Nessun paese del Primo Mondo era mai prima riuscito a eliminare così totalmente ogni obiettività da tutti i suoi mezzi d’informazione.
(Gore Vidal)
La Central Intelligence Agency (CIA) è padrona di chiunque sia significativo nei principali media.
(William Colby, direttore Cia negli anni’70)
Per coloro che ostinatamente cercano la libertà non c’è compito più urgente che comprendere i meccanismi e le pratiche dell’indottrinamento… Troppo spesso siamo gli strumenti inconsapevoli di “lavaggi del cervello in democrazia”.
(Noam Chomsky)
Riprendo, dopo una mesata di sosta, il colloquio con i miei compagni di viaggio nella decostruzione di balle, cialtroni e utili idioti, ringraziando tutti coloro che, gentilmente, hanno sollecitato la ripresa di queste intemperanze, o mi hanno offerto preziosi suggerimenti ai quali vorrò adempire nei limiti dei miei tempi e delle mie capacità. Avrei voluto ripartire per una volta in positivo parlandovi subito di alcuni eroi del nostro tempo, ovviamente di tinta più scura della mia, azzannati da sinistra e destra da coloro che la pelle ce l’hanno come me. Ma ho rimandato perché, mentre, subito al mio ritorno (dove ho passato agosto quel giornale non c’era) mi tornavano a intorcinarsi le budella alla digestione di alcune calcoli del “manifesto”, m’è capitato a fagiolone la testimonianza di un compagno e antico amico. La potete leggere qui sotto, dopo una premessa. Si tratta del racconto e delle impressioni di un viaggio, non di un’analisi documentata, ma bastano le cose viste e riferite da Mattia per mettere radicalmente in dubbio il quadro che ci viene propinato su quest’ennesimo “Stato canaglia”. Quanto al “giornale comunista”, i prolegòmeni (dal greco prolegein, “dire prima”) all’intervento del mio amico sono stati due meravigliosi saggi, uno di mistificazione ipersionista e l’altro di ottundimento razzista e colonialista. Andateveli a vedere: 23/8, Gabriella Steiner Moscati (il nome promette quel che la penna mantiene), “La costellazione Israele”. Corredato dall’astuta direzione del giornale di grande colomba di pace con giubbetto antiproiettile svolazzante su donna araba, il paginone elenca le inesauribili virtù di pace e le valenze d’arte di un tale esercito di bravi e pacifici scrittori dell’entità stragista sionista da polverizzare ogni resistenza mnemonica. E questo è un bene. Di campioni letterari israeliani, architrave del mattatoio eretto in Palestina, ce ne avevano tirati addosso a sufficienza al tempo della Fiera del Libro torinese dedicata allo Stato Criminale, esaltata dal “manifesto” e giustamente boicottata dalle persone perbene. Con nella testata nucelare, allora come adesso, la carica dei tre “venerandi maestri” Oz, Jehoshua e Grossman. Tre infami che hanno lubrificato le armi ai serial killer in Libano, a Gaza, nella costruzione del muro, nella difesa dello Stato sionista.
In piena coerenza con questo sbraco reazionario e nazistoide, ecco il 28 agosto “Biografie grottesche di pagliacci al potere”, in cui tale Paolo Febbraro si spara, con toni da Freude, schoener Goetterfunke (l’Inno alla gioia di Beethoven), una pera imperialista intitolata “Pagliacci e mostri, storia tragicomica di otto dittatori africani” (Idi Amin, Bokassa, Mobutu, chissà perché Sékou Touré e altri) di tale Alberto Sanchez Pinol. Vi si afferma che “con le decolonizzazione gli europei hanno creduto di purificarsi l’anima col principio della non ingerenza (sic), considerando i deliri e la corruzione dei dittatori africani (ossessivi e infingardi, ladri e assassini compulsivi) come un esito fatale e spontaneo da parte di società giovani e disabituate all’arte della politica”. L’oscenità razzista prosegue con la deplorazione per il fatto che “il passato barbaro (sic) dell’Africa non sia morto o in via d’estinzione” e con tirate d’orecchi a “quegli intellettuali di sinistra che, in nome di astratti ideali anticolonialisti” (sic), si sarebbero piegati alla propaganda di questi “mostri”. Pietosi, poi, autore e recensore auspicano per l’Africa la “vera fuoruscita dall’infanzia e un suo ingresso nella grande tragedia della storia”. Peccato che nella grande tragedia della storia ce l’abbiano già cacciata, nel corso dei secoli, consanguinei intellettuali di questi prosseneti del colonialismo, italiani, inglesi, francesi, olandesi, portoghesi, tedeschi, statunitensi, insomma tutto il ciarpame bianco cristiano feudal-capitalista, rubandone le risorse, sconvolgendone l’assetto sociale e culturale, decimandone le popolazioni, devastandone l’ambiente e, soprattutto, violentandone il dna morale e spirituale, al punto da farle abortire questi dittatori, prodotti diretti della manipolazione genetica coloniale e, ancora di più, postcoloniale. Chi altri ha messo su troni incastonati di teschi i Bokassa, gli Idi Amin, i Mobutu, i Selassiè, se non sponsor armatori e predatori euroamericani, con gran concorso di Israele? Chi li ha sostituiti ai combattenti della liberazione trucidati o liquidati o perseguitati, ai Lumumba, Agostino Neto, Mugabe, Nyerere, Nasser, Ben Barka … La conclusione è di un’assoluta coerenza logica con quanto sopra: “Non serve incolpare (si presume della comparsa dei “pagliacci e mostri”) lo statalismo occidentale”. Ma per carità! Sono le stesse parole che Barack Obama ha pronunciato in Ghana. Esonerati cinque secoli di stupri occidentali in Africa, richiamata in servizio la dottrina del selvaggio da civilizzare, si riparte alla grande, prima che Cina e Russia, con le loro buone maniere, ci fottano. Un viatico del “manifesto” al lancio di “Africom”, il nuovo comando strategico Usa per la riconquista coloniale del continente.
La mia Eritrea
Era il 1970. Già inseguivo per il mondo guerre, rivoluzioni, casini vari. Dal ’68 avevamo incominciato ad aprire gli occhi su destini fratelli, magari geograficamente e culturalmente distanti, ma vicinissimi sul piano delle contraddizioni principali. Roba che la sinistra ha ritenuto utile gettare nel fosso per non intralciare la rincorsa del suo trabiccolo alle fuoriserie da cinquemila cavalli e necroscarichi. Ero con una ragazza inglese scaturita dall’Isola di Wight e nella moschea blù di Istambul avevamo rimorchiato un allampanato e roseo studente oxfordiano di geologia, Roger, un equo e solidale ante litteram. Ce la siamo fatta via ferrovia fino ad Assuan, saltando in volo solo l’entità sionista. Da Assuan a Wadi Halfa, attraverso il lago Nasser, occhieggiati dai templi di Abu Simbel, su un battello a ruota del Mississipi, sopravvissuto al Dixieland e a New Orleans, poi giù a Khartum da pochi anni strappata alle fauci britanniche (che poi si sarebbero ripresentate in Darfur al guinzaglio dei cugini maggiori). Qui, associati a due fotografi francesi, fummo avviati dal Fronte di Liberazione Eritreo al paese in lotta di liberazione da un imperatore etiopico che le turbe in stracci della capitale potevano ammirare mentre dal terrazzo della reggia si divertiva a suscitare cagnare tra i suoi molossi gettandogli pezzi di vacca. Ci facemmo a piedi un migliaio di chilometri tra deserto e semideserto dell’altopiano. L’unico cammello portava i bagagli, il tè, lo zucchero, la teiera e un paiolo per riso o sorgo. I dieci guerriglieri che ci accompagnavano portavano l’immortale Kalachnikov. La fatica era boia, le tempeste di sabbia rosse e spillute. Si dormiva nella sabbia, avvolti in un panno, lontani dalle acacie perché ne piovevano insetti micidiali. Ci si svegliava a volte sbarrando gli occhi su una scolopendra a portata di naso. I momenti di ristoro e goduria erano la festa del tè serale, i wadi (fiumi semisecchi) ombreggiati da acacie e palme, la rincorsa dei babbuini dal culo color petrolio al sole, e gli incontri con donne eritree a seno nudo che ci permettevano di abbeverarci, fianco a fianco con il muso dei loro cammelli, dai rari pozzi cui Roger, che di notte ci spiegava le stelle e la loro relazione con le nostre posizioni, in piena frenesia pedagogico-tecnologica, cercava sistematicamente di sovrapporre una carrucola che dimezzasse lo sforzo di tirar su l’otre di capra. Quando finivano i viveri e non c’erano villaggi amici a portata, il Kalachnikov si esercitava su qualche gazzella, la cui carne placava i nostri rimorsi animalisti.
Arrivammo dal confine sudanese, passando per città in sereno e lindo stile littorio, quando non sbriciolate dagli aerei etiopici, come Tessenei, Agordat, Keren, fino alle alture che guardavano sulla luccicante capitale Asmara, circondata dal mare di verde degli agrumeti dei feudatari italiani Barattolo o Delai. Percorrendoli a passo del leopardo e in silenzio, a un compagno eritreo partì una fucilata che mi bruciacchiò la basetta. Risate. Prima c’erano stati un paio di eventi. Il congresso del Fronte che vide la spaccatura, mai risanata, tra FLE e Fronte Popolare, entrambi rigorosamente marxisti-leninisti, ma l’uno, con Ahmed Nasser, a composizione maggioritaria islamica, l’altro, con Isaias Afeworki (oggi presidente), cristiana. Fino a Kassala sul confine Sudan-Eritrea, avevo riferito al mio giornale, “Giorni-Vie Nuove”, per telescrivente. Da lì in poi generosi araldi del Fronte tornavano indietro, a piedi, per portare al punto di partenza del sistema postale fogli riempiti dalla mia Lettera 22 e rullini fotografici. La lingua italiana aveva cementato un’amicizia particolare con guerriglieri reduci da studi a Perugia o Torino. Un pomeriggio ci avevano fatto provare il tombac, una misteriosa mistura rossa appallottolata che andava succhiata tra denti e guancia. Ci ritrovammo, senza sapere come, nel nostro capanno, orgogliosamente realizzato da noi stessi con frasche e imperizia, che eravamo fatti come i marinai dal rum dell’Isola del Tesoro. Una ridarella spasmodica e implacabile che ci faceva sussultare come tarantolati. Il bello era che per la sera era previsto il lungamente atteso incontro con il massimo dirigente del Fronte per un’intervista che avrebbe dovuto far conoscere al mondo una guerra nascosta, ignorata, ma che durava da otto anni. Il capo venne, si sedette a gambe incrociate insieme ai suoi compagni, io gli misi il registratore sotto il naso e sparai domande. Da dietro mi arrivano singulti e scuotimenti repressi. Il capo sorrideva, consapevole e comprensivo. Quando, il giorno dopo metabolizzato il tombac, riascoltai il nastro, a parte qualche strana schicchera sullo sfondo, tutto suonava normale. Una bella intervista su una delle ultime grandi lotta anticoloniali. Fece il giro del mondo. Misteri della professione e del tombac.
Per far arrivare questa guerra di liberazione da un tiranno annessionista oltre i confini del simpatizzante mondo arabo e africano occorrevano prove, non chiacchiere. E le prove erano le foto. Dopo tre settimane di questa carovanata non s’era ancora vista l’ombra di un combattimento. Macerie da bombe sì, ma niente feriti, morti, profughi, niente che potesse figurare come credibile reportage di guerra. Roger, la cui morfologia rosea si era tramutata in rosso paonazzo sotto i morsi carnivori del sole equatoriale, aveva dovuto essere riportato indietro. Ci rimettemmo il cammello. Niente più carrucole sui pozzi. I francesi e io eravamo diventati impazienti e petulanti: dov’è la battaglia, dov’è la guerra? Rompemmo i coglioni ai nostri accompagnatori finchè una mattina, vicino a Keren, il sole sorse su una colonna di combattenti del FLE laceri, sanguinanti e bendati, che scendevano dal crinale dell’altopiano. C’era stata una battaglia con gli etiopi! Lasciata in pianura la spossatezza dell’atroce faticaccia, ci avventammo come camosci sù verso il passo. Lo raggiungemmo, guardammo dall’altra parte e vedemmo una bellissima spianata. “Laggiù ieri c’è stata la battaglia, fotografate”, ci dissero le nostre guide. C’è un momento dove lo stress, il sole, la fame, ti fanno uscire di senno e perdere il senso del reale, dell’opportuno e del possibile. Delusi e incazzati come iene, comunicammo ai nostri compagni eritrei che ne avevamo avuto abbastanza e che ce ne tornavamo a casa, 500 km di sabbia e rocce più in là. E prendemmo a scendere. Niente foto, niente guerra di liberazione.
Abdallah, il più anziano, ci mise poco a riannodare le nostre sinapsi. Ci si parò davanti, ci puntò il Kalachnikov sulla pancia e annunciò “A questo punto siete prigionieri”. Ci fecero camminare in fila, ci portarono su una collina con due capanne, spazzata da un vento collerico, ci costrinsero tutti quanti in una e vi ci tennero per due giorni e tre notti senza parlarci. Saremmo stati giustiziati per ammutinamento? Furono momenti bruttissimi, anche perché una notte un ratto mi morse il naso e la presi come un brutto presagio. La terza mattina, tornato il corriere che, a piedi (e poi ci si chiede com’è che quelli del Corno d’Africa corrano meglio di tutti), aveva raggiunto il comando del FLE per sapere che fare di noi, ci svegliammo circondati dai nostri guerriglieri, tutti sorridenti, e da un sacco di regali: collanine artigianali, pesche e arance, scatolette di legno lavorato, biscotti. Erano penetrati di notte in Asmara occupata e avevano rischiato la pelle per portarci quelle cose. Quella è la gente che oggi governa l’Eritrea e che, appunto perciò, deve essere criminalizzata da un fetido concorso di destra e sinistra.
Ne avrei avute a iosa, anni dopo, di scene di battaglia e di morte in Eritrea. Fu quando l’FLE mi mise su una barca e mi fece attraversare il Mar Rosso dallo Yemen alla Dancalia. Doppiammo, di notte, una nave da guerra etiopica, un’ombra gigantesca cui carezzammo la prua a motore spento, remando con le mani. Ne andava della vita. Sbarcammo a Barasole, villaggio nella punta meridionale della striscia vulcanica dancalese, vicino ad Assab, su cui i predatori etiopici, che fosse sotto Haile Selassie, Menghistu, o l’attuale despota e fantoccio Usa Meles Zenawi, hanno da sempre voluto infilare le zanne per avere l’agognato accesso al mare. Addis Abeba aveva i Phantom e le spie israeliane, onnipresenti dove si tratta di metterla in quel posto al Sud del mondo, e due ore dopo arrivarono dall’alto. Con gran parte della gente facemmo in tempo a salire su un roccione e rintanarci in una grotta. Da lì vedemmo radere al suolo e incenerire un villaggio di trenta capanne fatte di pali di legno e frasche, con le sue cento capre, le sue dodici mucche, una ventina tra donne e bambini che non avevano fatto in tempo. Con i feriti, su camion che risalivano la grattugia delle rocce vulcaniche in condizioni come solo gli eritrei, migliori meccanici del mondo, li sapevano sistemare, raggiungemmo le cliniche da campo, le scuole, gli acquartieramenti, gli orti, le danze, i canti e gli spettacoli patriottici, i corsi di socialismo nel Terzo Mondo, gli allevamenti delle guerriglia. Prolegòmeni del futuro Stato autodeterminato e libero.
Solo molti anni dopo, sul finire del secolo, gli eritrei vinsero, disintegrando insieme ai cugini tigrini di Etiopia l’esercito del tiranno. E hanno organizzato uno Stato che, come passione di libertà e autodeterminazione, come impegno sociale e determinazione antimperialista, non ha nulla da invidiare ai migliori esempi della decolonizzazione. Non glielo si perdona, né dai necrofori dell’imperialismo, né dai falliti e addomesticati della “sinistra”. Né dal vecchio rapinatore coloniale italiano che vede “dittatori” ovunque la dignità dei popoli rifiuti il pensiero unico, la subordinazione, il nostro schifo. E’ per questo che l’Eritrea e il suo governo vengono azzannati, sia con le continue aggressioni belliche dei valvassori imperiali vicini, Etiopia, Yemen, Gibuti, sia dalle sanzioni economiche dell’associazione a delinquere detta “comunità internazionale”, sia dagli ascari mediatici tutti che, al suono della voce del padrone, berciano il coro della loro miserabile connivenza. Quella che ho visto e amato è l’Eritrea che combatteva, che ha vinto e governato e che ha saputo costruire una nazione in condizioni pari a quella dei pinguini nell’Antartide che si scioglie. Così l’ho vista e raccontata al Tg3 ancora 15 anni fa. Non so come sia oggi. Se ne dice peste e corna. Non ci credo neanche un po’. Conosco amici del giaguaro e utili idioti. Ho conosciuto Milosevic e Saddam. Ci vuole poco per orientarsi. Non so neanche se sia vero che l’Eritrea aiuti i combattenti Shabaab della Somalia massacrata. Ma, essendoci stato, so anche chi la massacra: gli amici della “comunità internazionale”. E allora quello dell’Eritrea non sarebbe altro che internazionalismo antimperialista e basterebbe questo per esserle riconoscente: sono cose dell’altro mondo. Come stanno i cittadini eritrei, poi, lo decidono loro. Non i revanscisti del Corriere della Sera, o i coristi di Liberazione.
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Di ritorno da Asmara
Tornato a Milano da Asmara leggo sui giornali italiani gli articoli sull'Eritrea apparsi in seguito alla nuova tragedia del mare ma concentrati non sulle politiche dell'immigrazione ma su una demonizzazione che appare sospetta.
Trovo descritto il paese che ho appena lasciato come un inferno, un paese dove si muore di fame e dove i negozi sono vuoti[1], una gigantesca prigione, un fattore costante d'instabilità del corno d'Africa[2], un paese dove è in atto una persecuzione anticristana ad opera di un tiranno marxista e islamico[3] allora mi costringo a scrivere qualche riga citando solo quello che ho visto in poco più di un mese, periodo in cui Eritrea ed eritrei mi hanno ospitato.
Asmara: una città africana.
Non so esattamente cosa intendesse dire Berlusconi quando in campagna elettorale definì Roma e Milano come città africane, certo mi stupì allora non sentire risposte sdegnate per l'affermazione evidentemente razzista ma solo basse polemiche sulle responsabilità degli amministratori locali del Pdl.
Asmara è una città africana: è pulita - a differenza delle nostre - e si può dire lo stesso degli altri paesi e città che ho visto; anche le strade sterrate più periferiche sono mantenute in uno stato più che dignitoso e se ci puoi trovare qualche pozzanghera dopo un temporale è difficile trovare un mozzicone di sigaretta e impossibile trovare sacchi di immondizia o oggetti abbandonati.
Le città eritree sono luoghi sicuri, non esiste in sostanza il rischio di furti o aggressioni e ho visto moltissime ragazze camminare per la città anche di notte da sole. Ma Asmara non è affatto una città militarizzata anzi si vedono pochissimi poliziotti e ancor meno armi, i militari armati in pratica li ho visti solo fermi di fronte a ministeri, ambasciate ed a qualche banca (normalmente un solo soldato in ogni luogo): se conto poliziotti, carabinieri, guardie giurate e militari che incontro in un'ora a piedi girando per il quartiere dove abito a Milano vedo certamente più uomini armati di quanti ne abbia visti girando per un mese l'Eritrea.
Il festival dell'Eritrea: l'identità plurale di un popolo.
Ho avuto la fortuna di visitare nei primi giorni di agosto ad Asmara il Festival dell'Eritrea, una manifestazione che si tiene tutti gli anni presso l'area EXPO a cui partecipano decine di migliaia di eritrei provenienti da tutto il paese e dall'estero.
Vale la pena di parlarne perché si tratta di una fedele rappresentazione dell'identità nazionale di questo stato: qualcosa di straordinario ed estremamente originale.
Nel festival sono rappresentate e valorizzate le antiche tradizioni culturali delle nove etnie presenti nel paese: le loro musiche e danze, le case, gli oggetti d'artigianato, i vestiti e naturalmente i piatti tipici che si possono assaggiare in decine di piccoli ristoranti.
Nello stesso tempo i padiglioni dell'EXPO ospitano le mostre d'arte, i plastici dei vari progetti di modernizzazione in corso di realizzazione e le scuole hanno il loro spazio per far presentare direttamente dagli studenti il loro lavoro.
Anche se evidentemente la popolazione non è distribuita in modo uniforme (circa il 50% degli eritrei sono tigrini ed il 31% tigre) quello che emerge è un paese fondato sulla parità tra le culture presenti (come pure si può dedurre dalla televisione di stato che oltre a fornire programmi in 4 lingue diverse è molto attenta a mostrare tutte le etnie) e che nel rispetto di queste antiche tradizioni trova una fortissima unità nazionale basata su un grande grande orgoglio per la propria indipendenza e sul rifiuto di ogni intromissione da parte di qualsivoglia potenza internazionale.
La musica avvolge tutto questo, i concerti - da quelli dei cantanti più apprezzati a quelli dei bambini delle scuole elementari fino alle danze dei diversi gruppi etnici - si alternano dalla mattina fino a tarda notte. Ammetterò che ascoltare un bambino cantare una vecchia canzone struggente dedicata al proprio paese e scritta negli anni in cui per non incorrere in persecuzioni il nome dell'Eritrea era sostituito da quello di una ragazza mi ha commosso e forse mi ha insegnato cosa può significare l'amore per la propria Patria.
L'Eritrea è uno stato multireligioso ed è uno stato laico.
Il centro di Asmara è delimitato dalle più grandi strutture religiose del paese: la Cattedrale Cattolica la Grande Moschea e la Chiesa Ortodossa di Nda Mariam, sono presenti inoltre diverse chiese protestanti ed una Sinagoga; la libertà di culto è garantita ed il governo non interferisce nelle questioni religiose.
Il carattere laico dello stato è ciò che consente ad un popolo che professa diverse religioni (ed è così in tutti le città ed i villaggi e anche all'interno delle stesse etnie) di vivere nel reciproco rispetto e a quello che ho visto l'identità nazionale non ne risulta minimamente scalfita.
E' normale vedere passeggiare, scherzare, studiare, lavorare e ballare insieme ragazze e ragazzi mussulmani con cristiani delle diverse confessioni.
Va fatto un altro discorso - tutto diverso - per quanto riguarda i beni materiali della Chiesa Cattolica (in Eritrea ingenti e di derivazione diretta dalla dominazione coloniale italiana): il Governo nel tentativo di garantire un'istruzione ed una cultura a tutti ha trasformato diverse scuole private (prima a beneficio di pochi privilegiati) in scuole pubbliche, gli stessi cattolici eritrei sono in grado di distinguere questa questione da quella della libertà religiosa.
Faccio solo un esempio dell'approccio laico del governo: l'unica pubblicità che ho visto uniformemente diffusa sul territorio nazionale e con uno spot (il solo trasmesso dalla televisione) è quella che propaganda l'utilizzo del preservativo per la protezione dall'HIV.
Negozi eritrei.
I negozi in Eritrea sono molto diffusi (almeno uno in ogni piccolo quartiere o villaggio) non essendo intervenuta la desertificazione successiva all'apertura dei grandi supermercati (questi, in effetti qui non esistono); nei negozi di solito si trova di tutto (frutta e verdura, farina, pasta, carne, zucchero, caffè oltre agli articoli non alimentari di uso comune) e non sono affatto vuoti. Nel centro delle città e nei villaggi più grandi si trovano poi negozi più differenziati: sartorie, lavanderie, negozi di vestiti, di scarpe, di elettrodomestici e di CD e musicassette, cartolerie/librerie, fotografi, parrucchieri e moltissime farmacie. Oltre a questi ci sono i mercati di solito distinti per generi venduti, da quello del pesce a quello dei vestiti o dell'artigianato, dei mobili o degli animali.
Ho visto personalmente tutti questi luoghi affollati come pure ho visto affollati i moltissimi caffè delle vie del centro di Asmara dove in alcuni orari è quasi impossibile trovare posto a sedere.
Qualche considerazione sulla povertà.
Capita di leggere qui in Italia articoli dove si accusa un popolo di essere povero quasi fosse una colpa diretta del popolo stesso o del suo governo, mi pare però che la questione andrebbe affrontata in modo un po' più serio ed un po' meno semplicistico.
Certamente se il parametro di confronto è il livello di vita medio occidentale l'Eritrea è un paese povero e sappiamo che la sproporzione tra quanto si consuma in occidente e nel resto del mondo è tale (e questo con le precise responsabilità delle politiche di rapina coloniali e neocoloniali) da indurre tantissimi a sognare un'altra vita in una metropoli nel nord del mondo (ed i nostri più vigorosi e retorici politici anti-immigrazione schiavi del loro egoismo sociale sarebbero i primi a scappare se qualcuno gli togliesse anche solo per un mese il loro centro commerciale o la loro villetta nel varesotto).
Però in una condizione di scarsità di risorse occorre capire che tipo di sviluppo è possibile; l'Eritrea ha scelto di non essere “sviluppata” da altri a spese di tutto il popolo e con l'arricchimento di una ristretta élite.
Ho visto personalmente in tutto il paese la costruzione di nuovi moderni ospedali e scuole e il governo tende a privilegiare nella distribuzione delle risorse le zone più povere del paese. Anche se ad Asmara qualcuno si lamenta di questo ciò consente di evitare un'incontrollabile emigrazione interna che ridurrebbe questa città ad una bidonville come ce ne sono tante nel mondo purtroppo.
La povertà che pure ho visto è quasi sempre povertà dignitosa di piccoli pastori o venditori ambulanti, di agricoltori con il loro piccolo campo o di famiglie che vivono in case decisamente troppo piccole e non è la disperazione dei bambini costretti a sniffare colla per sopravvivere o lo sfruttamento senza limiti che si può vedere quotidianamente in altri paesi.
Perché tanto accanimento contro questo piccolo paese?
Appare sospetto questo congiunto e trasversale attacco contro l'Eritrea e credo che oltre a qualche utile ed ingenuo sciocco ci sia un preciso disegno teso a demonizzare un paese ed un popolo a cui il governo avrebbe fatto il lavaggio del cervello[4].
C'è chi sta sfruttando in modo immorale le tragedie, provocate peraltro dalle stesse politiche di contrasto feroce all'immigrazione che sostiene, vuole introiettare nell'opinione pubblica italiana l'idea che “l'inferno” vada debellato.
Le vetrine dei negozi di Asmara sono decorate con le colombe della pace: gli eritrei conoscono bene la guerra e non hanno certo la volontà di affrontarne ora un'altra.
L'ultima sanguinosa aggressione etiopica del 1998 (in cui l'esercito etiopico è penetrato in Eritrea compiendo brutalità e distruzioni assolutamente ingiustificate sui civili) è una delle cause delle difficoltà del paese anche perché pur essendo concluse dal 2000 le operazioni militari non è stata mai raggiunta una vera pace e sono bloccati tutti i naturali canali commerciali con il grande stato confinante.
Ma gli eritrei tengono più di ogni altra cosa alla loro indipendenza, non hanno intenzione di lasciare campo libero agli interessi occidentali nel loro territorio, non rinunciano a sostenere che anche il vicino popolo somalo ha diritto alla propria autodeterminazione: questi i veri motivi di una campagna che, a quanto ho avuto modo di vedere, si fonda su vere e proprie menzogne.
Chi vuole la pace lavori per la pace e non si renda complice del linciaggio di un popolo.
Quando un paese è descritto in occidente con toni da giudizio universale definitivo si sente già risuonare la sentenza ed è quasi sempre di condanna a morte (Jugoslavia, Afganistan, Iraq ... e la Somalia è dietro l'angolo...).
Il compito di chi vuole la pace non è certo quello di assecondare la propaganda che dipinge un paese che nella realtà non esiste o di attendere che sia una forza “umanitaria” (sempre dotata dei suoi bombardieri) o il fedele regime di Washington che domina l'Etiopia e che che già si è prestato (seppur con poco successo) alla guerra sporca in Somalia ad eseguire una sentenza già scritta. Oppure, per essere più precisi, a provare ad eseguirla, vista la capacità di resistenza dimostrata dal popolo eritreo nel corso di 30 anni di guerra di Liberazione ed ancora negli ultimi anni.
Mattia Gatti
[1] Massimo Alberizzi, Gli eritrei in fuga dall'inferno, Corriere della Sera on line 21/8/2008
[2] m.m., Quelle migliaia in fuga dalla perla del regime, il manifesto, 26/8/2008
[3] Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009
[4] Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009
[2] m.m., Quelle migliaia in fuga dalla perla del regime, il manifesto, 26/8/2008
[3] Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009
[4] Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009