Non
fosse che Israele si è presa, per tenersela in vista del Grande Israele, una
bella fetta della Siria e che ne ha distrutto l’intero dispositivo militare, il
protagonista assoluto del nuovo assetto della regione dovrebbe essere
individuato in Erdogan e nei suoi propositi geopolitici.
Per
questi è innegabile che, al di là del volatile e transitorio utilizzo che gli
USA (ora presenti in Siria con migliaia di militari e tre grandi basi) hanno
fatto dei curdi per consolidare occupazione e sfruttamento delle risorse
economiche strategiche della Siria, condizionandone in tal modo ricostruzione e
ogni futura mossa di chiunque se la mastichi, l’intesa operativa tra Washington
e Ankara è solida e strategica.
Conta
ormai poco, il mercenariato curdo e sono del tutto strumentali gli accordi che
gli USA ci hanno stretto quando si trattava di preparare il terreno alla
frammentazione della Siria e alla conquista delle sue regioni economicamente
determinanti. Mercenariato sacrificabile alla prima occasione, come succede
presto o tardi a tutti i portavivande dell’operazione unipolare globalista. Non
hanno potere e tanto meno potere di ricatto. Sono serviti a contribuire alla
destabilizzazione della Siria, a fare da sponda ai jihadisti e ai loro sponsor
dall’altro lato del campo di battaglia, Israele. Ne sanno qualcosa i curdi del
tempo di Saddam.
Erdogan,
al di là delle iniziative che ne vorrebbero proiettare autonomia e libertà di
scelte, come nelle mediazioni più o meno credibili, o riuscite, con Russia e
Ucraina, resta un fondamentale pilastro della NATO, con sul suo terreno,
Incirlik, la più grande base, pure nucleare, dell’organizzazione fuori dagli
USA. E’ questo ruolo che gli ha concesso via libera per la partecipazione alla
distruzione e parziale appropriazione, guidata da Israele sul davanti e dal
gemello USA da dietro, del più grande ostacolo alla normalizzazione imperialsionista
del Medioriente.
Si
ricordi che, nelle sue molteplici conflittualità, altamente dispendiose e
parallele a una crisi intera senza precedenti (700.000 immigrati tornati nel
paese d’origine), chi ha tenuto in piedi lo Stato Sionista, al pari degli
armamenti USA, è stato il petrolio dell’Azerbaijan e del Nordest siriano.
Combustibile che i turchi riversavano
nell’esercito, nell’apparato industriale e nei trasporti israeliani.
Pino
Arlacchi, ex-vicesegretario dell’ONU e forse l’unico, con Waldheim e Boutros
Ghali, a non averne tradito e disonorato ruolo e missione istituzionali
piegandola a copia subalterna della NATO, traccia sul Fatto Quotidiano
un’interessante e documentata analisi di chi sia Erdogan e da chi sia
attorniato.
Risalendo
al colpo di Stato del 2016, in cui un tessuto militar-economico-accademico
facente capo a un antico rivale di Erdogan, Fethulla Guelen, rifugiato negli
Stati Uniti, non meno islamista, ma allineato più con ambienti di Wall Street che
con la Fratellanza Musulmana, aveva tentato di rovesciare il regime, Arlacchi
sviluppa un suo teorema su dove si collocherebbe il ras turco. Si tratterebbe
della transizione di Erdogan dal quadro euro-sion-atlantico a quello asiatico.
I suoi referenti privilegiati sarebbero diventati Russia, Cina e, addirittura,
l’Iran scita, visceralmente avversato dai sunniti della Fratellanza della quale
Recep Tayyip è, con gli Al Thani del Qatar, portabandiera e imam supremo.
E’
vero che, facendo affidamento sulla riuscita del golpe di Guelen, più
affidabile in quanto profondamente integrato in “the American way of life”
e detentore di un capitale di almeno 50 miliardi, alcuni dei più potenti fondi
d’investimento e delle maggiori banche israelo-statunitensi, da Blackrock a
Goldman Sachs, operarono pesantemente contro la lira turca. Con efficacia non
sufficiente, però, da determinare l’esito ripromessosi da Guelen e padrini.
Parrebbe che Intelligence e apparati militari USA si siano subito rassegnati,
al primo segno di fallimento del golpe, a proseguire con Erdogan. Oggi sono
stati ripagati con l’eliminazione dalla scena della più significativa presenza
ostativa araba.
Il
disegno strategico del biscazziere Erdogan non è l’inquadramento, seppure in
posizione di rilievo, nel “nuovo mondo” del Sud globale formato dai BRICS e
fondato sulla preminenza economica e militare di Cina e Russia. E’ un altro,
assai diverso. Dipende dal consenso e dal concorso USA, marcia in parallelo, si
identifica col capitalismo liberista egemonico e neocolonialista che trova
appaiate mezzaluna islamista, stelle e strisce e stella di David. Intende
prendersi cura dei settori per i quali nessuna delle potenze globali ha, nella
fase, sufficienti risorse, e/o interesse. A partire dal nord dell’Iraq e a
finire con il Nord della Siria, passando nel contempo di continente in
continente.
Senza
dimenticare l’abbrivio alla collaborazione strategica con l’euroatlantismo
nella caosizzazione della Jugoslavia (Bosnia, Kosovo), è dalla caosizzazione
della Libia che Erdogan ha allungato i tentacoli di questa nuova piovra
massonico-mafiosa, creata a Londra negli anni ’20 in funzione anti-nazionalismo
panarabo laico e socialista.
Era
una Libia sull’orlo del ricupero della propria sovranità e unità statale,
grazie all’appoggio dell’Egitto, dopo Morsi non più Fratello Musulmano, e della
Russia, a un passo dalla riconquista della Tripoli in mano alle bande
jihadiste. Fu rigettata in discarica dall’intervento delle truppe di Erdogan.
Successo euroatlantico accompagnato dalla contemporanea presa in carico, da
parte dei turchi, della smisurata fascia di idrocarburi che si estende nel mare
tra Asia Minore e Libia.
I
servizi segreti britannici puntellarono la manovra allestendo il fattaccio del
loro Giulio Regeni, finalizzato a togliere di mezzo il disturbo italiano,
eminentemente ENI, impegnato a fare cose petrolifere – ed altre - insieme al
Cairo.
Facendo
apprezzati favori al globalismo occidentale, guerrafondaio e destabilizzante
ovunque occorresse, Erdogan prendeva quota con strumenti militari ed economici anche
nel Corno d’Africa, Somalia, Oman, Sudan. Un avvicinamento ai paesi del Sahel,
appena liberatisi dallo strangolamento francese, fu lucidamente respinto da
nuovi governanti che ben capivano chi manovrasse quell’ammiccante manina.
Resta
da menzionare il capillare e massiccio intervento di Erdogan in Asia centrale,
dall’Azerbaijan amerikano (guerra israelo-turca all’Armenia), attraverso il
centro asiatico turcofono, fino agli uiguri dello Xinjang (altro che nuovi
orizzonti cinesi!), sia sotto forma di incentivazione islamista, implicitamente
antirussa e anticinese, sia nel rastrellamento di tagliagole da usare contro la
Siria. Nella prospettiva, sognata a Londra, Washington e Bruxelles, di una
Russia balcanizzata, lo strumento islamista del Fratello turco appare
promettente.
L’orizzonte
di Erdogan, ottimo Arlacchi, non sono Russia, Cina e i BRICS (nei quali, pure,
proverà a incistarsi, come sempre nel suo esclusivo interesse). E’ un orizzonte ottomano, afroasiatico,
cementato dall’islamismo massonico della Fratellanza, storicamente in combutta,
magari ogni tanto concorrenziale, con il colonialismo e i suoi ritorni.
Quello
che più conta, nella prospettiva storica, è però un’altra vicenda. Con la
rimozione del cuore di una nazione che, accanitamente frustrata nella sua
perenne ricerca di unità, si estende dal Golfo all’Atlantico, il turco si è
ripreso la rivincita. La sua e quella di coloro ai quali gli arabi soffiarono
l’impero ottomano tagliando corto con un breve trentennio di euro-colonizzazione.
La
guerra dei mille anni contro gli arabi, unici semiti del globo terracqueo, ha
registrato l’ennesima svolta. E ancora una volta sono stati gli arabi a
rimetterci. Gli altri ne hanno una paura fottuta. Barbari che siamo, gli
dobbiamo far pagare di essere stati la nostra culla e, poi, di averci trasmesso
quella che è diventata la nostra civiltà.
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