, che la legge avrebbe comportato, bloccano l’accesso a Cochabamba e nel gennaio 2000 organizzano un blocco regionale. Il regime tiene duro e, a marzo, si apre la battaglia finale. 50mila persone invadono Cochabamba, fulcro dello scontro, il governo di Ugo Banzer dichiara lo stato d’assedio e ne conseguono scontri nei quali polizia ed esercito uccidono decine di persone. La piazza non molla e il 10 aprile 2000 il regime è costretto ad annunciare l’annullamento del contratto. Nelle piazze si sente l’urlo: “El agua es nuestro, carajo!”

Non è un fuoco di paglia. Consapevole che si può vincere, il popolo avanza. Nasce il MAS  e nel 2006, con Evo Morales, capo dei cocaleros e con il concorso di contadini, minatori, operai, società urbana, trionfa nelle elezioni. Nei primi lustri tutto va per il meglio: La Bolivia si affianca al Venezuela, al Nicaragua e a Cuba nel solco della rivoluzione bolivariana. Riforme e nazionalizzazioni, alfabetizzazione, riduzione della povertà dal 35 al 15%, reti idriche, elettriche e di telecomunicazioni, un’assicurazione sanitaria universale. L’aspettativa di vita passa da 56 a 71 anni. Una luce nel continente post Condor. Ma un campanello d’allarme è il tentato golpe militare del 2016, che sfrutta uno scontento fin qui sopito, ma diffuso, di cui parleremo.

 

Da salvatore della patria a caudillo

 

 

Proprio per vedere l’evoluzione della Bolivia con le sue ricadute dalla Guerra dell’acqua, nel 2006 sono a La Paz, nella sede del Movimento al Socialismo, per intervistarne il leader, imminente capo dello Stato. E’ stata un’intervista frettolosa. Evo Morales, sotto assedio di troppi raccoglitori del suo verbo, risponde a spizzichi e bocconi: lo Stato binazionale da mettere in piedi, ricuperando la società indigena da sempre esclusa a favore dei ricchi feudatari bianchi di Santa Cruz, nel sudest; una scuola e una sanità tutta da sviluppare e sottratta ai padroni del privato; il regolamento dei conti con gli yankee, con la riappropriazione delle risorse, gas in testa, l’annullamento della presa economica strozzina  delle multinazionali e la rimozione della camicia di forza delle presenze e basi militari USA.

E questo diventa veramente il cammino della nuova Bolivia. Che però, con l’eccessiva concentrazione dei poteri, politici, civili, sindacali, imprenditoriali, nelle mani del presidente e della sua squadra, sempre più un cerchio magico, perde slancio, convinzione e risultati.

Nel 2016, Morales propone di ricandidarsi per un terzo mandato, contro il dettato della Costituzione. Ne chiede l’avallo in un referendum, che perde. Ma sfida il voto e il dettato della Carta e si fa esonerare dal divieto da un tribunale elettorale apposito. La conseguente, graduale, perdita di consenso popolare rivelatasi nel referendum, offre l’occasione del sovvertimento alla mai rassegnata élite filo-USA, con alla guida Fernando Camancho, ras di Santa Cruz, che riesce a reclutare anche elementi dell’esercito. Nel novembre del 2019, su questi presupposti, scatta il colpo di Stato e la senatrice Janine Nanez (ora in carcere per 10 anni), del Partito di destra Unidad Democratica, viene posta sul più alto scranno dello Stato-

Si può datare l’inizio della fine per l’indiscutibile protagonista del riscatto boliviano, al tentativo anticostituzionale di farsi eleggere per un terzo mandato. Ma la fine, non dichiarata, percepita da seguaci e oppositori, è segnata dall’immediata fuga di Morales, nelle ore del golpe, in Messico e poi in Argentina, quando i suoi compagni di partito e di governo restano ad affrontare 24 mesi di scontri con una popolazione irriducibile, brutali repressioni, massacri, torture, prigioni.

L’8 novembre dell’anno dopo, la resistenza popolare costringe i golpisti alla resa. Pensano di salvarsi con nuove elezioni, che però sono vinte a larga maggioranza da Luis Arce, fedelissimo di Evo e suo sagace ministro dell’economia per tutta la durata del miracolo economico boliviano. Morales rientra e prova a ricuperare onore e seguito compromessi.

Seguono anni in cui la stretta intesa tra Evo e Arce si trasforma in rivalità e accanita guerra del secondo al primo, le organizzazioni e i partiti che avevano sostenuto il fondatore della nuova Bolivia si spaccano in fazioni contrapposte. Evo prova a forzare la mano mobilitando la propria base di cocaleros a Cochabamba e nel Chaparè, con ripetute marce sulla capitale, blocchi stradali, scontri con la polizia, che sconvolgono il paese e determinano una profonda crisi economica.

Episodio particolarmente squalificante è un incidente con la polizia. Con la sua e un’altra macchina del seguito, in viaggio da Cochabamba per andare ad assediare La Paz, la comitiva di Evo viola un posto di blocco antinarcotraffico e, inseguita dagli argenti, apre il fuoco. Morales dirà di essere stato aggredito, ma le foto mostrano una macchina crivellata di colpi. Quella della polizia.

Siamo all’oggi e alle elezioni del 17 agosto. Luis Arce se ne è elegantemente tirato fuori “nel nome dell’unità delle sinistre”, Alla presidenza si candida Andronico Rodriguez, 36 anni, presidente del Senato, cocalero come Evo, suo fedelissimo compagno e, come lui un tempo, sostenuto da una settore che va oltre la sua base sociale ed etnica. I sondaggi lo danno in testa.

Morales non si rassegna. I suoi sparano calunnie e accuse di tradimento. Nelle ultime settimane, rinnova gli attacchi a coloro che sono diventati suoi avversari o, quanto meno, competitori. Mai rassegnato, si candida a un quarto mandato presidenziale, con una nuova formazione politica, molto personalistica: “Evo Pueblo”. La quale manca dei presupposti giuridici per potersi iscrivere alla competizione. Alla negazione dell’iscrizione, Morales con i suoi cerca di invadere e occupare il Tribunale Supremo Elettorale. Viene respinto.

La situazione è questa. La buona sorte del gentile e nobile popolo, nelle sue articolazioni etniche quechua e aymara, è appesa al filo della stabilizzazione che ci si augura come risultato delle prossime elezioni. Ma è buona, la sorte, perchè rafforzata dalla debolezza della classe sociale e politica che per lunghi decenni aveva messo il paese all’incanto e il cui maldestro golpe, con conseguente rivolta di popolo, reminiscente della gloriosa Guerra dell’acqua, parrebbe averla messa fuorigioco. Almeno per un po’.

A chi il litio?

Resta da dire di un convitato di pietra. Nessuno ne parla, per quanto sia molto probabile che si muova nell’ombra delle intenzioni dei contendenti e, di più, susciti formidabili appetiti in attori esterni. Ha la forma e l’estensione di un enorme lago salato: è una delle più grande riserva di litio del mondo – la terra rara più preziosa di tutte –parzialmente condivisa da Argentina e Cile. Luis Arce ha gestito la nazionalizzazione di estrazione, produzione, distribuzione, sotto il secondo mandato di Morales. Ai cinesi la cura delle infrastrutture tecnologiche.

Amo questo paese, generoso, pieno di colori e dignità. L’ho percorso in lungo e in largo, non omettendo di rendere omaggio, a la Higuera, a colui che qui concluse una vita rispetto alla quale ci sentiamo tutti molto piccoli: Che Guevara, fonte d’amore e di fiducia.

La mia America Latina sta in questi docufilm: Americas Reaparecidas, L’asse del bene, Il ritorno del Condor, El camino del Sol, Angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero.                                                       

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