https://www.youtube.com/watch?v=-lgDzSiFaq0
Titolo un po’
criptico quello di questa presentazione, che poi è anche il titolo dell’articolo
che ho pubblicato su questo numero di “Visione-Un altro sguardo sul mondo”.
Per paura
intendo ciò che tutti intendiamo: una condizione psicofisica di fronte a un
qualcosa che si percepisce minaccioso, pericoloso. Condizione che può essere positiva, se ci mette in atteggiamento
di difesa e reazione; o negativa, se ci paralizza e ci toglie le capacità di
rispondere adeguatamente all’evento.
La mia esperienza,
tratta e maturata grazie alla frequentazione di situazioni che possono produrre
paura, guerre, conflitti, catastrofi naturali, fenomeni che incombono, mi ha
portato a smentire molti sociologi, psicologi, pediatri, sapientoni vari.
Coloro che, denunciando gravi ripercussioni sanitarie, specie psichiche,
traumatiche, in particolare sui bambini, “poveri innocenti”, di eventi
drammatici o tragici, in qualche modo favoriscono e potenziano gli effetti
nefasti che i promotori e responsabili di tali eventi si erano ripromessi. Magari
in perfetta buonafede.
E’ che generalizzano,
non distinguono, fanno di ogni erba quel fascio che in qualche modo conviene
alla loro visione delle cose e, del caso, anche alle loro tasche. Che si è uno
psichiatra infantile a fare, se non si diagnosticano pesanti traumi inflitti ai
bambini dai costanti bombardamenti israeliani su Gaza, dalla vista di un loro
fratello colpito e mutilato, dalla propria casa ridotta in briciole.
E, invece,
no. Io a Gaza ci sono stato, tra la gente degli infiniti bombardamenti, delle famiglie
sminuzzate, dal ritorno allo stato di cavernicoli, a sopravvivere tra le
macerie di quella che era una dignitosa abitazione. Vorrei che vedeste il mio
docufilm “Araba Fenice, il tuo nome è Gaza e ascoltaste quella
ragazzina di 12 anni raccontarmi come la guerra israeliana detta “Piombo Fuso”,
quella dei carri armati fin dentro le case, quella delle venti esplosioni al minuto,
quella della decimazione di persone in fuga dalla piazza a forza di raffiche di
mitraglia.
Quella
ragazzina aveva la forza, la serenità, di una combattente. Aveva perso tutto,
madre, fratello, zii, casa, infanzia. Aveva sofferto, soffriva, ma non era
traumatizzata, resa inerme, disperata. Andava a scuola, che allora era diventata
una tenda. Sapeva chi l’aveva colpita, e perché e sapeva ancora meglio che
apparteneva a una gente, a una comunità, a un popolo che combatteva, intendeva
restare in piedi. Sapeva che se non fosse andata a scuola, sarebbe stata
sconfitta. Sapeva della Nakba, della terribile violenza degli invasori, di cosa
avesse subito quel suo popolo e come era rimasto in piedi, lacero, sanguinante,
ma con la luce dell’orizzonte, quello alle spalle e quello davanti, negli occhi e nel cuore.
Aveva l’idea,
non aveva paura. Se ne sarebbe vergognata, della paura, di fronte al suo popolo
in resistenza. Stesso discorso per i ragazzi di Falls Roads, Belfast, Irlanda
del Nord, generazione dopo generazione, per trent’anni. Stesso discorso per i
siriani, massacrati e depredati da Obama, Trump, Biden, Israele, jihadisti. Stesso
discorso, stessa “idea”, per i nostri partigiani, del Risorgimento e della
Resistenza. Hanno l’idea, sanno chi gli è nemico e perché e che vita vuol dire resistenza.
E viceversa. Altro che traumi. Resistere è anche felicità.
Quanto alla
paura che c’è quando non c’è “l’idea”, basta pensare a chi correva alla disperata
verso gli hub messi su dai mercanti e untori Pfizer o Moderna. Quelli che non
avevano paura avevano un’idea. Si chiamava “No Vax”, o, quanto meno, “No Green
Pass”.
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