domenica 22 dicembre 2024

Mille anni di guerra agli arabi --- ERDOGAN, DOVE STA, DOVE VA, CON CHI

 



Non fosse che Israele si è presa, per tenersela in vista del Grande Israele, una bella fetta della Siria e che ne ha distrutto l’intero dispositivo militare, il protagonista assoluto del nuovo assetto della regione dovrebbe essere individuato in Erdogan e nei suoi propositi geopolitici.

Per questi è innegabile che, al di là del volatile e transitorio utilizzo che gli USA (ora presenti in Siria con migliaia di militari e tre grandi basi) hanno fatto dei curdi per consolidare occupazione e sfruttamento delle risorse economiche strategiche della Siria, condizionandone in tal modo ricostruzione e ogni futura mossa di chiunque se la mastichi, l’intesa operativa tra Washington e Ankara è solida e strategica.

Conta ormai poco, il mercenariato curdo e sono del tutto strumentali gli accordi che gli USA ci hanno stretto quando si trattava di preparare il terreno alla frammentazione della Siria e alla conquista delle sue regioni economicamente determinanti. Mercenariato sacrificabile alla prima occasione, come succede presto o tardi a tutti i portavivande dell’operazione unipolare globalista. Non hanno potere e tanto meno potere di ricatto. Sono serviti a contribuire alla destabilizzazione della Siria, a fare da sponda ai jihadisti e ai loro sponsor dall’altro lato del campo di battaglia, Israele. Ne sanno qualcosa i curdi del tempo di Saddam.

Erdogan, al di là delle iniziative che ne vorrebbero proiettare autonomia e libertà di scelte, come nelle mediazioni più o meno credibili, o riuscite, con Russia e Ucraina, resta un fondamentale pilastro della NATO, con sul suo terreno, Incirlik, la più grande base, pure nucleare, dell’organizzazione fuori dagli USA. E’ questo ruolo che gli ha concesso via libera per la partecipazione alla distruzione e parziale appropriazione, guidata da Israele sul davanti e dal gemello USA da dietro, del più grande ostacolo alla normalizzazione imperialsionista del Medioriente.

Si ricordi che, nelle sue molteplici conflittualità, altamente dispendiose e parallele a una crisi intera senza precedenti (700.000 immigrati tornati nel paese d’origine), chi ha tenuto in piedi lo Stato Sionista, al pari degli armamenti USA, è stato il petrolio dell’Azerbaijan e del Nordest siriano. Combustibile  che i turchi riversavano nell’esercito, nell’apparato industriale e nei trasporti israeliani.

Pino Arlacchi, ex-vicesegretario dell’ONU e forse l’unico, con Waldheim e Boutros Ghali, a non averne tradito e disonorato ruolo e missione istituzionali piegandola a copia subalterna della NATO, traccia sul Fatto Quotidiano un’interessante e documentata analisi di chi sia Erdogan e da chi sia attorniato.

Risalendo al colpo di Stato del 2016, in cui un tessuto militar-economico-accademico facente capo a un antico rivale di Erdogan, Fethulla Guelen, rifugiato negli Stati Uniti, non meno islamista, ma allineato più con ambienti di Wall Street che con la Fratellanza Musulmana, aveva tentato di rovesciare il regime, Arlacchi sviluppa un suo teorema su dove si collocherebbe il ras turco. Si tratterebbe della transizione di Erdogan dal quadro euro-sion-atlantico a quello asiatico. I suoi referenti privilegiati sarebbero diventati Russia, Cina e, addirittura, l’Iran scita, visceralmente avversato dai sunniti della Fratellanza della quale Recep Tayyip è, con gli Al Thani del Qatar, portabandiera e imam supremo. 

E’ vero che, facendo affidamento sulla riuscita del golpe di Guelen, più affidabile in quanto profondamente integrato in “the American way of life” e detentore di un capitale di almeno 50 miliardi, alcuni dei più potenti fondi d’investimento e delle maggiori banche israelo-statunitensi, da Blackrock a Goldman Sachs, operarono pesantemente contro la lira turca. Con efficacia non sufficiente, però, da determinare l’esito ripromessosi da Guelen e padrini. Parrebbe che Intelligence e apparati militari USA si siano subito rassegnati, al primo segno di fallimento del golpe, a proseguire con Erdogan. Oggi sono stati ripagati con l’eliminazione dalla scena della più significativa presenza ostativa araba.

Il disegno strategico del biscazziere Erdogan non è l’inquadramento, seppure in posizione di rilievo, nel “nuovo mondo” del Sud globale formato dai BRICS e fondato sulla preminenza economica e militare di Cina e Russia. E’ un altro, assai diverso. Dipende dal consenso e dal concorso USA, marcia in parallelo, si identifica col capitalismo liberista egemonico e neocolonialista che trova appaiate mezzaluna islamista, stelle e strisce e stella di David. Intende prendersi cura dei settori per i quali nessuna delle potenze globali ha, nella fase, sufficienti risorse, e/o interesse. A partire dal nord dell’Iraq e a finire con il Nord della Siria, passando nel contempo di continente in continente.

Senza dimenticare l’abbrivio alla collaborazione strategica con l’euroatlantismo nella caosizzazione della Jugoslavia (Bosnia, Kosovo), è dalla caosizzazione della Libia che Erdogan ha allungato i tentacoli di questa nuova piovra massonico-mafiosa, creata a Londra negli anni ’20 in funzione anti-nazionalismo panarabo laico e socialista.

Era una Libia sull’orlo del ricupero della propria sovranità e unità statale, grazie all’appoggio dell’Egitto, dopo Morsi non più Fratello Musulmano, e della Russia, a un passo dalla riconquista della Tripoli in mano alle bande jihadiste. Fu rigettata in discarica dall’intervento delle truppe di Erdogan. Successo euroatlantico accompagnato dalla contemporanea presa in carico, da parte dei turchi, della smisurata fascia di idrocarburi che si estende nel mare tra Asia Minore e Libia.

I servizi segreti britannici puntellarono la manovra allestendo il fattaccio del loro Giulio Regeni, finalizzato a togliere di mezzo il disturbo italiano, eminentemente ENI, impegnato a fare cose petrolifere – ed altre - insieme al Cairo.

Facendo apprezzati favori al globalismo occidentale, guerrafondaio e destabilizzante ovunque occorresse, Erdogan prendeva quota con strumenti militari ed economici anche nel Corno d’Africa, Somalia, Oman, Sudan. Un avvicinamento ai paesi del Sahel, appena liberatisi dallo strangolamento francese, fu lucidamente respinto da nuovi governanti che ben capivano chi manovrasse quell’ammiccante manina.

Resta da menzionare il capillare e massiccio intervento di Erdogan in Asia centrale, dall’Azerbaijan amerikano (guerra israelo-turca all’Armenia), attraverso il centro asiatico turcofono, fino agli uiguri dello Xinjang (altro che nuovi orizzonti cinesi!), sia sotto forma di incentivazione islamista, implicitamente antirussa e anticinese, sia nel rastrellamento di tagliagole da usare contro la Siria. Nella prospettiva, sognata a Londra, Washington e Bruxelles, di una Russia balcanizzata, lo strumento islamista del Fratello turco appare promettente.

L’orizzonte di Erdogan, ottimo Arlacchi, non sono Russia, Cina e i BRICS (nei quali, pure, proverà a incistarsi, come sempre nel suo esclusivo interesse).  E’ un orizzonte ottomano, afroasiatico, cementato dall’islamismo massonico della Fratellanza, storicamente in combutta, magari ogni tanto concorrenziale, con il colonialismo e i suoi ritorni.

Quello che più conta, nella prospettiva storica, è però un’altra vicenda. Con la rimozione del cuore di una nazione che, accanitamente frustrata nella sua perenne ricerca di unità, si estende dal Golfo all’Atlantico, il turco si è ripreso la rivincita. La sua e quella di coloro ai quali gli arabi soffiarono l’impero ottomano tagliando corto con un breve trentennio di euro-colonizzazione.

La guerra dei mille anni contro gli arabi, unici semiti del globo terracqueo, ha registrato l’ennesima svolta. E ancora una volta sono stati gli arabi a rimetterci. Gli altri ne hanno una paura fottuta. Barbari che siamo, gli dobbiamo far pagare di essere stati la nostra culla e, poi, di averci trasmesso quella che è diventata la nostra civiltà.

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