giovedì 16 gennaio 2020

Colonialismo: Berlino 1885- Berlino 2020 ----- E’ IL TURNO DELLA LIBIA ----- La solita manina misteriosa nella caduta dell’aereo a Tehran



Bombe inesplose tra Tehran e Tripoli
Le notizie-bomba che vi nascondono sono: 1) Un cyberattacco USA che con ogni probabilità, secondo il NYT, nella notte dell’8 gennaio ha abbattuto il Boeing 737-800 ucraino sopra Tehran, con i suoi 176 passeggeri ed equipaggio e che forse darà il via alla battaglia finale tra patrioti e vendipatria iraniani;  2) Il generale Soleimani, che aveva lo status diplomatico, era in missione di pace con piena consapevolezza USA. Era stato invitato a Baghdad dal premier iracheno Abdul Mahdi per mediare nella contesa tra Iraq e Arabia Saudita. Gli americani ne erano al corrente e ne hanno approfittato per allestire la trappola e ucciderlo. 3) il regime fantoccio dei Fratelli musulmani a Tripoli, difeso dagli stessi tagliagole Isis e Al Qaida che, per conto Usa-Nato-Turchia, hanno imperversato in Siria, Iraq, Nigeria e a cui corrono in soccorso gli sponsor neocolonialisti che pretendevano di combatterli. Allora servivano a frantumare Siria e Iraq, oggi li si impiega per spartirsi la Libia, come si progetta dai convenuti a Berlino.

Si abbattono torri, si abbattono aerei....
La prova degli occultamenti relativi all’abbattimento dell’aereo sopra Tehran nella notte della risposta iraniana all’assassinio del generale Qassem Soleimani, viene pubblicata nientemeno che dal New York Times, standard aureo del giornalismo imperiale e guerrafondaio. Pur di vantarsi di un crimine riuscito, a volte i suoi apologeti si scordano della riservatezza. Di Libia e degli irresponsabili e fieri sguatteri Nato, Conte, Di Maio e Guerini, che cianciano di interventi più o meno armati, più o meno nazionali o internazionali, parliamo dopo.

Ho partecipato a una conferenza in video su Iran e Libia dell’ottima web-tv “Byoblu” dell’amico Claudio Messora (mercoledì 15 gennaio, ore 18). Oltre a me c’erano un competente ex-capo di Stato Maggiore e due propalatori di versioni Nato degli avvenimenti nel mondo. Doveroso negare qualsiasi attenzione alle panzane atlanticistico-sioniste che sparavano in faccia agli spettatori. Per riassumerle ne bastano due. Nella prima si diceva che l’aereo ucraino era stato abbattuto dai Guardiani della Rivoluzione perché, con ogni probabilità, vi si trovava a bordo un qualche personaggio poco gradito al regime. Per cui valeva la pena ammazzare 176 persone di cui 90 concittadini. La seconda, ancora meglio, supponeva che il missile fosse partito dal ditino di un ragazzetto inesperto dei Pasdaran. E’ la stampa, baby. E solo disponendo di un audience di gente in coma neanche tanto vigile, può sfidare il ridicolo a tal punto. Non credo sia il caso del pubblico di Byoblu, per fortuna.



Ma la stampa è anche, ahinoi, il “New York Times”, standard aureo del giornalismo che si finge di sinistra, sta con il Partito Democratico, col Pentagono, con i ben 16 servizi di Intelligence Usa e immancabilmente con tutto ciò che queste nobili forze di pace e diritti umani producono. Quello che, nella foga di uno scoop, oppure nella tracotanza di chi sa se stesso e i suoi referenti impuniti, parrebbe uno scivolone del quotidiano a direzione talmudica, al mondo stupefatto dovrebbe apparire come un’ammissione agghiacciante. Riassumo.

Miracolo: beccare con la fionda una mosca in cima alla Torre di Pisa….
Un cronista investigativo e video-esperto del NYT, Christian Triebert, ottiene da un dissidente iraniano, Nariman Gharib, molto popolare da quelle parti per il suo ruolo di fustigatore delle malefatte del regime degli Ayatollah, un video di 19 secondi girato da un anonimo video-maker a Tehran. E lo pubblica sul NYT. Triebert e Gharib sono anche collaboratori del sito “Bellingcat”, definitosi di giornalismo investigativo e, con ogni evidenza, megafono dei seminatori di sesquipedali balle antirusse. Non per nulla viene ospitato anche dal “Fatto Quotidiano”. Che cosa c’è nel video?

L’esatto momento in cui un missile e poi un altro colpiscono e fanno esplodere il Boeing ucraino uccidendo 179 persone, di cui 90 giovani iraniani, perlopiù in viaggio di studio. Ebbene? I cellulari oramai sono miliardi e i videomaker pronti per qualsiasi evenienza, pochi di meno. Tutto normale? Anche che l’anonimo videomaker si trovasse alla periferia di Tehran, in una zona industriale derelitta, poco prima dell’alba, con tanto di telecamera professionale, puntata sul punto del cielo notturno dove sarebbe passato l’aereo e dove lo avrebbe colpito il missile. Prendere quel punto in quell’istante era come da terra beccare una mosca in cima alla Torre di Pisa. Culo? O precognizione?


…. o con la camera un puntino che esplode nel cielo buio della notte
Le compagnie aeree avevano sospeso in quelle ore i decolli e gli atterraggi a Tehran, Poche ore prima, missili iraniani avevano disfatto due basi USA in Iraq. L’unico aereo decollato in pieno marasma notturno era il Boeing della Ucraina Airlines. Chi si è messo di notte a puntare un punto preciso nel buio, sapeva. Chi ha fatto decollare 176 sicure vittime, sapeva? Di certo sapevano i comandi militari USA in Iraq che, poche ore prima, sarebbero arrivati su quelle basi oltre 20 missili iraniani. Li aveva avvertiti il governo iracheno che, a sua volta, era stato avvisato da Tehran. Tanto che i militari USA e della Coalizione, compresi i nostri professionisti, ebbero modo di mettersi al sicuro. E qualcosa sapevano anche i numerosi aerei statunitensi che ronzavano attorno ai confini aerei dell’Iran nei momenti precisi dell’abbattimento dell’aereo.

Guerra cibernetica: non è la prima volta
In Iran si ricordano i casi del tutto analoghi dell’Il-20 russo abbattuto nel 2018 dalla contraerea siriana mentre pensava di colpire un caccia israeliano che si nascondeva dietro a quello russo e quello del MH-17 malese colpito nel 2014 sopra il Donbass da un missile Thor russo (in dotazione agli ucraini dal tempo dell’URSS). E si parla di guerra elettronica e di attacco cibernetico. Che gli Usa abbiano sviluppato la tecnologia dei cyber-attacchi di questo tipo è noto e ammesso. Che con tale tecnologia si possa interferire nei radar altrui, facendo apparire minacce volanti e che i comandi degli aerei possono essere controllati dall’esterno è altrettanto noto e assodato. Che l’operatore notturno di Tehran, puntando la sua camera su un punto nero nel cielo in quel momento sapesse cosa stava per avvenire è ancora più assodato. Qualcuno dei nostri eroi dell’informazione libera e democratica vi ha sottoposto almeno qualche dubbio su quanto avvenuto nella notte di Tehran, dopo che il segretario di Stato Pompeo e il ministro della Guerra Esper avevano fregato Trump imponendogli di attribuirsi l’assassinio di Soleimani e l’Iran aveva risposto devastando due basi USA?

 
Ahmadinejad e Rouhani


Gli schieramenti che si confrontano in Iran. Quelle vere e quelle viste in Occidente
Non meno interessante, ma riguarda l’Iran, è quanto succede dopo la tragedia. I comandi militari e quelli dei Guardiani della Rivoluzione si sono riservati un comunicato definitivo. Il presidente Rouhani e il ministro degli Esteri Zarif hanno invece subito condiviso la versione accreditata in Occidente, del missile iraniano che ha preso l’aereo per errore della contraerea. E sollecitano i militari a chiedere scusa. Ne hanno preso spunto le Sardine sorosiane di Tehran per rimettersi in piazza contro il “regime” e per far calare l’ombra mediatica sui sette milioni che avevano seguito la bara di Qassem Soleimani nella sola capitale.

I “bravi analisti”, gli stessi che il taumaturgo Trump fa tutto lui e ignavi segretari di Stato e Consiglieri della Sicurezza neocon gli vanno dietro come pecorelle, vedono in Iran l’eterna divisione tra “ultraconservatori” (alla Khamenei e Ahmadinejad) e “moderati o progressisti” (tipo Khatami, Rouhani, Zarif). Curiosamente, sotto Ahmadinejad, oltre al riscatto delle classi lavoratrici e dei poveri, c’è stato anche il più forte allentamento delle prescrizioni islamiche, tipo sull’abbigliamento delle donne, mentre, con i “moderati”, si è tornati alle restrizioni clericali.

Per una contrapposizione meno banale, consentitami anche dalla conoscenza diretta dell’Iran, del suo popolo e delle sue istituzioni, va chiarito che in Iran c’è la classica e immancabile divisione di classe. Da un lato chi esprime la volontà e i bisogni delle classi popolari, le più colpite dalle criminali sanzioni, e chi quelli dell’alta borghesia e dei grossi bazari ansiosi di scambi a largo raggio e a qualsiasi costo politico. I primi, i presunti ultraconservatori, costituiscono la base elettorale di presidenti laici come Ahmadinejad, di segno sociale e patriottico e dunque antimperialista. I quartieri alti producono dirigenti come Khatami, Rouhani, o il famigerato speculatore Rafsanjani, detto “lo Squalo”, tutti pronti alla mediazione, al compromesso, ansiosi di neoliberismo. Sono gli autori del tafazziano accordo sul nucleare voluto dall’astuto Obama per bloccare, con l’annullamento del nucleare civile, peraltro legalissimo, l’intero sviluppo industriale e sociale dell’Iran,  come era stato promosso dal laico Ahmadinejad. Tra questi due schieramenti si gioca il destino del grande paese, della sua resistenza, come del Vicino e Medio Oriente.

Da una Berlino all’altra: corsi e ricorsi coloniali


A Berlino, tra il 1984 e il 1885, le restaurate monarchie d’Europa riunirono, sotto il cancelliere Otto von Bismarck, i portatori dei loro interessi vetero-feudali e neo-capitalisti per muoversi a un nuovo assalto al Sud del mondo, Africa nello specifico, e spartirsi territori, risorse e vie strategiche. Che la conferenza sulla Libia veda coinvolti gli stessi predatori di allora, associati al nuovo protagonista imperialista USA e a Stati di contorno, è il segno della tracotanza impunita con cui, sotto la maschera benevola dei diritti umani, come allora sotto quella della civiltà e del progresso, le potenze dell’Occidente si apprestano a nuove aggressioni, devastazioni, genocidi, rapine a mano armata, liberista, missionaria e ONG. Oggi come ieri, nel segno e con la benedizione della Croce.

Tutto procedeva da anni nel tran-tran di chi deplorava l’attacco e la distruzione della pacifica e prospera Libia unita, da esso stesso commessi; per poi approfittare del controllo dei Fratelli musulmani di Al Serraj su segmenti del tripolitano con il suo business dei migranti. Business sia promosso (dalle Ong e referenti politici globalizzanti), sia avversato (dai cercatori di elettori spaventati). Ci si adattava alla spartizione nei fatti della Libia; si calcolavano la porzioni di idrocarburi da spartire e si contava sul caos libico perché la ricolonizzazione del Sahel da parte di Francia e compari non fosse disturbata da un ritorno a una Libia forte e autonoma. Tutto questo, sotto copertura di un governo riconosciuto dalla “comunità internazionale” (un sesto dell’umanità) e dall’ONU, era la ricaduta benefica di un graditissimo colpo di Stato islamista dei jihadisti misuratini, che aveva costretto l’ultimo parlamento e governo legittimi, eletti democraticamente, a rifugiarsi a Tobruq. Governo di cui il generale Khalifa Haftar, comandante del Esercito Nazionale Libico (ENL), e il legittimo ministro degli Esteri.


Guai se non ci fossero i cari fratellini musulmani

I Fratelli Musulmani, come s’è visto in molte occasioni, recentemente col presidente Morsi in Egitto, cacciato da una rivoluzione di popolo che poi si sono intestati i militari, sono, da quando furono inventati dai britannici negli anni ’20, la Quinta Colonna del colonialismo occidentale nel mondo arabo, prima europeo, poi Usa-Nato. Quando un movimento civile e militare, diretto da Tobruk, è riuscito a ottenere il consenso della maggioranza delle tribù, compresa quella di Gheddafi e il controllo sull’80% del territorio nazionale e stava per realizzare la liberazione di Tripoli, ecco che tutti si sono svegliati di soprassalto. E’ partita,  prima piano, poi con accelerazione frenetica, la girandola degli incontri diplomatici (con Conte e Di Maio che ridicolmente si rincorrevano di capitale in capitale), delle conferenze di mediazione, dei soccorsi al fidato burattino Fayez al Serraj  che, guarda il caso, è di origine etnica turca. A Erdogan questo è bastato per rivendicare a sé la “provincia ex-ottomana”, spostarvi da Idlib migliaia di scuoiatori e stupratori jihadisti di Isis e Al Qaida e concordare con il socio di minoranza turco-libico il possesso delle acque tra Turchia e Libia e degli idrocarburi ivi contenuti (con tanti saluti, oltrechè a Grecia e Cipro, a Greta e al Green New Deal).


C’è da ghignare sul fatto che per molti che avevano dato del macellaio a Erdogan per la cacciata dei curdi dai territori siriani,da questi invasi e occupati con l’aiuto Usa, ora lo vedono di buon occhio, perché promette di bloccare, magari far fuori, il generale amico di Al Sisis, “dittatore egiziano e assassino di Regeni”. Per altri, la venuta dei turchi è benvenuta nella misura in cui il sultano non se ne approfitti troppo e lasci ad altri porzioni del bottino petrolifero, idrico e geopolitico. Il congresso di Berlino, di cui l’assonanza con quello del 1885 è chiaramente voluta, è a questo che punta.

Il cattivo anticurdo diventa il buono anti-Haftar
Tanto più che a Mosca, Putin, lo “Zar” - che ha appena avviato una riforma costituzionale mirata a democratizzare l’assetto istituzionale con un premier eletto dalla Duma e non più nominato dal presidente (riforma ovviamente letta in Occidente, “manifesto” & Co, come ulteriore spinta dello “Zar” all’autocrazia) - ha sparigliato facendo sottoscrivere una tregua a Erdogan e al pesantemente pressato Serraj. Ma non a Haftar, che ha considerato la proposta irriguardosa e offensiva nei riguardi del popolo libico e del suo parlamento. E non a torto. Le tregue che, dagli incontri di Astana in qua, Mosca ha concordato con il neo-ottomano, dalle aree di de-escalation in Siria, al governatorato di Idlib zeppo di tagliatori di gola da cento paesi, fino a questa, sono tutte servite e serviranno, anche contro le intenzioni russe, a far riprendere fiato ai jihadisti in difficoltà e a farli rifornire di armi e uomini. Né dei tagliagole, né dei loro protettori (USA, Nato e Turchia) c’è mai stato da fidarsi. Ne ce ne sarà in Libia. La buona figura mediatrice e pacificatrice che Putin ha tutti i tioli per rivendicare rispetto alla psicopatologia bellica degli USA e dei loro ascari, a volte comporta un prezzo troppo alto. Lo sanno i siriani quando guardano a Idlib, alla cosiddetta “fascia di sicurezza” presa dai turchi, o alla regione del Nord Est sotto occupazione USA.

Lasciateci almeno i migranti e un po’ di petrolio

Libici trucidati dai soldati di Graziani

Gli italianuzzi senza arte né parte, ma con un solido e sanguinario passato coloniale in Libia, si danno un gran e inutile da fare. Con Haftar potrebbe rinascere una Libia unita e indipendente. Se avessimo avuto l’intelligenza di stare con colui che ha ragione e non con i fantoccio Isis di Tripoli e i cacciatori di neri di Misurata, l’ENI avrebbe avuto la migliore delle chance rispetto ai concorrenti (ENI, che fa la vera politica estera italiana, scevra dai servilismi partitici e perciò viene demonizzata dagli atlantistico-sionisti alla Travaglio e Stefano Feltri-Bilderberg).

Ma Haftar rischia anche di far seccare una fonte vitale di reddito, prestigio e propaganda di quella lobby plurilaterale che prospera sullo svuotamento dell’Africa da depredare e dei nuovi schiavi con cui esaltare la fetta padronale del mercato del lavoro. Se prende Misurata e Tripoli, ha promesso di farla finita con la detenzione e il traffico di esseri umani che costituiscono il profitto e l’arma di ricatto dei Fratelli musulmani e delle loro milizie armate “governate”, si fa per dire, da Serraj. Che ne sarà delle Ong di Soros e Merkel, delle speronatrici di navi militari italiane, delle cooperative, della Caritas, degli Angelus di Bergoglio, degli argomenti di Salvini, del profumo d’incenso attorno ai buonisti della maggioranza?

 Haftar e Said al Islam, figlio di Muammar Gheddafi

Di Maio e Conte farneticano di caschi blù europei (che non esistono) da mettere a guardia del bidone e salvare Serraj. Un mini-Pompeo italiota che fa il ministro della Difesa vorrebbe che quel dicastero fosse dell’Offesa e pretende, insieme ai suoi generaloni, una “rimodulazione del nostro impegno militare in Libia”. Oltre ai 400 militari scandalosamente mescolati tra i bruti di Misurata. Hanno il coraggio di parlare di "Forza di interposizione", che non significa altro che la sciagurata spartizione della Libia tra Cirenaica e Tripolitania. Colonialisti d'accatto. Qui, dopo i 600mila libici massacrati da Graziani e il paese distrutto con il concorso dei bombardieri di Giorgio Napolitano, noi non abbiamo che “una parola d’ordine, categorica e imperativa per tutti”: starsene fuori dalle gonadi. Aì vari occidentali, colpevoli delle peggiori tragedie inflitte all’umanità nel Sud del mondo non spetta parola in capitolo. La Libia ai libici e la soluzione non può che essere militare, come lo è stata in Siria, Iraq, Vietnam. Giù le mani dal Sud del mondo. La “soluzione politica”, ai tempi delle lotte di liberazione, è sempre e solo una fregatura. Non si può che stare con Haftar. Anche perché, se quelli di Serraj incarcerano e impiccano i gheddafiani, lui li ha riabilitati e accolti.





lunedì 13 gennaio 2020

Un’occhio pulito sulla piazza di Santiago ------------ IL FALSO DALL’IRAN, IL VERO DAL CILE





Questo che segue, dopo una mia premessa, è il capitolo cileno, a Santiago in lotta, del diario di viaggio di un mio giovanissimo amico, Tommaso Cherubini, con le sue belle e significative fotografie. Il suo è un viaggio per l’America Latina, con zaino, sacco a pelo e in autostop, di esplorazione e formazione.

I falsari dell’informazione ci stanno saturando con le immagini di proteste popolari in paesi accuratamente selezionati. Di altre manifestazioni e di repressioni ben più feroci si sforzano di non farci sapere nulla. Sono documenti come quello che vi propongo che ci fanno avere bagliori di verità e che riducono alla vergogna e al ridicolo le manipolazioni ormai ontologiche e generalizzate, a sinistra-destra come a destra-destra.

Così veniamo inondati da cronache stampate e televisive che ci dovrebbero entusiasmare sulla “rivolta dei giovani iraniani” contro il loro governo. Prima, perché erano stati decisi prezzi appena più alti sui carburanti (10 centesimi al litro) per poter convogliare questo aumento alle fasce più colpite e impoverite dalle sanzioni genocide che, da Obama a Trump e dai loro rispettivi referenti, colpiscono una nazione che rifiuta di inchinarsi ai presunti padroni del mondo. E, successivamente, in protesta contro l’abbattimento dell’aereo delle aviolinee ucraine e le sue 170 vittime  a causa dell’errore dell’antiaerea iraniana. Non “ammesso con colpevole ritardo”, come infieriscono i media, ma dopo due giorni, con l’inchiesta neanche terminata. Vorremmo altrettanta onestà da parte di chi bombarda Siria e Iraq e nasconde la mano. Oppure da chi ha abbattuto il DC-9 dell’Itavia su Ustica e da chi sa tutto. O da chi ha fatto ammazzare Ilaria Alpi e Miran Hovratin a Mogadiscio. O da chi ha ordinato e supervisionato tutte le stragi di Stato da noi. O alle Torri Gemelle…………

Nessuno rileva che queste dimostrazioni, al pari di quelle di Hong Kong, Algeria, Libano, Iraq, tutte fomentate ai fini del “regime change” perseguito dall’Occidente nei confronti di governi disobbedienti, si rapportano a quelle di milioni in tutti i paesi arabi e islamici, ma anche latinoamericani, contro l’assassinio del generale Qassem Soleimani, come un roveto è paragonabile a una foresta. Soleimani, vincitore della guerra contro il terrorismo Isis e Al Qaida in Iraq e in Siria, era in missione di pace a Baghdad per negoziare la distensione tra Iraq e l’ostile Arabia Saudita, creatrice e foraggiatrice, insieme agli Usa e Israele, di questo mercenariato jihadista (oggi, peraltro, attivo in Libia su mandato dell’altro sponsor del jihadismo, Erdogan, e impegnato, con il beneplacito di potenze e gregari, a fermare la liberazione in atto di quel paese dai Fratelli musulmani e loro milizie Isis).

L’assassinio di Soleimani, a cui oggi plaudono sia l’ISIS che Israele, costituisce una criminale violazione del diritto internazionale, delle convenzioni di Ginevra e della sovranità di due paesi, Iraq e Iran. Immaginate cosa sarebbe potuto succedere se qualche paese aggredito da sanzioni, eserciti, o mercenari Usa-Nato, avesse ucciso con un drone il Segretario di Stato Pompeo, superfalco e vero protagonista dell’estremismo Usa, o l’influentissimo politico e parlamentare statunitense John McCain (defunto nel suo letto), massimo guerrafondaio americano, compare di tutti i capi della sovversione terroristica, da Al Baghdadi, con cui si fece fotografare in amichevole colloquio, ai golpisti di Kiev. Coloro che ora sono rispuntati nelle piazze di Baghdad, Beirut, Tehran, avevano inneggiato all’uccisione di Soleimani. Veri patrioti.

C’è da aggiungere, a prova del tasso di deontologia dei nostri media, che si sorvola con grazia leggera sulle repressioni in Cile e Bolivia, di netta natura pinochettiana, che vanno avanti da mesi e hanno prodotto centinaia di morti, tra l’un paese e l’altro, e migliaia di arresti, con l’immancabile corollario della tortura. Mentre viene trasformata in inaudita violenza contro inermi l’incredibile moderazione delle forze di polizia di Hong Kong davanti ad autentiche brigate di squadristi, uniformate e armate, che tutto devastano, invadono il parlamento, distruggono la metropolitana, danno fuoco a chi ne prende le distanze, sventolano le bandiere del colonialismo e dell’imperialismo, britannica e statunitense.

Il documento che ci fa avere Tommaso sul Cile di un pinochettismo mai morto, ma anche di un popolo mai domo, rende giustizia alla verità. Non ci arriva dagli schermi e dalle pagine che si fanno passare per fonti di informazione. Sono occhi che hanno visto, cuore che ha sentito, mente che ha capito. Ci arriva via rete. Quella rete che tutti i corruttori di un giornalismo che, per me, dovrebbe essere la più utile e bella professione del mondo, denunciano come la massima fonte di fake news. Freud parlerebbe di transfert.

Tommaso mi perdonerà se taglio la breve parte storica, ben nota ai miei interlocutori

E questi sono due link che ristabiliscono la verità sui bombardamenti iraniani sulle due basi Usa in Iraq. Il primo è la cronaca dell’inviata della CNN che mostra la distruzione causata (e negata) alla base di Ain el Asad, con uno dei dieci crateri prodotti dalla dozzina di missili. L’altro è un’ulteriore illustrazione dei danni a quella base. Se ne può trarre la conclusione che, seppure non sarebbero state causate vittime, l’intento della ritorsione all’assassinio di Soleimani , come si sa preavvisata al governo iracheno, non era una strage, ma la dimostrazione di quanto l’Iran potrà infliggere a qualunque aggressore. Risposta civile alla barbarie.
https://youtu.be/xXl6wEcRYOg Base Usa a Ain el Asad distrutta, cratere di uno dei 10 missili arrivati (CNN)
https://youtu.be/AR2-LHXUXNg  danni alla base di Ain el Asad



 Tommaso Cherubini da Santiago
Una città in protesta, un popolo stanco che rivendica i propri diritti

Sono finalmente a Santiago de Chile.
Al contrario degli altri luoghi finora visitati, questo mi attira per tutt'altri motivi. Non per la natura e le emozioni dei paesaggi, ma per la situazione storica che sta vivendo questo paese, raccolta e rappresentata dalla capitale.

Prima di iniziare questa pagina di diario, vorrei precisare che quello che scrivo e scriverò è frutto di ciò che ho vissuto e mi è stato raccontato.  Non voglio offendere nessuno né considerarmi l'unico possessore della verità assoluta, solo raccontare la mia esperienza. 
L'inizio delle proteste si ha il 14 Ottobre 2019, in seguito all'aumento del costo del biglietto della metro. Come mi viene spiegato, però, questo è da considerarsi solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, infatti le motivazioni sono molteplici: carovita, corruzione, disuguaglianze, legge sull'aborto e molti altri.

Ma tutto ha inizio, quindi, dalle stazioni della metro e dagli studenti universitari che iniziarono a non pagare il biglietto.

Il 18 settembre, vedendo la situazione peggiorare, con continue occupazioni e danneggiamenti delle stazioni metro, il presidente Piñera decide di dichiarare lo stato di emergenza, spiegando le forze militari. Quel giorno, per la prima volta dalla dittatura Pinochet, viene attuata una repressione militare, con coprifuoco e limitazione della libertà.


Le proteste sono tutt'ora in atto, da più di 80 giorni. 
Il 22 Novembre, il presidente ha affermato che "Il Cile è in guerra".
Io, nel mio piccolo, dall'Italia avevo avuto notizie solo attraverso i media e la situazione sembrava critica in tutto il Cile. Parlando, però, con i miei amici cileni, ero stato rassicurato e mi era stato consigliato di non dare retta ai notiziari, in quanto controllati dal governo. Così ho deciso di andare a vedere con i miei occhi, non volevo farmi sfuggire questa opportunità.

Il giorno del mio arrivo mi imbatto subito nella prima protesta, mentre mi dirigo alla fermata della metro per andare in centro. C'è una strada ad alta velocità che attraversa la città, a pagamento, il cui pedaggio continua ad essere aumentato di anno in anno. Passando al fianco di essa, mi accorgo di un accumulo di persone, fuori dal recinto che la delimita, ma tutte rivolte all'interno. Avvicinandomi mi accorgo che lungo la pista è pieno di macchine e camion che la percorrono a velocità molto bassa, suonando il clacson.

È in corso una manifestazione di protesta contro il caro prezzi, i veicoli vengono condotti a bassa velocità per creare traffico ed intoppi.  L'assembramento di persone al lato della strada è all'altezza di un posto di blocco dei carabinieri.




Mi unisco alla folla e subito mi salta all'occhio che i carabinieri, indossando abbigliamento color militare e giubbotti antiproiettile, hanno in mano armi più grandi di quelle che mi aspettavo e si muovono con veicoli blindati davvero enormi. Fermano ogni auto, fanno scendere il conducente e i passeggeri, li perquisiscono, il tutto mentre la folla gli urla contro di non toccarli e di rispettare i loro diritti. C'è anche una giornalista col suo cameraman che riprende tutto, all'interno di quella che sembra un'autostrada.

Davanti ai miei occhi increduli, una ragazza che conduceva una delle macchine a bassa velocità, viene caricata su una delle camionette blindate e portata via. Così. Chiedo spiegazioni ad un ragazzo tra la folla e lui mi spiega le motivazioni di tale protesta. Il pedaggio di questa strada è stato aumentato per l'ennesima volta quest'anno, per coprire i costi di investimento iniziali e la manutenzione. Secondo i manifestanti, però, l'investimento è già stato coperto da anni e la manutenzione è solo una piccolissima percentuale rispetto al guadagno dello stato sulle spalle dei cittadini.

Mi fa subito impressione la quantità spropositata di carabinieri rispetto ai protestanti. Ci sono almeno 5  per ogni manifestante, si muovono a gruppi, con scudi, elmetti, manganelli ed armi.
Resto un po', per fare qualche foto e video, poi me ne vado verso il centro.
Come primo giorno non c'è male.

L'indomani esco per fare un giro nel centro di Santiago. Piazza Italia è il punto nevralgico della protesta cilena, la fermata metro Baquedano, al centro di essa, è fuori servizio dai primi giorni di tensione. Scendo quindi alla precedente e mi avvio a piedi, le proteste iniziano ogni giorno verso le 17, quindi sono tranquillo essendo più o meno le 12.

Avvicinandosi alla piazza si notano i cambiamenti, gli edifici iniziano ad essere pitturati e pieni di murales, i pavimenti distrutti, i negozi chiusi con lastre di metallo o cemento, la quantità di carabineros che aumenta a dismisura. Arrivato, ho subito la sensazione di trovarmi in un luogo dove è successo, e sta succedendo, qualcosa di storico. L'aria è tesa, come piena di energia per le proteste del giorno prima e pronta per quelle in arrivo. La statua al centro è completamente vandalizzata, i semafori distrutti, i negozi e gli edifici pieni di scritte e murales contro il governo e i "pacos", come vengono chiamati carabinieri.

Dà i brividi. Carabineros in tenuta antisommossa, armati di scudo, casco ed armi. Impassibili alla gente comune che passeggiando o andando a lavoro gli urla "asesinos".

Allontanandomi mi imbatto nella seconda manifestazione, un gruppo di una 60ina di persone in mezzo alla strada con dei cartoni raffiguranti degli occhi. Mi avvicino e noto che, come sempre, sono circondati da carabinieri. Ma la manifestazione è tranquilla, un microfono passa di mano in mano permettendo alle persone di esprimere la loro rabbia. Si parla di mancanza di diritti, di necessità di sanità gratuita, di corruzione, della violenta repressione delle proteste. Di come non sia possibile festeggiare il Natale vista la situazione in cui verte il Cile.

I cartelli stanno a significare che è necessario aprire gli occhi, rendersi conto del problema e non far finta di nulla.
Quello che mi ha colpito, oggi, è la varietà di persone presenti alla manifestazione. Dall'adolescente, al signore di mezza età, alla vecchietta che mi ha rapito il cuore. Tutti in piedi, in piazza, intenti a far sentire la propria voce e ad unirsi facendosi forza l'uno con l'altro.  Gente incazzata, gente in lacrime, gente orgogliosa e convinta di quello che sta facendo.

Vengo informato che il venerdì seguente, 20 dicembre 2019, ci sarebbe stata l'ultima grande manifestazione prima delle vacanze natalizie.



Il giorno stesso mi dirigo lì verso le 18, la fermata di piazza Italia, come già detto, è fuori servizio, quindi scendo a quella prima: San Salvador. Esco dalla stazione ed è già manifestazione. Centinaia di persone tutte intorno a me, con bandane a coprire naso e bocca o maschere da snowboard. Tamburi, trombe, canti e balli.  Tutti in strada, diretti a Piazza Italia, incitando chi ancora sul marciapiede ad avvicinarsi. L'atmosfera è allo stesso tempo gioiosa ed incazzata. Gioiosa per me, perché si percepisce quanto la gente faccia tutto ciò col cuore, perché ama il proprio paese e preferisce questo ad abbandonarlo. Incazzata perché questo paese non è disposto ad ascoltarla, ma preferisce reprimerla con la forza.

Mi aggiungo al corteo, non è il classico corteo di una manifestazione in cui sono tutti appiccicati, in questo la gente è a più di 2 metri di distanza, sparsa su tutta la strada, sviluppato molto in lungo. Percorro meno di 50 metri quando sento qualcuno urlare in lontananza, poi vedo i manifestanti correre in senso opposto al mio.

Tutto succede molto velocemente. Mi rendo conto di colpo che a 20 metri da me c'è un gruppo di un centinaio di poliziotti che corre verso di noi, scudo e manganello in mano. Mi giro e corro più veloce che posso. Sento cadere la borraccia dallo zaino.  Mi giro per dargli l'ultimo saluto, ma è già nelle mani di una ragazza che me porge, mentre continuiamo a scappare.
Sento scoppi in lontananza, poi più vicini. Poi nuvole di fumo. Volano lacrimogeni.
Non ho idea di quanto spazio o tempo io abbia corso, finché vedevo gente correre intorno a me, non mi fermavo.

Ho avuto paura. Arrivo al ponte che attraversando il fiume in secca va verso l'esterno del centro. Mi giro e la situazione sembrava più tranquilla, i manifestanti intorno a me, a quanto pare molto abituati al contesto, ricominciano come se niente fosse. Quelli in bici urlano "blocchiamo qui" e si buttano in mezzo alla strada fermando le macchine in entrambe le direzioni. I tamburi ricominciano a battere, mentre si aggiungono un gruppo di ragazze sbattendo mestoli contro pentole. Poi dei ragazzi suonano dei grossi sassi contro i pali della luce.

Ho la pelle d'oca da un'ora. Tutto ciò mi emoziona. Mi sento fortunato a poter vivere tutto questo, nonostante sia nel mezzo di una guerrilla. Sono commosso sotto la bandana e gli occhiali da sole.

 I carabinieri di fanno indietro, io cerco di avvicinarmi di nuovo a Piazza Italia, rinominata in questo periodo Plaza de la Dignidad.

Stavolta passo più vicino al fiume, dove sembra più tranquillo. Perché nonostante tutto quello che sto raccontando, la gente continua ad attraversare queste zone come se niente fosse, semplicemente per arrivare dall'altra parte. Sono a pochi metri dalla piazza più famosa del Cile. Inizia a prudermi il naso, inizio a starnutire. Poi la gola, un lieve prurito che diventa piano piano forte e costante. Poi gli occhi, non riesco a tenerli aperti. Si arrossano e pizzicano, moltissimo.

La piazza è piena di lacrimogeni e le forze armate continuano a lanciarne. Ad altezza uomo. Qualche giorno fa hanno ucciso una ragazza di 15 anni colpendola in faccia con uno di questi.
Sono costretto ad allontanarmi perché non respiro. Ci sono dei ragazzi che girano per le zone di protesta con acqua e bicarbonato in uno spruzzino, per aiutare la gente alleviandole il dolore. Ne incontro uno che mi aiuta e mi permette di tornare verso la piazza. Un prato di forze armate, sparpagliate, alcune in moto, altre a cavallo, decine di camion blindati, gruppi a piedi con scudi e manganelli. Tutti con casco e giubbetto antiproiettile.


La situazione è come quella precedente, migliaia di manifestanti sparsi per la piazza, il suono dei tamburi sovrastato da quello del lancio dei lacrimogeni. Dalle strade tutto intorno la piazza, tutti suonano nel traffico, con un ritmo che è lo stesso dei tamburi, per invitare la protesta. Non è facile né scontato muoversi in mezzo a tutto ciò. Si segue il movimento delle masse, se qualcuno scappa tu scappi, se si avvicina cerchi di avvicinarti. Se senti qualcuno urlare "arriba!" guarda in alto, è stato appena lanciato un lacrimogeno.

Resto li in mezzo, faccio foto, video, parlo con i manifestanti. Sono emozionato, eccitato, adrenalinico, ma soprattutto molto impaurito. Il dolore provocato dai lacrimogeni torna insopportabile e decido di lasciare la zona, mi è stato suggerito di andarmene presto, prima che i carabinieri ricevano l'ordine di far finire tutto e diventino ancora più violenti.

Tornando a casa ripenso a quello che ho vissuto, mi sento di nuovo molto fortunato. Si, è stato pericoloso. Ma non sarebbe stato più pericoloso vivere con il rimorso di essere stato qui, in questo momento storico così importante per questo paese, e non aver vissuto da vicino tutto ciò?

Ho deciso di andare perché spesso, da fuori, gli avvenimenti vengono distorti per vari motivi. Spesso cose come questa, che riguardano vite umane e problemi seri, si riducono a chiacchiere da bar dove ci si sente in diritto di esprimere un'opinione pressappochista della realtà. Dall'Italia ero informato solo sul vandalismo rivoluzionario del popolo cileno. Vivendolo in prima persona ho visto persone che, stanche della situazione in cui verte il proprio paese, rivendicano diritti sacrosanti pacificamente. In opposizione, il loro governo li reprime con la violenza, venendo meno anche ai diritti conquistati con la fine della dittatura.

Mi sento vicino al popolo cileno e spero che questa situazione si risolva nel migliore dei modi.



mercoledì 8 gennaio 2020

Colpo su colpo verso la guerra? ----- TRUMP! E CHI SENNO’? ----- Le bufale delle analisi, le panzane delle previsioni


Le guerre verranno fermate solo quando i soldati si rifiuteranno di combattere, quando gli operai rifiuteranno di caricare armi su navi e aerei, quando la gente boicotterà i presidi economici dell’Impero sparsi su tutto il globo” (Arundhati Roy. “Il potere pubblico nell’era dell’Impero)
Una prima risposta
La risposta iraniana, una prima risposta, è venuta subito. Da poche ore, sette milioni di iraniani avevano terminato il corteo funebre, quando dozzine di missili iraniani si sono abbattuti su due basi USA in Iraq, a Ain el Assad, nella provincia centrale di Anbar e a Irbil, Kurdistan iracheno. Qui alcune decine di militari italiani, lasciati lì col cinismo servile propri di tutti i nostri regimi dal 1945, l’hanno scampata nei bunker, dato che Tehran, consapevole del diritto di internazionale e delle pratiche di guerra quanto non lo sono gli USA e tutta la Nato, aveva dato preavviso dell’attacco alle autorità irachene. 



E’ una prima ritorsione all’assassinio del generale Suleimani, ma è anche un monito a Washington e alla Coalizione, in linea con la richiesta di Baghdad, di togliersi di mezzo. A Tehran, nella mattinata successiva, è precipitato un aereo delle Ucraina Airlines (perfino l’Ucraina, dissestata più di noi, ha una sua compagnia di bandiera!). 177 le vittime.
Entrambe le parti minimizzano. Le 80 vittime dell’attacco missilistico iraniano non ci sarebbero, le 177 dell’aereo di linea sarebbero dovute a un guasto dopo il decollo. E’ probabile che il conto dei morti nelle basi sia esatto, e forse riduttivo, ma che la propaganda provi a sminuire l’efficacia dell’azione. Che nel caso dell’aereo caduto, potrebbe avere tutte le caratteristiche di un’operazione emulativa del principale alleato degli Usa nel Vicino Oriente.

Difficile fare previsioni come quelle in cui si avventurano i guru della geopolitica a seconda del vento che soffia (sono le apocalissi che fanno vendere i giornali), dato anche che il caso ha il suo ruolo in partita. Ragionevole sembrerebbe aspettarsi un ping pong di operazioni dei due avversari senza arrivare allo scontro generale, che Trump ha escluso nel suo messaggio a Rouhani. Non la vera potenza che lo condiziona e spesso lo manovra. Ma che per i nostri sapienti esperti politico-mediatici non esiste proprio. Guardate.

Fa tutto The Donald.  C’est plus facile


I quotidiani del 5 gennaio:
Excusatio non petita a reti unificate: ha fatto tutto Trump.

Il Messaggero: Trump ha ordinato di uccidere il generale
Il Tempo: Trump fa uccidere il n.2 dell'Iran
La Repubblica: Trump fa uccidere il generale
Corriere delle sera: Trump, dovevamo ucciderlo prima
La Stampa: eliminazione frutto della volontà di Trump
Libero: Evviva Trump
Il Giornale: Trump elimina il generale
Il Fatto: Trump uccide Soleimani
Il Piccolo: su ordine di Trump
El Paìs: attacco ordinato da Trump
WallSJ: decisione di Tump
Le Figaro: eliminazione su ordine di Trump
Le Monde: operazione ordinata da Trump


Dai destri supposti sinistri e dai destri orgogliosamente destri, il coro è unanime. E’ stato Trump, e chissenò? Ogni unanimità che così si stabilisce tra presunti e finti opposti e dalla quale ormai si distinguono solo singole voci in rete (sulla quale rete non per nulla si chiedono misure sempre più ferocemente censorie), punta a un risultato. Far fuori l’elemento estraneo e imprevisto alla testa della potenza più armata della Terra che, per uno scherzo fatto dai “deplorables” col loro voto sbagliato, così definiti da Hillary Clinton, ha sottratto la vittoria all’anima nera che avrebbe dovuto rappresentare il passato nero, il presente nero e il futuro nero degli Usa e del loro dominio sul mondo.

Il nero, il bianco e le anime nere
E qui la negrità del predecessore di Trump impallidisce al confronto col nero nerissimo della sua presidenza. Non è stato Obama quello delle 7 guerre, dell’installazione di barbarie terroristiche in mezzo mondo, onde giustificare gli interventi Usa e Nato, della militarizzazione della polizia domestica, con un’impennata di gente ammazzata dalla polizia? Non è stato colui che ha inaugurato gli assassinii extragiudiziali con drone, che ha espulso più migranti dagli Usa (1,5 milioni) di qualsiasi altro presidente, che ha proseguito e intensificato le extraordinary renditions di sospetti o fastidiosi  in carceri segrete della tortura in paesi compiacenti, carceri governate di persona da Gina Haaspel, oggi capa della Cia?


Donald Trump sarà pure l’imprevisto, colui che esce dal seminato, promettendo in campagna elettorale di fermare, almeno sospendere, almeno ridurre, una storia di interventi sanguinari, spesso genocidi (3,5 milioni nel solo Iraq). Interventi che le classi dirigenti si permettono in virtù di una tara genetica segnata da decine di milioni di autoctoni uccisi e di un’Africa la cui depredazione attuale supera in sterminii sociali ed economici quelli di tutte le potenze coloniali messe insieme. Ma è anche colui che, non avendo alle spalle una qualche lobby determinante come Wall Street, o il complesso militar-securitario-tecnologico e del controllo dell’industria della droga, sta nella Casa Bianca esposto a tutti i venti, ai quali sistematicamente gli tocca piegarsi. Per cui questo puntare da ogni parte frecce, colpe, responsabilità sul riportante giallo, non è solo la semplificazione del  pressapochismo mediatico che se la cava con l’unico protagonista, il moloch, a cui far risalire ogni cosa. Nasconde consapevolmente l’intero meccanismo che, in ogni apparato, fa muovere le persone, le cose, gli eventi e si adegua alla tendenza generale, diciamo allo Zeitgeist. E’ come riferire tutto il bello e il brutto a Prodi, Renzi, Conte, Andreotti, sorvolando su multinazionali, Vaticano, Bilderberg, massoneria, mafia….

Uno spirito del tempo che scaturisce sistematicamente dall’impunità delle classi dirigenti (vedi la virulenta opposizione alla prescrizione subito). Storicamente quella dell’ipercapitalismo USA, come storicamente impersonato dall’apparato politico bipartisan e, nelle contingenze, da quella che i poteri di vita e di morte negli Stati Uniti (le banche, gli armieri, le multinazionali, l’intelligence) decidono essere il loro rappresentante. L’altro ieri i neocon repubblicani, ieri e oggi i Democratici. Al di là della critica strumentale al crimine perpetrata contro il generale Qassem Soleimani, sono coloro che stanno cercando di rovesciare il verdetto pronunciato dagli elettori attraverso la farsa dell’impeachment, ad aver sulle mani il sangue dell’eroe iraniano. E altri oceani di sangue, con l’impunità confortata dall’oblio, dallo sterminio degli indiani a quello delle popolazioni nel Sud geopolitico del mondo.

Per Soleimani il meme degli sguatteri


Naturalmente le analisi di quelli che impeccabilmente sono definiti gli sguatteri non si discostano dal meme “E’ stato ucciso un massacratore di soldati americani (neanche uno) e che stava per commettere altre stragi di cittadini USA”. Dalla bugia al processo alle intenzioni. La colpa vera, come ho già scritto, essendo quella che in Iraq e Siria il probabile futuro leader dell’Iran, colui che avrebbe strappato il governo alla conventicola “moderata” che aveva sottoscritto con gli Usa l’accordo capestro e castrante sull’industria nucleare, aveva fatto fallire i piani di spartizione israeliano-americani delle nazioni arabe in staterelli etnico-confessionali. Non per impedire che entro dieci anni l’Iran si sarebbe fatto la bomba atomica, come qualche voce del Mossad ha inventato, ma per bloccare l’emancipazione industriale, fortemente in corso in quel paese, attraverso l’annullamento di un nucleare categoricamente civile, finalizzato a fornire isotopi sanitari ed elettricità a tutto il paese.

Non dimenticherò mai i medici volontari e i pazienti leucemici di Tehran che, in ambulatori improvvisati, sopperivano con trasfusioni al taglio dei medicinali imposto dalle sanzioni di Obama (li potete incontrare nel mio documentario “Target Iran”, insieme a tanti altri protagonisti dell’Iran indomito e antimperialista). Sanzioni che Obama mantenne e inasprì, a dispetto dell’accordo sul nucleare concepito, come le aperture a Cuba, per minare il paese dall’interno, piuttosto che attraverso costosi mezzi militari.

I sinistronzi nel gregge dei destri

 
Altro che i social! E’ la stampa, bellezza!

Non stupisce che dai noti sguatteri mediatici si deplori lo svaporamento delle proteste cosiddette “popolari e per ragioni sociali” che incompetenti, o volponi, avevano individuato in Iraq (e prima in Libia e Siria) e che avevano provato a mescolare con altre di segno opposto. Le prime essendo l’ennesimo prodotto dell’innesco e controllo su tensioni popolari degli organi occidentali di destabilizzazione collaudati in Ucraina, Venezuela, Algeria, Libia (Cia, Mossad, NED, USAID, ecc.). Le altre essendo rivolte contro regimi dispotici agli ordini dell’impero (a partire dal Cile). Si lamenta che dai modesti tentativi di Sardine locali, già in corso di esaurimento, contro governi in urto con gli Usa, di Abdul Mahdi in Iraq, dei pur “moderati progressisti” iraniani di Rouhani, si fosse passati a sterminate masse in corteo d’onore a Suleimani e in marcia d’odio contro gli Usa. Sette milioni solo a Tehran, a discredito di tutte le varie presunte “primavere” care a Soros e ai regime changers Democratici. Sono questi oceani di popolo, questi milioni di persone il cui sano e salutare odio indica l’avvicinarsi inesorabile della fine dell’impero, nato dal sangue e spento nel sangue.

Si arriccia il naso sul consolidamento in Iran e Iraq delle forze sociali e politiche della resistenza (dette “conservatrici!”) in reazione ai crimini occidentali, a scapito delle espressioni collaborazioniste, dette “moderate, democratiche, progressiste”, che si annidano soprattutto in un governo iraniano che, fin dai tempi del moderato Khatami, molto gradito agli Usa, ha cercato di neutralizzare la militanza sociale e politica  poi espressasi con Ahmadinejad, della quale il capo dei Pasdaran, insieme alla Guida Suprema Khamenei, sono gli esponenti più illustri e più amati (se non dai quartieri alti e dai fuorusciti in Occidente). E, in Iraq, si prova a indebolire il carattere nazionale, rappresentativo della volontà di libertà e autodeterminazione di tutta una nazione, insistendo ossessivamente a definire puramente “scite” le Forze di Mobilitazione Popolare che hanno debellato Isis e Al Qaida e che comprendono ben 40 formazioni di ogni confessione. L’ennesima tattica del divide et impera colonialista, che si tira dietro anche alcune delle migliori intenzioni.

Per uccidere Saddam non è bastato il boia Moqtada
E’ una costante dell’unanimità mediatica e politica degli odiatori dell’Iraq e di Saddam Hussein, sicuramente uno dei più grandi leader nella Storia della liberazione araba, denigrare facendone dei trasformisti e opportunisti che saltano da un carro all’altro. Così si favoleggia di un Saddam “alleato degli Usa” e che contro l’Iran da questi sarebbe stato armato. Si insulta l’evidenza di un Iraq rivoluzionario, da me frequentato fino alla fine, che in nessun momento, dalla rivoluzione di Kassem negli anni ’60, ha cessato di denunciare l’imperialismo e il sionismo. Quanto ad armi americane, mai arrivata neanche una colt. Bastava vedere, a me capitò sul posto, come le uniche armi a disposizione dell’Iraq nel 2003, durante l’attacco Nato-Usa, fossero antiquati armamenti russi, carri degli anni ’70, pochi aerei Mirage francesi, parcheggiati in Iran. Punto.


C’è poi chi da quelle parti non sembra aver mai messo il naso, ma che se lo sia soffiato utilizzando i Kleenex prodotti dal “manifesto” e affini. Secondo i quali non v’è mai stata una resistenza nazionale all’occupazione americana e Nato che non fosse quella del clerico scita Moqtada el Sadr, capo di una milizia detta del Mahdi. Ebbene si tratta del personaggio più ambiguo e nefasto dell’intera classe dirigente irachena. Prima devoto all’Iran e studioso da ayatollah a Qom, ai piedi della statua di Khomeini, poi rientrato e convolato a esiziali nozze con i sauditi del bravo assassino Mohammed Bin Salman al Saud, principe ereditario della famigliola padrona dell’Arabia Saudita. Sfortunamente, in combine con il solito Partito Comunista revisionista (che, su ordine di Mosca, si schierò contro Saddam, con cui era al governo), aveva vinto le ultime elezioni parlamentari.

Moqtada al Sadr e Mohammed bin Salman. Lombroso avrebbe da dire qualcosa.

Quando, per screditare l’Iraq, lo si diceva alleato degli USA
Altra panzana, noleggiata dai disinformatori delle centrali sinistro-destre, è quella del Saddam armato dagli Usa, grazie a tali armi  lanciatosi in guerra contro l’Iran e allo sterminio dei curdi col gas. Si deve capire che i poteri che alimentano le balle dei sinistro-destri, o fessi, o pali delle rapine, pencolavano nel loro odio dall’Iraq all’Iran, a seconda di quale dei due paesi risultasse il più fastidioso. Così, quando la minaccia massima a Israele e ai colonialisti tutti era l’Iraq rivoluzionario, panarabo e laico di Saddam, si riforniva Tehran di armi israeliane (scandalo Iran-Contras), si inventavano nefandezze del rais iracheno, come l’uccisione di ben 400.000 curdi (cioè quasi tutti i maschi adulti), mai avvenuta, e la gassazione di 5000-8000 curdi a Halabija, che era invece il bombardamento di un villaggio del tutto abbandonato a cui, secondo l’Istituto di Guerra Usa, sarebbero stati gli iraniani a rispondere con i gas.

 
Saddam impiccato da Moqtada al Sadr su ordine degli USA

Sono fole che equivalgono alle armi chimiche di Assad su Douma, oggi smentite dagli onesti tra gli scienziati dell’OPAC, e all’immensa menzogna degli 8000 bosniaci (cifra che fa impressione, e magari si arriva ai 6 milioni) fucilati dai serbi a Srebrenica. Quanto poi a Saddam che avrebbe iniziato la guerra all’Iran, ci si dimentica che dalla rivoluzione khomeinista in poi, l’Iran non ha cessato di destabilizzare l’Iraq a forza di martellamento propagandistico, di invito agli sciti a sollevarsi e di bombardamenti sulle zone irachene di confine, prima dello scoppio del conflitto, di cui io stesso, nel 1979, sono stato testimone, proprio a Halabija! Ora, demolito l’Iraq di Saddam, il pendolo di Israele, Usa e Nato torna a centrare sull’Iran (ma anche sull’Iraq, visti i recentissimi sviluppi che rivelano un popolo e le sue forze combattenti ancora in piedi e, stavolta, in alleanza con l’Iran!).

Bravo in proclami, Moqtada, l’uno il contrario dell’altro, non ha mai sparato un colpo contro gli americani, né è mai stato partecipo con l’Esercito Del Mahdi, della Resistenza all’occupazione. Quella è stata tutta del partito Baath, dei saddamiti e del popolo patriottico iracheno. Illuminando Moqtada, si vuole evidentemente oscurare quella resistenza che ha inflitto agli Usa, nel corso di ben cinque anni, più di quanto abbiano perso nelle due guerre. A parte alcuni dirigenti del Baath che, equivocando sulla natura del mercenariato Usa, si sono uniti all’Isis, sono stati i partigiani della resistenza all’invasore-occupante che hanno fornito la base scita-sunnita alle vittoriose Forze di Mobilitazione Popolare.

E ora cosa succede
 
Il ritiro dall’Iraq nella lettera del Generale Seely (da ingrandire)

Non cessa la tempesta mediatica che vede conflagrazioni apocalittiche e globali prodotte dall’evento dell’aeroporto di Baghdad. In varie forme, dal conflitto armato convenzionale, a quello nucleare (visto che l’unico attore atomico sulla scena e che non ha firmato il trattato di non proliferazione, è Israele, il più bellicoso), fino a quello “ibrido”, con successive punture di spillo, sotto forma di proxies, alla Isis, di contractors, di attacchi a obiettivi singoli, di sanzioni da non lasciare in vita una mosca. Queste ha promesso il vacillante Trump, dopo aver sentito della richiesta del parlamento iracheno (esclusi ovviamente il mercenariato curdo) di portare a casa gli occupanti Usa e Nato e della lettera del comandante in capo Usa in Iraq, Generale William Seely III, qui riprodotta, che annunciava tale ritiro per i prossimi giorni.

 
Figuriamoci truppe iraniane in Messico, Canada, Caraibi.

Tutto questo, insieme alla minaccia di sanzionare a morte il popolo iracheno e di colpire 52 siti di valore culturale e storico dell’Iran (tipo Isis in Siria e Iraq a ciò istruiti dagli Usa che, come con i trasferimenti coatti di popoli, le migrazioni, così intendono recidere le radici delle nazioni), pare farina del sacco di Trump. In linea con quanto già aveva fatto sapere a Tehran, che tutto si farà fuorchè una guerra o un regime change, come invece auspicato dai neocon e dai Dem. Ai quali va fatta invece risalire l’immediata smentita a Seely da parte del capo del Pentagono Mark Esper. Il quale ha già aggiunto ai 5000 marines e agli incalcolati contractors presenti, altri 750 uomini.  Del resto chi mai poteva illudersi che gli Usa, questi Usa controllati delle forze oscure del Deep State, avrebbero mai lasciato spontaneamente l’Iraq, l’Iraq del petrolio e l’Iraq piattaforma indispensabile per l’egemonia militare e dunque economica in Medioriente. Egemonia, non guerra all’Iran. Esclusa per il semplice fatto che a Tehran basta bloccare il Golfo Persico. Affondando un paio di grosse navi, manderebbe in tilt l’economia  di mezzo mondo. Per la gioia di Greta e pochi altri.


Vittoria o caos?
Quanto ai nostri professionisti inquadrati nella Nato, siamo occupanti e complici degli Usa, quanto lo erano i repubblichini con le formazioni della Wehrmacht. C’è chi ciancia di “un ruolo dell’Italia” in Iraq, in Libia, ovunque. Ovunque le vecchie e nuove potenze coloniali provino a ricuperare i beni perduti. E’ una vergogna senza fine. Ne erano consapevoli i 5Stelle fino a qualche tempo fa. Ora condividono la fola e la vergogna di questo “ruolo dell’Italia”. Magari con effetto “collaterale” di qualche altra Nassiriya, da far inorgoglire il Quirinale e piagnucolare il Vaticano. Noi con Mussolini, Graziani, Balbo e Badoglio, con Crispi e Giolitti, abbiamo già dato. Già rubato, già distrutto, già ucciso. Nessun ruolo, mai, a noi e a chiunque altro pretenda di farsi ancora vedere da quelle parti. Fuori dalle palle, punto.

Qualcuno valuta che avendole perse, o piuttosto non vinte, Washington non rischierebbe un’altra sconfitta. Ma quello che si sono ripromessi, a partire da Bush, Clinton e Obama, i poteri cosiddetti occulti, non è tanto la vittoria, quanto il caos. Una vittoria rischia di sistemare le cose per un verso o per l’altro. Il caos mantiene in vita le operazioni e, dunque, le catene di montaggio dell’industria militare a tempo indeterminato. E così il terrorismo, al quale è demandato anche di giustificare stati sempre più di polizia e sorveglianza. Il caos, poi è creativo, poichè  impedisce che la Russia e i popoli si assicurino vittorie definitive e si mettano di traverso nella marcia per il dominio globale. Che un po’ nasce dal caos e un po’ dalla pax americana, in un benefico mix.

Uniti dalla calunnia


Mi hanno tirato le orecchie per aver accostato il grandissimo generale Suleimani, il Che Guevara del Medioriente, al piccolo rinnegato ed espulso Cinquestelle, Gianluigi Paragone, nella comune opposizione all’arbitrio, alla prepotenza, ai delitti, di ominicchi, quaquaraquà, ruffiani. Probabilmente i critici avevano ragione. Ma non rinnego tale similitudine che è quello tra una quercia e un roveto. Entrambi piante sono. Tanto più che oggi al comune destino di vittime di abusi si somma un'altra consonanza: quella della diffamazione riservata ad entrambi e dalle stesse fonti. Che sono quelle dell’unanimità sopra citata, cui tornano in uggia tutti coloro che non stanno agli ordini del preside. Mi permettete di includere nella compagnia di alti e bassi, grandi e medi e piccoli, anche un’altra figura di valore che paga per la sua coerenza e il suo rifiuto di chinare la testa e di battersi a tutti i costi per il giusto e il vero, non con la vita, non con l’ostracismo, ma con il carcere? E’ Nicoletta Dosio, No Tav in Val di Susa, in Italia e nel mondo. Alla faccia di Conte e Di Maio. E chi obietta, peste lo colga.