martedì 18 febbraio 2025

L’ERA DEI QUISLING --- Da Oslo a Ramallah, passando per Kiev e Roma: quando il colonialismo si fa furbo --- di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico

 


L’ERA DEI QUISLING

Da Oslo a Ramallah, passando per Kiev e Roma: quando il colonialismo si fa furbo

di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico

 

 La Cisgiordania, a forza dai suoi pulitori etnici e relativa banda musicale mediatica oscurata dietro alle nuvole nere degli sconquassi geopolitici che Trump va provocando in Europa e a Gaza, del processo colonialista di quislinghizzazione offre un modello esemplare. Dopo anni, decenni, di mistificazione, Abu Mazen-Mahmud Abbas, tuttora dichiarato, pur senza legittimazione democratica, rappresentante della propria gente, convinto al passaggio alla forza bruta del suo dante causa esterno, ha gettato la maschera. Da Quisling dalle buone maniere, con bandierina palestinese sul bavero, a sicario.

La Cisgiordania, con Gerusalemme cuore della Palestina, sta venendo rasa al suolo ed è iniziato lo svuotamento alla Trump”, Clean that thing out”. Già 40.000 abitanti sono stati espulsi dalle loro case dall’IDF e dalle razzie dei fascisti coloni. Abu Mazen ha preparato il terreno.

La vicenda si dipana dagli inizi del colonialismo moderno, XVI secolo, ma ha anche suoi precursori nei potentati locali a cui Roma affidava, in nome e nell’interesse suo, la gestione degli affari, Parti, iberici, Traci, giudei, o altri. Meno affidabili i celti e i germani. Altalenante il rapporto con gli etruschi, dove capitava che i ruoli di Quisling e di dominus se scambiassero.

Al tempo del colonialismo europeo degli ultimi due, tre secoli, governo, controllo, indirizzi sociali, economici e culturali, erano affidati alle capacità persuasive e predatrici del governatore. Di solito un membro dell’élite colonialista. Mi limito a ricordarne l’epigono in India, Lord Louis Francis Albert Victor Nicholas Mountbatten, I° conte Mountbatten di Birmania, nato principe Louis di Battenberg. Un tedesco, come tutti i recenti reali d’Inghilterra, al quale il fulgore di morte del colonialismo d’antan assegnò addirittura il titolo di Vicerè delle Indie. Concluse la carriera partecipando alla repressione colonialista in Irlanda e, nel 1979, sul suo panfilo al largo di Mullaghmore, fu fatto saltare in aria dall’IRA.

Fine di governatori e vicerè spediti dalla “madrepatria”. Si passa alla delega. Dal rappresentante di lontane corone e poteri al membro della comunità colonizzata, finto governante ed effettivo mandatario del vero potere, di solito oltremare. Sicur amente un fenomeno evolutivo nel processo di manipolazione dell’opinione pubblica sia del paese mandante che del paese sotto mandato.

Nel 1940, a Oslo, fu Vidkun Quisiling. Nome e poi qualifica. Capo di un movimento fascista norvegese, viene per meriti extra-patriottici (ma forse ci credeva) installato dagli invasori tedeschi premier del governo, sotto tutela diretta del General Nikolaus von Falkenhorst. . Giustiziato a fine guerra. Come lui, stessa fase, Pierre Laval, 4 volte presidente del consiglio francese negli anni Trenta, Vicepremier nel 1940, fucilato nel 1945, nominato dagli occupanti tedeschi insieme al presidente del Consiglio, generale Philippe Petain, non giustiziato per meriti conseguiti nella prima guerra mondiale.

Per quel che riguarda l’America Latina post-scoperta di Colombo (recentemente celebrata in TV da Aldo Cazzullo con la chiosa che, “per ringraziarci, gli americani ci hanno poi liberato dal nazifascismo e dal comunismo” (sic), si è sempre passati per le spicce: colpi di Stato e Quisling scopertamente dittatori. Il metodo kissingeriano è stato poi ammodernato promuovendo (USAID, NED, propagandisti “umanitari” vari) soggetti locali attraverso processi “democratici” che mantenessero le apparenze.

E qui il dominio oligarchico sui media, conseguito in Occidente a partire dalla fine del secolo scorso, in combutta con le ONG degli “aiuti”, hanno consolidato il metodo. La strategia del teatrante locale con souffleur nel pozzo e ventriloquo nel palazzo imperiale, scelto dal popolo auto(ma etero)determinato, ha avuto un successo tale, da essere ormai la costante nell’Occidente politico e in buona parte di quello che si definisce il Sud globale. Quanto meno la parte non ancora nell’orizzonte BRICS.

Tutto questo per capire come si possa essere arrivati al vero e proprio apice del quislinghismo contemporaneo nel tempo che stava perfezionando la liquidazione di una presenza umana storicamente determinata. Liquidazione tramite genocidio. Genocidio prima strisciante, poi risolutivo, politicamente e materialmente agevolato da rappresentanti formali degli stessi giustiziandi. Davvero il top del quislinghismo.

Permettetemi un ricordo personale che, però, coincide con un momento di svolta nella storia della Palestina espropriata e avviata al disfacimento. Svolta verso una resistenza da vetrina con manichini, dopo mezzo secolo di lotte fondate sulla coscienza limpida dell’ingiustizia subita e del diritto, prevalente su tutto (anche sulle ubbie dei nonviolenti da balcone), a lottare con tutti i mezzi per libertà, sovranità e ricupero della propria terra. Resistenza, allora, con il robusto retroterra politico, diplomatico, finanziario, dei grandi paesi arabi: Iraq, Egitto, Siria, Libia (non per nulla smantellati nella fase propedeutica al genocidio, come indicato nel 1982 dal consulente del premier Sharon, Oded Yinon e confermato a Washington nel 2001 con i famosi “6 Stati arabi da eliminare”).

Ricordo che lasciando Baghdad, aprile 2003, con gli americani che, con una cannonata, avevano bucato il mio albergo (il mitico “Palestine”) e ucciso due colleghi spagnoli, il mio taxi si fermò a un posto di ristoro sulla via di Amman. Lì mi capito di prendere un tè con due autisti iracheni che, su ordine del proprio governo, nella capitale già occupata, con il loro pullmino portavano aiuti e i soliti 10.000 dollari per ogni famiglia palestinese che avesse avuto un martire, o perso una casa.

E furono le rivolte dei villaggi, i mille episodi dell’insubordinazione sassaiola, i dirottamenti del FPLP, gli attentati suicidi, la prima e la seconda intifada, la riconquista di Gaza liberata dai coloni, il trionfo elettorale di Hamas (poi ignorato per vent’anni) in tutti i territori occupati. Ma anche, a smorzare la realtà, l’espediente cosmetico di Camp David (fuori l’Egitto) e poi l’altro maquillage tossico di Oslo (fuori tutti gli arabi e mezza dirigenza palestinese).

E’ nel valico tra i due secoli che succede il fenomeno stellare di una nuova sollevazione di popolo che non si lascia intimidire dalla prosopopea antiterrorista di un potere che più terrorista non si può. E che vede nel moltiplicarsi dei coloni e nella relativa perdita di spazi, la minaccia più letale dal tempo delle pulizie etniche della Nakba. Sollevazione guidata dai giovanissimi reduci della prima Intifada (anni ’80), spesso laureati a Bir Zeit, Gaza, o all’estero e che stava incendiando anche le zone, come la Valle del Giordano, che Israele pensava di aver normalizzato. Una nuova atmosfera, agevolata anche dal fatto che Russia, al netto dei suoi rapporti, mai troppo interpretabili, con Israele, e Cina, ricevevano e condividevano delegazione palestinese su delegazione palestrinese, spesso guidate da Arafat.

In un precedente articolo per L’Antidiplomatico, ho provato a raccontare lo scontro che si verificò tra la nuova generazione scaturita dalla prima Intifada e la vecchia guardia, protetta da Tel Aviv e dal riferimento a un Arafat tanto mitico, quanto insenilito. Gruppo vecchio e corrotto, abbarbicato a Oslo e alla compiacenza dei sionisti che gli assicuravano guarantige e ruolo formale. Ne fui testimone a Ramallah, nel fuoco degli scontri della fase più acuta, primavera del 2002, in due occasioni significative. Un’assemblea dei dirigenti dell’Intifada con Marwan Barghuti, segretario di Al Fatah e parlamentare dell’ANP, e Zakaria Zubeidi, testè liberato dopo anni di carcere alternati a brevi periodi di libertà, che guidava le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, formazione militare di Fatah.

Occasione in cui si ribadì il diritto di un popolo espropriato e oppresso di lottare con tutti i mezzi, garantiti dalla Carta dell’ONU, contro il colonizzatore e, al tempo stesso, la necessità della convivenza di ebrei e palestinesi sullo stesso territorio, senza che i primi prevaricassero sui secondi e sul loro diritto al ritorno e a costituirsi in Stato.  Ovviamente liberi da insediamenti coloniali.

L’altro è stato l’intervista con Barghuti, prima di un incontro tra popolazione e dirigenza OLP-ANP nel teatro di Ramallah. Qui la cesura tra le due opzioni politiche e militari era resa evidente dall’allestimento: un palco con al centro il podio di un Arafat balbettante e smarrito e, ai due lati rispettivamente, i vecchi burocrati plaudenti e il gruppo dei giovani impegnati nella radicalizzazione della lotta di liberazione e che manifestavano un evidente sconcerto alla sempiterna ripetizione arafattiana del ritornello della “pace in Terra Santa”.

Zakaria ha avuto madre e mezza famiglia martirizzata in assassinii dell’IDF. Nel 2006, prendendo in mano e dirigendo la straordinaria esperienza del “Teatro della Libertà” nel campo profughi di Jenin, esperienza pagata con incursioni, distruzioni, arresti e omicidi di Israele, era diventato l’amatissima figura-simbolo dell’identità e vitalità palestinese anche sul piano culturale. Il titolo di Che Guevara della Palestina, che in quell’occasione, gli ho visto dedicato sulle magliette dei giovani, spettava sia a lui che a Marwan (5 ergastoli e 20 anni per “complicità col terrorismo”).

Dopo aver provocato la più pesante crisi sociale, economica e politica vissuta da Israele, prima dell’attuale, l’Intifada fu sconfitta militarmente, la sua dirigenza sterminata con carcere e uccisioni. Israele aveva creato una pianura sgombra per l’imporsi, a dispetto della vittoria elettorale di Hamas nel 2006 in tutta la Palestina occupata (ultima elezione consentita dal quasi nonagenario Mahmud Abbas), del Quisling palestinese e del suo collaborazionismo incondizionato.

Sbandierando l’ipocrita formula della “Palestina laica”, del “processo politico e diplomatico”, della nonviolenza, dell’antiterrorismo mutuato direttamente dal Knesset e dai suoi governanti (ed entusiasticamente ripreso da ogni mezzo dì informazione italo-occidentale), Abbas s’impegna a tenere a bada ogni singulto di reazione militante tramite gli 80.000 poliziotti concessigli e un apparato di intelligence intrecciato a quelli di Mossad, Shin Bet e CIA. Le condizioni sono idonee perché, nel dicembre 2024, il Quisling palestinese, o piuttosto la sua cricca, venga chiamato in campo a preparare la gazificazione della Cisgiordania.

Un mese di interventi repressivi nei centri dove si trovavano, o sospettavano, embrioni di formazioni della resistenza armata, Jenin campo e città, Tulkarem campo e città, Nablus, Hebron, Al Faraa, Valle del Giordano, dovevano approntare le condizioni per l’inizio della pulizia etnica, prodromo dell’annessione. Vengono arrestati decine di militanti, o semplici abitanti ritenuti implicati, uccisioni che superano le centinaia, ma non sono degne di calcolo, o di comunicazione. Le resistenze ci sono, ma data la calma piatta degli anni precedenti, risultano improvvisate. Per ora.

Il 21 gennaio, il gabinetto nazifascista di Netaniahu, incoraggiato dal “più grande amico di Israele” e dal suo lancio dello sgombero di Gaza a fini palazzinari, trova il terreno sufficientemente preparato. E ci si avventa. I risultati, in corso, potrebbero essere sotto gli occhi di tutti, se non ci imbambolassero con il tiraemolla dei negoziati di tregua, con gli sbalordimenti dell’Europa sotto i guantoni di Trump, succeduti ai guantini di Biden e Obama che nascondevano gli artigli.

Invece, sotto gli occhi del mondo, che assiste in platea, dopo Gaza, la Palestina dell’esilio, ecco che Israele e Quisling si dedicano alla Cisgiordania, la Palestina di Gerusalemme, quella dal fiume al mare. Che non se ne parli mai più. Deve diventare Giudea e Samaria, come dettato dalla Bibbia, che detta pure gli ulteriori territori. Se ne occupano “L’Esercito più morale” del mondo, tuttora d’intesa con le truppe quislinghiane, e 800.000 colonj armati e più belluini di qualsiasi brigatista nero in una sede di socialisti del ‘22, Sarà per questo che Meloni tace.

 Così un presidente palestinese, Quisling dei più abietti nella storia di questi figuri da Giudecca, si è fatto carico delle centinaia di vittime delle incursioni di carri armati, artiglieria, droni kamikaze, cacciabombardieri e…ruspe. Case abbattute a centinaia, insieme alle reti elettriche, alle canalizzazioni dell’acqua, alle botteghe degli alimentari, nuove strade riservate a militari e coloni, strade ostruire o cancellate tra gli abitati palestinesi. Scuole e ospedali demoliti, corsi e trattamenti azzerati. Come a Gaza, si conta sull’invivibilità. Non ci deve più essere società, più connessione, più territorio. Né passato, né presente, né futuro.

Aspettando Hamas.

Pensate che il fenomeno dei Quisling si sia andato confinando da quelle parti, altre, lontane da noi? Perché a sgovernare, reprimere, truffare il proprio popolo e paese a vantaggio e secondo ordini altrui, dalle nostre parti non ci sarebbe nessuno? E Zelensky non lo vogliamo far gareggiare con Abu Mazen per il primo posto nei ghiacci della Giudecca?

E Meloni e tutti i capi e sottocapi UE, tranne un paio, dove li manda Dante secondo voi?

 PS

I traditori della patria sono una categoria di dannati che Dante e Virgilio incontrano il pomeriggio del 9 aprile nel IX cerchio dell’Inferno (Inf. XXXII e XXXIII). Puniti nella II zona (l’Antenora), sono colpevoli di aver tradito, per somme di denaro o altre concessioni, la loro patria o la loro parte politica; per questo sono immersi sino all’anca nel lago ghiacciato Cocito, con la testa eretta e piangendo nel mentre, per il dolore che provano, le loro lacrime si congelano all’istante, provocando un’ulteriore sofferenza.

sabato 15 febbraio 2025

Quante cose impari a Sanremo… --- GUERRA: E MO’ TOCCHEREBBE A NOI --- Mattarella dixit: Mosca come Belgrado

 

 Maria Zakharova: “Ma vedi un po’ de annattene…”

 Canale Youtube di Fulvio Grimaldi  https://www.youtube.com/watch?v=FhTN-NniNpM&t=38s

https://youtu.be/FhTN-NniNpM

Canale Youtube di Fulvio Grimaldi

A Sanremo, a dispetto dell’orrendo trash, della pacchianeria di uomini, donne, bambini e cose, del tutto esageratamente pieno di vuoto, del luccichio da sfondare il buio che atterrisce, delle comiche dalla battuta faticosa, dei comici involutisi in zimbelli del padrone, qualcosa di interessante è venuto fuori.

E s’è fatto bene a seguire la kermesse, a dispetto dei duri e puri che la TV dicono di buttarla dalla finestra tanto fa schifo e male. Vero. Ma è’ che gli fa fatica cercare e scegliere. Per loro la televisione, ogni televisione, pare essere “Amici”, “L’isola dei famosi”, il tg di Mentana, le parole di Gramellini, ma fanno la figura di quelli che stanno “sopra” e “fuori”, che non si fanno fregare….

Gli anglofoni dicono “insight”, Google traduce “intuito”. Non male, ma non perfetto. Zanichelli meglio: “discernimento”, perché presume un’azione. Letteralmente “insight” è “sguardo dentro”. Non necessariamente dentro se stessi. Anzi, dentro qualcosa che, se non penetri, non ti appare.

Dunque, stavolta Volodomyr Zelensky, il fantoccio con i galloni a stelle e strisce e stelle UE che a Kiev Trump pare stia per buttare dalla finestra, non c’era. Nemmeno in forma fantasmatica, tipo lettera declamata da Amadeus. Ma non volendo farci mancare nulla di profondamente irritante, Carlo Conti ci ha, sì, negato, ma poi somministrato (sopraffatto da un vecchio zimbello e figlio di mignotta toscano) l’irrinunciabile obbrobrio del monologo. E di colpo, come suole, il contenitore è diventato il contenuto. Di merda.

Peccato, perché la serata, a dispetto del faraonico trash, della sconfinata volgarità di gente e cose, dello straripante pieno di vuoti lustrinizzati (l’indecenza offensiva delle passeggiatrici da palco che si cambiano d’abito a ogni giravolta, un po’ di musica buona e intelligente ce l’ha versata. Nulla da ridire su Willi Peyote, anzi, nemmeno su Brunori Sas, sui magnifici Clementino-Rocco Hunt in omaggio a Pino Daniele, sull’infantile (nel senso migliore del termine) Lucio Corsi con Topo Gigio e altri (ovviamente non votati primi).

E’ che il pezzo forte, annunciato nei toni della marcia trionfale dell’Aida, era un vecchio ex-comico, ridotto zimbello zampettante per fingersi pimpante, (s)finito nell’abiezione (rispetto a quello che si ritiene sia il mestiere del professionista, la satira). Avete capito: uno spelacchiato Roberto Benigni caricato a molla.

Avendo perso da tempo immemorabile il filo dell’umorismo e del frizzo e lazzo irriverenti, si è riciclato cortigiano e ha trovato di che campare e farsi mettere sul palco di Sanremo. E il monologo l’ha fatto. Da cortigiano del sovrano. Nell’occasione, Sergio Mattarella nientemeno. Presidente della Repubblica. Magari solo della Repubblica degli agiati e prelibati, magari non della repubblica del 70% degli italiani che non vogliono le guerre alle quali il fascistume, servo e governante, ci costringe. Neanche l’imperatore di tutte le galassie, di più, dell’iperuranio. avrebbe potuto crogiolarsi meglio nella melassa evacuata dall’ex-comico e regista-falsario toscano.

E così, con questo contenuto, il contenitore ha potuto dare a Zelensky quello che l’altra volta non gli venne consentito (anche perché noi, io con altri due validi sconsiderati, c’eravamo piazzati davanti all’Ariston con striscioni, fischietti, tamburi e slogan anti-guerra che, avendo raccolto consenso; dettero un’ulteriore spintarella alla porta in faccia al comico ucraino.

Tutto questo pippone sanremese ci doveva portare alla bella e brava e puntuale Maria Zakharova e alle bellissima scena in cui la vediamo prendere per il bavero il discolo Sergio, tirarlo giù dal trono di oro e lapislazzuli e sbatterlo dietro la lavagna di una scuola pubblica, come lo sono quelle perbene. Quanto è bastato agli ululati di indignazione di una falange di patrioti da bar (di palazzo, però) per assordare perfino le talpe sotto il bosco che ho di fronte,

Il confronto, facile facile, è tra un’intelligenza che è anche avvenenza ed eleganza, è un assai rispettato personaggio che però sembra un abito appeso all’attaccapanni. Non c’è confronto. Si direbbe che uno dei due termini deve essersi smarrito nel gran bailamme che va agitando il pollaio europeo dopo essere stato abbandonato dal suo gallo con cresta gialla, andato a chichiriccare altrove. Tutte in confusione le galline, corrono di qua e di là: chi ci difenderà? Con Mosca che vuole mangiarci fino a Lisbona! Non ci difenderanno più loro? Ci difenderà la UE? Dobbiamo difenderci ognuno per conto suo? Forse Batman?

In mezzo al trambusto si forma un gruppetto per la battaglia di retroguardia. Quella degli ultimi giapponesi: Tutti, le Kallase, Ursule, Picierne, i Rutti, Borrelli, Crosetti, Schwabi, Macroni, Scholzi. Resistenza ad oltranza. Sono quelli, eterni, dell’armiamoci e partite. Fino all’ultimo ucraino. E, subito subito, tutti da Volodomyr a baciarlo in fronte, prima che s’accorga di essere rimasto solo, con gli americani che, filandosela, gli portano via anche l’ultimo chiletto di litio, coltan, tungsteno, terre rare.. Ed è lì che si è fatto sentire Mattarella, fresco di tocco rosso marsigliese in testa

Infatti, forse ancora smarrito per l’insospettabile riconoscimento offertogli dall’Università di Marsiglia con quella laurea honoris causa, si è fatto vindice di Ursula e ha inveito contro quello che chiamano “appeasement” (quando a Monaco Chamberlain riuscì a convincere gli amici a non sparare subito). Non basta. Sempre ursulianamente, ha detto che i russi sono come i nazisti e Putin è come Hitler e fa “guerre di dominio e di conquista”. Giorni prima aveva stigmatizzato “la feroce invasione russa”.

Allo storico di eccelsa levatura. ha picchiettato sulla spalla Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo, (noi avremmo la Picierno…), solo per ricordargli che la Russia sono secoli che non invade e conquista. Piuttosto, che tra gli ultimi che si sono provati ad invadere e conquistare la Russia, c’erano pure gli italiani col fascio littorio e gli scarponi di cartone. Ricordate l’Armir? E mettere i russi di oggi sullo stesso piano delle SS di allora, quelle che ai russi hanno inflitto 26 milioni di morti-in-difesa-dell’umanità, “è blasfemia pura”.

Quanto ai nazisti, che sarebbero quelli con la svastika, a guardar bene Mattarella ne potrebbe trovare di contemporanei, in casa e fuori. Un sacco ne sono scaturiti dal colpo di Stato fatto a Kiev nel 2014 dal nostro alleato e padrone per far fuori Janukovic, presidente democraticamente eletto dagli ucraini proprio perchè neutralista, antiguerra e non suonava il pianoforte col pisello. Meglio quel golpe con Azov e svastike, Sergio?

Forse di simil-Azov ne potresti trovare anche quando i tuoi governi hanno contribuito a distruggere paesi interi, come Afghanistan, Iraq, Libia, Siria… E soprattutto nella guerra che tu, vicepremier con i “comunisti” D’Alema e Rizzo, hai fatto alla Serbia, contro l’avviso ONU, bombardando 7 milioni e mezzo di serbi innocenti per 78 giorni. E si capisce che non puoi prendertela con chi ha massacrato, per 8 anni e anche adesso, concittadini russi in Donbass. E con chi, coerentemente, chiude partiti critici e incarcera o uccide giornalisti, arresta e bastona renitenti alla leva. Difficile anche prendersela con chi da 15 mesi esercita questa democrazia su 2 milioni e mezzo di palestinesi  E’ questo ciò che apprezza Benigni).

Nel video anche: come i nostri conducatores e maestri d’Europa, in cambio di benefit e galloni USA, si sono giocati i nostri ospedali, scuole, case, fabbriche, strade, benessere, serenità, pace, sovranità, libertà. E ora, marciando in file serrate, si guardano intorno: “Ma come, ci hanno lasciati soli…”

P.S. Avete sentito, in proposito, il leaderino della “sinistrina” che è il lucido Nicola Fratoiannni: “Mosca si permette di attaccare l'Italia nella persona del capo dello Stato. Assoluta solidarietà al Capo dello Stato…!”

 

 

 

giovedì 13 febbraio 2025

Fulvio Grimaldi per l’Antidiplomatico --- Si riscalda l’altro fronte--- UNA PALESTINA NEI BALCANI?

In Romania, con il vincitore delle elezioni, Calin Georgescu, neutralista e antiguerra, a cui hanno annullato il voto popolare e negato il ballottaggio, è andata come NATO e UE hanno voluto. In Serbia, dall’altra parte dei Balcani “normalizzati”, ci si sta dando da fare.

Si avvicina il 26° anniversario dell’aggressione NATO alla Serbia, fase culminante della disgregazione della Jugoslavia programmata e condotta, sotto supervisione USA, da Germania e Vaticano, con supporto di forze fascistoidi locali in Croazia, Bosnia e Kosovo. Gli eventi che stanno sconvolgendo la Serbia a partire dal novembre scorso rappresentano l’ennesimo episodio di una strategia che, a partire dalla fallita “normalizzazione” postbellica della Serbia, non ha mai cessato di puntare all’obiettivo già mancato dalla Germania nazista: Serbia delenda est. Strategia UE-USA che si dipana in forma di pressioni diplomatiche, ricatti economici, conflittualità tra le entità statali o pseudostatali fabbricate dagli aggressori e, come in questi giorni, innesco di fenomeni eversivi basati su qualche settore insoddisfatto, o manipolabile, della popolazione.

Permettetimi un ricordo personale che, nel suo piccolo, è comunque indice di come, già sul finire del secolo scorso, il sistema mediatico si era compattato intorno al progetto dell’eliminazione, a fini di euro-colonizzazione, di questa anomalia politico-ideologico-sociale rappresentata, prima, dalla Jugoslavia comunista di Tito e, poi, da quella di Slobodan Milosevic, già a brandelli, ridotta a Serbia-Kosovo-Montenegro, ma pur sempre socialista e non allineata. L’occasione di disfarsi di questo presidio avanzato del mondo slavo, intimamente connesso alla Russia, la offrì l’URSS eltsiniana degli anni ’90.

18 o 24 marzo 1999? Non so precisare chi sbaglia tra chi fissa  sull’una o sull’altra data l’inizio dei bombardamenti NATO su Belgrado  Una guerra in cui si propone come comprimario, grazie alla posizione geografica e ad Aviano, il governo D’Alema-Mattarella con dentro il Partito Comunista di Marco Rizzo. Una triade che si può assegnare il vanto criminale di aver rotto, con la prima guerra di europei contro europei. una pace post-conflitto mondiale giurata eterna. Guerra e spese sempre per conto degli USA e a spese nostre, oggi in Ucraina, ieri in Libia, l’altro ieri in Serbia.

La mattina dopo la notte dal 18 al 19 marzo che, nei miei ricordi, fu quella del primo dei 78 giorni di bombardamenti a tappeto sulla Serbia, solita riunione di redazione del TG3. Si scorrono i dispacci delle agenzie, si avverte che la guerra è iniziata e, direttore Ennio Chiodi, ci si duole dell’accaduto, ma ci si deve convincere tuttavia che sia da giudicare un intervento umanitario, dunque, giusto e irrinunciabile, “date le atrocità compiute dai serbi nel Kosovo”, paese solo colpevole, al di là delle brighe secessioniste di George Soros e dell’albanese Madre Teresa, di ricerca di indipendenza e libertà”

Ed è così che avremmo, noi cronisti e analisti, dovuto proiettarlo al pubblico. Sul modello di come le cose ci erano state raccontate dalla nostra inviata nel Kosovo contestato al controllo serbo dalle brigate di tagliagole, con supporto NATO, di Hashim Thaci (poi, molto più tardi processato e condannato per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui traffico di droga e organi). Ma che fa, conta che intanto gli USA avevano potuto stabilire in Kosovo Bondsteel, la propria più grande base militare in Europa. L’inviata del TG3 era la mia collega Giovanna Botteri. Per questi suoi meriti, poi assurta alle posizioni apicali della RAI all’estero: prima New York, poi Pechino, ombelichi del mondo, per chiudere Parigi, dolce dormire.

Quello stesso giorno lasciai la RAI per sempre. Presi una telecamera e arrivai a Belgrado. Giusto in tempo per visitare un ospedale dove i neonati stavano morendo nelle incubatrici private della corrente da rete elettrica distrutta dalle bombe in tutto il paese. Poi sarebbero venute le bombe a grappolo, con relativo sterminio nel mercato di Nis, gli stabilimenti petrochimici disintegrati a Pancevo, la pioggia da geoingegneria fatta rovesciare su quella zona, tanto da far uscire il Danubio dagli argini, alluvionare la piana e, così, spargere i veleni fatti fuoruscire da fabbriche e depositi, a perenne effetto contaminante del suolo e della vita.

Non poterono mancare le bombe e i missili all’uranio impoverito, con gli effetti desiderati perenni nei secoli e già conseguiti in Iraq, dove, se ne avete lo stomaco, ne potete constatare gli effetti in un paio di miei documentari: “Genocidio nell’Eden” e “Chi vivrà Iraq”.

Dalla Serbia scrissi per il quotidiano “Liberazione”. E gli mandai la riproduzione di un titolo che un quotidiano serbo aveva dato a una mia intervista: “Meglio serbi che servi”. Non piacque al segretario del partito di cui il giornale era l’organo. Fu cestinato. Come anche, un anno dopo, l’intervista che mi diede Milosevic, tre giorni prima del suo arresto e del suo trasferimento al Tribunale yankee dell’Aja: “Non ci si può appiattire su Milosevic”, spiegarono, con grande sensibilità deontologica. All’Aja, poi, presidente del tribunale yankee il professore Fausto Pocar, non essendo riusciti a dichiararlo colpevole, lo fecero morire. Meglio sarebbe servita, più tardi, a criminalizzare la Serbia in perpetuo e a discolpare del crimine la NATO, la gigantesca false flag di Srebrenica.

Veniamo a quest’altro dunque. Uno, dotato di un residuale senso di umanità che tempora et mores ci hanno lasciato, si sarebbe immaginato che dopo quanto inflitto alla Jugoslavia e poi alla Serbia, suo vero cuore storico e culturale, la “comunità internazionale” avrebbe rinunciato a infierire su quel grumo di resistenza nei Balcani. Nossignore. Tito o non Tito, Slobo o non Slobo, la Serbia, insistendo a fare di testa sua in un’area tutta bell’e sistemata, come fosse un qualsiasi Stato di diritto. E questo non gli deve spettare.

Rifiuta le sanzioni alla Russia, non sostiene in armi, e neppure a parole o soldi, l’Ucraina, ha chiesto anni fa l’adesione alla UE ma rifiuta di accettarne la condizione primaria: il riconoscimento del Kosovo, paese indipendente, NATO e narcotrafficante. Si ostina a sostenere i 70.000 serbi, su 350.000 cacciati (insieme  ai 250.000 serbi dalle Krajine croate), rimasti nel Kosovo e periodicamente angheriati, aggrediti, sabotati, dal regime di Pristina, con il concorso della spedizione KFOR (NATO). Le infrastrutture, nuove o da ricostruire, gliele fa, ohibò, la Cina, come le realizza anche nello Stato satellite, strappato alla madrepatria, la Repubblica Srbska, incastrata a forza dagli accordi di Dayton nel mostro a tre teste della Bosnia-Erzegovina (coacervo croato, bosniaco, serbo in costante, voluto attrito: una miccia da accendere quando conviene).

E che viene accesa periodicamente in Kosovo e in Bosnia Erzegovina, sempre col pretesto di qualche manifestazione di indisciplina serba, ultimamente perché il governo della Srbska si è rifiutato di riconoscere e celebrare la truffa di Srebrenica (presunto eccidio di 8.000 civili bosniaci per mano dei comandanti serbi Mladic e Karadzic. Entrambi a processo al tribunale yankee dell’Aja).

Ora la miccia è arrivata direttamente in Serbia. Segno che siamo alla resa dei conti? Che la strategia della palestinizzazione, o sirizzazione, della Serbia refrattaria, qui a lungo covata ed episodicamente sperimentata, proprio come in Medioriente, sia arrivata al barile della polvere da sparo?

Il 1. Novembre, a Novi Sad, crolla una tettoia di cemento e uccide 15 persone. Serpeggia e poi scoppia una rivolta. Si parla di lavoro malfatto, di mazzette, di corruzione specifica, ma anche diffusa. L’ambiente è propizio. Novi Sad è la capitale della provincia della Vojvodina, alberga una minoranza di lingua magiara che potrebbe integrarsi alla sommossa aggiungendo sue rivendicazioni.

Per la verità lo spirito del territorio non lo indicherebbe: nei mesi successivi ai bombardamenti che distrussero in Vojvodina tre ponti sul Danubio considerati una meraviglia ingegneristica e architettonica, furono proprio i vojvodini a patriotticamente rimettere in piedi la propria parte del paese. Si rimboccarono le maniche e ricostruirono in tempi considerati miracolosi ponti, fabbriche, ospedali, case, raffinerie che, solo sei mesi prima avevo visto incenerite. Scarsa, evanescente fu anche la partecipazione di questa regione alla sedizione di Otpor, organizzazione addestrata a Budapest da generali USA, che portò alla caduta di Milosevic.

Le proteste per il massacro della tettoia divennero un fuoco di fila, fino ad allargarsi a incendio nazionale. Ne divennero protagonisti gli studenti universitari e delle scuole superiori. Dalla pubblicazione dei documenti relativi alla costruzione della tettoia e di altre, per qualche verso sfortunate, strutture pubbliche, si passò alla richiesta di maggiori stanziamenti per l’istruzione, la liberazione di studenti fermati nei tumulti, la de-gerarchizzazione del sistema scolastico, la rimozione di politici e funzionari.

Dopo i primi giorni di spontaneismo emotivo, le manifestazioni si strutturano in organismi permanenti, articolati per territorio, grazie anche al massiccio intervento delle immancabili ONG, molte con i noti referenti occidentali. Ed è qui che c’è motivo per pensare a una nuova rivoluzione colorata che, approfittando di un disagio parzialmente motivato, punti alla normalizzazione completa dei Balcani Occidentali. Il premier, segretario del partito Progressista, Milos Vucevic, dimettendosi a seguito di una serie di aggressioni contro membri del suo partito, ha denunciato questo aspetto e ha puntato il dito sui noti euro-manovratori contro la Serbia e a rafforzamento del ruolo atlantista delle altre componenti dell’ex-Jugoslavia, in particolare del Kosovo.

Certi slogan e simbolismi che richiamano i moti che portarono alla caduta di Milosevic dopo l’aggressione NATO, tipo il pugno nero, allora, e la ”mano Rossa”, oggi,msembrano dargli ragione.

A questo punto la prospettiva dell’ingresso nella UE pare non essere più presa in considerazione da nessuna delle due parti. Il presidente Alexandar Vucic, dello stesso Partito Progressista di Vucevic e capo dello Stato dal 2017, ha ripetutamente invocato la composizione delle tensioni e ricordato di aver accolto tutte le istanze degli studenti. A dispetto di un atteggiamento di disponibilità al dialogo, viste le porte sbattute in faccia alla Serbia da Bruxelles e l’evidente manina occidentale nel sommovimento in corso, ha ribadito l’assoluta neutralità del paese (dunque ciao ciao NATO) e il diritto del paese di scegliersi i partner che meglio ne sostengono gli interessi. Implicito: russi e cinesi.

Dal lato orientale di questa regione balcanica, da sempre in sommovimento e matrice di eventi epocali che coinvolgono altre parti del mondo, la Romania vive un’esperienza che, per ora, in Serbia non si è realizzata. Con Calin Georgescu, candidato vincente alla presidenza, neutralista e antiguerra, cui è stato negato dalla Corte Suprema, con l’annullamento delle elezioni, il diritto al ballottaggio in cui risultava largamente favorito, si è visto quali esiti si propone l’Occidente nel caso che la democrazia non produca il risultato voluto. Vucic e la Serbia stiano in guardia. Di quanto ci si possa fidare degli amici ce lo dice la Siria.

Meno male che noialtri si viva nella parte delle democrazie.

lunedì 10 febbraio 2025

Pornografia, pornolalia, pornopraxis --- ALL’EGITTO CI PENSA AMNESTY --- Ma chi era Giulio Regeni?

 


Youtube canale di Fulvio Grimaldi https://www.youtube.com/watch?v=MS7l9qCHPDE

https://youtu.be/MS7l9qCHPDE

Sono passati 10 anni, ma l’Egitto non impara la lezione.

Giulio Regeni. Hanno fatto secco lui e fessi tutti noi. Ma il giovane, istruito nelle scuole dell’euro-élites, reali d’Inghilterra compresi, tragicamente perito quando Roma e il Cairo stavano concludendo l’affare del secolo, potrebbe tornare utile nel tempo dei 2 milioni di palestinesi da trasferire in Egitto. Visto che, con somma improntitudine antisemita, l’Egitto di Al Sisi, ha detto NO! Anzi ha proclamato una “linea rossa” e ha piazzato carri armati e cannoni a Rafah. Merita una lezione.

E allora ci pensa Amnesty International. Tempestivo il suo ennesimo Report sui misfatti di Al Sisi e sul terrore che imperversa nella terra del faraone. E vedrete che non mancherà Human Rights Watch e neanche Save the Children (quella del viagra di Gheddafi ai suoi soldati per stuprare donne libiche). Come per Saddam, come per Gheddafi, come per Assad, come per Chavez, come per Maduro., come per Milosevic. Come per Putin. Cose ovviamente mai dette per le democrature amiche, ricuperate ai “dittatori” a forza di guerra e golpe, tipo Honduras, o Perù, o Ucraina, o nuova Siria, o Italia dei Decreti Sicurezza…)

E come ci hanno pensato in Oxford Analytica tre maestri dello spionaggio internazionale, datori di lavoro di Giulio Regeni e, a Cambridge e al Cairo, due tutor accademiche di Giulio, entrambe della Fratellanza Musulmana spodestata in Egitto. Quelle che, poi, non hanno mai voluto dare agli inquirenti italiani soddisfazione di chiarimenti e trasparenze sulla tragica fine del ricercatore. Giovane che probabilmente credeva in quello che faceva. Visto le scuole che ha fatto e le persone per cui lavorava. E delle quali non era il caso di fidarsi.

Giulio Regeni si era diplomato, a colpi di 4.000 euro di retta ogni biennio (non 40.000, come dico nel video), alla scuola delle euro-élite, reali d’Inghilterra compresi: i “Collegi del Mondo Unito”, fondati e gestiti, fi da sotto Hitler, dal pedagogo tedesco Kurt Hahn, poi aggiornatosi nelle frequentazioni con comandi Nato e vertici della CIA.

Memorabile l’incontro con il padre nobile della CIA, Alan Dulles, al quale in piena guerra fredda offre le prestazioni dei suoi ragazzi per mobilitazioni anticomuniste e infiltrazioni in URSS.

Durante un incubo notturno, la Meloni ha sognato di rompere ogni rapporto diplomatico con l’USA del nuovo presidente immobiliarista, per motivo dei suoi contributi a genocidi, deportazione di popoli e riviere e grattacieli con fondamenta in sangue rappreso e in ossa frantumate. Svegliatasi in un bagno di sudore per la vergogna ha subito incaricato le sue camicie nere, travestite da clown, di rimediare al tremendo tonfo onirico con un’esplosione di pornolalia (dal greco “porné”= prostituta) a 360 gradi. Indirizzo da privilegiare, quello della Corte Penale Internazionale. Ovviamente la stessa vituperata da Trump.

L’invettiva pornolalica meglio riuscita non poteva che essere pronunciata, stavolta nel raduno di euro-fascistoidi a Madrid, da colui che a casa sua chiamano indulgentemente “bimbominchia”: “«Bisogna mettere in discussione la Cpi che mette sullo stesso piano i terroristi di Hamas e un premier democraticamente eletto come Netanyahu». Pornolalia pura.

I telegiornali l’hanno ribadito, i giornali l’hanno stampato, Mattarella ha preferito occuparsi della “feroce aggressione russa”, ma, nel rimbombare dei suoi luoghi comuni, ha prevalso quell’altra, di pornolalia.

E noi che arricciamo il naso sul porno degli almeno inoffensivi Rocco Siffredi e Moana Pozzi!

giovedì 6 febbraio 2025

BULLSHIT

 

BULLSHIT



Sull’esplosione di demenza, stavolta precoce, di Donald Trump relativamente all’occupazione di Gaza per farne la Riviera del Medioriente (e, non detto, una prolifica fonte di gas in mare da rapinare ai palestinesi), il governo saudita, per bocca del Ministro degli Esteri, evidentemente ispirata dal principe ereditario bin Salman, ha dichiarato:

L’Arabia saudita non cesserà il suo instancabile lavoro per assicurare la creazione di uno Stato palestinese indipendente con per capitale Gerusalemme Est. Il Regno non stabilirà reazioni diplomatiche con Israele senza che questo non si verifichi…. Il regno condanna categoricamente la violazione dei diritti legittimi del popolo palestinese mediante insediamenti di coloni, annessione e deportazione… La comunità internazionale ha il dovere di alleviare la crisi umanitaria che il popolo palestinese sta soffrendo, ma che non gli impedirà di restare radicato nella sua terra con determinazione incrollabile”.

L’Arabia Saudita è quella che è, ma la reazione di questo paese – dovuta? voluta? - in perfetta sintonia con tutto il mondo arabo e islamico, nonché della metà del mondo che si riconosce nei BRICS e, perfino, della solitamente conforme “comunità internazionale”, ha fissato un altro chiodo nella bara degli Accordi di Abramo, dopo quelli dell’Alluvione di Al Aqsa del 7 ottobre e dei 15 mesi di resistenza vincente del popolo di Gaza e dei suoi combattenti.

Bullshit è il termine felice che gli anglosassoni utilizzano per definire il colmo assoluto della cretineria. Non male come esordio di MAGA.

mercoledì 5 febbraio 2025

Palestinesi e altri 120 milioni, è tempo di migrare --- ELITE CONTRO TUTTI --- E’ colonialismo, bellezza

 

 

Canale Youtube di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=17uxIKn19TY

https://youtu.be/17uxIKn19TY

 

“Premio Attila” a chi distrugge la terra. Premio “Jack lo Squartatore” a chi fa sparire 2,3 milioni di esseri umani – merce ingombrante – dalla loro terra, per costruirci un resort per genocidi.

Premio “Piano Mattei” a chi si salva da un’invasione di migranti affidandoli alla custodia di chi, appena sottratto a giudici che si permettono di perseguire criminali, li incarcera, tortura, stupra, uccide.

1.    Trump-Netaniahu, mercenariato d’eccellenza dell’Occidente dollarizzato al tempo del suo disfacimento nell’ignomia e nel raccapriccio: E, da noi, un postribolo di papponi e mignotte, abusivamente chiamato governo, che si precipita a reggergli lo strascico insanguinato.

Ma cos’è questa emigrazione? Un fenomeno, o un’operazione? Una delle emergenze create nel famigerato laboratorio di armi biologiche, tipo clima, Covid, terrorismo? O l’ammodernata versione della tratta degli schiavi?

Ma stavolta, tra andare e venire, non solo tra Italia e Albania, Texas e Messico, Nigeria o Bangladesh e Ghetto Mezzanone (Foggia), è una tratta che può anche riavvolgersi su se stessa. Il boom è finito, tanto più lo sviluppo detto sostenibile, siete troppi, non ci servite più, sparite. Resti quanto contribuisce alla disgregazione sociale: ci offre il pretesto per scatenare sui sudditi i Nordio e i Piantedosi

Qui il lavoro è fatto. Dovevano sgomberare le loro terre e lasciarle alla predazione delle multinazionali. Fatto. Dovevano fornire manodopera da 16 ore a tre euro l’una per ingrassare grande distribuzione, grande ristorazione, grande ricezione, grandi cooperative,  grande mafia, grandi Sant’Egidio. Fatto. Dovevano disumanizzarsi lasciandosi dietro e perdendo per sempre radici, ambiente, famiglia, comunità, cultura, presente e futuro, identità, per qualcosa che chiamano integrazione e che non è altro che una mano di bianco su un fondo nero, bruno, giallo. Che ti stia bene, o no. Fatto.

Dovevano scomporre, nei luoghi d’arrivo, armonie sociali, compromettere identità culturali, mescolare e amalgamare a forza, disgregare comunità nella prospettiva di un grande indistinto brodo primordiale dove nessuno più abbia coscienza di sé, di chi è, da dove viene e dove va.Fatto.

Una pacchia per il pastore e i suoi cani.

MA SEMBRA CHE, STAVOLTA, IL MONDO ABBIA DETTO FUCK YOU

lunedì 3 febbraio 2025

L’asse terrestre spostato dai palestinesi --- --- HA PERSO CHI HA VINTO

 

 Zakaria Zubeidi, leader delle Brigate di Al Aqsa, fondatore e direttore del “Teatro della Libertà” a Jenin, nel momento della sua liberazione.

Per il “Ringhio del bassotto” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi

https://youtu.be/G4TbIgcBGNo

Medio Oriente: ha perso chi ha vinto - Il ringhio del bassotto, con Fulvio Grimaldi

 

Partiamo dalla constatazione del trionfo registrato da Hamas, a nome, nel segno e per merito del popolo palestinese di Gaza e dalla speculare sconfitta strategica di chi si era assegnato ottant’anni di vittorie. Poi vedremo che cosa c’è da prendere e cosa da buttare delle smargiassate della coppia di bulli che va ora riunendosi a Washington per organizzare una qualche soluzione B.

L’evidenza della vittoria di Hamas è abbagliante. Partito politico che nasce e si sviluppa con crescente consenso popolare, al punto da vincere, 2006, le ultime elezioni che ANP e Abu Mazen hanno permesso nei territori occupati. Poi forza armata di Resistenza sostenuta quasi esclusivamente dal proprio popolo, in condizioni di sostanziale isolamento politico per quanto riguarda la dimensione internazionale, araba e islamica. Ciò che arrivava dal Qatar e che l’Egitto lasciava passare non cambiava nulla sul piano strategico.

 Una forza politica e sociale ridotta a operare come talpe sottoterra, ma che resiste, opponendosi in termini validissimi, dolorosissimi per un esercito pure abituato a fare da rullo compressore incontrastato (salvo in Libano nel 2006, cacciato da Hezbollah nel giro di un mese). Un’aggressione dai caratteri apocalittici, armata da buona parte dell’Occidente politico, ha ridotto a suolo lunare lo spazio vitale del suo popolo, facendo ricorso a tutti gli strumenti – bombe, fosforo, fame, negazione di sanità, inquinamento, carcerazioni di massa - per un genocidio che imponesse la resa e l’annientamento delle sue difese.

E, a fronte, un paese che sta in piedi grazie alle continue trasfusioni fattegli dal fratello grosso. Un paese la cui capacità operativa mantiene una certa efficienza grazie alla facoltà, garantitagli dal fratello grosso, di far piovere morte e distruzione illimitate dal cielo. Ma anche un paese  la cui superiorità è stata profondamente compromessa, sul piano materiale come su quello morale, dai rovesci subiti, a Gaza come in Libano, nel confronto militare sul terreno.

La situazione di Israele, che ha dovuto rinunciare a quanto si era ripromesso di ottenere dallo scatenamento di una guerra senza limiti e senza scrupoli, è segnata da una crisi esistenziale dello Stato e della società. Il regime si regge a fatica contro un rifiuto di massa che si manifesta in un interrotto assedio alle sedi del Potere. Un potere anche inseguito, nella figura del suo capo, da ineluttabili esiti processuali. Fuggono a centinaia di migliaia gli immigrati, fuggono gli investitori, si inceppa una delle più floride e avanzate economie in seguito al passaggio coatto nell’esercito, da uffici, officine e centri di ricerca, delle sue forze professionali più qualificate.

L’operazione “Alluvione di Al Aqsa” del 7 ottobre, prescindendo dalla ricostruzione mediatica israelo-occidentale, dimostra, alla luce degli esiti, la grande intelligenza politica di chi l’ha ideata. Donald Trump, che ora ci riprova, nel suo primo mandato era riuscito ad avviare, dopo decenni di tentativi non risolutivi (Camp David, Oslo), quella sparizione della questione palestinese, nodo cruciale del postcolonialismo globale, che doveva costituire l’abbrivio della normalizzazione regionale. E la ripartenza della marcia verso Eretz Israel.

I suoi Accordi di Abramo con quattro importanti Stati arabi (Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco) che, sullo sfondo della paralisi della Siria invasa, avrebbe dovuto avviare questo processo e perfezionarsi a breve con l’ingresso, strategicamente determinante, dell’Arabia Saudita, sono saltati per aria insieme ai centri di comando israeliani ai valichi di Gaza assaltati da Hamas.

Con il 7 ottobre, una Palestina alla quale si era pensato di aver tagliato voce, capacità di iniziativa, riferimenti esterni, presenza nella coscienza collettiva, al punto da ridurla a un residuo della Storia, più vittima per cui penare caritatevolmente che soggetto cui riconoscere diritti di lotta e di riscatto. è ripiombata con forza incontenibile sullo scenario mondiale. Più di quanto era riuscita a fare con due sollevazioni di massa pluriennali, le intifade. L’eco che questo evento cataclismatico ha suscitato, è riverberato di continente in continente. Il grumo criminale al potere aveva creduto di superare l’affronto alla sempre vantata sicurezza, trasformandolo in occasione per la “soluzione finale”. La soppressione fisica del suo protagonista.

Ma, alla lunga, se il blitz non chiude la faccenda, operazioni di tale portata hanno bisogno di partecipazione politica, morale ed emotiva ad amplissimo raggio. In effetti, questa si è manifestata, ma in senso contrario a quella che si immaginava, assicurata dal vittimismo strutturale costruito sull’olocausto.

Un popolo che, organizzato dalle sue avanguardie combattenti e con esse coincidente, marcia a centinaia di migliaia a riprendersi le sue case e cose, i suoi luoghi, i suoi cimiteri, la sua memoria, per quanto in frantumi, secondo il giornale israeliano Haaretz è invincibile.

La risposta offerta da Trump ai suoi sodali fasciosionisti è di una tracotanza che solo lo smarrimento dettato dagli eventi può aver determinato. “Ripuliamo Gaza di quella roba”. E “mandiamoli in Giordania ed Egitto”. Immaginare che governi possano aderire a un progetto che li renderebbe inconciliabili in eterno con la propria popolazione, con ogni singolo cittadino arabo o musulmano, oltre a destabilizzare ogni prospettiva di coesione sociale e di rispettabilità internazionale.

A Rafah ho potuto vedere a cosa era disposto il popolo egiziano. Chilometri dal valico a Suez con centinaia di Tir allineati in attesa di entrare a Gaza, colmi di aiuti per decine di migliaia di tonnellate che i cittadini di questo paese avevano raccolto, spesso a proprie spese. Tutte le ambulanze del paese erano state mandate a raccogliere i feriti che dalla Striscia erano potuti uscire. Medici e infermieri di primissima qualità per competenza e passione, in ospedali che a noi risulterebbero avveniristici, si impegnavano in turni massacranti per curare centinaia di bambini giunti con amputazioni infette, denutrizione, tumori da mesi non curati. Ricordo le lacrime di un giovane ortopedico che si affannava attorno a una bambina con due schegge nel torace.

Vorrei vedere, con una simile gente, cosa succederebbe a un governo che accettasse di soccombere al ricatto dei responsabili di tutto questo.

E infatti, la risposta è stata immediata, ferma ed univoca. Non è però detta l’ultima parola.

Verranno messe in atto, specie nei confronti dell’ostacolo egiziano, le più sporche operazioni di destabilizzazione degli specialisti della corruzione, dei colpi di Stato, delle rivoluzioni colorate. Si attiveranno ONG, accreditate tra i benpensanti per aver aggrottato le ciglia sugli stermini di bambini a Gaza, ma che su ciò che spiana la strada ai diritti umani come concepiti a Langley sanno come muoversi.

Amnesty International ha tempestivamente diffuso un rapporto sui “gravi limiti alla libertà d’espressione e alle cadute democratiche” che segnerebbero, nell’Egitto di Al Sisi, la sorte degli oppositori. Human Rights Watch, quella del “viagra dato da Gheddafi ai suoi soldati per stuprare meglio le donne libiche”, non è da meno. Ci ricordiamo come siano girevoli le porte tra queste ONG e il Dipartimento di Stato USA? Da Google ce lo evidenzia, per esempio, Suzanne Nossel, collaboratrice di Hillary Clinton. Quella che esultava sul corpo martoriato di Gheddafi. Quella del golpe in Honduras. Quella di Maidan a Kiev.

Noi, intanto, ci siamo portati da tempo avanti col lavoro con il nostro Giulio Regeni.

 

.

sabato 1 febbraio 2025

Cosa ci dice lo scontro tra governo e magistratura--- --- REDUCTIO AD UNUM --- --- Amichettismo per tutti

 

Cosa ci dice lo scontro tra governo e magistratura

REDUCTIO AD UNUM

Amichettismo per tutti

Canale Youtube di Fulvio Grimaldi https://www.youtube.com/watch?v=Apb_UuHV9uI&t=48s

https://youtu.be/Apb_UuHV9uI

 

Parlamento, fuori uno. Magistratura, fuori due. Libera stampa, fuori tre. Popolo, fuori quattro. Libertà, fuori cinque.

Assassini e torturatori restituiti agli amici. Innocenti arrestati su ordine degli amici. Carceri italiane piene di tanti piccoli Almasri e di suicidi 2024:88, record europeo e statunitense.

A chi protesta: decreto Sicurezza.

Chi non vuole il Ponte, carcere. Chi non vuole essere picchiato dai gendarmi, carcere. Chi protesta contro il secondino aguzzino, carcere. Chi balla sui prati, carcere. Chi si batte contro i licenziamenti, carcere. Chi osa denunciare o processare uno dei quartieri alti, alla colonna infame. Chi ruba e inganna tutto il paese, celebrazione post mortem fin sul Quirinale. Chi intralcia le regole del ministro di Polizia, del ministro di Giustizia, di Ministro degli Esteri, vituperio e carcere. Chi festeggia la vittoria di Hamas, marchiato a vita di antisemitismo.

C’è un giudice a Berlino?