martedì 28 ottobre 2008

AUX ARMES LES CITOYENS


“Quale paese potrà conservare la sua libertà se i governanti non vengono avvisati di tanto in tanto che il popolo mantiene lo spirito della resistenza. Lasciate che prenda le armi.”
Thomas Jefferson
(da noi si dovrebbe scrivere Resistenza con la R maiuscola. E ad Echelon mando a dire che qui si tratta di armi della critica e della piazza, non l'inverso auspicato da Kossiga)

Prendete le facce degli studenti di ogni età, grado e classe (e dei loro insegnanti e genitori) e confrontatele con quelle dei bonzi della classe dirigente con in testa il guitto-mannaro, il guitto-coniglio, il guitto-muselide. Avrete l’impressione di mettere a paragone un Botticelli con un Hyeronimus Bosch. Quanto all’intelligenza di ciò che dicono gli uni e gli altri è come ascoltare una sinfonia di Beethoven e poi la scorreggia di un ippopotamo. C’è chi si affanna a leggere, da “Repubblica” al “manifesto”, negli striscioni, cartelli, slogan, dichiarazioni dei ben selezionati, assolutamente niente di politico, tantomeno di ideologico, bruttissime cose, ma solo un’attenzione ai propri problemi specifici: tagli dei finanziamenti, maestro unico, niente ricerca, cinque in condotta, futuro affogato nella nebbia. Insomma bravi ragazzi pragmatici e senza ubbie rivoluzionarie per la testa, escludendo ovviamente i “facinorosi”. Eccelle a sinistra, come sempre, “il manifesto” che, gongolante, fa tracimare la sua cronaca di battute di studenti che “non è una questione politica… nessuna ideologia… il dissenso non è dettato da posizioni ideologiche … non è questione di destra o sinistra…” Come se un qualunque ordine di idee, di singoli o di milioni come oggi, non fosse politica, non fosse ideologia.
E i sindacati confederali? Custodi, come Napolitano, dell’ordine costituito da padroni, mafiosi e piduisti, di fronte ai 5000 esuberi, ai 250mila docenti licenziati in tre anni, alla strategia del neo-protocapitalismo totalitario per una massa di ignoranti rimbecilliti appesi al superenalotto, decretati in Senato il 29 ottobre, proclamano lo sciopero generale per il giorno dopo. Così pure il guru dei Disobbedienti e municipalisti antistato, Marco Revelli, per il quale era da cinquant’anni che non si vedeva una roba del genere. Cinquant’anni? Il 1958? Ma non sguazzavamo tutti, boomizzati in “Cinquecento”, nella palude DC-PCI? Revelli, un gufatore se ce n’è uno, che solo pochi giorni prima parlava degli italiani tutti come di una razza antropologicamente rovinata, si affretta anche a esorcizzare l’analogia ’68 – ‘2008. Pensate come se lo ricorda, il ’68: “uno scenario gioioso e giocoso” che si limitava a voler “mutare la cultura ossificata dell’istituzione scolastica”. Tutto qui. Ma quale ’68 mai ha visto questo Revelli? Quello iniziato con la rivolta di Valle Giulia e ammazzato con Francesco Lo Russo a Bologna e poi con il terrorismo di Stato fatto passare per “banda armata”? Quello che, da Berkeley a Tokio, attraversando Vietnam e Palestina, inalberando un’unica bandiera rossa, producendo un pensiero marxista per il cambiamento aggiornato dello stato di cose presente, vedeva e voleva la rivoluzione socialista dietro l’angolo? Tutti ancora tremanti al ricordo del rischio corso in quel rivolgimento epocale. Tutti esorcisti, tutti becchini, capo becchino Napolitano, di ciò che temono possa diventare il più grande movimento antagonista italiano da trent’anni a questa parte. Se solo riesce a durare oltre capodanno, a congiungersi e rianimare i movimenti sul territorio, No Dal Molin, No Tav in testa, e a svegliare un po’ di classe operaia.

E la sinistra, dal “manifesto” ai partiti con la falce e martello, eccola rianimarsi dopo il coccolone e rincorrere in affanno quanto non ha saputo né prevedere, né suscitare. E l’agonizzante verme in fase di cambio di pelle, guidato dal guitto-coniglio liftato e con panciera tirata, che si attizza, che raduna un po’ di popolo sognante (in parte risvegliabile: Veltroni s’è visto incenerito da manifesti col Che) per buttarlo tra i piedi di un movimento da pervertire a propria immagine e somiglianza. Un movimento che si vorrebbe esibire nella vetrina del proprio bingo, in concorrenza con quanto apparecchiano i biscazzieri della bisca accanto: zoccole, ruffiani e squadristi.

A questo proposito ci fa ghignare il dato del “manifesto” che ci dimostra come nei 73mila metri quadrati del Circo Massimo non ci stiano più di 300mila esseri umani, perlopiù compenetrati uno nell’altro in quattro per metro quadro. E senza carrozzine, carrozzelle o cani. E noialtri, l’11 ottobre delle bandiere rosse e il 17 dei sindacati di classe, eravamo altrettanti. Per ben due volte!.

Era andata così, più o meno, e ho il privilegio di averlo vissuto, anche nel 1968. Tutti sereni e tolleranti, compreso l'allora cantore di Berlinguer e attuale catafalco Eugenio Scalfari, finchè gli studenti se la prendevano con l’aumento del costo delle mense e degli alloggi universitari. Non hanno imparato nulla. Allora alla contestazione del prezzo della sbobba di mensa gli universitari arrivavano carichi di campagne spopolate e di ceti urbani su cui il boom era scivolato dopo aver spostato quei quattro soldi dal materasso nei depositi fantastilionici dei paperoni. Giovani che negli studi, sul lavoro, in famiglia, nel pensiero, erano dovuti passare sotto le forche caudine del consorzio DC-PCI, scaturito dall’annichilimento dei propositi della Resistenza e dalla restaurazione dell’architettura statale fascista, si portavano dietro e lanciarono, oltre le mense e le “Case degli studenti”, una rivoluzione anzitutto antiautoritaria e, poi, coerentemente, anticapitalista e antimperialista. Dalla consapevolezza della dittatura del pater familias a quella della gerarchia scolastica, del padrone, del prete, dello Stato borghese. Succede questo nei movimenti, meglio quando ci sia alle spalle una tradizione-nostalgia-volontà rivoluzionaria, un’elaborazione teorica ( Gramsci, Quaderni Rossi, Lotta Continua…), un modello rivoluzionario (Cuba, Vietnam, i fedayin) e, allora, addirittura un’egemonia culturale, certo non merito degli ossificati burocrati del PCI, terrorizzati compari di repressione della destra, ma piuttosto di intellettuali dal PCI maltollerati, quando non ostracizzati (Vittorini, Pasolini, Tronti, Panzeri, la Scuola di Francoforte, quelli del “manifesto”…), a prescindere dalla valutazione che se ne può dare oggi. Da dove è partito, secondo voi, l’impulso alla classe operaia che nel periodo 1968-1977 ha registrato la massima adesione al voto di sinistra dal 1948 ad oggi? E addesso, quand’è che la mitica classe operaia farà sul welfare, su Fondi Pensione, sul trattamento di fine lavoro, sui salari, sulla nocività, sul contratto nazionale lo stesso casino di scolari, studenti, docenti, bidelli, segretari, papà e mamma sulla scuola? Vuoi vedere cosa diranno i confederali, in coro con Veltrusconi e la Confindustria, non appena il primo “facinoroso”, magari targato Cossiga, lancerà un chinotto?

La bellezza estetica e morale di questa rivolta studenti-insegnanti-genitori, sfuggita alla normalizzazione berlusconide di “Caramba”, “Isola dei famosi”, “Amici”, come alla sterilizzazione politica del veltrusconismo-veltrinottismo e alla corruzione di conoscenza-coscienza operata dallo scandalistico “Repubblica” e dal fogliaccio Usraeliano diretto da Paolo Mieli, merita il concorso di quanto di correttamente ideologico finora ha potuto agitarsi nei sottoscala del Palazzo Sinistro. Irranciditi e screditati gli inquilini dei piani alti, è il momento dell’uscita dalle catacombe di quanto in questi anni e decenni s’è mantenuto vivo e integro. Per servire questo movimento, per aiutare a creare l’inevitabile tessuto connettivo e di crescita con tutte le realtà in piedi, dalla Val di Susa ai tanti Chiaiano e a tutti coloro cui non si è ancora annebbiata la vista su questo regime di piduisti-mafiosi-fascisti-imperialisti, No-Dalmolin in testa.
L’antimperialismo e la lotta antiguerra, ahinoi, ha trovato scarsissima rappresentanza sia nei cortei d’ottobre, sia, ovviamente, nell’adunata, magari generosa in tanti, ma contaminata dalla strategia conciliativa e inciucista, della banda veltrusconiana. Il carburante ideologico ed emotivo che fornirono all’insurrezione mondiale, di classe e dei popoli anticolonialisti, le resistenze di Vietnam e Palestina, gli Ho Ci Min, Arafat (quello d’antan), Malcolm X e le Pantere Nere, dovrebbe farci capire che senza i collegamenti internazionali a Cuba, al Venezuela e agli altri paesi latinoamericani in marcia, ai partigiani iracheni, ai resistenti afghani, palestinesi, somali, africani, si resterebbe frenati dai tossici stereotipi del “terrorismo islamico”, dei “diritti umani”, della “democrazia”. Far saltare queste aporie dell’intossicazione intellettuale e del dominio criminale dovrebbe costituire le munizioni che l’autonomia e l’antagonismo di classe offrono alla battaglia dei nuovi movimenti. A partire dal disvelamento del carcinoma dell’ 11 settembre e delle sue metastasi planetarie.
Intanto credo che questi ragazzi e popolo collegato abbiano già profondamente percepito e sofferto il degrado politico sociale e culturale di questo e del precedente governo. Matureranno certamente un’alternativa che, per necessità oggettiva scientifica, non si allontanerà di molto dalla prospettiva che nutriamo noi rivoluzionari vegliardi. Sanno benissimo che, insieme alla loro istruzione, andrà a puttane l’intero pianeta e ne trarranno salutari conclusioni. Che non saranno certo quelle che a gente già assai più avanti il Verltrusconi ha proposto: un’azione parlamentare napolitanamente “dialogante”, cioè arresa in partenza, che smorzi e poi elimini le energie scatenatesi in aule, piazze, atenei. A vedere le lezioni universitarie o liceali sulle scalinate pubbliche, mi si affacciava il ricordo delle assemblee e scuole quadri in piazza, sotto i monumenti di Buenos Aires, con cui piqueteros argentini preparavano la presa operaia delle fabbriche, l’epurazione delle forze armate fasciste, la bonifica delle università. Dialogo? Ma quale dialogo con chi, schiumando vaticini fascisti, ti massacra di botte quando stai a mani alzate e chi, dallo scranno più alto della Nazione su cui aveva imperversato, sollecita un Bava Beccaris.

Ero su quel Ponte Garibaldi a Roma quando un’iniziativa per il divorzio del Partito radicale, allargata dal movimento a ogni altra lotta, il 12 maggio 1977, aprì la strada a un delinquente-capo per coronare la sua carriera al servizio di massoneria e imperialismo con l’assassinio di Giorgiana Masi, poi seguito dal pogrom di Bologna e dall’uccisione di Francesco Lorusso. Quel delitto, si ricordi, fu anticipato da un’altra infamia: lo sfacelo di Lotta Continua, spina dorsale della rivolta ed elaboratrice di paradigmi rivoluzionari che superavano l’ambito della “classe operaia soggetto rivoluzionario”, in buona parte isterilito dal PCI, per coprire i nuovi terreni delle presenze e dei bisogni proletari. Sfacelo deciso dal suo stesso “carismatico leader”, Adriano Sofri, forse convertito, forse ricattato, forse infiltrato, che puntualmente, un anno prima, abbandonata allo smarrimento e alla disperazione e manipolazione armata una generazione che aveva mobilitato al sacrificio di ogni cosa, convolò a nuove nozze con i sovrani radical-craxisti del riflusso e della restaurazione borghese, fino a farsi sicofante delle guerre di sterminio euro-israelo-statunitensi. Sempre più sotto il segno, propedeutico del nuovo fascismo, della corruzione culturale e costituzionale.

Quel delinquente, un terrorista di Stato che tiene sul comodino i ritratti con ceri di Pinochet e Videla, ormai probabilmente preda di senili deliri sanguinari, diventato “padre della patria” si è ripetuto. Il sangue versato dalla sua vandea revanscista negli anni della strategia della tensione, Moro compreso, non basta al vecchio licantropo. E pour cause: quanti meriti accumularono i suoi “infiltrati” e sicari in quella stagione di una “lotta armata” che puzzava più di Mossad e Cia di quanto non profumasse di rivoluzione. Vale la pena, per chi avesse trascurato altre fonti, ritrascrivere quanto questo castigamatti seriale ha dedicato alla lotta di popolo in corso nelle piazze, scuole, città, valli d’Italia. “…Infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto (tipo i “Falchi” cossighiani che spararono alla minorenne Giorgiana), e lasciare che per una decina di giorni manifestanti (?) devastino negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città (vista la buona prova del Black Block a Genova). Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di Polizia e Carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì… questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio”.

L’ingordigia di sofferenze altrui del vecchio sadico dalle irrisolte pulsioni, è irrefrenabile. Eccone uno che si presta come protagonista di quell’ idiotico serial “Perché gli uomini uccidono le donne”, con cui l’anticomunista Sansonetti e le sue ginocrate in carriera tempo fa depistarono dalla degenerazione bertinottiana e ci per mesi su “Liberazione”. Speriamo che l’avvedutezza di questa “fiamma”, riaccesa dalla brace del ’68-77, faccia divampare un incendio che saprei io a quale parte anatomica dell’infiltratore-picchiatore appiccherei. Intanto Ferrero, o qualunque magistrato, o anche cittadino, appena occhiuto, perché non denunciano questa variabile lucidamente impazzita per una catena di reati, a cominciare dall’istigazione a delinquere, dall’apologia di reato, dalla diffusione di notizie false e tendenziose, dalla violazione della Costituzione, dall’ incitazione alla violenza?

A dar retta ai “facinorosi” c’erano, l’altra sera, cinque milioni di cittadini davanti agli schermi di “Anno Zero”, delle sue citazioni cossighiane e dei suoi studenti e maestri. Una metà degli italiani condivide la protesta delle vittime della Gelmini. A noialtri, quarant’anni fa, non ha detto altrettanto bene. Ora si susseguono le fasi dell’eterno piano totalitario: minimizzare una contestazione, rivolta, guerriglia che sia; non riuscendoci, ridicolizzarla come ottusa, ingrata, strumentalizzata, eversiva. Indi affrontarla con la menzogna, le blandizie e, facendo leva sulla componente retriva, timorosa, corrotta, la “maggioranza (?) silenziosa”, dividere il movimento in “buoni” e “cattivi”. I buoni già trascorrono e spariscono all’orizzonte, inghiottiti da uno scambio di ruoli non riuscito e dalla gioiosa sodomizzazione da parte della contro(?)parte. Sono, oltre ai tanti moderati ed educati, che confluiranno in qualche scuola dei Saveriani, quella frangia d’estrema destra (ottimi infiltrati) di cui qualche naive ha esaltato l’unità con gli studenti “di sinistra”. Come se fosse ontologicamente possibile unire sgherri dei carnefici a coloro che ne sono le vittime. Ci avevano provato anche allora, ricordate i nazimaosti o simili? Dura minga. Quanto ai "cattivi", inconcepibile pensare che Kossiga possa fotterli un'altra volta. Ci dovrà pensare Franti.

Dopo quelle citate e non risultate sufficienti, partono le fasi così elegantente e democraticamente insegnate da Cossinochet. E lì bisogna saperci muovere, bisogna pensare a come, in Bolivia e non solo, una massa compatta e durevole ha occupato il paese e i palazzi del potere paralizzando il funzionamento di ogni cosa. Quattro presidenti felloni in successione si sono dovuti dare alla fuga, si è tentato di iniziare una rivoluzione. Vabbè che i minatori, servizio d’ordine del movimento, avevano i candelotti ma, tutto sommato, il divario tecnologico tra studenti, indios, intellettuali e cocaleros, da un lato, e, dall’altro, il regime, pur se a livelli inferiori, non era molto diverso da quello che abbiamo oggi tra Nocs e tutti. Allora avevamo qualche luce sull’impervio sentiero: il generale Giap, Rudi Dutschke, i protagonisti del Maggio francese (poi sodali del sofrismo), George Habash, i Tupamaros e Monteneros, Fidel, il Che. Roba forte. Oggi chi c’è? Visto che ha vinto, seppure con qualche decennio di ritardo, ancora c’è e vale per tutti il Che Guevara. Tanto che è stato sbattuto addirittura sul grugno da batrace del Pidiista sul palco, il 25 ottobre al Circo Massimo. Non è poco. E’ tra coloro che hanno dato il bacio alla bella narcotizzata nel bosco. E continuerà a baciarne quante ne trova addormentate. Quanto a noi, bizzarri giurassici, sarà già qualcosa se riusciremo ad attivare memorie negate o deturpate. Se, sulla lavagna di Maria Montessori, aiuteremo a collegare con la matita i puntini che formano il disegno.

P.S. Al “manifesto” si è intrufolato un burlone che, preso possesso di uno spazio da trafiletto in prima, abusivamente ha chiesto ai lettori un superabbonamento triennale per €… 1000 (mille).
Qualcuno ha pensato chiamiamo i sanitari. Qualcuno lì per lì ha abboccato, "è per un'informazione onesta", ma si è ricreduto quando poi ha letto sull’inserto “Fuori Luogo” tale antiproibizionista Maurizio Veglio: “Come è noto (a lui, a La Russa e a Bush) la guerriglia talebana è legata a doppio filo al narcotraffico che garantirebbe agli studenti di Allah tra i 60 e 80 milioni di dollari annui e sembra dunque che si voglia ricorrere alle maniere forti, dopo anni di indifferenza…” E vai con il napalm e con il glisofato su contadini, villaggi e piantagioni. Piantagioni sfuggite agli occupanti e ai loro fantocci (il fratello del quisling Karzai è incriminato per traffico di droga) che, assieme ai signori della guerra alleati, gestiscono dal giorno dell’occupazione un crescendo di produzione di oppio (il 90% dell’eroina nel mondo), fino all’attuale primato storico di 8000 tonnellate annue. In massima parte esportate da Karachi, porto sotto totale controllo Usa-Pakistan, o attraverso rotte compiacenti iraniane, kurdo-irachene e poi kosovare. E pensare che furono i taliban al potere a sradicare tutto l'oppio afghano! Grave mancanza: chè, la Citiybank e i suoi finanziati vogliono forse rinunciare a un gruzzoletto da un trilione e mezzo all'anno, acquisiti con la droga? In tempi di default, poi! Fa il paio, il Veglio, con gli analisti latinoamericani che su quel giornale si affannano a spostare il lurido peso dell’assassinio di massa tramite stupefacenti dal regime di Uribe e dei suoi scagnozzi paramilitari, controllati dalla Cia, alle FARC. Chiude l’articolessa una convalida del "contesto normativo per cui l’iniziativa bellica della Nato contro i talebani trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 5 del Patto Atlantico che, in caso di attacco (?) obbliga alla reciproca assistenza, anche militare, tutti i paesi dell’Alleanza". Ah, beh, se c’è il fondamento giuridico…
“Libero” non avrebbe potuto fare di meglio. Eppoi piangete miseria!

mercoledì 22 ottobre 2008

OBAMA, CAMORRA, ONG, FOA: SANTI SUBITO!



Meir Degan, capo del Mossad

Baghdad, 19ottobre, un milione contro gli Usa e i fantocci






I peggiori sono quelli del Ponte per… Si atteggiavano a Ponte per Belgrado, Ponte per Beirut, Ponte per Baghdad e sono finiti a fare il Ponte per…Washington. Trattasi di un’agenzia di viaggi, con contorno di medicinali in dono, andata a ramengo a causa dell’occupazione dell’Iraq. Scomparsa dalla scena dopo l’exploit delle “due Simone” rapite, liberate e passate di mano in mano dal Capo dello Stato al più osceno degli show in tv, torna ad arrampicarsi sulla ribalta in veste di cripto-collaborazionista e di sabotatrice della Resistenza irachena. La vicenda di questa ONG (viene la nausea solo a scrivere l’acronimo) risale a qualche lustro fa, quando esercitava il mestiere di tour operator, riconosciuto come associazione umanitaria, per curiosi di cosa diavolo fossero questo Iraq e questo Saddam, satanizzati da mezzo mondo, e per interessati al più vasto e antico patrimonio archeologico del mondo. Tre o quattro volte ci ho viaggiato assieme: la Baghdad di Harun El Rashid e della straordinaria modernizzazione post-rivoluzione del 1968, le esuberanti arti e lettere della contemporaneità, la Babilonia degli assirobabilonesi, la Najaf delle moschee dei califfi, la Niniveh dei sumeri, la Kirkuk del petrolio, la Basra dei palmizi e dell’immenso Shatt el Arab, pervicacemente minacciato dagli espansionisti ayatollah persiani… Il tutto coronato da un lussuoso ricevimento in cima alla Torre di Saddam, offerto dai grati partner del “regime”, allora rispettato per poi, opportunamente, essere diabolizzato in sintonia con le centrali euro-sioniste-statunitensi della propaganda di guerra e genocidio. Qualcuno, nei gruppi di viaggiatori e nel Ponte subodorò traffici e impicci crestaioli, lanciò brucianti denunce e mollò l’impresa.

La riabilitazione venne con il “martirio” di Simona Torretta e di una Simona Pari che, si diceva, aveva servito in Kosovo l’italiota Ministero dell’Offesa. Chi non ricorda l’umiliante farsa della “liberazione”? Le due ragazze che, telecamere miracolosamente sul posto, spuntano al tramonto dal deserto, si levano il cappuccio dei sospetti sequestratori, come sempre funzionali alla demonizzazione dei partigiani iracheni, per essere abbracciati dal capo della militarizzata Croce Rossa Italiana, il forzitaliota Maurizio Scelli. La sceneggiata, insieme al clamoroso ingresso nell’armata tossica degli scopritori del “sanguinario dittatore”, fruttò all’ONG fiumi di compassionevoli offerte. Poi, di nuovo, l’immersione nel silenzio e nell’oblio. Il Ponte aveva mollato l’Iraq nel momento del massimo bisogno.

Ora la riemersione con la trovata, cara agli occupanti e odiosa a un’eroica e irriducibile, sebbene sepolta nell’occultamento, Resistenza, di una tournee nell’Italia dei creduloni e utili idioti di “un gruppo di organizzazioni e individui iracheni, appartenenti a tutti i gruppi etnici e religiosi, con diverse provenienze ideologiche e politiche, che si sono uniti per promuovere la nonviolenza come lo strumento di lotta più efficace verso un Iraq indipendente, democratico e pacifico. E “ogni iracheno che sceglie la nonviolenza è benvenuto a unirsi alla Settimana Irachena della Nonviolenza”. Bertinotti, taumaturgo della nonviolenza pro-imperialismo e pro-presidenza della Camera, ne è ovviamente l’ispiratore e complice. Ci si augura che, come l’infausto Veltrinotti, anche questa Ong con lasciapassare dei serial-killer occupanti e dei loro sicari un po’ autoctoni, un po’ iraniani, finisca inghiottita dall’oblio che seppellisce vermi e detriti. Quanto al popolo cui hanno ammazzato tre milioni di persone tra embargo e occupazione, espulso nel nulla altri quattro milioni e mezzo, devastato l’ambiente, frantumato e degradato la società, disperso il patrimonio culturale, distrutto l’ambiente, rubato il petrolio, ebbene la nonviolenza insieme, forse, al ritiro degli occupanti, porterà “l’indipendenza” e la “democrazia” dei padrini Usa e iraniani, dei cleptocrati del governo fantoccio, dei trapanatori di crani del “persiano” Moqtada al Sadr. Ne segue che il problema principale è l’eliminazione dei “terroristi” della Resistenza che, per quanto ribattezzati con il nome dell’agenzia Cia “Al Qaida”, si ostinano a rendere insostenibile l’occupazione e rinviata all’infinito la “Mission accomplished” (missione compiuta) del pilota di F-16 George Dabeliu Bush.

Vabbè, perfino il Ponte per… vorrà prendere le distanze da un Bush del quale parlar male è oggi come sparare sulla Croce Rossa. C’è Obama, no? Al quale la missione dei nonviolenti iracheni pontizzati toglie il cruccio che, ritirando un po’ di tagliagole Usa dall’Iraq, poi tutti gli iracheni insorgano in armi e spazzino via il regime dei pali della rapina e del nazionicidio. Se il manifestaiolo Marco D’Eramo, nelle sue estenuanti e superficiali cronache sul quell’esercizio del nulla incartato nella demagogia che sono le campagne presidenziali Usa, qualche leggera ombra aveva gettato sul nitore del cavaliere bianco Obama, vi aveva posto riparo “il manifesto” dell’antevigilia delle elezioni, con ben tre grandi spazi in un unico numero. Si parte col paginone addirittura sportivo e con “Obama, mancino puro”, nel quale quattro colonne dense di stupefatta ammirazione soddisfano l’irresistibile ansia del pubblico di tutto sapere sui prodigi del pallacanestrista Barack, dai cesti immancabilmente centrati dall’asilo nelle Hawaii, al primato nella specialità a Harvard, fino al toccante racconto di oggi e delle sue fughe nell’ora di pranzo, a infilare cesti con il fedele compagno Reggie Love e mantenersi nella splendida forma che sempre esibisce “il profeta del Yes, we can”. Non si lascia sfuggire l’occasione di potenziare il coro la redazione “cultura e visioni” che ci impressiona con il musicista di grido John Legend mentre proclama “Il mio soul benedetto da Obama”. Pare la mammina in camicia nera col pargoletto appena baciato dal Duce. Avendo “il manifesto” riconosciuto al canterino un lavoro “permeato di impegno sociale”, tale impegno non può non trovare esaltazione nel rivoluzionario Obama: “Sicuramente il mio impegno è ispirato da Obama, è ovvio che voterò per lui, è un leader speciale”. S. Cr., che sigla il pezzo, non ha nulla da aggiungere. Che c’entra, mica si occupa di politica.

Il pezzo forte, l’incoronazione, sono affidati a una penna di rango del “quotidiano comunista”. In una specie di delirio amoroso e di parata trionfale, Ida Dominijanni, disvestiti i panni femministi della fan di Hillary, canta con impeto boccelliano: “Yes, we can. Cambiare si può, anzi si deve, è il messaggio che suona da tutte le parti negli Stati Uniti, rimbalzando ormai da Obama e i suoi seguaci fin nel campo avverso. E di cosa è creatore il guru Obama? Di “un miracolo della politica… di un effetto messianico, lui, “il profeta del cambiamento alla fine del trentennio reaganiano. E’ sicuramente questo profeta che ci toglierà le catene del liberismo e dell’ossessione imperiale del “nuovo ordine mondiale”, ne è convinta Ida, e che riabiliterà il ruolo della mano pubblica, giacchè si tratta dell’energia della generazione nata dopo l’89 e mobilitata capillarmente da Obama. E’ il sentimento popolare di un’America perduta e da ritrovare (quella di Truman e della bomba, quella di Kennedy e del Vietnam?), che non si faceva odiare nel mondo (chiedilo ai cileni, ai vietnamiti, ai coreani…), a spingere verso il cambiamento, a strappare la storia alla ripetizione e piegarla a un esito diverso, a dare la misura di un cambiamento annunciato ma già operante. Con il cuore gettato oltre Atlantico, tra i piedi di Obama, Ida, voltando da lontano lo sguardo alle nostre miserie a-obamiane, si chiede quando mai “la fondata speranza” innervata dal caro Barack potrà essere nutrita in Italia: “Quanti anni di religione berlusconiana ci vorranno dalle nostre parti per decidere che si può e che si deve? Da dove dovrà spuntare un leader politico (come Obama) capace non di invocare il cambiamento ma di praticarlo fidandosi di chi ne è spontaneamente portatore"? Siamo alla, tipicamente marxiana, invocazione del taumaturgo. Non potrebbe essere diversamente per un “quotidiano comunista” che ha massimamente in uggia, come il suo ex-fidanzato Bertinotti e l’attuale moroso Vendola, vuoi i “terroristi” iracheni (leggi Sgrena), vuoi quelli taliban (leggi Forti), vuoi le trecentomila bandiere rosse (da ripiegare) dell’11 ottobre, vuoi
l’anticoncertazionismo e la lotta di classe del mezzo milione del 17. Insomma, quella poco salottiera roba che sono le masse. Viene usata, in questa eulogia, la parola astratta “cambiamento” più volte dell’ “Ora pro nobis” di una novena. Proprio come il frenetico tic di Veltrinotti quando ci fa piovere addosso l’astrazione “innovazione”. Sappiamo cosa ne viene.

E allora vediamolo questo campionissimo del “cambiamento” , rilevando come nessun assalto di umorismo nero sia capace di penetrare la nebbia di Obama-mania che si è posata sulla coscienza della comunità sedicente illuminata. Cominciamo dal tifoso più recente: un nero che si schiera con un nero, wow! Peccato che quello dell’ex-mercenario della “Operazione Phoenix” di sterminio degli indocinesi, ex-generale ammazza-iracheni ed ex-ministro della difesa, Colin Powell, non sia tanto un contributo al profetico cambiamento, quanto la piaggeria di un miserabile cialtrone: il 5 febbraio del 2003, onde lubrificare la strada della morte del complesso militar-industriale di cui era commesso viaggiatore, esibisce al mondo, dagli scranni dell’ONU, le false prove, le ridicole provette, delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Era contro la guerra dell’Iraq, Osama? Votò per gli stanziamenti che la resero possibile e ora vuole mantenere nel paese scassato qualcosa come 80mila fucilatori e bombaroli, nonché una dozzina di megabasi.
Il discorso è diverso per Afghanistan e Pakistan: lì Obama vuole più mercenari, più ascari e più bombe. Quanto a Israele, chi più appassionatamente fedele al nazisionismo di lui? Al punto da essere il primo al mondo a sostenere l’ulteriore crimine della Gerusalemme tutta quanta capitale di Israele. Ecchè, c’è forse una lobby palestinese a Washington? In compenso la star del basket è di un cristallino rigore etico quanto all’economia: scopiazzando il nostrano guitto mannaro, ha votato a favore dell’immunità dei dirigenti della Telecom che hanno spiato mezza America e di tutti i manager bancarottieri e ladroni delle corporation salvate dal baratro autoprodotto. In fatto di sanità, di un sistema sanitario nazionale manco a parlarne. Se ne adonterebbero assai le compagnie di assicurazione che succhiano soldi ai ceti che possono e lasciano tra i germi i 45 milioni che non possono. E finanziano anche generosamente il loro garante nero. Energia? Come potrebbe l’ecologico Barack non sostenere la bufala del “carbone pulito” e delle trivellazioni nel tuo giardino? Nonché della proliferazione delle centrali nucleari, fatte passare sotto i due ossi gettati agli integralisti dell’ambientalismo? E, dunque, quanto ha applaudito, Obama, il segretario al Tesoro Paulson quando ha salvato l’economia statunitense pagando con i soldi di tutti i furti e le idiozie dei grandi banchieri.



Volete le ciliegine sulla torta di melma? Sostegno all’embargo contro Cuba e, coerentemente, alla pena di morte; creazione di una “Forza di Sicurezza Nazionale” che, alimentando la psicosi fascistogenica della paura, recluti ragazzi delle Medie e Superiori a mo’ di ronde padane; scelta di un autentico reazionario e guerrafondaio come Joe Biden a suo vice; ripristino della Leva obbligatoria per altri e nuovi episodi di “guerra infinita”; condivisione della necessità dello “scudo spaziale” per poter ammazzare dallo spazio; perché, e questa è decisiva, avalla a spada tratta l’inganno epocale, chiave di volta della fascistizzazione mondiale nella crisi finale del capitalismo, degli attentati dell’11 settembre 2001 e quindi della “guerra al terrorismo islamico”. Alla pazienza del lettore risparmio altre venti pagine su cosa si nasconde tra le pieghe di questo "volto umano” della cosca capitalista planetaria. Almeno McCain non ci fotte con altrettanta perizia e altrettanti sicofanti.

Natzinger va nel napoletano, ringhia su famiglia, vita, morte, sesso, ma si mangerebbe la lingua come un wuerstel piuttosto che pronunciare la parola “camorra”. Elemento secondario, trascurabile, specie se nell’agenda tu, papa, hai ancora tutti i numeri di Monsignor Marcinkus con il suo seguito di piduisti, mafiosi, banda della Magliana. E già, oggi compartecipano con te il governo di questa penisola. E non solo. Da sottoterra ti ringraziano i brandelli degli africani massacrati dai casalesi, i rom bruciacchiati dei campi messi alle fiamme per far spazio alle speculazioni edilizie camorriste, tutta una regione, un paese, che dalle mafie viene depredato di una ricchezza 3 volte il suo PIL. Ti saluta anche Roberto Saviano. Noi, che ricordiamo l’ancor più celebrato emissario polacco, non ci stupiamo: non aveva, quello, santificato, oltre ai pataccari Teresa di Calcutta e Padre Pio, anche il vescovo croato Stepinac, diretto e indiretto esecutore e benedicente delle stragi del tiranno hitleriano Ante Pavelic?

Chiudiamo col “manifesto” e con il vendolismo diffuso (a proposito, lo sapevate che questa gambetta sinistra della poltrona di Veltroni-D’Alema, da governatore della Puglia ha privatizzato l’acquedotto che abbevera tutto il Sud, e che sostiene i cinque inceneritori che i soliti incendiari industrial-camorristici vogliono incastrare nel territorio? E che, da omosessuale inviso alla, pur affine in peggio, Chiesa, ha intitolato l’aeroporto di Bari a Karol Woityla?). La dipartita dell’ultranovantenne ex-sindacalista Cgil Vittorio Foa è stata pianta e il suo protagonista venerato come “Padre nobile” da un’ecumene che sta a quella cattolica come un campo di calcio a una pista di bocce. Ragazzi, occhio quando tutti cantano nello stesso coro: è inevitabilmente un coro di destra. All’apologia non si è sottratto nessuno, da capi di Stato a capi di cosca. Napolitano, Fini, Schifani, Bertisconi, Sionetti, Polo... Silenzio consapevole da parte dei sindacati di base e di classe, quelli del mezzo milione del 17 ottobre. E pour cause. Io ho avuto a che fare non con lui, ma con la prima moglie, Lisa Foa. Al quotidiano “Lotta Continua”, di cui ero direttore responsabile, si occupava di esteri. Non ricordo persona più arcigna, spocchiosa, gelida. Vabbè che le colpe di un coniuge non cadono sull’altro. Ma si parla di un bel pezzo, col marito, della lobby ebraica: alla cui competenza internazionale e coscienza politica sfuggiva del tutto l’abolizione del popolo palestinese. Come succede con l’attuale Furio Colombo del PD, che s' inalbera un giorno sì e l’altro pure alla vista del razzismo anti-rom e anti-migranti, acceso in Italia dal questo regime come da quello di prima, a lui caro, l’apartheid sanguinaria di Israele non è altro che legittima difesa. Una difesa che massacra contadini autoctoni e i loro ulivi, impone l’astensione dal cibo e dalla salute a un milione e mezzo di abitanti di Gaza, complotta per spaccare un popolo in due, tra quisling corrotti, con pretoriani addestrati dagli Usa, e cittadini resistenti, che pratica un’illimitata e incessante licenza di uccidere, che tiene e tortura in carcere, contro ogni diritto, 11mila adulti e minorenni, criminali perché patrioti, o semplice intralcio al posto di blocco. Che chiude dietro a un muro di auschwitziana memoria tre milioni di titolari di quella terra.

A me di Foa non risulta, dal Partito d’Azione a quello socialista e al sindacato, un colossale contributo al movimento reale che cambia lo stato di cose presente. Ha lasciato la Cgil al momento della sua momentanea radicalità, 1970, ha civettato con questo o quell’altro gruppo della galassia extraparlamentare. Non risultano incise nelle tavole di bronzo i suoi interventi in parlamento. No risultano rampogne a una Cgil sempre più gialla. Ha la gravissima tara di essere reclamato da Bertinotti come suo “maestro”. Le parole più spesso da lui pronunciate non erano neppure “cambiamento” o “innovazione”, ma “riformismo” e “gradualismo”. Riformismo militante, alternativo all’egemonia comunista. Quanto a Marx, beh, era un “determinista”. Come quell’estremista di Chavez che sentenzia : “O noi la facciamo finita con l’imperialismo, o l’imperialismo la farà finita con questo pianeta”. Determinista di un marxista venezuelano!

Facciamoli tutti santi e che riposino in pace.


P.S. C’è una bella notizia. Il capo di una banda di delinquenti, tra i più sperimentati terroristi del mondo, pianificatori ed esecutori di pulizie etniche e genocidi, gente che spia ogni tua parola e ogni tuo sguardo, guardia imperiale di tutti i peggiori arnesi del totalitarismo del mondo, sarebbe stato ucciso in un attentato ad Amman. Lo dicono fonti israeliane. Già solo il fatto che abbia potuto essere il bersaglio di un’operazione armata significa il più grande fallimento mai sofferto dalla banda e, insieme, la più grande vittoria delle sue vittime. Si chiama(va) Meir Dagan. Era il capo del Mossad.

PP.SS.
Settimane fa, il prete Moqtada al Sadr, noto per aver offerto ai suoi padrini di Tehran le teste trapanate di qualche decina di migliaia di iracheni, ha convocato da Qom una manifestazione contro l’accordo tra gli Usa e i quisling di Baghdad circa la permanenza degli occupanti. Hanno sfilato in 10mila gridando con sincerità “Yankee go home”. Il tagliagole per conto dell’Iran doveva raccogliere un po’ della collera contro gli Usa che anima ogni singolo cittadino dell’Iraq. Sia per ridarsi un minimo di credibilità, sia per agevolare i propri sponsor persiani nella collisione-collusione con i complici statunitensi.
50mila dicono le agenzie. Un milione, dicono le agenzie, hanno marciato il 19 ottobre a Baghdad contro ascari aguzzini e occupanti carnefici. E qui non c’erano solo le milizie scite strumentalizzate da Moqtada. C’erano tutti: iracheni sunniti, sciti e cristiani, arabi di altri paesi, curdi, assiri, uomini e anche donne e senza velo, quelle bandite quando non decapitate da Moqtada (ci pensi, Sgrena?). Questa, sì, che era una manifestazione seria di resistenza, fianco a fianco – e non in alternativa, come vorrebbero i bravi nonviolenti - dei partigiani che in questi ultimi mesi hanno ripreso un’offensiva tanto efficace, quanto occultata dai pudori dei comandi e dei media, tutti embedded. E così, se dio vuole, vanno le cose anche in Afghanistan, dove un’insurrezione ormai non di soli Taliban, ma di tutto un popolo, viene descritta sul "manifesto" da un’altra dama della guerra al velo, Marina Forti, chiamando la Resistenza in tre piccole colonne dieci volte “ribelli”. Proprio come Bush e il comandante in capo, generale Petraeus.

martedì 14 ottobre 2008

BANDIERE ALZATE, BANDIERE CALPESTATE


L’11 ottobre 2008 ha rivisto un fiume di bandiere rosse che scorreva come una piena da Roma Termini fino ai templi di Bocca della Verità. Un fiume che, tracimando e travolgendo, ha spazzato via detriti e scorie di cui, pure, alcuni esemplari si erano avventurati nel corteo dei cento e centomila rosseggianti. Bertinotti, Vendola, attaccati alla piccola massa gelatinosa dei SD (già PDS, già SD: miserelli, sono a corto anche di lettere). I segni di una vittoria mondiale, storicamente e ancora più geograficamente vicina e viva, sugli spettri – opportunamente fischiati – di poltronari tanto sconfitti quanto artificialmente tenuti in vita dalle flebo di un accanimento terapeutico cui concorre un fronte che va dalla banda Veltrusconi fino al “quotidiano comunista”.

Prima di dire la mia sull’esito della manifestazione del comunismo ritrovato, s’impone l’esame di un suicidio annunziato. Quello, appunto, del “quotidiano comunista”. Un giornale, “il manifesto”, che, come Sisifo, alcune migliaia di lettori insistono a spingere su per la china sulla quale si ostina ad arretrare, attratto dal fondo paludoso del conformismo, della moderazione, dell’integrazione. Un giornale che paga pegno, più che per la repressione finanziaria del regime fascistizzante, per l’inesorabile fuga del suo bacino politico. Esito tragicomico per chi si pone come referente informativo e formativo dell’antagonismo culturale, sociale e politico e che, in teoria, dovrebbe essere l’indispensabile strumento di conoscenza proprio di quei trecentomila che l’11 ottobre hanno sfilato sotto il cielo romano drappeggiato di rosso (del tabloid vendinottiano “Liberazione” di Sionetti e di un farlocco situazionista e anticomunista di nome “Bifo”, che detta la linea alla faccia della maggioranza uscita dal Congresso, non mette neanche più conto parlare).Trasuda acida irritazione anticomunista tutto lo spazio che “il manifesto” ha dedicato a questo rovesciamento dell’escatologia disfattista e collaborazionista da lui praticata tra un innamoramento e l’altro per gli eroi di tale escatologia, da Ingrao e Bertinotti e a Vendola, da Cofferati a Epifani. Con Rossana Rossanda, epifania di un radicalismo chic, paracadute di ogni revisionismo e di ogni stereotipo collaborazionista “liberal”, che impartisce ammaestramenti a una sinistra degna della sua Rue de Rivoli.

E’ quasi inimmaginabile con quanta autolesionismo rispetto all’invocata salvezza dalla bancarotta editoriale tale Andrea Fabozzi si accanisce contro quelle bandiere che, almeno in parte, si ostinano a dar da mangiare a lui e ai suoi colleghi. La frustrazione alla vista che trecentomila comunisti in corteo – vi includiamo anche il bello spezzone multietnico (l’unico!) di “Action”, che certamente comunista non vuole sentirsi chiamare – si riducono a poche migliaia di acquirenti del giornale, si trasforma in biliosa e spocchiosa distorsione dell’evento. Si chiede, il Fabozzi, a cosa mai potesse servire un corteo come quello dell’11 ottobre. Il corteo di una sinistra che rischia di trovare troppe e troppo facili risposte, un corteo “il cui successo può rappresentare un problema” . “Una boccata d’aria, una testimonianza di esistenza in vita”. Nulla più. Dunque non costituisce minimamente un problema né per il governo, né per Veltroni, ma solo per chi ha marciato (!) e non saprà “immaginare un seguito a questa giornata”. Il corvo continua, così gufando: Aggrappati ognuno alla sua bandiera, i manifestanti hanno tanto cantato, ma hanno quasi dimenticato il governo. Di slogan contro le mille e una porcheria berlusconiana se ne sono sentiti pochi. Già, mancava “il manifesto” per tuonare contro la banda di gangster che ci governa e ci precipita in guerra e totalitarismo. Mancavano Sionetti e la sua compagine di boyscout anti-estremisti e nonviolenti, mancava Giuliana Sgrena che guarda alla resistenza dei popoli con gli occhiali Cia che tramutano tutto in Al Qaida, mancava il critico citazionista cinematografico Roberto Silvestri che si fa incantare da scaltri film Usa in cui bravi marines neri, unici veri “liberatori”, svillaneggiano i partigiani, o riscattano dall’abominio, sminando qua e là, il genocidio in Iraq. Mancava Rossanda Rossanda, in tailleur Coco Chanel, a tracciare il solco. Ognuno quasi al riparo della sua bandiera, con le sue storie private (?) di conflitto nella scuola, in ospedale, al supermercato, in banca, ma senza la capacità di rappresentare una lotta collettiva. Una opposizione. Ci pensa “il manifesto”, appunto.

Nel finale del Fabozzi, il foruncolo del virus borghese spurga tutto la sua tossicità: Non molta strada è stata fatta. Siamo sempre a metà, tra le rovine del governo Prodi… e le minacce del governo Berlusconi. Dopo la catastrofe elettorale, la sinistra non è andata né avanti, né indietro e ora si concentra sulle alchimie che dovrebbero servire a superare lo sbarramento alle elezioni europee. A che serve una manifestazione allora? Parlando di alchimie e di elezioni, il giornale rivela ancora una volta la sua predilezione per l’interlocuzione con i bonzi e i capintesta, quelli delle "alchimie", tutto fuorchè i plebei al riparo delle “ loro bandiere” che a qualcosa di più profondo e più perenne pensavano, sventolandole, piuttosto che ad “alchimie elettorali”. La rabbia per l’ovvia previsione che la tentennante manifestazione successiva di Veltroni, o il tardivo e ancora pencolante sciopero confederale di fine mese, ovviamente a giochi chiusi, verranno umiliati dalla forza numerica e politica del rosso corteo romano, fa giungere l’editorialista a un neanche più velato parossismo anticomunista: Mettendo da parte quelle bandiere la storia non sarebbe più difficile da continuare. Forse più facile, forse migliore. Splash: altre migliaia di lettori mandati a cagare.

“Il manifesto” ha perso da molto tempo le cellule olfattive per annusare l’aria che tira. Un’aria, quella dell’11 ottobre, che soffiava forte e, più dei simboli e dei logo sulle bandiere rosse, mescolava il rosso e basta. Mai prima s’era vista, fatta eccezione per le summenzionate salme veltrinottiane (del resto con in mano già il biglietto di sola andata verso le foresterie del PD), tanto corteo con tanta omogeneità d’intento. E anche chi stonava gridando “Viva Stalin”, o, all’opposto, ciangottava su inermi striscioni romantici languori adolescenziali di stampo sub-zapatista, tra ingenuità e sollecitazioni nostalgiche concorreva comunque a dare voce a un unico proposito: il comunismo che avete imbrattato, venduto, edulcorato, diffamato, rivoltato, c’è e continuerà ad esserci. E’ antagonismo totale, è rivoluzione, è, sotto nomi che variano come fiori di prato nella storia umana e tra i meridiani, l’aspirazione di sei miliardi di esseri umani, l’impulso che corre nelle vene del mondo. Mai prima avevo visto bandiere rosse con simboli e sigle diverse mescolarsi con disinvoltura e serenità per tutta la lunghezza del corteo. Ci sarà stato pure chi si preoccupava di saltare l’asticella della vessatoria soglia elettorale, chi si poneva in modo da figurare come protagonista o conducator per future cordate. Avanzi di passato da integrare nel futuro. Ma non era questa la forza che muoveva i passi e agitava le bandiere. Non lo erano i furbetti del partitino. Erano trecentomila persone con una parola d’ordine che un piccolo spezzone esplicitava nello striscione “comunisti uniti per la costituente comunista”: il comunismo non finisce qua, il comunismo è necessario, il comunismo è tra noi, il comunismo unisce, il comunismo è orizzontale oggi, non verticale. Parola d’ordine che era la premessa di tutte le altre e tutte le conteneva, quelle di cui la cornacchia spennata del “manifesto”, ansiosa di Cgil e vivacchiamento all’ombra di Veltrusconi, ha lamentato l’assenza.

Forse si doveva dire qualcosa di più sull’emergenza legalità-libertà, stoltamente snobbata perché brandita da quel furbo contadino-poliziotto di Di Pietro, qualcosa di più sulla nostra condizione di colonia dell’imperialismo euro-statunitense che tutto il resto garantisce ai padroni in termini di guerra-pace, salari, scuola, sanità, lavoro, ambiente, libertà, sicurezza di vita. Ma anche questo lo si poteva ascoltare, avendo orecchio fino, dentro il frastuono dei sound system, degli slogan, dei cartelli e striscioni, nel crepitare delle bandiere. E poi ce n’est que un debut. O almeno spero. Mica vogliamo dar ragione a quei menagramo del “manifesto”.

venerdì 10 ottobre 2008

DAL 4 NOVEMBRE ALL'11 OTTOBRE


I MUSSOLINI SI TRAVESTONO


Questa guerra degrada gli uomini e la vita, distrugge il sistema democratico e porta alla dittatura… La guerra corromperà i giovani con la violenza, la noia, l’imboscamento, le razzie, la demagogia, il disprezzo per il lavoro e un atteggiamento di svilimento della vita… Un tale sistema porta invariabilmente a un’espansione dell’establishment militare, che a sua volta chiede maggiori stanziamenti (sotto Prodi: + 23%) … Il risultato è un circolo vizioso nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri più poveri. I poveri non sono solo costretti a combattere in guerra, ma anche a finanziare la propria stessa carneficina
Giacomo Matteotti (assassinato nel 1924 dai fascisti)

Pezzo dedicato a coloro nel PRC che, per la manifestazione dell’11 ottobre 2008 contro il governo e per un sacco di cose, si sono scordati le parole guerra, basi, Nato, imperialismo.

Io me lo vedo già, il presidente Napolitano, quello che ha firmato il decreto Gelmini, di distruzione materiale della scuola e mentale dei nostri figli, e anche quello per la guerra all’Afghanistan, di devastazione di un popolo innocente. Me lo vedo alto, compunto, nasale e ore rotundo, sul palco delle celebrazioni, con accanto generaloni, capitalistoni e famigli politico-mafiosi, inneggiare alla “Vittoria” del 1918.
E mi sovviene di quel monumentino nel mio paesino, pari ai monumentini di tutti i paesi d’Italia, con sopra tanti nomi di diciotto-ventenni, spesso un decimo della popolazione, messi sul rogo del glorioso olocausto patriottico. E mi sovviene anche di qualcosa che nessuna scuola, né di Gentile, né di Berlinguer, né di Moratti, né del palmipede attuale, ha mai insegnato. Che i governi di Germania e Austria-Ungheria avevano offerto a quello italiano, di Salandra, di consegnare all’Italia i territori di Trento e Triste pacificamente, se l’Italia non fosse entrata in guerra a fianco dell’ “Intesa” (esistono i documenti). Lo sapevano anche i parlamentari che, a maggioranza, si opposero all’entrata in guerra, poi imposta dal regal nano Vittorio Emanuele III al primo ministro Salandra con uno di quei colpi di Stato di cui questo ominicchio si sarebbe sempre dimostrato pratico.
Ditelo, gridatelo ai bonzi che il 4 novembre vogliono celebrare, formalmente, i 600mila eroi martiri delle nostre campagne, delle nostre fabbriche, delle nostre scuole. Una generazione condannata a morte molto peggio dei 30mila desaparecidos argentini, alla mutilazione e, poi, alla disoccupazione, alienazione, disoccupazione. Una tessuto sociale lacerato. Una massa di disperati, frustrati e incazzati, da costruirci sopra il megacarcere fascista. Ma la cerimonia dei caduti è una finta. Perché sostanzialmente si celebrano
gli agrari e gli industriali organizzati e lobbyzzati dalla massoneria (la stessa di oggi, quella vera, quella P2 e del governo Veltrusconi) che dall’inutile strage hanno tratto profitti senza precedenti, tali da impostare per decenni, con potenza apparentemente incontrastabile, i rapporti di forza tra le classi. Profitti che hanno anche permesso a Mussolini di farsi le sue di guerre. Guerre finalizzate allo stesso scopo, ma finite male. Non fosse stato per il Piano Marshall di Rioccupazione dell’Italia. Furono le stesse motivazioni degli Usa e sono quelli di oggi. Solo che allora gli andò bene.

Il Mussolini socialista, che da pacifista assoluto alla direzione dell’”Avanti”e promotore di sabotaggi contro il militare, convinto dalla massoneria nella persona di Filippo Naldi, direttore del “Resto del Carlino” e da milioni di franchi francesi (consegnatigli dal segretario del Ministero di Guerra francese), si metamorfizzò nel Mussolini interventista, direttore del “Popolo d’Italia”. In cambio avrebbe avuto il sostegno delle oligarchie italiane, massoni e no, a una dittatura che salvaguardasse i rapporti di classe costituiti. Una volta di più il nostro paese venne governato da un rinnegato e un corrotto. Una volta di più, con i Fasci di Azione Rivoluzionaria creati nel 1915, si misero in campo borghesi, proletari e sottoproletari indottrinati e militarizzati a fini di “sicurezza”. Che però era la sicurezza dei padroni contro gli emersi dal mare di sangue del 15-18..
(Peter Tompkins, “Dalle carte segrete del duce”, Marco Tropea Editore 2001)

L’essere riusciti a portare 600mila ragazzi a farsi sbranare dalla guerra tra Carso e Piave, avendo già fatto svaporare un bel po’ di disoccupazione (e nel contempo abbandonare delle terre), fruttò non poco ai mercanti di cannoni e indotto, in mercati e dunque profitto.
Come gli USraeliani con l’Iran negli anni ’80 contro l’Iraq, gli industriali italiani non si peritarono neanche di vendere armamenti agli eserciti chiamati nemici. Roba da corte marziale e, in guerra, da pena capitale. Piccolo conflitto d’interessi che anch’esso si è ampiamente istituzionalizzato. Ne è venuto fuori un complesso militar-industriale dominante da allora, ogni tanto con papali spruzzi di acqua santa in fronte. Siamo stati il laboratorio per quella metastasi militar-industrial-intelligence-politica che il presidente Eisenhower deprecò.(andava a scapito non tanto della libertà e della pace, quanto dell’agro- e petrol-business) e che oggi regge le sorti dell’intero Occidente bianco, cristiano, inabissato nella sua crisi e perciò avviato alla rifascistizzazione.

Costi (ieri e oggi). Con la scusa dell’emergenza bellica (oggi terroristica, immigratoria e della crisi) si abolirono i limiti all’orario di lavoro, le ferie erano cancellate, donne e bambini erano obbligati a lavorare come schiavi per ore interminabili e con paghe bassissime, gli scioperi erano proibiti, la libertà d’espressione fulminata come “collaborazionismo, l’insubordinazione punita con 24 anni di confino. Poi 600mila morti, milioni di mutilati, comunità distrutte. Un paese contaminato nella psiche.
Profitti. Dalla sola Grande Guerra l’aumento dei profitti all’industria italiana è stato del 200-400%. Fiat, Edison (elettricità), Montecatini (esplosivi e prodotti chimici, Ansaldo (cannoni). Le banche si gonfiarono a loro volta: lo Stato dovette pagare un interesse del 6% anziché del 2. Per pagare le spese di guerra il governo ricorse all’inflazione inondando il paese con il quadruplo di cartamoneta rispetto a prima. I prezzi si ottuplicarono, il 90% degli oneri di guerra fu fatto ricadere sui poveri.

Mancando un’adeguata proposta e capacità di sinistra, gran parte delle vittime sopravvissute furono aizzate e finirono con lo scaricare il loro astio, non contro i responsabili, ma contro coloro che l’isteria fascista definitiva i responsabili della “Vittoria mutilata”: gli alleati rubacchioni di ieri. Ottima premessa per avvelenare un popolo di propaganda imperialnazionalista, per mandarlo a sterminare e depredare popoli africani, per infliggere nel ’40 agli Italiani il “qualche migliaio di morti” da offrire ai tedeschi in cambio di un pezzo della Francia – la “sorella latina” – sbranata. Proprio così, nel 1915, a Mussolini non era bastato Trento, ma aveva voluto, spinto dai suoi padrini, anche il Brennero. E il famoso “imperialismo straccione” si prese, sottomise e vessò in perpetuo, un pezzo di mondo germanico.

Quante assonanze con oggi! Quanti paralleli! Quanti avvertimenti! Allora le barricate di Oltretorrente a Parma non bastarono. Quella vittoria fu soffocata nel veltrinottismo di allora. Oggi il modulo si ripropone pari pari, quegli abiti sono passati di moda, le canzonette hanno ritmi e tonalità diverse, ma escono dallo stesso strumento, la vettura sulla quale si muovevano è stata perfezionata, ancora più cingoli, il carburante arricchito, magari atomico, gli obiettivi estesi al mondo.
Abbiamo pure il quartetto di testa che pare clonato dal vecchio: in cima Vittorio Emanuele III, poi Mussolini, … Schifani… Fini… Per il titolo di Luigi Facta (primo ministro arrendevole al tempo della Marcia su Roma) concorrono in tanti: Prodi, Veltroni, Bertinotti, D’Alema. Quelli, invece, delle barricate dell’Oltretorrente parmense bisogna inventarseli.

I partiti di sinistra ci hanno fornito una trincea di fuffa. Se quella di allora era di parmigiano, questa è di ricotta. Se non ci si muove tutti subito, non parlo di borghesia e di classe operaia, parlo di popolo, di masse. Masse tipo Parma nel ’22, o Cochabamba nel 2000, o Katmandu oggi. L’11 ottobre quelli che topparono sotto Prodi, anzi, da una vita, marciano a Roma contro il governo Berlusconi e le sue nefandezze propedeutiche al massacro sociale e al fascismo 2000. La piattaforma è concertativa. Il 17 ottobre c’è il primo grande sciopero generale dei sindacati non affetti da sindrome (ben compensata) di don Abbondio. La piattaforma è ottima. Per fine mese, sollecitati da una rivolta di massa e ansiosi di oscurare la manifestazione del 17, i sindacati confederali, quelli che hanno firmato la svendita dell’Alitalia ai furbetti del quartierino, annunciano lo sciopero generale per la scuola (due ore, 90 minuti?. E poi c’è Di Pietro a Piazza Navona, sempre l’11, per la raccolta di firme contro il “Lodo Alfano licenza di uccidere per quattro” . Sento già gli strepiti: “Con Di Pietro mai!” Quel giustizialista!”. Invece ci azzecca. Il fascismo inizia con l’eliminazione delle misure di garanzia che le lotte dei subalterni hanno strappato ai padroni. Sbiancare con il bianchetto quattro “criminal files” ,lasciando il popolo bue alla mercè dell’arbitrio punitivo di quei quattro e dei loro sponsor e pretoriani, significa che uno dei nostri principi fondanti è stato smantellato: uguaglianza. Gli altri verranno sgretolati a seguire. Dopodichè, provati a parlare di salario, unioni di fatto, tempo pieno, Nato e pace!
Difatti, è Di Pietro, sul quale ci saranno occasioni e tempi per dissentirne, che gli Al Capone del Palazzo sputano più veleno. A noi ci ignorano. Facciamoci sentire. Diamo alle date indicate, mollaccione o dure che siano, una sterzata.

martedì 7 ottobre 2008

BASSOTTI CONTRO ALTOTTI


Ai miei tempi al TG3, nella rubrica “Vivere!”, il bassotto Nando, assistito da me,
imperversava contro malfattori ambientali e antianimalisti di ogni tipo. Fino a che il direttore, prima l’umoristicamente autoesaltatosi “compagno scomodo” Sandro Curzi e poi l’USraeliana Lucia Annunziata, percependo il fastidio che arrecavamo a devastatori e persecutori della maggioranza nonumana del pianeta, non ci fecero chiudere bottega.
La bella stagione dell’impeto ecologico e animalista volgeva al termine. Non si uccidono così anche serbi e iracheni? E allora che cazzo rompeva questo rasoterra dall’imbarazzante fiuto, in grado di scovare perfino la diossina di Seveso, nascosta dalla cupola mafia-servizi segreti-massoneria un po’ nel Golfo dei Poeti a Spezia e un po’ dalle parti di Mogadiscio? Non gli bastava che in quel buco nero fossero stati precipitati Ilaria Alpi e Mauro Rostagno?

Il colpo finale alla salvaguardia dell’habitat di tutti noi e di tutti gli altri lo diede un’aporia affermata da chi voleva trivellare l’Alaska, sostituire gli agrocombustibili alla foresta amazzonica e fare di quel che resta delle coste italiane un unico porticciolo turistico da accomodare i panfili da 180 metri del gangster Abramovic: “l’ambientalismo non è né di destra, né di sinistra”. Micidiale trovata della destra per intossicare e rendere inoffensiva la battaglia per la salvezza della Terra che, da che mondo è mondo, vede i bassotti, che la onorano, in guerra di classe e di specie contro gli altotti che la divorano. Il guaio è che qualcuno, a sinistra, c’ è cascato. Prendendo per buono il nonsenso di una “destra ambientalista”, ha condiviso la truffa degli inceneritori “puliti”, ha scambiato Disneyland per il trionfo della riforestazione, la rotatoria dell’incrocio per verde urbano, le sevizie agli elefanti del Circo Orfei per educazione dei bambini al rispetto degli animali, le “domeniche a piedi” su un pezzetto di strada romana per ricucitura del buco nell’ozono.

Brandendo quella parola d’ordine tanto scaltra quanto imbecille si sono intrufolati tra i bassotti, cinofobi, antropofagi e vampiri di ogni risma e subito hanno sparso il proprio contagio. Ci ha creduto sul solito “manifesto” Marco D’Eramo, non per nulla tifoso di un paese in cui nulla è ammesso che non sia ebreo e simpatizzante dell’Obama che si appresta a salvaguardare con più bombardamenti l’ambiente dell’Afghanistan e del Pakistan E se si poteva far passare per autodifesa di Israele un serialkilleraggio di espropriati e reietti palestinesi, come non esprimere tutta la propria revulsione per quella miliardaria californiana che aveva lasciato un cospicuo patrimonio a canili e associazioni di difesa del cane? Così ha fatto, lungo metrate di piombo, l’inviato di prestigio del “manifesto”, ricorrendo alla nota spremitura di lacrime per i bambini africani e gli alluvionati del Bangla Desh. Cento volte la somma che quella signora ha dedicato a una delle categorie più bistrattate tra i viventi viene spesa per un cacciabombardiere F-35. Un milione di volte costa il salvataggio, con i soldi di bassotti truffati, dei briganti bancari in deficit di nuovi mezzi per spolpare un’umanità inscheletrita dal debito. Ma sono dati che non attutiscono la grandinata di indignazione che l’etica economica “di sinistra” di D’Eramo scaglia sull’immondo spreco, servito solo a far campare fuori da fame e terrore qualche migliaio di esseri senzienti. Epperò non mi è mai capitato, in una lunga vita di grata e felice convivenza con quell’opera d’amore e di rettitudine della natura che è il cane, di scoprire uno degli innumerevoli scandalizzati delle cure per i cani concretizzare poi quell’impegno per i bambini africani. Che, pure, da costoro vengono posti a paragone e umiliazione di quelle cure.

Di solito non piovono miliardi dagli altotti sui bassotti. Al massimo se li passano fra di loro. Li succhiano da sotto e li pompano in alto. Che per un a volta il senso di marcia sia stato invertito, seppure a beneficio di proletari a quattro zampe, è sempre meglio dei tre trilioni di dollari che Bush ha sfilato da 300 milioni di tasche statunitensi per annichilire uno dei popoli più antichi e nobili del mondo, cani compresi. Con il bassotto Nando abbiamo visto cani squarciati dalle bombe a grappolo a Belgrado, cani sepolti sotto le macerie di una Baghdad che da qualche anno aveva incluso nella sua laicità la scoperta e l’affetto dei cani, cani abbandonati divorati dalla leishmaniosi e dal cimurro in una Cuba che non ha incluso quei conterranei nella sua bella rivoluzione, cani pervertiti in bambini umani negli edulcorati filmetti di Hollywood, cani inseriti da ministri della sanità bifolchi in liste di proscrizione. E abbiamo visto cani che più di qualsiasi altro fattore umano o celeste hanno contribuito a colmare solitudini, compensare perdite e sconfitte, essere l’ultimo appiglio tra i marosi di una società disperata ed egoista, l’ultima sorgente d’amore nel deserto affettivo di vite escluse. Il cane, ovviamente su tutti il bassotto perché più vicino alla terra e perché ne vado matto io, non fa fatica a essere comunista come la facciamo noi. Lo è di suo. Ha nel dna il branco, la solidarietà, il rispetto, l’unione. Sa come trasmettere la vita, non la morte. Merita quei miliardi forse più di quanto Marco D’Eramo meriti il suo stipendio. Come chiamare il nevrotico sdegno di questo cinofobo d’alto bordo se non moralismo di merda?

Sarà questo elemento strutturale del cane ad aver scatenato un’articolessa di un Sebastiano Messina sul tabloid scandalistico “La Repubblica” del 6 ottobre. Un richiamo in prima pagina (“L’Italia che difende i cani-killer”) e ben tre paginoni all’interno (“L’Italia alla guerra dei pitbull”), corredati da gigantografie di animali in atteggiamento da squali di Spielberg o da mostri intergalattici. Questo è il giornale che ha suonato le fanfare per tutti i mercenari italici spediti a far razzia di paesi e stragi di popoli. Il giornale che, non meno dei fogliacci di Berlusconi, ha soffiato sul fuoco tossico del razzismo, della xenofobia, degli infami stereotipi Cia finalizzati allo scontro di civiltà. Peggio addirittura della sempre più amerikana Santa Giuliana Sgrena Martire del “manifesto”, “La Repubblica” si è impegnata a satanizzare i musulmani, diffamare i dirigenti di paesi renitenti al cannibalismo imperialista, sostenere le perfide fandonie – Sebrenica, Il mostro Saddam, il dittatore Milosevic, il sanguinario Fidel, il caudillo Chavez – funzionali a guerre e terrorismi di Stato USraeliani. Hanno dato, nobilitati dal barbone del Venerando Vuoto Eugenio Scalfari, una gran mano a ridurre vita, spazi, numeri di islamici, rom, migranti, antidiscarica, neri e comunisti. Fatte fuori le api, e un pezzo di futuro, presto o tardi doveva toccare ai cani, e a un residuo di comunanza con l'altro, uguale o diverso che sia. Ogni razzismo in questo paese nasce dai circhi, dagli zoo, da mamme che intimano al pupo “non toccare il cane chè ti morde”, da videogiochi che ti fanno inorgoglire per quanti bastardi hai sterminato, fatto a fette, da adesivi “Io qui non entro”, che in paesi più civili sono applicati neanche agli ingressi degli ospedali. Non sono i cani che portano germi e veleni. Li diffondiamo solo noi, li scarichiamo nell’acqua e per terra, li spariamo in aria, li somministriamo con cibi e bevande e con farmaci concepiti per suscitare malattie. I cani meritavano quell’eredità già solo per non fare queste cose.


Sebastiano Messina fa tracimare dalle sue efferatezze antiscientifiche e barbare un odio altotto che pare nascere proprio dalla frustrazione di non aver ancora fatto fuori abbastanza bassotti. La famosa e demenziale lista nera della “razze pericolose” del ministro della malasanità Sirca, che una sottosegretaria competente, per quanto del PDL, vuole abolire, è invocata a salvezza dai cani che fanno strage di bambini e vecchiette.
Lo spunto è Mattia, un bambino che, mentre il padre maneggia una sega circolare lì vicino, con le cuffie antirumore in testa tanto da non avvedersi di chi c’è e che succede, viene "sbranato da un branco di cani selvatici”. A parte che cani “selvatici” non esistono più da quando questa specie è discesa da lupi e sciacalli, ma esistono cani inselvatichiti perché abbandonati dai simili di Sebastiano Messina, il bello è che di questo branco sanguinario che avrebbe reciso la gola di Mattia, non c’è traccia, nessuno l’ha mai visto, non si trova. Neanche con ricerche iniziate immediatamente e proseguite per giorni. Infatti non se ne parla più. Evidentemente i “selvatici”, furbi come linci, si sono sottratti alle indagini sbarcando in Montenegro. Alla faccia della mancanza di ogni indizio, sono loro gli assassini. Come Saddam il gassatore dei curdi (provati gassati dagli iraniani).

I cani, da dieci millenni, ci hanno nutrito cacciando per noi, ci hanno guidato esplorando per noi, ci hanno vigilato i greggi, hanno condotto per mano i ciechi, hanno tirato carrette, hanno consolato morenti frequentandone poi le tombe o morendogli appresso, hanno accompagnato vecchiaie solitarie, hanno educato generazioni di bambini, non manipolati, al gioco, alla sensibilità, alla comunicazione, alla pazienza, all’eguaglianza, i bambini. Hanno riempito il nostro mondo, al quale con fatica si sono adattati anche geneticamente, di amore e saggezza. In compenso sono stati bastonati, torturati nei laboratori, massacrati da cacciatori, rapiti, contrabbandati e venduti, impiccati, legati a un paletto dell'autostrada, sfruttati a sangue, lasciati all’addiaccio, lobotomizzati fino a combattersi tra loro per il profitto di delinquenti, usati come sminatori, spellati, mangiati. Sono cose che all’attento osservatore giornalistico non risultano.
Volete avere un assaggio di come il profondo di Messina si esprime in prosa? Sgozzato da un cane inferocito…ultima vittima di una guerra vera che sparge tanto sangue innocente…gli animali in Italia continuano a uccidere…le si rivoltò contro come una belva sgozzandola, staccando a morsi la testa di uno dei due…inghiottiti da un incubo mortale…l’orrore supera i confini… E non parla né di marines, né di Pinochet, né della Folgore declamata in vertigini amorose dall’ex-tutto-salvo-il-cashmir-Bertinotti che, coerentemente, trova “indicibile” la parola comunismo. E poi giù con una teoria pressocchè centenaria di infanti squartati, signore vacillanti sminuzzate e spedite al creatore, padroni presi alle spalle da cani traditori, famiglie gettate nel lutto. Per concludere, ovviamente, con la citazione di paesi avveduti e correttamente animalofobi che, alla maniera di Bush-Rumsfeld-Cheney-McCain-Obama-Palin-Biden-Berlusconi-Prodi, impongono, con le catene e la soppressione, alle “razze pericolose” la superiore civiltà umana, quella generalmente impegnata nello sfoltimento dei “popoli pericolosi”. Abbiamo un nuovo membro dell' “Asse del male”.

Questi campioni della tolleranza zero per tutti e totale per noi rivorrebbero l’ordinanza Sirca ampliata e ferocizzata. Modello Mengele. Via i pitbull, i bulldog, i dago, i rottweiler, i maremmani, i pastori tedeschi, tutti cani che nascono alla solidarietà e razionalità del vivere collettivo, fino a quando magari non vengono stuprati nella loro natura dal “padrone” che li maltratta, affama, traumatizza, disprezza, educa all'attacco approfittando della loro immensa e malriposta fiducia. Attacco detto, come da La Russa e Israele, “difesa”. Tutta l’etologia degli scienziati onesti conferma questo dato. E anche tutte le statistiche, le cui tante annate il calunniatore riunisce in tre pagine colanti resti umani. Ne risulta che i cani stanno facendo a noi quel che l'iraniano Moqtada al Sadr, il trapanatore di crani scita, sta facendo ai sunniti e patrioti iracheni. Il rapporto che Messina individua tra violenza animale e violenza umana è quello che effettivamente c’è tra Bush e Che Guevara. E meno male che s’è scordato dei bassotti. Non sa cosa sarebbero capaci di fare a uno scaricabarile come lui…

Personalmente ho da 14 anni in famiglia il bassotto Nando, ultimo di una gloriosa successione, che anche in questo momento mi guarda con occhi larghi e fissi per capire che cosa vado facendo, pensando, provando, volendo, programmando. E sapeste lo sforzo! Come tanti tra i miei simili, altrettanto fortunati, lo sento di notte rannicchiarmisi bofonchiando addosso e poi emettere piccoli guaiti a indicare il groviglio dei suoi sogni sulla nostra vita comune. Ogni volta che gli dico o faccio qualcosa di buono, o che vuol farmene qualcosa lui, la coda esprime, con vari gradi di intensità, il suo sorriso. Se lo lascio solo in casa il suo sguardo, le sue orecchie, il prolungamento del suo lunghissimo corpo, fanno pensare al papà del “negro” Emmanuele di Parma pestato dai vigili, quando il ragazzo uscì di casa: dove vai? Chi ti sosterrà senza di me? Che faccio io in questo vuoto? Tornerai? Quando mi allontano mi trascino dietro una scia di dolenti ma affettuosi rimproveri, richiami, attese, calore. Le infinite posizioni di orecchie, occhi, zampe, coda, superiori a qualsiasi cosa noi si possa esprimere anche contorcendoci, mi illustrano stati d’animo, pensieri, voti, apprensioni, trasporti passionali, malinconie irrimediabili per tutta l' insuperabile distanza che, nonostante tutto, rimane fra le due specie. Una ricchezza di pensiero e sentimento di cui a fatica percepisco un granello. Uno solo di questi momenti vale tutti i dollari della benefattrice californiana e fa sprofondare nel discredito ogni parola del guerrafondaio specista di “Repubblica”. Qualcuno ha spinto come un matto per sostituire al conflitto di classe le sue dependances: genere, diversità sessuali, razze, salvo poi finire sull’Isola dei Famosi. Possibile che non vi avesse letto anche quello tra animale e uomo? Uomo e cane? Mentre, come nel caso dei padroni e dei lavoratori, anche in quello degli altotti contro i bassotti, la lotta di classe si fa e come. Solo che, oggi come oggi, è fatta da una sola parte: dall’alto verso il basso.

A questo punto ci saranno persone, compagni dalla cultura sviluppista, che preferiscono una ciminiera al posto del bosco dei lupi, una rotonda o tre villette a schiera dove c’era il prato dei cani, una piattaforma petrolifera dove stavano orate e delfini.
E Nando è simpatico, ma viene dopo, molto dopo. Noi, invece, Nando e io, siamo per la decrescita. Quella che restituisce il loro spazio ad altri viventi, migliori di noi in quanto più utili alla trasparenza, all’armonia, e alla difesa e riproduzione della vita, qui e nelle galassie. Una decrescita che faccia ripartire la crescita di tutto ciò che vale e occorre, in primis degli spazi altrui da noi sottratti, colonizzati, imbrattati. Non c’è più tempo, non c’è più spazio? Vedrete quanti spazi si aprono se scrostiamo un po’ di cemento, se eliminiamo dai mari gli incrociatori da guerra o da diporto, se facciamo mangiare di meno agli obesi americani, se tiriamo giù un po’ di aerei scassaclima e andiamo in treno, se liberiamo da basi ed eserciti la colonia che siamo, se ritagliamo quattro quinti dalla villa di Arcore e chiediamo al Quirinale di accontentarsi di palazzina con salone doppio, camera per gli ospiti e doppi, vabbè tripli, servizi.

Insomma, niente serve a verificare il proprio comunismo (e rimanerci di merda) che dare un po’ retta a Nando.


venerdì 3 ottobre 2008

ASSASSINI E SBIRRI


L’immagine qui sopra è dedicata a coloro che presidiano la trincea della libertà e della vita in Iraq, in tutto il Medio Oriente e ovunque si combatta, dalla Colombia alle Filippine, contro il battaglione di cavalieri dell’Apocalisse (statisti-gestapo, banchieri, multinazionali, militari himmlerizzati) che si stanno mettendo sotto gli zoccoli il resto dell’umanità e tutta le civiltà. Per noi il loro è un esempio etico e politico, oggi certamente non attuale sul piano operativo. Mica per l’astuto delirio della nonviolenza con cui il cialtroname revisionista e negazionista (nei confronti della rivoluzione socialista) di Vendolotti e delle quinte colonne Nato pacifiste scaturite a Sarajevo, Sofri, Langer, Tute Bianche, preti e pacifisti assortiti, ha staccato il biglietto per il villaggio vacanze “Una poltrona per te”, vigilato da Marines, Folgore e padrini. La simbiosi Stato-mafia è garanzia di dominio, dal narcofascista Uribe alla Cia della coca colombiana e dell’eroina afghana, alla sempre incinta mafipolitica nostrana. L’esempio dell’irriducibile, per quanto occultata o fatta passare per Al Qaida, resistenza irachena, è racchiuso nella frase sotto il guerrigliero: Don’t tread on me, non mi calpestare. Con il che si conclude il concetto riportato in un precedente post: “Se non vuoi piedi sul collo, non inchinarti”. Quale lezione più attuale?

Grandina fascismo. Rispetto allo Scelba-Cia della legge truffa (oggi passata in formato gigante), al Tambroni-Cia dello sposalizio con il MSI (oggi consacrato e governante), al De Lorenzo-Cia dei golpe, ai governanti-Cia stragisti, alla P2 piena di detriti mafio-fascisti, quella di oggi è un ciclone Ike a paragone di una pioggiarellina di marzo. Quando, durante la seconda berlusconeide scrissi un articolo sul “regime che avanza” a proposito dei provvedimenti ducisti del riciclatore riciclato, il mio allora direttore, Sandro Curzi, si alterò: “Ma quale regime! Non drammatizziamo! Non facciamo dell’allarmismo!” Si rivelò ancora una volta un cranio lucidissimo, questo Curzi. Doveva diventare consigliere RAI, poveretto. Ne avessimo fatto, allora, di allarmismo!

Grandina fascismo. Grandinate tutte firmate da un signore che l’intero Palazzo, tranne l’occhiuto Di Pietro, definisce “sopra le parti”, addirittura, con sprezzo del ridicolo e del pericolo, “garante della costituzione”! Ci meravigliamo? La pianta saprofita che svetta sul Colle (Quirinale circa 300 dipendenti; Buckingham Palace 90), tranne le mele sane Pertini e Scalfaro non ci ha offerto che frutti bacati con dentro il verme Cia.
Dal Gronchi all’olio di ricino, al Saragat nella botte di Barbera, al Leone becco e trafficone aeronautico, al Ciampi della svendita dei gioielli di famiglia, all’attuale ex-leader dell'unica fazione PCI finita sotto le sacrosante zanne di Mani Pulite. Tutta gente avvoltolata in bandiere nazionali ricamate di clamori verbali ipocriti e cretini, a copertura dell’avallo alle malefatte della malavita politica. Nulla ha da dire il Capo dello Stato su niente, salvo l’ossessivo “invito al dialogo” tra opposizione e maggioranza affinchè la prima non ostacoli eccessivamente il rullo compressore che asfalta il fascismo della seconda. Nulla ha da dire sulla caccia di massa al migrante, al rom, al rumeno, all’africano, all’omosessuale, aperta per decisione e iniziativa dei governanti e delle forze politiche, fin da quando il vuoto incartato Rutelli si mise all’inseguimento di zingari che, ohibò, andavano in macchina. Va bene così: più li massacriamo di botte, fucilate, burocrazia, persecuzioni e diffamazioni, e più si presteranno a farci da schiavi e a fare da modello per i nostri, di lavoratori. Altro che contratto nazionale, altro che aggancio all’inflazione reale, altro che pretese nella contrattazione di secondo livello. O ti ammazzi di lavoro per due fichi secchi, o ti ammazzo io. Modello agrari, Fiat, Breda degli anni’ 20. Che vengano in massa questi migranti, a dispetto della pantomima delle frontiere vigilate e delle espulsioni minacciate. Hanno le facce degli schiavi di appena 130 anni fa. Si prestano da modello. E se non vengono da soli, perbacco se non li sappiamo far venire noi: genocidi, carnai confessionali o etnici indotti, pandemie, disastri climatici mirati, saccheggi multinazionali, bombe. Pensate a quanti bravi iloti e quanti spacciatori della materia prima fondamentale del capitale (forza lavoro e droga) hanno fatto arrivare dal Kosovo e dai Balcani le nostre bombe. Per nascondere il progetto schiavista, dai “giornalisti” facevamo raccontare che questi disperati fuggivano dalle sevizie serbe. Ci hanno creduto tutti, che ridere! Siamo straordinari in questi travestimenti. Abbiamo scosso l’universo mondo con la storia dei fuggitivi da Saddam (quattro nostri collaboratori) e riusciamo a non far sapere niente di cinque milioni di iracheni fuori casa e fuori confine per merito degli Usa e dei loro sicari iraniani.

Grandina fascismo, mentre da sinistra si guarda sbigottiti al rancido revival forzanuovista dello squadrismo del ’22 che, come quello, serve a distogliere dalla demolizione dello Stato liberal-democratico intanto portata avanti da montezemoli, marcegaglie, ecclesiastici, piduisti, paolimieli con "La Grande Storia" tv che bonifica il fascismo, bossisti, generali e istituzioni tutte. Il guitto-mannaro mussolineggia annunciando che d’ora in poi governerà per decreti da “imporre” al parlamento (Fini, neodemocratico convinto e terza carica dello Stato, s’inalbera: “Il parlamento farà sentire la sua voce!”. Sì, ma da quale orifizio?). Siamo al mai dimenticato “”parco buoi”. I pretoriani del teatro dei guitti, intanto, convincono le masse rivendicando la bellezza etico-estetica della Diaz e di Bolzaneto e menando senza remore donne, bambini e uomini che vorrebbero evitare di farsi depredare o avvelenare. Sono ben addestrati in vista delle turbolenze che s’imporranno quando la loro insipienza predatoria ci avrà bruciato anche l’ultimo euro sul conto corrente. Tocca prepararsi alla bisogna, anticipare. Terrorizzare. Mica vorranno che si ripeta il fenomeno ineliminabile delle resistenze armate di popolo, o delle insurrezioni di massa vittoriose che ci propone l’America Latina, capaci di cacciare a calci in culo teorie di presidenti berlusconidi.

Grandina fascismo. Il Consiglio di Stato, giustizia amministrativa, potere indipendente per Costituzione, si fa dipendente di Bush e, a scendere, di Prodisconi, di La Russa (e ci vuole dello stomaco) e di Paolo Costa, commissario governativo a Vicenza e compare di Rossana Rossanda, ragazza di qualche secolo fa, nel sostegno al micidiale ludibrio scassa-Venezia che è il Mose. Il guitto-mannaro cuce la bocca a quasi metà parlamento (al resto no, perché sbraita convenienti stronzate), il Consiglio di Stato lo affianca sfilando al cittadino il diritto costituzionale di esprimersi con referenda sui cazzi suoi, di tutti e del territorio. A Vicenza, sulla base di morte Usa, zitti e mosca. Marco Revelli, collateralista di Toni Negri e del quale non condivido quasi nulla, anche perché a gufare come lui ce n’è pochi, stavolta giustamente parla sul “manifesto” di “colpo di Stato amministrativo”. Siamo in vista del golpe contro il referendum di Di Pietro e altri sul “Lodo Alfano”. Dispositivo che chiude nell’ecoballa camorrista-governativa l’articolo 3 della Costituzione, tutti uguali davanti alla legge, accanto all’art.11 contro la guerra già infilatovi da Napolitano, e permette alla quadriglia di tiro della carrozza fascista di infischiarsene di dieci chili di codice penale, civile, procedura penale, procedura civile. E leggi annesse.

Grandina fascismo. In Iraq, Afghanistan, Darfur, Tibet, Palestina, Colombia e Africa gli assassini euro-anglosassoni, o loro ascari anche nostrani, lo fanno arrivare a forza di bombe, attentati terroristici, Abu Ghraib. Dalle nostre parti, gli sbirri in doppiopetto e loro mercenari dallo sparo facile e dalle mazzate sui crani, avanzano su decreti legge cingolati.. I SUV dei padroni, voraci di schiavismo, viaggiano trainati dai loro blindati.

E ancora l’immarcescibile “manifesto” eleva inni al “resistente” Epifani e alla sua CGIL: due paginoni dedicati al reduce dalla firma sotto al regalo dei vivi e dei morti di Alitalia a una banda di grassatori, per la sua inflessibile opposizione alle ecatombi marcegagliane. E pensare che, in ottemperanza al totalitarismo dei padroni, la firma di Epifani sta sotto a un accordo che esime da ogni conseguenza penale, al pari dei boss istituzionali alfanizzati, tutti i boiardi e manager che hanno coscientemente rovinato un bene di tutti per servirlo gratis a nuovi banditi e si sono lasciati dietro le macerie con centinaia di milioni di buonuscita in bocca. Il modello è stato ancora una volta Washington che, di fronte agli spasmi digestivi dei cannibali bancari, non solo gli ha dato 850 miliardi dei rapinati, ma ha anche stabilito che nessuna corte li potrà mai processare per i loro delitti di appropriazione indebita, aggiotaggio, truffa, circonvenzione di incapace, inettitudine. Un temerario cronista vede nella CGIL di Epifani un parallelo con l’Autunno Caldo, trascurando il fatto che se quella CGIL fu spinta alla lotta lo si deve unicamente alla pressione di un gigantesco, umanamente e teoricamente attrezzato, movimento extraparlamentare. Quello di cui non si vede l’ombra oggi. E anche al fatto che il collega principale non era Bonanni, ma Carniti. Altri tempi, altri uomini. E’ tornato Giano Bifronte: da un lato il sindacato unitario, dall’altro Marcegaglia. Uniti nella lotta. Dall’alto in basso. Modello USA: rubare a man bassa, fare guerre da tre trilioni contro l’Iraq e rimanere in rosso per tre trilioni, indebitarsi fino alla bancarotta spremendo nullatenenti stritolati da salari di fame e inflazione e farsi rimettere nella carreggiata delle rapine dai soldi degli spennati. Tutto questo lo puoi fare fino in fondo solo se ti premunisci mettendo spie appresso a tutti, rastrellando “sospetti”, abolendo il parlamento con i decreti, mettendoci alle calcagne parà reduci dalla Nassiriya del “annichiliscilo!”, o dalla Somalia degli elettrodi sui prigionieri.

Grandina fascismo. Un campione dell’ambiguità come Spike Lee, camminando sulle impronte del massimo alfiere cinematografico dell’imperialismo USraeliano, Steven Spielberg (“Lo squalo” per metterci contro gli ambientalisti e la natura, “Guerre Stellari” per arruolarci nello scontro di civiltà, “Il Soldato Ryan” per inserirci nella guerra permanente), fornisce il quadro storico. I tedeschi compivano stragi come quella di Sant’Anna di Stazzema solo perché agevolati dai tradimenti di partigiani comunisti, e gli americani non erano affatto i nuovi colonizzatori, bensì i veri salvatori di un bambino e di tutto il popolo italiano. Ecco rifatta vergine l’America, anche di Bush. Ecco riscattati i 40mila stupri compiuto dai GI’s nella risalita dalla Sicilia, pavimentata dalla mafia in cambio di una cogestione in perpetuo della nazione, nonché Vicenza e tutti i carcinomi d’assalto, nucleari e non, impiantati tra Brennero e Capo Passero. Buoni anche come retroterra strategico dei Gladio del fascismo agognato e, oggi, del fascismo in corso di attuazione. Spike Lee come, a livello italiota, il Giampaolo Pansa de “Il sangue dei vinti”, correttamente passato dall’ondivago “L’Espresso” al “Riformista” del bombarolo dalemiano.

Grandina fascismo. E il modello sono sempre lo Stato Guida, quello che Natizinger, intrecciato a Bush, ha definito “Il modello etico del mondo”. Abolito l’habeas corpus, permettendo di sbattere in galera senza imputazione formale e senza diritto di difesa, gli Usa hanno, per la prima volta nella storia, destinato un reparto dell’esercito, la Prima Brigata di combattimento della Terza Divisione, 4000 uomini sottoposti al Northcom del Pentagono, all’ordine pubblico su suolo statunitense. Nel caso che qualche renitente alla strage di lavoratori si mettesse in testa di parlare male di Wall Street. Si tratta dell’unità più sanguinaria delle FFAA , quella che ho visto personalmente capeggiare l’assalto a Baghdad nell’aprile 2003, sparando a qualsiasi cosa si muovesse, compresi noi giornalisti nell’Hotel Palestine, quella che ha decimato la popolazione a Ramadi, capitale della Resistenza, quella che nei tre anni in Iraq ha costruito un cursus honorum con più carneficine di civili di qualsiasi altro reparto occupante. E prontamente quel ministro che alla parola sostituisce il rutto, ha mandato i Parà della Folgore a ripetere l’esercizio, quelli con un curriculum degno dei colleghi statunitensi, per un totale anche lui di 4mila sgherri con le stellette.

Grandina fascismo dal primato mondiale di escatologia totalitaria delle due sciacquette che, a turno, spazzano apprendimento, intelligenza, maturazione da scuole e università, consegnandole ai corsi di alienazione, superstizione e sottomissione di preti e privati, e spazzano le strade dalle prostitute e dall’esercizio della propria sessualità, magari irrealizzabile altrove, di coloro che non si possono permettere i coca party al chiuso dei deputati e dei signori. Reprimere il sesso è, dallo sfruttamento dell’Aids, Vaticano in testa, dalla sostituzione del corteggiamento con il reato di “molestia sessuale”, dal terrorismo mediatico su pedofili e stupratori (smentito dalle statistiche e dagli esiti processuali), lo strumento basilare di castrazione di tutte le libertà. Fa il paio con l’utilizzo che si è fatto delle Torri Gemelle per scopi paralleli.

Grandina fascismo dall’himalaya di ipocrisia di Gianfranco Fini quando proclama, dopo un’intera vita di contrasto alla libertà e di nostalgia per il regime, che “la destra italiana deve essere antifascista. Libertà, uguaglianza e giustizia sociale sono valori anche nostri”.
Questo è il Fini, compare del piduista golpista, comandante in seconda nel più feroce attacco alle libertà civili, ai diritti umani (guerre di sterminio) e al lavoro che sia stato mai condotto dalla liberazione in quà, regista ai suoi esordi democratici dei giochi di polizia nella Genova del G8. Il Fini, biecamente opportunista in vista della successione al guitto-mannaro, che sguinzaglia contro la gente rozzi parvenu del bushismo d’assalto come La Russa e Alemanno. Il Fini che sta a Berlusconi come Starace stava a Mussolini, “più grande statista del secolo”, come la Palin sta al mostricciattolo McCain, e che trasuda da ogni poro un nulla intellettuale vestito di autoritarismo. Ebbene, anche per lui “il manifesto” ha buone parole. Ha messo in campo tre dei suoi cavalli di razza per esultare su pagine e pagine: “Sono di gran buon senso politico e istituzionale le dichiarazioni di Gianfranco Fini, per i contenuti e il momento particolare in cui sono state pronunciate… Quello di Fini, presidente della Camera, è il primo discorso chiaro e netto di un uomo della destra italiana che rivendica un ancoraggio senza ambiguità, alto e forte ai valori della nostra Costituzione, come libertà, uguaglianza e solidarietà e giustizia sociale. E anche il primo giudizio storico complessivo che da questo mondo viene sull’esperienza del fascismo storico…” Un Fini alto e forte. Agghiacciante, ma non basta. Si arriva all’epitaffio eroico: “Ci voleva Fini per ricordare che nell’esperienza italiana l’antifascismo è la democrazia quale noi abbiamo storicamente e concretamente conosciuta”. Fa eco a questo abbagliato Santomassimo, dalla colonna accanto, una Daniela Preziosa in preda a vertigini di credulità con: “ La destra italiana diventa antifascista. Perlomeno Fini ci prova… E ricorda commossa e convinta, di Fini i viaggi a Auschwitz e in Israele dove aveva definito il nazifascismo “male assoluto”; il sessantennale genocidio in Palestina è ovviamente solo un “male relativo”. Anzi, neanche quello, è autodifesa. Peccato che nessuno possa ricordare un qualche viaggio di Fini a Gaza, o a Guantanamo. Ma questo non turba “il manifesto” che, anzi, si specchia nell’omaggio di Veltroni: “Fini si è espresso in modo chiaro , inequivocabile e assolutamente corretto”. Ma è stato Fini a chiedere al "manifesto" di fornirgli alibi falsi? Non ci resta che piangere. E capire come quel quotidiano, al di là delle fascistiche misure contro i giornali di cooperativa, vada a ramengo per l’inesorabile perdita di lettori che non apprezzano nella stessa misura Fini, o Epifani, o Hillary Clinton, o Obama, o la valutazione delle resistenze di popolo come “terrorismo islamico”, alla Giuliana Sgrena.

Ma ci resta anche un po’ da ridere. Barbara Berlusconi, recente virgulto accademico della dinastia regnante, a una platea della combriccola d’elite “Milano Young”, capeggiata da un tipino incravattato che il solito dio, amico del giaguaro, ha tratto da una costola di La Russa, ha dato lezioni nientemeno che di “etica imprenditoriale”. Subito si sono prenotati per seminari simili: La Russa padre sulla “salvaguardia di donne e bambini afghani dalle intemperie della guerra”, Roberto Maroni sulla “necessità democratica di far sposare sua figlia a un Imam”, Veltroni su come “arginare con ogni forza il berlusconismo e le interferenze del Vaticano", Napolitano sull’"immediato obbligo costituzionale di uscire dalla Nato" e del sottoscritto sull’impellente opportunità di dare all’ex-senatrice bertinottista, Lidia Menapace, la medaglia al valor militare per il suo voto al rinnovo della missione di pace in Afghanistan.