martedì 27 maggio 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- Eurocentrismo de sinistra GAZA (NON SOLO): QUELLI DEL SI, MA

 

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico

Eurocentrismo de sinistra

GAZA (NON SOLO): QUELLI DEL SI, MA

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Alla nutrita Assemblea Nazionale convocata sabato scorso al cinema Aquila di Roma dalla Rete dei Comunisti, si è discusso di Medioriente.

Incidentalmente e fuori dal contesto di questo articolo, mi permetto una considerazione. Nel dibattito ha avuto un ruolo anche l’evento nazionale contro guerra e Nato e per la Palestina previsto per il 21 giugno, con il nodo della presenza, nell’occasione, di due manifestazioni su piattaforme in parte divergenti. Si vedrà se si addiverrà a un’intesa. Alla discussione aggiungerei il dato che risultano riuscite e imponenti, per positiva risonanza pubblica, le manifestazioni romane per la Palestina che hanno visto in un unico corteo due componenti fortemente divise tra loro. Soluzione che potrebbe proporsi anche per il 21 giugno.

Nel corso delle quattro ore di assemblea e di una trentina di interventi, si è incessantemente parlato, in toni vuoi indignati, vuoi accorati e dolenti, fin nei più raccapriccianti dettagli, della tragedia di Gaza. Giustamente qualcuno ha rilevato l’esitazione, se non l’assoluto rifiuto, nella sfera politico-mediatica, a pronunciare la parola genocidio. A fronte della fondata osservazione, va tuttavia rilevato che un’analoga esitazione, se non un rifiuto, si sono verificati rispetto al termine “Resistenza”, praticamente scomparso. Siamo stati solo in due, un palestinese e io, a utilizzarlo. DI Hamas, poi, neanche a parlarne.

Si sarà trattato di accidente casuale, non causale per carità, ma tant’è. E fa riflettere. Su un fenomeno che è di vasta scala e di vasta portata.

Dico subito che, per alcuni, dietro al ritegno di evidenziare il ruolo di Hamas, che pure è la rappresentanza politica e militare della maggioranza dei palestinesi dalle elezioni del 2014, confermata dai sondaggi attuali, c’è l’idea che senza Hamas Gaza avrebbe la pace. Idea alimentata dalla propaganda sionista che proclama la sua guerra essere solo mirata all’eliminazione di Hamas.

La terra bruciata che Israele sta compiendo in larghe parti della Cisgiordania, che dichiara di voler annettere e dove non pare esserci una forte presenza di Hamas, da sola smentisce l’assunto. Basterebbe ricordare due anni di ininterrotte ed omogenee dichiarazioni del governo Netaniahu (fatte proprie dall’80% degli israeliani). La pratica genocidaria applicata a Gaza, con particolare predilezione per bambini e donne, ospedali, scuole, moschee, depositi e manifatture di viveri, acquedotti e luoghi di rifugio, concretizza le ripetute affermazioni di Netaniahu, dei suoi ministri e di Trump. Anche se Hamas sparisse e gli ostaggi fossero liberati, la procedura verrebbe portata a termine: soluzione finale. Che è quella di rimuovere dalla Striscia, morti o vivi e per sempre, tutti i palestinesi, inibendo ogni possibilità di ritorno.

Quindi, di cosa stiamo parlando?

Di passaggio, va rilevato che alle parole di cui si preferisce evitare l’uso, anche da parte di esponenti del “popolo nostro”, con evidenti ricadute sul popolo tutto, corrispondono parole di cui, invece, si pratica l’uso, per alcuni convinto, per altri stereotipato e a pappagallo. Ne emergono due impieghi. Una in riferimento alla guerra mediorientale, “Diritto alla difesa”, in relazione a quanto farebbe Israele quando mena colpi all’impazzata, o li promette, ai paesi vicini. Meme poi diventato il mantra per le attività belliche, o di preparazione bellica, dell’Unione Europea governata, per conto degli armieri UE e USA, da Ursula von der Leyen

L’altra è altrettanto pervasiva, autorevole ed autoritaria e guai a contestarla: “Invasione”, o il suo equipollente più irsuto, “aggressione”. Del martellante ripetere il “diritto di Israele di difendersi”, a copertura della più sanguinaria e orripilante distruzione di un intero popolo, condotta in piena vista del mondo, cosa mai vista, abbiamo detto e siamo consapevoli tutti, compresi gli ipocriti che della frase fanno uso.

“Invasione” e “aggressione” è l’unico modo in cui il volgo e l’inclita devono percepire e giudicare gli eventi di Ucraina. Come risulta esplicito dall’informazione generalista che riceviamo ogni giorno, dal febbraio 2022, entrata delle truppe russe, e che è cardine di ogni pronunciamento dei nostri politici.

Ricordo il mio breve, e, come si usa da Floris, “controllato”, scambio con Pierluigi Bersani, già comunista e autorevole segretario del PD. Il metaforico veterano di una sinistra che fu, aveva concluso la sua perorazione sul diritto di Zelensky a difendersi dall’aggressione russa del 22 febbraio 2022. Io avevo poi provato di opporre alcuni dati di causa ed effetto rispetto a quell’ “aggressione”.

Tipo il sanguinoso colpo di Stato fatto fare a Maidan da Obama e Hillary Clinton a reparti politici e militari nazisti, con il risultato della cacciata di Victor Yanukovich, premier e poi presidente, democraticamente eletto, dal 2004 al 2014 e che coltivava pari aperture a est come a ovest. Tipo otto anni di bombardamenti e massacri di ucraini russofoni nel Donbass e la strage dei bruciati vivi dai nazisti a Odessa.

Quale fu la reazione dell’illustre politico, prima del successivo cambio di indirizzo e tema del conduttore? Una scrollata di spalle, un inarcamento delle sopracciglia e la sentenza perentoria e conclusiva, condita da un sorriso di sufficienza: “Ma questa è Storia”.

Il che è del tutto sufficiente per dare alle parole in questione, e al loro utilizzo nella contingenza del presente, tutto il loro “valore”. A questo proposito permettetemi di tradurvi questi brevi versi di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

“Credi tu che i russi vogliano la guerra? / Interroga il silenzio che lì tace nel vasto campo / nel boschetto dei pioppi. / Chiedilo alle betulle lungo il rivo / Là dove giace, nella sua tomba / quel soldato russo, a lui devi chiederlo! / Ti darà la risposta suo figlio: / pensi tu, che i russi vogliano la guerra?”

Nell’assemblea nazionale di cui sopra, Franco Russo, mio compagno e autorevole contemporaneo negli anni ’68-’77 (definiti di “piombo”, da intendersi, però, come piombo finito nei corpi di una generazione che non ci stava), ha espresso una ricorrente preoccupazione. Ha rilevato, con mestizia e apprensione, come l’opposizione agli eventi funesti del capitalismo colonial-imperialista in Medioriente, continuasse a mancare una base sociale all’altezza del giusto e doveroso.

Mi sono chiesto se ciò non fosse dovuto a quella malattia della Sinistra di massa, apparentemente quasi congenita per quanto diffusa e ostinata, che non si può chiamare altro che eurocentrismo e che rasenta a volte il pur vigorosamente deprecato suprematismo. Vi sono firme e pubblicazioni per le quali la definizione di “sinistra” riveste entrambi i significati della parola. Sono quelle che giubilano per la Palma d’oro di Cannes all’iraniano Jafar Panahi, o per la vittoria israeliana in un qualche concorso canoro, o che descrivono con giambi e ditirambi l’evento in cui, a Bracciano, si è manifestata la Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi. Tanto per fare due esempi rappresentativi ed emblematici. Ma vale per i dissidenti rispetto a molte realtà invise al potere nel mondo in cui ci troviamo.

Conosco quelle posizioni - c’ero alla conferenza della Ebadi, ho visto i film dei registi iraniani, ho udito le canzoni - e come esse siano congeniali a una presentazione della realtà che vorrebbe reclutare le opinioni pubbliche alla visione delle cose – e conseguenti operazioni politico-militari – di un Occidente, di un’Europa, perfino di un’America a Stelle e Strisce, pur sempre di tradizioni e sostanza liberaldemocratiche. Con di fronte oscurantismi religiosi repressivi e regimi di dittatori, rispettivamente da illuminare, con le buone o le cattive, o da abbattere. Visto che minacciano l’umanità con armi di distruzione di massa, seppelliscono in fosse comuni i loro avversari (Gheddafi), o li torturano e uccidono nelle carceri (Assad). Strumenti democratici per affronarli: rivoluzioni colorate, sanzioni e guerre.

Ho percorso le strade e praticato gli incontri, tra Cuba e Venezuela, Nordirlanda e Serbia, Vietnam e sfera afro--mediorientale, che mi hanno riscattato dal rischio di un’ideologia aprioristicamente contro, perché superiore e nostra, facendomi testimone di una realtà delle cose opposta a quanto si vuole si sappia in Occidente e avvallata dai pregiatissimi dissidenti.

Qui non è il caso di dilungarsi in pur indispensabili approfondimenti socio-culturali di civiltà e tradizioni che, date le premesse storiche diverse, si sono permessi di seguire itinerari ed obiettivi non in linea con quanto a noi, da Montesquieu a Tocqueville e Schmidt, viene pro-im-posto, come modo di stare insieme e governarci.

Qui è il fortissimo caso di porre a base della decostruzione di un nostro placido allineamento con l’industria occidentale delle mistificazioni pro domo sua, da 2000 anni la più potente del mondo. Qui si impone, prima di profferire giudizi, la messa in questione, corredata da evidenze, di alcune chiavi di volta che reggono l’edificio della menzogna strategica.

Da inviato in Serbia del quotidiano Liberazione, durante la guerra NATO di D’Alema e Mattarella, mi si rimproverò di aver usato, in un’intervista fattami dal quotidiano del Partito Socialista, il meme: “Serbi, non servi”, con riferimento a Roma e alla Nato. Al mio ritorno trovai che parecchi dei miei servizi da Belgrado erano stati cestinati, perché “troppo filoserbi”. L’intervista che mi diede, prima di essere arrestato e mandato a morire all’Aja, Slobodan Milosevic, definito dittatore a casa nostra ed effettivamente presidente democratico di un paese con ricche e zannute opposizioni politico-mediatiche, fu respinta dal giornale perché “non possiamo appiattirci su Milosevic” (ma pubblicato poi dal Corriere della Sera!).

Analogamente, i miei reportage quando ero uno dei pochi e preziosi corrispondenti da Baghdad durante l’aggressione del 2003, furono relegati dallo stesso quotidiano nientemeno che nella posta dei lettori. Non doveva figurare come giornalista contrattato uno che metteva troppo in rilievo la bestialità dei bombardamenti Nato su una Bagdad prospera e civile, o il carattere, deontologicamente pervertito, di “embedded” degli inviati al seguito delle truppe USA.

Oggi, su una Serbia non ancora del tutto normalizzata e sui serbi riottosi di  quella aberrante creazione Nato che è la Bosnia-Erzegovina, federata a regime UE improntato all’apartheid, resta perciò attiva una criminalizzazione collettiva, radicata in terreni totalmente inquinati da False Flag e menzogne, ma ancora formicolante nelle sinistre ambosensi di cui sopra.

Si parte dalla strage di “civili inermi” a Racak, in Kosovo, proiettata nel mondo dagli organi della KFOR (Nato) per giustificare il successivo attacco alla Serbia. Poi inutilmente identificata da anato-patologi finlandesi dell’ONU come risultato di uno scontro tra soldati serbi e terroristi UCK travestiti da civili e sparati alla nuca e torturati quando cadaveri. E per segnare gli eventi futuri, si torna e ritorna a Srebrenica. Grande e pesante operazione, codesta, con cui tenere sotto scacco i serbi, in ispecie quelli della Repubblica Srpska nella surreale federazione croato-serbo-bosniaca, riottosi alle prevaricazioni croato-musulmane.

Su Srebrenica, durante la guerra civile, innescata dalla strategia USA-UE di frantumazione della Jugoslavia socialista, ci si ripete con enfasi da allora che 8.000 civili sarebbero stati uccisi a freddo da un plotone comandato dai serbi Mladic e Karadzic. Due imputati, di conseguenza, del solito processo-canguro dell’Aja. Numerose e approfondite inchieste hanno accertato che non di esecuzione di civili si sarebbe trattato, ma di scontro armato tra forze serbe e forze bosniache, con un numero di vittime infinitesimale rispetto a quello conclamato. Particolare grottesco: numerosi nominativi delle vantate vittime sono poi ricomparsi nelle liste elettorali bosniache. Eppure ancora oggi si fa ogni anno un gran celebrare internazionale della “giornata di Srebrenica”. Dunque, dagli ai serbi è sempre consentito.

Oggi lo stesso meccanismo è applicato all’operazione di Hamas il 7 ottobre 2023. A dispetto che decine di ricerche e inchieste, anche israeliane, hanno accertato che la maggioranza delle vittime è stata determinata dall’intervento caotico e impreparato (i centri di comando dell’IDF erano stati neutralizzati da Hamas) delle truppe israeliane prese di sorpresa. Che l’operazione di Hamas prevedeva la cattura di ostaggi, da cui ottenere la liberazione di prigionieri palestinesi, e non l’uccisione di massa dei coloni. Che la riduzione in macerie degli edifici degli insediamenti non poteva che essere determinata da bombe e missili dei tank ed elicotteri israeliani, dato che Hamas non disponeva che di armi leggere. E, infine, comandanti israeliani hanno ufficialmente ammesso che era stata adottata la Direttiva Hannibal, quella che impone di uccidere anche gli ostaggi insieme a chi li porta via.

Resta a tuttoggi, nella pubblicistica e nelle convinzioni della Sinistra perbene, l’inevitabile e ricorrente riferimento alle “atrocità” di Hamas, alle decapitazioni di neonati e agli stupri di massa, alle 1.200 vittime civili (in effetti poco più di 600 e in gran parte militari da fuoco incrociato e civili da fuoco amico).

E, come l’ineluttabilità di Srebrenica, o dell’11 settembre, madre di tutte le False Flag, non mancano mai alcuni punti fermi. L’associazione della Resistenza palestinese alla parola “terrorismo”, anziché la sua ovvia applicazione allo Stato sionista, oppure l’epiteto di “Zar” per Putin. Sono particolari di una propaganda che ci pervade peggio di un sedicente virus Covid, o di un presunto cambio climatico da noi e dai nostri nonni provocato. E che si insinua tra i gangli delle coscienze sinistre e li si sedimenta e prospera. E produce il plauso, per esempio, a Premi Nobel e Palme d’Oro.

Come anche la timidezza rispetto alla parola “Resistenza” e l’assenza del nome Hamas in un’assemblea tracimante di solidarietà umana per Gaza.

sabato 24 maggio 2025

Trump, Gaza, Euroguerrieri, Ucraina, Blackrock --- PUPARI E PUPI E NESSUNO GUARDA I FILI Da lotta di classe a guerra di classe

 

Trump, Gaza, Euroguerrieri, Ucraina, Blackrock

PUPARI E PUPI E NESSUNO GUARDA I FILI Da lotta di classe a guerra di classe

 

Mondocane video di Fulvio Grimaldi https://www.youtube.com/watch?v=JtMBvBSABmg&t=175s https://youtu.be/JtMBvBSABmg

 

Come ce la raccontano e come è. Netaniahu dà e perde colpi, Israele comincia a far schifo a 360 gradi, la dimensione del crimine e pari a quella della sofferenza: cose mai viste nella storia della guerra di classe.

 Qual’è la differenza tra Trump e Biden, Obama, Clinton, Bush e gli altri? Lui è più alto e usa parolacce. Il burattinaio resta più o meno quello.

Corsa tra Trump ed euroguerrieri per chi arriva prima. Ma c’è chi organizza la gara e ne cura i risultati, si tratti di terrorismo, che agevola la sorveglianza, di Covid, che fa raggrinzire la libertà, di Green Deal, che allarga i settori di estrazione del plusvalore, di guerra che ci disciplina in modo definitivo e allarga un po’ gli spazi dei pochi.

Il peggio? I sindacati. Il peggio del peggio? Non votare i quattro referendum

Ursula e Al Jolani: destini paralleli --- TERRORISMO: IL RE E’ NUDO. MA REGNA

 

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico

Ursula e Al Jolani: destini paralleli

TERRORISMO: IL RE E’ NUDO. MA REGNA

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Torno su due eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici, quasi sempre sconvolgenti, rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di questa fase sullo spicchio di pianeta nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente passato, e che minacciano di incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e verità.

Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.

La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.

Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità. Per il suo operato da ministro sarebbe tuttora inseguita da un’inchiesta giudiziaria relativa all’ assegnazione, nel segno dell’amichettismo, di varie consulenze ministeriali, redditizie ma indebite. Inchiesta che il suo ruolo a Bruxelles ha fatto rapidamente finire sotto le sabbie del Baltico brandeburghese.

Dipanando un curriculum di assoluta coerenza, la Von der Leyen degli utili di 90 miliardi generati dalla supposta pandemia e dal dubbio vaccino con allegato tampone PRC manipolato a forza di moltiplicazione dei cicli, ne avrebbe indirizzati ben 60 agli amici vaccinari, in primis all’amico Albert Bourla, AD di Pfizer.

Compenso per ben 900 milioni di dosi, con opzione per ulteriori 900, con centinaia di milioni in eccesso e quindi da buttare. Ma pagati. Non ne venimmo a sapere quasi nulla. Ci furono nascosti sotto omissis sui prezzi e sulle clausole relative agli indennizzi dovuti per effetti avversi (poi moltiplicatisi in misura esponenziale), messi interamente a carico del committente pubblico, cioè noi.

Pratica subito stigmatizzata dalla Corte dei Conti europei. Ma che riuscì a superare, grazie alla nonchalance della baronessa e dei suoi valletti, le richieste-proteste di alcuni volenterosi dell’altrimenti parco di buoi di Strasburgo. Fino alla resa dei conti del Tribunale UE che, ritenuta illegittimo il rifiuto al più autorevole giornale d’Occidente, il New York Times, di rivelare gli accordi con Pfizer, ha imposto a Ursula di rendere noti i celebri omissis messi a copertura di quanto - e come e perché – Ursula aveva concordato. motu proprio, col partner in affari Albert Bourla.

Copertura cui qualche ufficio UE aveva poi portato il soccorso della “sparizione” degli accordi stessi, tutti disinvoltamente formulati con scambi di sms tra Ursula e Albert, Che peccato, erano stati cancellati, perchè “irrilevanti”, dalla documentazione di ciò che la Commissione fa o non fa…Documentazione, ricordiamo, che avrebbe dovuto mantenerci al corrente sull’esborso di nostri 60 miliardi di euro per un eccesso strepitoso di dosi, perlopiù inutili. Miliardi e dosi oltretutto serviti, più a che a salvare i nonni dal contagio dei nipotini, a ridurci tutti a gregge obbediente anche in vista dell’arrivo di cani in armi e pastori armaioli, con conseguente disciplinamento ed economia di guerra.

Rappresentanti nel parlamento UE delle sinistre hanno ora chiesto la “dimissioni di tutti i parlamentari europei che hanno sostenuto la Von der Leyen nella grave violazione dell’obbligo di trasparenza e legalità”. Ovviamente, la cosa è rimasta lì, Vox clamantis in deserto.

La corte europea, sollecitata dal New York Times, ci ha svelato qualcosa che inerisce ai nostri soldi e alla nostra salute, oltrechè all’anima democratica dell’Unione di cui facciamo parte, ponendoci forse in condizione di saperci guardare meglio da vannemarchi, imbonitori e tappetari politico-farmaceutici che svolazzano tra le sale del Berlaymont.

Ma l’incontro a Damasco del 14 marzo, all’ombra benedicente di Mohammed bin Salman, tra Donald Trump e Al Jolani, riciclato nel democratico Ahmed al Sharaa, va molto oltre. Ci sbatte in faccia, con la rozza improntitudine che Trump manifesta in ogni sua iniziativa, una verità che alcuni di noi avevano visto incisa a chiare lettere (esplosive) sulle immagini del crollo delle Torri Gemelle e del muro del Pentagono, ma di cui la maggioranza s’era bevuta la paternità islamica di terroristi sauditi evolutisi, durante le ferie in USA, da viveur bevaioli e donnaioli in ascetici combattenti pronti al martirio-

Abbiamo ingoiato l’invereconda versione ufficiale poi confezionata a Washington, a dispetto dell’incancellabile, per quanto occultata, sequenza video degli israeliani che, evidentemente avendo saputo (fatto?) tutto in anticipo, su un terrazzo di fronte filmavano l’evento, corredando le riprese con balzi e girotondi di soddisfazione. Un indizio degno di prosecuzione, non meno di quanto lo fossero gli addestramenti in carcere di certi bombaroli di certi attentati europei. Arrestati da disinformati poliziotti metropolitani, si rivelarono agenti del Mossad e, di conseguenza, vennero immediatamente liberati e imbarcati verso il paese e gli organismi di provenienza. Paese e organismi che, comunque sia, sono tra coloro che maggiormente hanno tratto incoraggiamento e vantaggi da quella che ha poi segnato tuti gli anni successivi: la guerra globale al terrorismo: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libano, Siria, Yemen. A rifletterci, tutte operazioni che hanno fatto molto comodo allo Stato del Dio degli Eserciti e che ora guardano con appetito all’Iran.

Al Jolani, ex-capo terrorista, nella sequenza para dinastica che viene fatta partire da Osama bin Laden, è l’erede dei conclamati genitori dello Stato Islamico (ISIS), Al Zawahiri e Al Baghdadi, proclamati teste (pensante e operante) del serpente terrorista da tutti i presidenti USA successivi all’11/9. 

Nello specifico, è’ l’emissario combattente del sultano neo-ottomano Erdogan, i cui miliziani feriti Netaniahu curava negli appositi ospedali sul Golan. E’ colui al quale il committente turco aveva affidato la conquista e il controllo della vasta regione di Idlib, nel nord della Siria, in vista di Aleppo, cuore della Siria e porta spalancata sul resto del paese. E’ colui per il quale Erdogan aveva sapientemente allestito campi per 2 milioni di profughi siriani da usare, sia per spremere miliardi all’UE, sia da addestrare, a forza di pagnotte e ricatti, alla militanza aljolaniana contro il paese da spartirsi tra Ankara e Tel Aviv, con il compenso di una rappresentanza formale a Damasco al mercenariato sunnita che aveva eseguito il compito.

Ma Al Jolani è anche, se permettete un ricordo personale, colui che al sottoscritto, in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi che accompagnavano l’assalto allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Ne fanno parte anche l’assassinio di Nicola Calipari che s’era permesso di liberare – e far parlare, anche se poi non ha detto molto - la giornalista Giuliana Sgrena, ma anche altri episodi poi ripetutisi in Libia e Siria. Fu di un tasso di criminalità pari alla distruzione della Biblioteca di Alessandria e all’assassinio di Ipazia su mandato del vescovo Cirillo, la devastazione dei siti millenari assirobabilonesi e la depredazione del Museo Nazionale Archeologico e della Biblioteca Nazionale, in combutta con terroristi reclutati nel Kuwait.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Al Jolani è anche, mi sia permesso, un ricordo personale, colui che al sottoscritto in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi dell’assalto in corso allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

Con pochi altri colleghi con cui ci erano avventurati in una guerra senza precisi fronti e con pericoli incombenti a 360 gradi, ebbi diretta esperienza dei metodi con cui il neopresidente siriano conduceva la sua guerra per procura, liberato dall’onta dei 10 milioni di taglia e dalle sanzioni imposte a una Siria che, da lui e dall’aggressione colonial-terrorista, si difendeva. A Damasco, un giorno, arrivai 2 minuti dopo che un edificio era stato fatto esplodere alla maniera delle Torri Gemelle, Ospitava alcuni uffici della polizia metropolitana e le abitazioni delle loro famiglie. Arti di agenti e pezzi di passanti spiaccicati sui muri degli edifici circostanti, fin sotto il soffitto di un alto cavalcavia, pozze di sangue come pozzanghere dopo un diluvio. 80 morti di cui due terzi civili.

A Oms, con un gruppo di giornalisti, visitammo un ospedale. Si, tipo quelli che Israele polverizza con tutti dentro, dicendo di colpire Hamas. Anche qui intendevano colpire i soldati di Assad, che ovviamente non c’erano. Ma c’erano pazienti, sanitari, visitatori, e noi giornalisti. Fummo bersaglio di scariche di proiettili che, infrante le finestre, si ficcarono nei soffitti e nelle pareti.

Ma, come altre volte ho raccontato, gli orrori dei miliziani di Al Jolani, ora ricuperati al ruolo di liberatori dalla “dittatura” di Assad e democratici interlocutori per la rapina delle risorse del paese, avevano ben altri mezzi per diffondersi e provocare un terrore finalizzato alla resa e alla sottomissione. Che per 14 anni non riuscì. Catturavano, uccideva, mutilavano, stupravano, scuoiavano, impiccavano agli alberi, annegavano in gabbie di ferro sprofondate nei fiumi, lanciavano dai ponti e, strafatti di droga, sistematicamente giubilavano.

Riprendevano tutto con i cellulari, si scambiavano le prodezze e, soprattutto, giravano i video delle atrocità ai cittadini delle zone da conquistare. Stesso costume oggi praticato dai militi sionisti a Gaza.  A me famigliari, amici, esponenti politici delle vittime, a Oms riuniti in un’assemblea da cui la protesta avrebbe dovuto esplodere sul mondo, hanno mostrato quelle immagini strazianti. Quali con l’amico, quali col figlio, quali con la moglie, quali con un mucchio di corpi.

Questa era l’opera di Mohammed Al Juliani. Un fiduciario del campo sion-occidentale e, dunque, di tutti noi, quelli della parte giusta e buona del mondo. Oggi riconosciuto e frequentato capo di quel frammento di Siria che i committenti esterni gli hanno concesso.

Ma la stretta di mano di Trump a questo personaggio, va oltre l’ammissione che il terrorismo va bene, o comunque lo si può assolvere, quando sia praticato da noi, tipo Guantanamo, Mi Lay, o Dresda. Non però quando siamo sempre noi, Occidente politico, a praticarlo e, fingendoci vittime, lo facciamo rivendicare ai nostri proxy, tipo Al Jolani.

Non solo Torri Gemelle. A partire da quell’episodio del 2001, non certo la prima delle False Flag su cui rigogliano le aggressioni, basti ricordare le BR reinventate e Moro, momento culminante della nostra stagione delle stragi mafio-fasci-statali, abbiamo conosciuto due lustri e passa di terrorismo endemico in Occidente a fuori.

Abbracciando Al Jolani, protagonista di quella strategia scellerata, il presidente degli USA ha rivelato al mondo ciò che la stragrande maggioranza degli umani si rifiutava di accettare. Che, se il terrorismo era il male assoluto, come sentenziavano Bush, Obama, Biden e tutto la cortigianeria mediatica a reggere lo strascico, quel male assoluto è stato riconosciuto degno di governare a Damasco nell’interesse della nostra parte del mondo.

Tutti gli attentati rivendicati dallo Stato Islamico e da altre targhe della jihad islamica, a partire dall’11 settembre e a finire con la frantumazione della Siria, hanno la stessa firma, travisata nel nome de plume “terroristi islamici”. Dal riconoscimento del capo jihadista in Siria da parte della massima autorità USA e occidentale, vera lacerazione del velo di Maja, dovrebbe discendere la consapevolezza in tutta l’opinione pubblica della vera e univoca responsabilità della stagione degli attentati, definiti islamici e svoltisi nelle prime due decadi del millennio con strascichi nella terza.

Ne dovrebbe conseguire un’altra certezza cambia-mondo: Dovremmo pensare a cosa è derivato, o, piuttosto, è stato tratto, dalla catena di stragi terroristiche successive a quella delle Torri Gemelle e che, nelle rivendicazioni, o attribuzioni, è perlopiù risultato consanguineo delle prodezze di Al Jolani in Siria e del combinato Isis-Al Qaida qua e là.

Che ne è stato di tutti noi dopo i due decenni di spargimento di dolore e sangue tra la gente? Nella Parigi del Bataclan e di Charlie Hebdo, o nella Mosca del teatro, a Magdeburgo dei mercatini di Natale, a Londra della metro e di London Bridge, a Bruxelles, Boston, Monaco, Mumbai, Barcellona… E vai e vai e vai, per tutte le prime due decadi del secolo. E se non c’era l’avvertimento ignorato di qualche agenzia della Sicurezza, c’erano i precedenti da carcerato del sicario, schedato ma non vigilato, c’era la rivendicazione dell’ISIS, o c’era il retroterra iraniano o arabo, comunque musulmano. Salvo qualche fisiologico diversivo europeo, tipo quello del 2011 in Norvegia, con 77 morti. Poi, di colpo, tutto è finito. Neanche più un mortaretto. Era cambiata la formula

Noi abbiamo creduto a quanto ci spiegavano e loro, i potenti, hanno metabolizzato nelle istituzioni rinnovandosi in Stato necessariamente di sorveglianza, controllo e limitazione del libero andare e fare. E il primo capitolo del libro che si è poi continuato scrivere con la penna intinta nel Covid letale e poi nella crisi climatica-colpa nostra e poi nella guerra universale per via della minaccia russa… 

E così siamo andati perdendo pezzi di Habeas Corpus, di Carta dell’ONU, di Costituzione, di democrazia UE, di diritto internazionale e nazionale e cittadino. Senza neanche farci troppo caso.                                                                  

mercoledì 21 maggio 2025

Trump, Gaza, Euroguerrieri, Ucraina, Blackrock --- PUPARI E PUPI E NESSUNO GUARDA I FILI --- Da lotta di classe a guerra di classe

 


Mondocane video di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=JtMBvBSABmg&t=175s

https://youtu.be/JtMBvBSABmg

Come ce la raccontano e come è.

Netaniahu dà e perde colpi, Israele comincia a far schifo a 360 gradi, la dimensione del crimine e pari a quella della sofferenza: cose mai viste nella storia della guerra di classe.

Qual’è la differenza tra Trump e Biden, Obama, Clinton, Bush e gli altri? Lui è più alto e usa parolacce. Il burattinaio resta più o meno quello.

Corsa tra Trump ed euroguerrieri per chi arriva prima. Ma c’è chi organizza la gara e ne cura i risultati, si tratti di terrorismo, che agevola la sorveglianza, di Covid, che fa raggrinzire la libertà, di Green Deal, che allarga i settori di estrazione del plusvalore, di guerra che ci disciplina in modo definitivo e allarga un po’ gli spazi dei pochi.

Il peggio? I sindacati. Il peggio del peggio? Quelli che invitano a non votare ai referendum