mercoledì 26 novembre 2008

CURZI: VITA CON IL COMPAGNO COMODO




Sandro Curzi









Agostino Saccà e Silvio Berlusconi



L’ambizione ha trascinato molte persone a diventare falsari: hanno un pensiero fisso nel cuore un altro pronto sulla lingua.
Sallustio

Parole bugiarde non sono solo il male in sé, infettano del male l’anima.
Platone

Quando tutti pensano la stessa cosa, nessuno pensa.
John Wooden



Io non sono, per esperienza diretta, molto d’accordo col grande Brecht quando afferma “beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. O almeno non sono d’accordo con coloro che ne deducono l’inutilità degli eroi in ogni caso Ne ho visti troppi di eroi necessari, indispensabili, dalla Palestina all’Iraq, dall’Eritrea alla Somalia al Vietnam. Di innumerevoli altri ho sentito. Forse, se Berthold avesse scritto …”beato chi non ha bisogno di eroi…fasulli”. Sono quelli che vengono celebrati e incensati, perlopiù dopo morti, da peana bipartisan, anzi, onnipartisan, che, come da scienza e logica risulta, sono peana i cui direttori d’orchestra stanno sempre a destra. Obama, che è malauguratamente vivo e lotta contro di noi, ne è l’esempio più recente. E ne parleremo dopo. Il Dalai Lama, pure lui ahinoi tossicamente vivo, è un altro. In campo giornalistico abbiamo due esempi recenti: Enzo Biagi, qualunquista ed eroe del senso comune, campione di salace e banale buonismo, che al massimo poteva dar fastidio al guitto mannaro, uno che si adonta di chiunque non gli lecchi il tacco rialzato. Con lui, tanti anni fa, andai a intervistare il premier austriaco Bruno Kreisky a Vienna e mi trovai a girare con un ometto che spurgava velenoso astio e spocchiosa irrisione su tutto e tutti, dandosi da grande e volgare macho alla vista di ogni passaggio di “culi e tette”. Ora tocca a Sandro Curzi e, meritatamente, i coccodrilli più lacrimosi e osannanti glie li hanno fatti campioni dell’etica, dell’idealismo, della coerenza, della professione, come Bertinotti, Veltroni, Petruccioli. Dagli Usa hanno addirittura riesumato Christiane Amanpour, vedette della CNN e concorrente di Oriana Fallaci per chi le sparava più false, razziste e guerrafondaie. Mancavano solo i mafiopizzinari D’Alema e La Torre, troppo affaccendati nell’eterno, tanto fetido quanto grottesco, wrestling con Veltroni e Bettini, a base di chi si fa inchiappettare meglio dai vari Finisconi. Immaginatevi questa nauseante conventicola tutta riunita in un salone e vi parrà di rivedere quel tremendo affresco che il più grande cineasta politico italiano, Elio Petri, ha tratteggiato della criminalità forchettara democristiana in “Todo modo”. Un osceno intruglio di facce grifagne, trasudanti falsità e corruzione, pervasi da livorosa bulimia predatrice, rotti a ogni vertice di ipocrisia clericale e a ogni abisso di depravazione profana. Quelli, tra preti assassini e politici ladroni, finirono col farsi fuori a vicenda. Un horror che il verminaio uscito dalla covata togliattian-morotea ci ripropone oggi come remake a livelli ultrà. Senza, per ora, l’esito positivo, letale, dell’originale.

Questa è la gente che ha tessuto l’apologia del “grande giornalista”, dell’”uomo di strada”, del “compagno scomodo”, come il pelatone incazzoso ha avuto l’improntitudine di auto-onorarsi in un’agiografia autobiografica. E questi erano i suoi amici, referenti, compagni di bisbocce populistiche. Io ci ho lavorato, con Curzi, per la maggior parte della sua monarchia assoluta al Tg3. Ed era in effetti un TG3 fuori dal coro, nella misura in cui glielo consentiva prima un PCI, non del tutto disancorato dalla sua base intellettuale e proletaria, e poi un PDS-DS che dipendeva per le sue prospettive governiste dal voto anche di chi, prima di essere addomesticato dall’imbonitore rinnegato Bertinotti, credeva e voleva antagonista Rifondazione. Conviene dunque che parli di Curzi partendo da me.

A Curzi, quando ancora imperversava con la sua iperpopulista “ggente” (altro che lotta di classe), gli stessi che in morte lo hanno beatificato davano del “trombone, da quel fragoroso vuoto a rendere per ogni stagione che era. Durante i cinque anni che trascorsi a “Paese Sera”, corrispondente da Londra e poi inviato di guerra, lo vidi una sola volta. Era un vicedirettore totalmente oscurato e inerte sotto la ferula di due direttori che avevano inventato il migliore giornale italiano: Fausto Coen, detronizzato per filosionismo quando dalla Guerra dei Sei Giorni ebbi modo di raccontare le efferatezze di quello Stato razzista e fascistoide, e poi Giorgio Cingoli. Mi rivolsi a lui per un sostegno contro le critiche che mi piovevano da Cingoli per essere nei miei reportage troppo schierato con il movimento del ’68, odioso all’editore di riferimento, il PCI. Curzi si mostrò comprensivo e partecipe e… non mosse un dito, dando prova di quell’atteggiamento bifronte e bipartisan di cui avrei avuto conferma vent’anni più tardi.

Lo ritrovai nel 1989 quando, assunto in Rai al Tg3, ero stato parcheggiato prima a “Uno Mattina” del TG1, e poi all’”Evelina”, un ufficio pseudogiornalistico che smistava le immagini dalle e alle televisioni estere. Mi ci vollero due anni, con l’appoggio del sindacato di Beppe Giulietti, per convincere il direttore del telegiornale di sinistra, al quale avevo chiesto l’assunzione, di accettarmi nella sua redazione. Una redazione infarcita di piccisti, come di socialisti, democristiani, liberali, sionisti (sull’entrata alla redazione esteri campeggiava la scritta “Questa è una redazione filoisraeliana”), in perfetto sincronismo con gli equilibri politici in atto, seppure nell’intesa che il Tg3 sarebbe stato quello di “sinistra”, a fronte del socialista e del democristiano. Appunto “Telekabul”, ma poi presto, cacciati i sovietici dall’Afghanistan, ahinoi “Telepapa”, con quel Benedetti all’orecchio di Woytila e del catto-Cia Walesa, che venne fatto passare per “grande vaticanista”. Qualche credenziale, per la verità, al Tg3 la portavo: cinque anni alla BBC, anni di inviato per alcune grandi testate nazionali e straniere, quattro lingue (l’inglese non lo sapeva nessuno), esperienza di quattro continenti e molte guerre e rivoluzioni, tre anni da inviato ambientalista al Tg1… Modestamente, per il telegiornale un po’ burino di allora, quasi una scala reale. Ma mi mancava l’asso: la tessera, la casella. Non ero iscritto a nessun partito e nemmeno alla parrocchia, nessun boiardo di Stato si dava la minima cura di me. Così sguarnito degli attributi richiesti, alla faccia della professionalità. non solo gli risultavo umanamente sgradevole, ma avrei scombinato il meticoloso mosaico di caselle che garantivano la sua direzione e tenevano soddisfatti i vari sponsor e padrini.

L’ambiente non contava una mazza nel giornalismo di allora. Ma WWF, Legambiente, Italia Nostra, Greenpeace e movimenti di base andavano guadagnando interesse e consenso di elettori e spettatori. Su loro sollecitazione, Curzi iniziò ad occuparsi, di malavoglia, di ambiente. Era dunque la cenerentola tra le tematiche redazionali e così risultò opportuno rinchiudere il sottoscritto nella nuova, marginale, collocazione di “esperto ecologico”, togliendomi da quella redazione “filoisraeliana” a cui Curzi era arrivato a rendere commosso omaggio per come aveva sostenuto, papisticamente e colonialisticamente, la “liberazione” della secessionista Croazia mentre praticava il genocidio della Jugoslavia e dei serbi che si trovavano alla sua mercè. Mi inventai una rubrica chiamata “I tempi che corrono”, nella quale raccontavo il tempo meteorologico alla luce dei tempi climatici e sociali che dal Nord si abbattevano sul pianeta. La conduttrice del programma di cui avevo una rubrica, Donatella Raffai, si adombrò perché in una puntata avevo, turbando le sue gioconde facezie, inserito qualche bambino rinsecchito dalla desertificazione euro-indotta dell’Africa. Senza battere ciglio, fui esorcizzato e sbattuto in Cronaca Nera. Ma lo stesso Curzi venne impietosamente cacciato dai suoi boss diessini quando, avanzati nel voto, pensavano di poter sostituire al minuscolo Tg3 il ben più remunerativo Tg1. Operazione che figurati se i volponi dell’altra parte, già intrisi di spirito santo berlusconiano, avrebbero consentito. Il detronizzato finì a dirigere il giornaletto del PRC, “Liberazione”. Per un destino sardonico, ci saremmo rivisti anche lì.

Fu il successore di Curzi, grigio, accomodante e democristiano, a ridarmi, sotto pressione di un mondo ambientalista sempre più autorevole e istituzionalizzato, nonchè di una stampa benevola, una rubrica di traino al Tg3 delle 19.00: “Vivere!”. Non durò mica tanto. In concomitanza con il lento declino della lotta contro la distruzione del pianeta in termini climatici, parallela all’accentuarsi della distruzione sociale e bellica, la rubrica perse di interesse, sebbene più per la classe politica che per la “ggente”. Fu nuovamente cassata e tornai agli esteri. Tra la proliferazione incontrollata dei successori di Curzi, diretta conseguenza di equilibri politico-economici-clericali non assestati (siamo nella seconda metà degli anni ’90), piombò anche la vernacolare dalemian-agnelliana Lucia Annunziata. La ricordo giusto per avermi intimato, se proprio volevo fare delle corrispondenze dall’Iraq divorato dalla prima guerra del Golfo, dall’embargo e da incessanti bombardamenti, di non osare di presentarmi con immagini di bimbetti devastati dall’uranio, o uccisi da fame o diarrea. “Mica vogliamo fare un favore a quel delinquente di Saddam e un torto ai nostri amici!”, ingiunse. “Fammi vedere i palmeti di datteri, le rovine di Babilonia, un po’ di colore mesopotamico…”

Amico e compare degli amici come dei “nemici”, sodale, nella corporazione dei giornalisti, di chiunque avesse influenza, dall’estrema destra all’estrema sinistra, primo sdoganatore del MSI ancora bandito dall’Arco Costituzionale formalmente antifascista, trombettiere di tutte le false cause “umanitarie”, da Sarajevo a Tien An Men, assuntore di figli e congiunti dei potenti, Curzi, tuttavia, nello spazio garantitogli dall’allora forza compartecipe della gestione tangentopolista del paese, aveva con sé un gruppetto di giovani che i suoi proclami buonsensisti li traducevano in giornalismo eterodosso, a volte audace, contaminato dalla contigua “Samarcanda” di Santoro. Finchè durò. Non si ripetè questa qualità a “Liberazione”, giornale in cui entrai in fuga dal servilismo euro-atlantico-papista che il Tg3 manifestò in occasione dei crimini di guerra dalemiani in Jugoslavia. Per la verità, lo scafato marpione mi accolse a braccia aperte e subito mi spedì a Belgrado, poi in Palestina, poi in Iraq, poi a Cuba: uno del Tg3, anche abbastanza noto, non era acquisto da poco per il giornaletto del monarca Bertinotti. Con quest’ultimo, in travolgente corsa verso compiacenze padronali e imperiali e conseguenti elevati scranni, mi trovai ben presto in divergenza. Mi si tollerava perché la base del partito pareva essermi affezionata. In particolare l’ala di sinistra, che faceva capo all’”Ernesto”. Quello che scrivevo dai paesi elencati non quadrava con gli stereotipi dell’intossicazione mediatica ufficiale: come ci si poteva permettere di contrastare la versione dei serbi etnopulitori e ipernazionalisti, come la presa di distanza dai combattenti palestinesi, come la satanizzazione di Saddam e di tutto il “terrorismo islamico”? Perché ci si ostinava a parlare di un imperialismo e di lotte di liberazione e di classe, quando tutto questo il pontefice cashmirato aveva archiviato negli scaffali del “sanguinario Novecento”?

Straordinario Curzi. Bertinotti gli ingiungeva di mettermi il morso e tirarmi le briglie e lui mi convocava per chiedermi in tono querulo “fai attenzione, non eccedere, prova a moderarti, io ti capisco (faceva finta di parteggiare per “L’Ernesto”), la penso come te, ti difendo, non rendermi la vita difficile, gli equilibri sono quelli che sono, vedrai domani… Accanto aveva Claudio Grassi, leader dell’”Ernesto”, che annuiva solidale. Pareva di essere tra gli olimpionici dell’ipocrisia di “Todo Modo”. Un istante dopo avrebbe sbattuto per Bertinotti i tacchi e disteso quel suo sorriso da coccodrillo addomesticato. Tutto questo ebbe la sua summa nel maggio del 2003, quando, insieme a un drappello di irriducibili della deontologia professionale, prima ancora che della solidarietà politica, tentammo di inserire spilli nel pallone delle false accuse a Cuba. Bertinotti aveva deciso che conveniva far da prestigioso solista nel coro di coloro che onoravano terroristi cubani, dirottatori e mercenari prezzolati dalla potenza assediante, della qualifica di “intellettuali dissidenti”. Come Bush e la mafia di Miami dettavano. Da conclamato amico e difensore di Cuba, il “compagno scomodo” subito si accomodò nell’operazione ordita dal terrorismo di Stato Usa e rilanciata dal suo principale. Un rapporto professionale e umano durato dal 1967 al 2003 fu incenerito nell’autodafé del mio licenziamento in 24 ore (Il PRC e “Liberazione” erano coerentemente impegnati nella difesa a oltranza dell’Articolo 18), senza neanche la letterina di prammatica del direttore: “Dobbiamo purtroppo rinunciare alle tue prestazioni, bla bla bla, ti ringraziamo, bla bla bla. La decapitazione mi fu comunicata dall’amministratore per telefono. L’input era stato chiaramente del futuro presidente della Camera. Qualcuno si sollevò contro questa smagliante osservanza della libertà d’espressione, duemila firme di iscritti bersagliarono il palazzo di Via del Policlinico. Curzi e la sua iperbertinottesca, ma anche dalemista vice, Rina Gagliardi, si affannarono sul giornale a spiegare che ero io il responsabile della rottura, visto che non solo non mi ero attenuto strettamente all’esclusivo tema ambientalista (mai assegnatomi), ma avevo anche trasgredito la “linea del partito”. Mi chiedo cosa dovrebbe fare oggi il povero Ferrero, segretario di un partito che si chiama della Rifondazione Comunista, di un Sansonetti-Sionetti che, da dichiarato non comunista, passa la giornata al videogioco intitolato “Come si rema contro la linea del partito”.

Affrontai il tiro a due della carrozza bertinottiana in occasione di un incontro “sulla libertà di stampa” (pensate!) alla Festa di Liberazione. Semplicemente con un bavaglio sulla bocca. I due si infuriarono oltre ogni modo e, sentendomi gratificato dall’applauso di qualcuno nel pubblico che non gradiva bollettini e censure aziendali, si misero a urlare scomposti “provocatore, non è che un provocatore!” Un po’ come Lama definiva noialtri di Lotta Continua. Me la dovevo aspettare.
Poco tempo prima, sprovveduti e bravi compagni lombardi mi avevano candidato al Senato. Mentre battevamo palmo per palmo, mercato per mercato, bar per bar, la sconfinata bassa del Po, arrivavano, seppi più tardi, ansiosi avvertimenti da Roma perché non ci si desse “troppo da fare per la vittoria di Grimaldi, non è gradita”. Vinse Forza Italia. A me mancarono 200 voti su 18mila. Come si era meritato ampiamente, mentre il suo mentore e sovrano ascendeva al terzo scranno della Repubblica, in sintonia Curzi fu elevato al consiglio d’amministrazione della Rai. E qui, visto che ormai non c’era più niente da perdere o da guadagnare, il “compagno” di una mai esplicitata Resistenza si rivelò finalmente al volgo e all’inclita, insomma alla “ggente” nella sua vera natura, scevra, per cura bertinottiana, di ogni fisima di parte, cioè di quella parte. Fu quando il cda venne chiamato dal direttore generale Cappon a pronunciarsi sulla sua richiesta di sbattere fuori dalle palle Agostino Saccà, l’uomo-fiction del Servizio Pubblico che, intercettato mentre leccava i piedi a un Berlusconi in fregola di sistemare le sue cortigiane, si era fatto “scendiletto delle brame più basse del padrone” (Tafanus). Votarono per la cacciata dell’immondo personaggio i consiglieri del centrosinistra, contro, quelli di un’opposizione con gli aculei sullo stomaco. Curzi, il postcomunista, si astenne. E lo salvò. Coronamento di un’onorata carriera.

Voglio chiudere con un po’ di quel “colore” che tanto si è fatto strada nei tg da allora. Sandro Curzi compie 70 anni e lo si festeggia nel loft del Palazzo delle Esposizioni. Siamo invitati in 400. Noialtri ai tavolini nei remoti margini, A cerchi concentrici verso il protagonista in sollucchero l’intera combriccola della paludata malainformazione nazionale. Bonzi e palloni gonfiati, venerandi maestri e pennivendoli in auge. Mentitori di professione. Emissioni impure dalle froge dei licantropi. Ma questo è niente. Colui al quale “il manifesto” titola due paginoni con “Sandro, scomodo, prezioso compagno” aveva organizzato una coreografia che la parata ddl Columbus Day a New York è niente al confronto. Sul palazzone di fronte, a frotte di romani e turisti sbigottiti, veniva proiettata, dal calar del buio a notte e festeggiamenti inoltrati, il colossal della vita e delle imprese di Sandro Curzi. Lo stesso su una dozzina di schermi all’interno. Un Curzi panottico, in cinerama, da consegna, se non all’eternità, ai posteri. D’Annunzio a Fiume, Augusto sul Campidoglio, Gesù in croce e in gloria. Curzi con Togliatti, Curzi con Moro, Curzi con Brezhnev e Gorbaciov, Curzi, scendendo rapidamente, nella dispensa di Bertinotti, Curzi a Praga, Curzi con la mosca al naso e con il naso a Mosca, Curzi a Las Vegas, Curzi in salotto, Curzi sul cavallo della Rai, Curzi in tuta, Curzi in pigiama, Curzi con fiche, Curzi con la consorte, di profilo, a figura intera, nel vento, nella neve, immacolato, smagliante, svettante. La chiusa non avrebbe potuto che essere, e forse lo sarà, Curzi sepolto nel Pantheon.

Insomma, che vogliamo, visto che a sinistra, sempre con culto bipartisan, ci si inebria di Obama, un qualche alloro a Curzi lo si potrà pur concedere. E se Curzi, tromboneggia sui diritti dei lavoratori e poi mette in mezzo a una strada i giornalisti scomodi, privilegiando gli amici degli amici, i figli dei padri e della nomenclatura, eppure si merita gli appassionati elogi del “manifesto”, perché stupirsi se lo stesso “giornale comunista” conferma con il titolo “Il team dei migliori” le agghiaccianti scelte reazionar-clintoniane del novello profeta nero per la sua camarilla di governo. Segretario di Stato Hillary Clinton, co-stragista di serbi, palestinesi e iracheni, creatura più simile alla Medusa rettilo-chiomata che a femmina umana; del sionista ultrà, terrorista figlio di terroristi israeliani, Rahm Emmanuel, capo dello staff e che rimproverò Bush di non essere sufficientemente filoisraeliano, s’è già detto in passato; anche della sua conventicola di banchieri bancarottieri, vezzeggiata con il voto a favore degli 850 miliardi di salvataggio, capeggiata da quel lobbista ebraico di Robert Rubin, mallevadore sotto Clinton di un neoliberismo privatizzatore, deregolante e predatore che neppure Reagan si era sognato. Ci sono tutti, sembra di stare nei saloni di Vlad, in Transilvania. Tutti nel segno della stella di Davide: i Goldman Sachs, i Lehman Brothers, i Warburg, i Chase Manhattan, I Rothschild, i Lazard Fréres, la fallita (nonostante le operazioni planetarie sulla droga, insieme alla Cia e alla Dea) Citybank. E poi i militari, garanti dell’espansione dell’impero, dal superfalco generale Larry Jones, neoconsigliere nazionale per la Sicurezza (quello dello stato di polizia a casa e dei genocidi fuori), all’apparentemente confermato ministro della guerra a mezzo mondo, Robert Gates.

Ce ne sono altri, ve li risparmio, e non c’è neanche la punta della scarpa di uno non conservatore, non di destra, non dell’establishment (il quale establishment non per nulla gli ha dato più quattrini di qualsiasi presidente della storia Usa), espressione di quel movimento di massa che dal compagno Barack pensava di essere traghettato a nuova vita. E’ il CAMBIAMENTO, bellezza. Yes we can fuck you, brutti cretini. E noi, brutti cretini, a farci spremere gli ultimi sghei dal “manifesto”, sebbene non più privato dell’obolo di Stato, per farci rifilare questa pillola di cianuro indorata. Naturalmente l’agente Cia Al Zawahiri gli ha subito dato il conforto delle sue minacce e del suo anatema. Ci possiamo aspettare altri cataclismi “antiterroristici” e antislamici.

Un’ultima chicca. Chi sono i prescelti dall’illusionista nero per rivedere l’intero apparto di intelligence e reimpostare i 14 servizi segreti, cruciali per la guerra infinita, interna ed esterna? John Brennan e Jami Miscik, già funzionari Cia sotto il bushista George Tenet che, rispettivamente, hanno collaborato alle intercettazioni illegali a 360 gradi, ai rapimenti e alle torture delle extraordinary renditions, e alla costruzione della bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam. Sullo sfondo, ma nel ruolo di supervisori del tutto, i protagonisti del roll back , cioè dell’"arrotolamento", dell’Unione Sovietico e oggi dello scontro con la Russia per il dominio in Asia: Madeleine Albright, Zbigniew Brzezinski, lo stesso Gates e tutti i loro accoliti nel Pentagono. E la CONTINUITA’ bellezza.

Qualcuno, anche i neokeynesiani del “manifesto”, parla di un nuovo Roosevelt, di un altro New Deal, dimenticando che il capitalismo Usa oggi è assai più debole. Allora c’era una nazione creditrice, con attivi commerciali e la manifattura che dominava i mercati globali. Cionostante, fu soltanto sotto la pressione di lotte semi-insurrezionali, come lo sciopero di Toledo Autolite, lo sciopero generale di Minneapolis, di San Francisco e dell’industria automobilistica e grazie alla seconda guerra mondiale, con i milioni di persone tolte di mezzo, che il paese uscì dalla crisi. La crisi di oggi è il risultato di un declino protratto del capitalismo nordamericano, di debiti le cui cifre non si possono contenere in una riga di A4, la decimazione della sua base produttiva e il cui sistema finanziario è diventato la locomotiva di una recessione planetaria. Allora Roosevelt, assistito da sindacati gialli e da un PC come al solito stalinisticamente moderato e compiacente, riuscì a uscire dalla crisi ed evitare una rivoluzione socialista. Oggi, non fosse per la sciagurata dispersione o complicità delle sinistre, la situazione sarebbe più favorevole al cambiamento. Osama lo brandisce proprio per esorcizzarlo. Attenti ai colpi di coda.

lunedì 24 novembre 2008

Al Zawahiri Legge Chomsky

Riproduco un ameno e incisivo post dal sito www.luogocomune.net sull'ormai logoro sfruttamento cibernetico dell'ologramma Al Zawahiri.

11 settembre : Al-Zawahri legge Chomsky!
Inviato da Redazione il 20/11/2008 9:50:00 (3121 letture)
Un al-Zawahri decisamente ringiovanito – evidentemente fa la stessa cura anti-aging di Osama bin Laden – ha tuonato ieri contro il neo-presidente eletto Obama, con un messaggio audio comparso sul solito sito web che nessuno riesce mai a rintracciare.

Il messaggio potrebbe essere utile per un simposio di psichiatri che volesse studiare i problemi relativi al transfert di personalità, il meccanismo che entra in funzione quando un uomo della CIA - o comunque uno con quella mentalità – cerca di immedesimarsi in un personaggio fittizio come al-Zawahri, e cerca di scrivere “quello che direbbe lui”.

E‘ un fenomeno che noi abbiamo conosciuto da vicino, durante il rapimento Moro, quando gli uomini dei nostri servizi segreti scrivevano i volantini delle “Brigate Rosse”, accusando “l’imperialismo capitalista delle multinazionali, del quale Andreotti è il servo più fedele”. (Se i brigatisti rossi fosse esistiti davvero, in quel periodo, ad un deficiente del genere non avrebbero permesso di scrivere nemmeno i bigliettini di Natale).

Accade così che al-Zawahri si sia messo ad insultare apertamente Obama, definendolo un “venduto ai bianchi”, ...

... e dicendo che è “l’esatto contrario di un onorabile nero americano, come ad esempio Malcolm-X”.

Freud tradurrebbe immediatamente la frase in questo modo: “Cosa sei venuto a fare fra noi, negro di merda? Perchè non rimani al tuo posto, così possiamo continuare a menarti di santa ragione, senza che nessuno abbia nulla da ridire? Invece ora ti mescoli fra noi, e ti dobbiamo pure rispettare.”

Al-Zahwari ha poi definito Colin Powell, Condolezza Rice e lo stesso Obama “house negroes”, ovvero “schiavi domestici”.

Freud farebbe subito notare che Al-Zahwari – ovvero Al-Queda – ha sempre detto di lottare contro l’imperialismo americano e contro la sua cultura classista e prevaricatrice, mentre questo chiaro disprezzo “dall’alto” per la razza inferiore è tipico proprio di quella cultura.

Al-Zahwari ha poi detto che “Obama si troverà di fronte ad un risveglio della Jihad, o Guerra Santa, che sta scuotendo le fondamenta di tutto il mondo islamico; questa è una realtà che il vostro governo e il vostro paese si rifiutano di riconoscere, e fingono di non vedere”.

Dicesi “wishful thinking” – ovvero, “ti piacerebbe” – e qui non c’è nemmeno bisogno di Freud per rilevare la frustrazione dello scrivente, che non riesce a capacitarsi che il mondo abbia mangiato la foglia, e che la “strategia del terrore” non funzioni più come una volta.

Inutile aggiungere che il concetto di “Guerra Santa” è totalmente ed esclusivamente cristiano, mentre per il musulmano la Jihad è una cosa completamente diversa, e riguarda soltanto la difesa del proprio territorio. Oooops.

Ma la cosa più divertente sono stati i commenti alla CNN del cosiddetto “esperto di terrorismo”, tale Peter Bergen che viene considerato un guru in materia, solo perchè ebbe la fortuna di intervistare bin Laden una volta, circa venti anni fa.

Bergen ha “spiegato” che “questi terroristi hanno molto tempo da buttare, mentre cercano di evitare di venir colpiti dai nostri Scud, e probabilmente si sono messi a leggere testi radicali come, ad esempio, Noam Chomsky”.

Giuro, ha detto esattamente così.

E poi, non contento, Bergen ha pure aggiunto: “E’ stato probabilmente Tal Dei Tali [un nome che non ricordo], l’ebreo californiano convertito all’Islam che è entrato nelle file di Al-Queda, ad aver introdotto i leader arabi a questo tipo di letture”.

Ve lo vedete “l’ebreo californiano” che dice alla madre: “Ciao mamma, parto e vado a fare il terrorista con gli arabi”

“Okay, d’accordo – risponde la mamma con un sospiro - Quanto ti trattieni?”

“Non lo so esattamemte, comunque ti tengo informata. A proposito, lo sai che mi sono convertito all’Islam? Spero che la cosa non ti dia troppo fastidio”.

“Ma figurati caro – replica la madre con una carezza - lo sai che fin da piccolo ti abbiamo insegnato la tolleranza per le altre religioni, soprattutto quella dei nostri vicini di Palestina. Piuttosto, non scordare le buone letture, mi raccomando. Un sano Chomsky, l’immancabile Malcolm, e poi magari anche qualcosina di Allen Ginsberg e Gregory Corso”.

Ovvero, uno spezzato del più terrificante campionario di “cultura rivoluzionaria” che possa popolare gli incubi di un qualunque maccartista dell’era moderna.

“Sai com’è - aggiunge la mamma, abbracciando il ragazzo che parte – questi arabi sono molto arretrati. Un pò di cultura moderna non può che fargli del gran bene”.

Fossi stato in lei gli avrei anche suggerito di portarsi un disco di Jimi Hendrix.

Massimo Mazzucco




mercoledì 19 novembre 2008

"EROINA DIMENTICATA", O ARNESE DELLA CIA?






Se continui a giustificare e condividere, alla fine dai la benedizione ai lager degli schiavi, a forze codarde, a boia organizzati, al cinismo dei grandi mostri politici. Alla fine consegni i tuoi fratelli.
Albert Camus



Riporto qui sotto un post apparso, ahinoi, nel commendevole bollettino (newsletter per chi non sa l’italiano) dell’ottimo sito di uno dei miei compagni e amici più preparati e validi, articolo dedicato al processo per l’uccisione della giornalista russa di estrema destra, Anna Politkovskaya.
Suscita amarezza una così ampia inconsapevolezza, un così clamoroso schianto della verità, un così paradossale omaggio alle mistificazioni della disinformazione imperialista. I quali, tutti, hanno un’origine: la perdita, nella sinistra che si richiama al comunismo, di un accettabile grado di coscienza e conoscenza internazionalista. In molte riunioni ho inflitto ai compagni l’invito a non trascurare la geopolitica mondiale, l’imperialismo nel suo scontro con paesi e popoli in rivolta, il modello di lotta che ce ne viene, la colonizzazione del nostro paese (guerre, Nato e basi). Non se ne è venuti a capo, come risulta anche da tutte le esternazioni, piattaforme, contenuti conflittuali, manifestazioni, che l’intera sinistra, sul modello della pseudosinistra innestatasi nel governo imperialista di Prodi, ha attuato in questi anni e mesi. Diversamente da quanto si verificò dal ’68 in poi, quando il conflitto politico, sociale e militare internazionale era un centro ispiratore e propulsore del tentativo rivoluzionario di massa, nel pure assai maturo e possente movimento studentesco di oggi, in scoperta giorno dopo giorno dell’internità della propria tematica al conflitto di classe, la realtà internazionale è presente solo nella dimensione della crisi da non pagare. La ragione sta forse proprio nella mancata attenzione e nel quasi inesistente lavoro (se si eccettuano gli sporadici singulti per la Palestina e qualche rarissimo riferimento latinoamericano) delle avanguardie politiche di questi anni, nella loro riluttanza a inserire il tema del contenitore di tutti i nostri guai nel dibattito, nella denuncia, nella proposta, nelle alleanze. Situazione ben diversa da quando tutta l'intellettualità e le forze organizzate della sinistra erano immerse fino al collo nelle lotte della prima fase anticolonialista, dall'Algeria al Vietnam a Cuba. Chi sente ancora parlare, in termini corretta della Resistenza irachena (degradata, su velina di Washington, da Giuliana Sgrena e altri in "Al Qaida") che continua a costringere gli invasori e predatori iraniano-statunitensi a fallire faticosi accordi di dominio su oceani di sangue e di macerie? Una resistenza che da sei anni, ma anche prima, è la trincea avanzata non solo della nazione araba laica e progressista, ma dell'antimperialismo mondiale. Chi analizza il conflitto antimperialista e tra Cina e Occidente per l’egemonia in Africa, giocato sull’invenzione delle stragi nel Darfur, sull’aggressione per interposti ascari al Congo, sulla polverizzazione della Somalia e sulle destabilizzazioni secessioniste ed etniche in Sudan e in tanti altri paesi? Chi mette in luce i preparativi di guerra contro i grandi Stati asiatici, Russia e Cina, dei quali sono inneschi le campagne propagandistiche contro questi governi (Es. Cecenia, Tibet e, appunto, Politkovskaya) e le nuove basi europee (Cechia, Polonia, Sigonella, Vicenza)? Chi trae lezioni dall’insurrezione di massa che in Bolivia, Ecuador, Venezuela, ha frantumato il vecchio ordine oligarchico, cacciato gli scherani degli Usa e spostato lo Stato su altri binari, come dalla controffensiva secessionista, di etnia e classe, attivata dall’imperialismo e dai suoi proconsoli (vedi da noi la Lega)? Chi parla di Cuba e della sua incrollabile resistenza? Ci ricordiamo dei Balcani, a un’ora da qui, e di come il 99% della elite politica di sinistra abbia fatto sue le balle di una sinergia mediatica sintonizzata sulla Voce del Padrone, e se ne sia fatta fottere? Chi parla del Kosovo in mano ai gangster albanesi, dal quale le criminalità organizzate nostre e alleate, di Stato e di controstato, traggono i profitti da traffico di droga, organi, donne, bambini? Pensate, ho assistito a Roma alla presentazione, con grande enfasi e grande concorso di popolo di sinistra, di un nuovo sito, giornale-on-line, per l’informazione “proletaria” su conflitti, strategie, programmi, avvenimenti, l’universo mondo, messo in piedi da ottimi compagni che ne intendono fare centro di aggregazione, informazione, comunicazione per le disperse schiere dell’ipotesi comunista. Ebbene, ne era totalmente assente, non solo il contributo tecnico-politico di qualcuno esperto di comunicazione, natura dell’informazione nell’era della crisi capitalista e relative manipolazioni, ma nemmeno il più lieve accenno a quell’incandescente brodo internazionale nel quale noi galleggiamo come un crostino.

E veniamo a quella che nel pezzo riprodotto nel bollettino viene definita “eroina già dimenticata”. Una storia firmata da un Enrico Campofreda, ma che avrebbe potuto essere firmata con gran soddisfazione dall’attuale capo della Cia o del Mossad. Una nuova leggenda imperialmediatica sulla scia dello tsunami di inganni planetari che dalla Cecenia stuprata da terroristi tagliagole e sequestratori, perlopiù importati dall’Afghanistan, per mandato di petrolieri e loro burattini alla Casa Bianca, risale fino all’11 settembre dell’autoattentato alle Torri Gemelle e al Pentagono. Passando attraverso analoghe nequizie terroristiche e le varie “rivoluzioni colorate” in Serbia, Venezuela, Ucraina, Georgia, Libano, Tibet, Myanmar, Uzbekistan… E se gente come “il manifesto” queste bufale alla diossina se le è ingoiate, senza masticarle neanche un po', o guardarle in controluce, forse possiamo parlare di ignavia, incompetenza, addirittura sconoscenza dell’inglese (la lingua della migliore informazione vera), spocchia radical-chic, magnetismo dell’omologazione, quieto vivere al margine del coro. Nel caso di questa mignotteria sulla Politkovskaya si viene investiti da bagliori di malafede, aporie, furbate, depistaggi, falsità e invenzioni, al punto che cascarci dimostrerebbe un’attitudine al tafazzismo degna del…”manifesto”.

Inizia con una serie di secchiate di merda su Russia e Putin, il cuculo dall’ uovo tossico deposto in quel nido improprio: “Oltre alle indagini soffocate, (i russi) stanno cercando di restringere anche il luogo fisico dove celebrare il processo… E’ iniziato in un luogo angusto per evitare che amici e colleghi della giornalista della Novaya Gazeta, assassinata due anni fa nell’ascensore della sua abitazione, occupassero lo spazio per il pubblico…” E via con tutto uno sciacquone di affermazioni apodittiche, congetture, processi alle intenzioni, tipo “il grande assente, il mandante” che per il cuculo è ovviamente Vladimir Putin, “sospettato numero uno”, per il quale oltre alla “denuncia dei media internazionali”, ovviamente del tutto credibili nell’era della nuova guerra fredda, lo stesso cuculo ammette non esistere “prova alcuna”. Il processo è a porte aperte, diversamente da quelli di Guantanamo, Baghdad, Bagram, o Milano per il rapimento di Abu Omar e ospita tante persone quante ce ne stanno in una qualsiasi aula del tribunale di Roma. L’abbiamo visto sugli schermi della Rai, come della CNN, soggetti ben più bravi a diffondere diffamazioni e distorsioni su quanto succede sotto lo “zar” Putin degli eventuali “amici e colleghi”. Sul banco degli imputati ci sono due ceceni (!) e un ufficiale dei servizi, russo, un capo poliziotto, russo, ma mancano per il cuculo “coloro che hanno ordinato l’uccisione”. Vogliamo vedere se va a finire come a Genova per Diaz e Bolzaneto, prima di blaterare accuse per ora infondate?

Ma leggete voi stessi e ritroverete la prosa tutta intera di chi, in assenza totale di elementi probativi, ricorre al classico repertorio del giornalista ignorante, succube o provocatore. O, quanto meno, alla Astrit Dakli del “manifesto”, di colui che, sotto una viscerale slavofobia, nasconde l’accanita quanto incongrua identificazione tra la detestata Unione Sovietica e il nuovo Stato, operazione che, a sua volta, mimetizza un mai sopito anticomunismo. “Si parla di processo farsa”. Si parla? Chi parla? Lui parla. E non poteva sfuggirgli l’occasione per rinnovare l’anatema contro “i crimini di guerra perpetrati dalle truppe d’occupazione in Cecenia”. Un’”occupazione” in cui un esercito regolare della Federazione libera il proprio territorio, obiettivo delle sanguisughe occidentali per i condotti energetici, da terroristi infiltrati e prezzolati. Esercito confortato da un popolo che vota e rivota contro una secessione invocata da briganti. E non mi parli di elezioni inattendibili chi ha accreditato le elezioni di Bush, o quelle serbe sottratte all’ultimo Milosevic, o quelle del vassallo messicano. Sono cose da lasciare a burattini di Wall Street come Kasparov, o ai nostrani Svendinotti, discepoli del guru Massimo Fagioli e del Dalai Lama.

Seguono contumelie di marca nazifascista o natzingheriana contro un regime “grondante di sangue e criminale crudeltà”, nonchè riferimenti obliqui al noto agente provocatore Alexander Litvinenko, ucciso con il polonio a Londra nel momento in cui gli Usa preparavano l’atmosfera per l’installazione di apparati “stellari” di aggressione alla Russia: “Avvelenamenti, investimenti, morti accidentali e misteriosissime come trame di intrighi internazionali…” . Tutti da caricare sul vecchio spione KGB Vladimir Putin. Che ha evidentemente la colpa di aver tirato fuori il suo paese, in termini democratici come gli Usa del Patriot Act e delle extraordinary renditions non potrebbero sognarsi, dall’abisso di corruzione, servilismo, ruberie, automutilazione, degrado, irrilevanza internazionale in cui lo aveva precipitato il capomafia Eltsin. E l’ulteriore colpa di aver ristabilito in un mondo schiacciato sotto lo stivale Usa un minimo equilibrio, una minima deterrenza alla bulimia genocida dell’imperialismo. E’ proprio il fatto che la Russia di Medvedev e Putin, con la forza di un consenso popolare che nessun paese occidentale può vantare, si muova con assennata risolutezza, che abbia saputo, contro ogni intossicazione mediatica, ristabilire la verità sulla delinquenziale aggressione del fantoccio-gangster della Georgia al popolo osseto, che, soprattutto, faccia dipendere l’intera Europa e altre parti del mondo dai suoi rifornimenti energetici e dai suoi mercati, con relativi possibili slittamenti europei verso salvifiche equidistanze, a dirigere la mano dell’orda di pennivendoli sbucati per la bisogna. E qui il mandante sappiamo benissimo chi è.

Basterebbero già stile e argomenti del cuculo, ma la pietra tombale su menzogne, rovesciamenti, illazioni e allusioni la mette la stessa Anja Politkovskaya. Intima del giro e delle bisbocce di delinquenti e rinnegati del giro malavitoso di Boris Eltsin, anche al tempo della prima guerra di Cecenia, questa Emilio Fede della lobby ebraica russa passa a un martellante lavoro contro Putin proprio nella fase della ricostruzione del paese depredato e umiliato e della progressiva pacificazione della Cecenia, sottratta al destino di non-Stato-colonia della Exxon e della Nato. Non scrive solo per media nazionali sponsorizzati dagli ex-oligarchi, in parte fuggiti all’estero con i miliardi rubati e sospettati – questi con qualche sostanza – di ordinare la serie di assassini e attentati che puntano a demonizzare il governo russo. Lavora soprattutto per Radio Liberty e Radio Free Europe, organi della Cia allestiti ai primordi della guerra fredda per sparare propaganda contro l’Urss e addirittura potenziati al momento in cui le armate occidentali, attraversando e normalizzando la Jugoslavia, si accingevano a stringere d’assedio l’Oriente. Datore di lavoro la Cia, ufficiali pagatori la NED (National Endowment for Democracy), affiancata da Reagan alla Cia negli anni’80, e il bandito della speculazione e destabilizzazione internazionale e agente sionista George Soros. Non per nulla la Politkovskaya è cara oltre ogni misura a quella congrega di agitprop dell’imperialismo, finanziata dallo stesso Soros e dalla mafia cubana di Miami, che sono gli strasputtanati Reporters Sans Frontieres. Basterebbe questo e basterebbe, infine, il metodo cartesiano che collega la causa all’effetto e apre la strada alla logica del cui prodest, a chi conviene. A chi conveniva l’assassinio della giornalista anti-Putin, a chi quella dell’agente rinnegato Litvinenko, a chi la destabilizzazione della Cecenia? A chi gli attentati dell’11/9 e tutta l’osamabinladeria? Chi ne ha tratto frutto? E, badate, qui nessuno nega che la Russia oggi sia un paese a capitalismo di libero mercato, seppure con una crescente spinta all’intervento di recupero pubblico nelle aree strategiche dello Stato. Non c’è, purtroppo niente di ideologico da difendere. C’è, però, qualche verità da ristabilire, qualche correttezza professionale da ricuperare, qualche strategia imperialista della satanizzazione dei soggetti non domi da smascherare. Diciamo solo che oggi ci sia la Russia giova alla sopravvivenza dell’umanità.

Questa era l’eroina cara al solito schieramento furbo-umanitario il cui perimetro include tutti e, di conseguenza, è un perimetro tracciato dal nemico di classe, questo faceva. E questo era e faceva, a dimostrazione che la madre dei boccaloni è sempre incinta, l’altro specchietto delle allodole presentato a tanta sinistra italiana da Belgrado. La negli anni ‘90 venerata, soprattutto dai Disobbedienti di Casarini (l’avete visto nell’Onda degli studenti?), radio B-92, detta dei “giovani alternativi” serbi, ma da dirsi soprattutto di Soros e della NED, visto che anch’essa faceva parte del circuito di Radio Liberty e con le bande di suoi fan chiamate Otpor, addestrate a Budapest da generali Usa, fu voce della prima “rivoluzione colorata” e animatrice del golpe contro Slobodan Milosevic (poi assassinato in carcere, come capita agli intralci all’imperialismo, da Arafat a Saddam, da Malcolm X a John Lennon). Indimenticabile il mio caporedattore di allora a “Liberazione”, Salvatore Cannavò, oggi leader dell’ennesimo gruppetto trotzkista, che, cestinate alcune mie corrispondenze da Belgrado, che contenevano gli inni agli Usa dei dirigenti Otpor, invitava questi “compagni”, grumo fascista agli ordini della Cia, alle manifestazioni del movimento no-global. Così stiamo messi a sinistra come conoscenza, analisi, perspicacia internazionali! Basta riflettere sulle pinze che questa sinistra usa nei confronti di Hamas o Hezbollah, o di come caccia la testa sotto la sabbia quando qualcuno osa rivendicare un’altra verità, la verità, su Milosevic o Saddam. Intanto lo struzzo viene preso da dietro…

Concludendo, una sinistra, non dico di quelli che ci marciano o si adeguano, ma quella che conserva in seno una scintilla di consapevolezza delle mastodontiche manovre di decerebrazione e disarmo mentale di cui da sempre, ma oggi con più mezzi, arte e complici che mai, si avvalgono i poteri nemici, dovrebbe muovere lo sguardo dal proprio caminetto all’incendio generale. E se non riesce a mettere a fuoco, potrebbe ricorrere alle lenti fabbricate nella Premiata Ditta Ottica Marx & Co. Senza quelle non si va da nessuna parte.






Politkovskaya, eroina già dimenticata?
Scritto da Enrico Campofreda
martedì 18 novembre 2008



Oltre alle indagini soffocate stanno cercando di restringere anche il luogo fisico dove celebrare il processo per l’assassinio di Anja Politkovskaya che è comunque iniziato oggi a Mosca. E’ iniziato in un luogo angusto per evitare che amici e colleghi della giornalista della Novaya Gazeta, assassinata due anni fa nell’ascensore della sua abitazione, occupassero lo spazio per il pubblico. Di fatto un processo a porte chiuse sul quale aleggia il fantasma del grande assente, il mandante di quello come di oltre duecento morti violente o misteriose di giornalisti. La Russia infatti è seconda solo all’Iraq – dove c’è una guerra aperta – per l’uccisione di reporter, dal 1992 al 2007 ne sono state contate 218 e il numero continua a salire.

Il Gotha del Cremlino con in testa l’ex presidente Putin è il sospettato numero uno, ma al di là della denuncia dei media internazionali non c’è prova alcuna che possa incastrare il politico, gli uomini del suo staff e gli stessi agenti degli attivissimi servizi segreti. Non c’è per il modo in cui sono state condotte le indagini anche per il caso Politkovskaya, come ha denunciato un’altra importante firma della stampa russa: Grigory Pasko. Che all’odierna apertura del processo ne ha evidenziato l’anomalia “Come si può dire che le indagini sono state completate se nessuno di coloro che hanno ordinato l’uccisione siede sul banco degli imputati?”.

Unici accusati sono i due fratelli Ibragin e Dzhabrail Makhmudov e l’ex poliziotto Sergey Khadzhikurbanov che, esecutori materiali o meno, hanno tutta l’aria di non voler o poter svelare il mistero dell’assassinio. Così si parla di processo farsa, ne sono già stati celebrati altri senza che lo stillicidio delle esecuzione non solo si fermasse ma trovasse indizi per inchiodare i responsabili. E’ chiaro che accanto all’eliminazione di figure scomode - e la libera informazione in Russia come ovunque ha sempre rappresentato un nemico giurato per il potere dei satrapi – si cerca di diffondere nella popolazione una paura generalizzata tanto che a Mosca e altrove tira un’aria d’indifferenza.

E’ indicativo come un’inchiesta di qualche mese fa condotta fra i giovani della capitale trovasse molti di loro impreparati alla domanda su chi fosse Anja Politkovskaya. Non sapevano e non volevano sapere, quasi tutti erano all’oscuro sul suo lavoro di denuncia dei crimini di guerra perpetrati dalle truppe d’occupazione in Cecenia. Accanto all’oblio subentrava il discredito: altra iniziativa del mondo politico è stata quella di dipingere i drammatici racconti della giornalista come una campagna antipatriottica rivolta contro la grande madre Russia.

Una matrigna la Russia putiniana che, sin dal primo incarico dell’ex agente del Kgb al Cremino nel 1999, ha dichiarato una guerra privata alla vita dei liberi giornalisti per stroncarne la professionalità posta al servizio del mondo intero. Ne sono scaturiti decessi d’ogni tipo: colpi d’arma da fuoco, avvelenamenti, investimenti, morti accidentali e misteriosissime come trame d’intrighi internazionali ben antecedenti alla stessa “Guerra fredda”.

La testimonianza sempre più diffusa che la deregulation del mestiere dell’informazione vede un crescente numero di free lance presenti nei luoghi più ostici e difficili per scrivere, fotografare, filmare è diventata negli ultimi anni una spina nel fianco di quel potere che non vuole mostrare la faccia lugubre della propria ferocia, l’illegalità di tante azioni, immacolate a parole e di fatto grondanti di sangue e di criminale crudeltà.

Accadeva anche cinquant’anni or sono però gli strumenti di comunicazione erano meno sofisticati. Naturalmente non basta la tecnologia, che pure viene incontro al mestiere, la differenza la fanno sempre coscienza e coraggio, e in questo Anja era l’esempio illuminante che le è valso il ricordo di “eroina della libertà di stampa nel mondo” datole dall’Istituto Internazionale di Vienna. Certo a costo della vita perché lei non patteggiava carriere, raccontava quel che vedeva come in questo passo “… Perché metto la parola terrorismo tra virgolette? Perché la stragrande maggioranza di queste persone sono definite terroristi. E questa pratica di “definizione dei terroristi” non ha semplicemente soppiantato, all’alba del 2006, tutte le altre forme di lotta contro il terrorismo, ma ha anche cominciato a creare un numero abbastanza ampio di persone che vogliono vendicarsi, quindi dei potenziali terroristi. Quando i magistrati e i tribunali lavorano non sotto l’egida della legge, ma agli ordini della politica, con l’obiettivo di compiacere la volontà del Cremlino in materia di antiterrorismo, i crimini spuntano come funghi”.

Enrico Campofreda, 17 novembre 2008

mercoledì 12 novembre 2008

DA GESU' A OBAMA, VINCE IL PEGGIORE, PERDE IL PESSIMO




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Stanno arrivando le elezioni. Viene dichiarata la pace universale e le volpi hanno un sincero interesse a prolungare per un po' la vita dei polli.
T.S.Eliot

La politica è l’arte cortese di ottenere voti dai poveri e finanziamenti dai ricchi, promettendo di difendere gli uni dagli altri.
Oscar Ameringer

Quando tutti si dichiarano d’accordo, da Storace, Berlusconi, P2, Paolo-Israel-Mieli, a Svendola, Veltrinotti, Universo Ong, Tavola della Pace e il mio barista, vuole immancabilmente dire che ha vinto la Squadra A e la Squadra B o fa da palo, o è sodomizzata. Così sull’11 settembre, su Saddam, su Mugabe, su Milosevic, su Fidel, sull’Auschwitz solo tedesca e assolutamente non irachena, e poi su Dalai Lama e tutto il coccuzzaro della frode ontologica e pure escatologica iniziata con la leggenda del bimbo di Betlemme (ma anche nato a Nazareth) che, integralista ebraico antiromano, è stato fatto passare da una serie di protagonisti del “Male assoluto” per figlio di dio e salvator mundi. Il gruppuscolo di licantropi che spadroneggia sul mondo, da duemila anni se ne fa punta di lancia al narcotico, quando non al cianuro. Tutto ciò ha fruttato imperi, montagne di talleri e di morti, nonché il rincoglionimento di miliardi di nati sani. La frode dell’ologramma Obama, nel nostro piccolo Veltrobama, sta a quella del Cristo come lo studio ovale sta a San Pietro. Ma sempre gran pacchi sono. Hanno entrambi per fondamenta l’inganno e sono costruiti con ossa umane (e non) e cementati con sangue e materia cerebrale raccattata all’ammasso gestito da zecche come Gianni Riotta e Raffaella Carrà.
Il mantra, vuoto ma ipnotico, “cambiamento”, ripetuto dal candidato come l’ora pro nobis di una novena e così esaltante per tutti coloro che se ne sono sentiti liberati dalla necessità di dire qualcosa di vero, fa il paio con l’ossessiva “innovazione” del fu Veltrinotti e dell’attuale Svendola. Traveste l'inculata. Doveva presagire un’elezione storica, una rivoluzione nonviolenta, un sogno avverato, una breccia, la fine del razzismo, il dialogo, la pace. Contagioso come la peste bubbonica, sul mantra ha surfato, nel coro dei nostrani sicofanti mediatici, tutta la ciurmaglia di mignotte, lenoni, nani, ballerini e mafiofascisti che sgoverna questo naufragato detrito di pianeta. Vi si sono inebriati i protagonisti del continente più massacrato dalla civiltà di cui Obama si erge a leader, l’Africa, le plebi lobotomizzate del Vecchio Continente, Abu Mazen, Karzai e Al Maliki, prontamente riconfermati sui loro scranni di pelle umana, cuscini d’oppio e dollari, i gay che finalmente potranno fare la cazzata che finora era inflitta solo a generi diversi e, stendardi nonviolenti al vento, ecco che nelle retrovie avanza la banda stracciona dei corifei di tutti i padroni con riserva di poltrone o strapuntini… Qualche doverosa riserva è venuta solo da popoli e leader dell’America Latina e dai russi tornati avveduti, ma decisi garanti degli equilibri internazionali e quindi della deterrenza ai killer-robot euro-israelo-statunitensi. Prima ancora, ovviamente, da tutti gli arabi sulle cui ferite brucia il miele al veleno schizzato da Barack Obama quando strisciò tra i patiboli allestiti per i palestinesi nel salone del suo incontro con l’AIPAC, l’onnipotente lobby sionista di Washington (a proposito: non Barak, come ripetete dieci volte nel vostro commento, cari vernacolari della Rete dei Comunisti che ve la tirate con i vostri report, ma Barack!).

Niente da dire, per carità, sul gran movimento di giovani speranzosi e di buona volontà suscitato da questo illusionista, né sulla svolta in nero nella percezione maggioritaria (?) e sul citofono della Casa Bianca. Se sono rose fioriranno. Ma se, assistendo all’immancabile spappolamento del genio uscito dalla lampada dei 40 ladroni, questi giovani si incazzano, si potrà sperare nella spinta per un cambiamento un tantino meno fasullo. Se la disillusione non genererà sacra collera, s’acqueteranno mortificati e torneranno a fare i marines e accendere mutui. Se la veda uno psicologo delle masse. Quello dello tsunami del “cambiamento” purchessia era un imperativo di sopravvivenza per una elite occidentale trascinata nel fango morale e nel crimine organizzato agli occhi di mezzo e più mondo. Due grandi, sanguinarie guerre perdute, l’assalto e la distruzione di Haiti, le guerre per interposti ascari (oggi in Congo) contro i popoli e per le risorse dell’Africa, i golpe tentati o realizzati in casa altrui, lo sterminio degli osseti, l’obliterazione del diritto internazionale, Guantanamo, i rapimenti e sparizioni di “sospetti”, la tortura sancita a livello del mentecatto in capo, le guerre economiche e poliziesche interne contro la libertà e la salute, la militarizzazione di ogni aspetto della vita, l’orrendo degrado culturale diffuso per ogni dove, guitti-mannari, guitti-batrace. guitti-coniglio, guitti-frankenstein, installati ovunque a garantire dominio, rapina, traffico di droga e di esseri umani, il travaso della ricchezza collettiva nelle mani di quattro vampiri, la corsa senza ostacoli verso un’ineluttabile fine dell’umanità… Insomma piovevano re nudi da ogni parte e i ragazzini incominciavano a berciare che di vestiti sul re non v’era traccia. Piuttosto che sventrare la città, ora convenivano le tangenziali. E il pendolo pendolò. Da destra a sinistra, come cinguettano il colto e l’inclita? No, da destra a destra.

Cossiga, D’Alema, Fini: li chiamavano Trinità
Permettetemi un excursus. Chiunque prenda in mano la penna di questi giorni non può tralasciare di far conoscere a chi avesse saltato altre fonti, le naziteorie del delinquente psicopatico che, sulle rughe avvizzite da vecchio sadico, ha inciso tacche intitolate Gladio, Giorgiana Masi, Moro, giudici-ragazzini e, ora, maestre-ragazzine. Godendo della manufatta paura grandinata sulla gente dall’operazione “guerra al terrorismo”, guerra ai migranti, ai rumeni, ai rom, ai tifosi, alle baby-gang, agli anti-discarica, ai pedofili, ai piloti ridotti in mutande, ai facinorosi”, come di una scelta strategica del potere (che lo fosse l’avevamo detto prima noi), ne ha sollecitato al capo delle forze del G8 un’illimitata escalation tramite città a ferro e fuoco e, auspicabilmente, il morto ammazzato (ovviamente dai suoi celebrati infiltrati). Morto da “provocare odio per i manifestanti”, perchè preferibilmente semplice astante, innocente quanto lo sono i civili fatti a pezzi dagli amici di Al Qaida, mandanti Cia, Mossad e MI5, come sempre, ma capri espiatori i subumani iracheni. E lui ancora il subappaltato preferito di costoro. Cosa aspetta qualche epigone di De Magistris o Forleo a incriminare il decrepito stragista? Mica è retroattivo il Lodo Alfano. O il piduista di Arcore è stato capace anche di questo? Non si riesce a capire se fa più ribrezzo costui, o l’eterno buggerato D’Alema (covata Togliatti-Berlinguer) nel matrimonio morganatico con l’ex-post-tuttora-fascista Gianfranco Fini. Sono i livelli della nostra politica: al flirt monosessuato Veltroni-Casini, con sul retro della carrozza i paggetti Svendola-Mussi, si risponde tosto con la bicamerale rosso-nera per fare il presidenzialismo, magnifica ossessione del furbetto del quartierino con i baffi. Giustamente a costui, come a tutta la camarilla, le esternazione da manicomio criminale di Cossiga non fanno un baffo. Va anche osservato che i meriti dei figli non ricadono sulle madri. Come avrebbe potuto altrimenti Heidi Giuliani, nominare, in un battibecco con me all’Ambra Jovinelli, il co-squartatore della Jugoslavia e potenziatore della Nato d’assalto, “il ministro degli esteri più a sinistra della nostra storia”?

La continuità tra il farabutto bianco idiota e l’astuto farabutto nero è stata chiamato a confermarla anche Al Qaida, la brigata cibernetica e mediatica della guerra sucia USraeliana, con il cadavere dell’agente Osama Bin Laden risuscitato ancora una volta da supporti audiovisivi per promettere apocalissi terroristiche tra Usa e vassalli, tempestivamente imitato dal partner junior britannico MI5 con l’annuncio che migliaia di jihadisti musulmani si starebbero preparando a far sembrare gli attentati del 2005 alla metropolitana di Londra un dolcetto rispetto allo scherzetto in programma. Tutti alibi e immunità concesse dai suoi sponsor al nuovo capo del partito unico repubblicratico per fare anche di peggio del bambolotto Barbie, suo predecessore. Stesso procedimento dell'11 settembre e seguenti e scusate se, del tutto fuori moda, insisto su quel fatto come sulla chiave di volta del futuro del mondo. A dispetto del bel proliferare di slanci, movimenti, rivolte, manifestazioni, cortei, assemblee, dove sentire le parole “imperialismo”, “terrorismo di Stato”, “guerra", "articolo 11”, capita più di rado che ascoltare una parola onesta da Berlusconi… Vicenza, se ci sei, batti un colpo in testa a questi distrattoni.

Torniamo a coloro che si fanno di extasi obamaniaca e, tralasciando il già riportato elenco di nequizie di questo Mago Otelma con gli stivali da Obersturmbannfuehrer, passiamo al suo primo e strategico atto da presidente in pectore: la nomina a capo dello staff presidenziale, e quindi suo braccio destro, di Rahm Israel Emanuel, un personaggio che si colloca alla destra perfino dell’esperto di Torri Gemelle, Dick Cheney. Figlio di un killer delle bande terroristiche israeliane Irgun e Stern, le Sturmabteilung (S.A.) dei macellai sionisti negli anni ’40-’50, capeggiate dai futuri premier Begin e Shamir, il Richelieu di Barack è cittadino israeliano e come tale ha servito Israele nel primo assalto all’Iraq laico, progressista e baluardo antimperialista. Se c’è uno con un curriculum di sottomissione della politica estera Usa ai demoni della guerra e del genocidio israeliani, costui è Rahm Israel Emanuel. Organizzatore dell’incontro Obama-AIPAC, nel quale la “speranza nera” ha leccato via il sangue palestinese da una dopo l’altra delle suole dei più potenti e feroci lobbysti sionisti Usa, gli ha fatto subito promettere a Israele, oltre all' appoggio a ogni futura nefandezza militare e pulizia etnica, nonché alla teocrazia ebraica etnicamente pulita, dieci bei miliardi di dollari del contribuente statunitense. E’ tale l’ultrasionismo del soggetto da aver chiesto che fosse cancellato il discorso al Congresso dell’ascaro iranian-iracheno Nuri al Maliki, solo perché questo mercenario si era leggermente adontato dei bombardamenti nazisionisti sul Libano. Bombardamenti ovviamente da lui salutati con standing ovation. Emanuel, comunque, non è solo: nel nuovo establishment: attorno all’eletto ci sono figuri come Ross, Rubin, Brzezinski, che sul bavero hanno le stelle e striscie, con spade, e sotto gli artigli la stella di Davide.

Ma le perle nella collana intrecciata da Obama davanti alle folle plaudenti sono tante: il ritorno alla leva obbligatoria (per ora di tre mesi) per tutti i giovani tra liceo, università, fabbrica e disoccupazione, visto che “se l’America deve fare una guerra, non solo alcuni, ma tutti gli americani la devono combattere”; l’esaltazione dello squartamento dei popoli jugoslavi, caro ai pataccari pacifisti di Sarajevo e Sebrenica e consacrata dalla nomina a segretario di Stato nientemeno che di Richard Holbrooke, il boia dei Balcani. Un lieve e lento ritiro dall’Iraq che si lasci dietro una colonia desertificata e depredata, con basi d’assalto verso chiunque (proprio come l’Italia); un potenziamento della Nato a 360° d’intervento missilistico e nucleare; una promessa di sterminio bombarolo per i popoli dell’Afghanistan e Pakistan; eulogie commosse per il generale Petraeus, autore della carneficina irachena detta Surge ed esperto, quanto il collega Negroponte, di squadroni della morte contro iracheni e afghani che non si lasciano vincere o corrompere; critico del Piano Nafta per la spogliazione del Messico a vantaggio di Usa e Canada, ma solo per potenziare le mascelle delle loro multinazionali e, per converso, fautore del Piano Alca con cui Bush ha tentato, finora invano grazie a Chavez & Co., di divorare genti e cose latinoamericane; totale sostegno ai gangster georgiani che hanno massacrato l’Ossezia; Ucraina e Georgia arruolati nella Nato; sfrenata bellicosità contro la nuclearizzazione pur solo civile dell’Iran (ma questa è la solita finta che deve gratificare i persiani di “antimperialisti” e tener buoni gli invasati di guerra israeliani); l’incondizionata presa in consegna dai neocon sia della sceneggiata guerrafondaia e fascistogenica della “guerra al terrorismo”a raggio planetario, sia della cosiddetta ”guerra alla droga” che, come Colombia e Afghanistan ribadiscono, serve al controllo Cia del flusso di narcodollari verso Wall Street; sostegno alla pena di morte inflitta direttamente, oppure tramite centrali nucleari e a carbone (alla faccia dello suo fan Al Gore), o ancora con bombe; silenzio e, dunque, implicita accettazione sulle mostruosità dittatoriali del Patriot Act e connessi provvedimenti bushiani per la soppressione dei diritti civili e lo Stato di polizia; intercettazione di tutte le comunicazioni Usa (l’assoluzione dei cui responsabili privati è stata da Obama votata); la scelta a proprio vice di un ultrareazionario come Joe Biden, che, in sintonia con Bin Laden, ha già promesso una gravissima crisi internazionale nei prossimi sei mesi, magari provocata con l’installazione dei missili e radar antirussi in Europa orientale e conseguente demenziale corsa al riarmo universale, pure queste garantite da Obama; infine un’appassionata adesione al cosiddetto liberomercatismo, il neo-protocapitalismo dei Chicago Boys con le baionette. Adesione strillata ai quattro venti con il voto a favore degli 850 milioni di dollari rubati ai cittadini e flebizzati ai bancarottieri della stirpe di Mario Draghi, nonché con l’inclusione nel proprio staff nientemeno che di Paul Volcker, già presidente della Federal Reserve e scaricatore dei 10 trilioni di debito Usa sulla pelle della popolazione mondiale. E' per tutti questi meriti che a Obama sono arrivati più soldi di donatori che a qualsiasi presidente imperialista del passato e, nelle ultime due settimane, davanti alle impresentabili figuracce McCain-Palin, tutte dalla crema delle grandi corporations e banche della cupola.

E “il manifesto”, con metà delle sue venti pagine impegnate a iniettare aria nella floscia mongolfiera dell'evento? Lo specialissimo inviato negli Usa, Marco d’Eramo, dopo averci spallato per settimane con inani pettegolezzi e cronache apologetiche sull’Helzappoppin elettorale statunitense, da cui nulla assolutamente traspariva di quanto sopra, onde non turbare l’estasi delle varie Mariucce Ciotta (transfuga dall’idolatria hillariana), sulla limpida figura della testè nominata zampa destra di Obama, ecco cosa ha da insegnarci: Rahm Emmanuel, 49 anni, deputato di Chicago, efficace procacciatore di fondi per le campagne elettorali e politico micidiale”. Già, “micidiale”. Ma perché? D’Eramo non ce lo dice: lobby hébraique oblige. “Politico micidiale”, punto e basta. Il resto sotto il tappeto. Magari così si pensa che sia micidialmente bravo. Bravo tu, Marco, che hai contribuito all’onirica ipnosi di tutti i politolabili del paese. Rendiamo grazie a qualche collaboratore esterno, come Manlio Dinucci o Eduardo Galeano, che in questa melassa tossica sono riusciti a inserire un grumo di verità.

A parte che, per non vedere la continuità strategica dell’imperialismo Usa tra il Monroe dell’800 e Obama, c’è chi usa caleidoscopi per occhiali, sembra incredibile che, alla luce di esperienze secolari che hanno visto gli stessi interessi e gli stessi briganti cavalcare prima un buon Gesù e poi un Alessandro Borgia, S. Francesco e poi Torquemada e, all'inverso, il diabolico Nixon seguito dal quasi beato Carter, o un aitante giovanotto erotomane e falsario nel bel mezzo del tris del castigo evangelico Reagan-Bush-Bush, non ci si voglia accorgere che la centrale degli stupratori fa cambiare maschera al suo pupazzo incoronato a seconda del vento che tira. Quando l’hanno fatta troppo grossa e l’incazzatura dilaga, ecco sugli schermi avvolgerci un rotolone gigante di carta soffice e rosa, All’occorrenza nera. Ha fatto più danni ai suoi uno Zio Tom che tutti gli incappucciati dell’Alabama. Non vedete come sta diventando carino e accomodante il caporione fascista nostrano, in vista della successione al guitto-mannaro? La nomina gli è arrivata direttamente da compari come D’Alema. Marcegaglia, Riina o Consorte. E anche il Mossad è contento. Di quell’altro, come dello psicolabile di Washington, non se ne poteva più. Tanto il lavoro di base e bell’e fatto il solco è tracciato. Ci penseranno Obama e, qui, Maroni a difenderlo. Fuori Berlusconi dentro Prodi, fuori D’Alema dentro Berlusconi, fuori Berlusconi dentro Prodi, fuori Prodi dentro Berlusconi, fuori Berlusconi dentro Fini. Noialtri siamo più monotoni. Ma la puerpera è attivissima e il tornello gira, gira, gira.

Abbiamo un cinico potere che fa parlare il ventriloquato pupazzo di Rinnovamento della leadership americana su tutti e gli fa dire che la sopravvivenza della libertà nel nostro paese dipende in misura crescente dal successo della libertà negli altri paesi. Parole identiche a quelle del Bush appena insediato. Ci cascano coloro che pensano ai monaci tibetani come ai difensori della Comune, o che nel baraccone di Padre Pio si faccia beneficenza. Si tratta di nient’altro che del PNAC (Programma neocon per il nuovo secolo americano, 1998, quello che invocava una nuova Pearl Harbur), vale a dire di un piano per la guerra perpetua e per interminabili destabilizzazioni di Stati altrui. Vedrete che i portatori di libertà e democrazia torneranno a parlare di Darfur, Nyanmar, Siria, Somalia. E per chi non ci sta, Torri Gemelle. Già le hanno annunciate. Nessun presidente che si rispetti ne può fare a meno. Ci sarà da ballare. Teniamoci forte e grattiamo via la vasellina.

Ultim’ora. Obama ha avuto il sostegno del micropartito comunista statunitense. Sono quei “comunisti” che stanno nel governo-fantoccio di Al Maliki, quei comunisti che appoggiarono i carnefici argentini, quei comunisti che pugnalarono alle spalle il Che Guevara. Quei comunisti che ostacolarono le nazionalizzazioni di Nasser e Saddam dicendole, con le cariatidi di Mosca, avventuristiche. Si chiamano ancora comunisti, mentre sono solo spillette arcobaleno della pace sul bavero dei tifosi di professionisti armati in parata. Remember Bertinotti. Qualche volta penso che ci tocca cambiar nome per ridare credibilità alla sostanza.

lunedì 3 novembre 2008

TOUT SE TIEN



Operatori cossighiani a Piazza Navona



Non confortare gli afflitti
Ma affliggere i confortati


La democrazia è la forma di governo che sostituisce il voto dei molti incompetenti
con l’elezione dei corrotti pochi

(George Bernard Shaw)

Qui si parla della burla del suffragio universale. Ma, prima, un omaggio al vincitore tattico e strategico della contesa. Licio Gelli. Anche perché vengono tutti insieme, Cossiga dalle zanne nere, i suoi ascari fascisti, Don Gelli Strage e i due tentacoli che la piovra Usa ha mandato in scena a fingere di battersi per stabilire chi alimenta meglio il mostro.
Cossiga, dunque mandante dell’assassinio di Giorgiana Masi e teorico del terrorismo di Stato ha parlato. Il suo capo mandamento in Arezzo è balzato sulla scena nazionale attraverso gli schermi di Odeon TV e ha immediatamente vaticinato le pistolettate e le bombe di cui, tra Banco Ambrosiano e strage di Bologna, è il migliore conoscitore. I suoi nipotini in P2, Berlusconi e l’imperituro Cicchitto, premier e porta-voce-del-padrone, con l’intera truppa di imitatori, si sono sbellicati dalle risate e dai battimani. E poi il poliziotto “buono” e il poliziotto “cattivo” che, carburati dal complesso militar-industriale-finanziario statunitense, eseguono sketch di varietà in cui gareggiano per inchiappettare il pubblico. Tutto questo sono ghirigori in un tessuto che prova ad avvolgere il mondo. Un’unica grande mafiomassoneria che si pretende articolata in deviata e deviante e assume anche forme innovative dove elaborare i suoi progetti e affiliare i suoi confratelli: Trilateral, Bilderberg, Davos, Ku-Klux-Klan, Opus Dei…

La carabina a due canne Gelli-Cossiga, cacciata in mano ai reparti d’assalto e alle UIP (Unità di Infiltrazione e Provocazione) di piccoli orchi fascisti coperti alle spalle dai grandi orchi in divisa o doppiopetto, ha sparato sulle avanguardie di quelle milionate di nuovi disoccupati, di morti di fame, di inquinati, di disperati, di incazzatissime foglie al vento, di schifati dei costosissimi militari nelle strade e sul groppone di altri popoli, che vari segni annunciano all’orizzonte del deserto dei Tartari (questa volta veri). Prevenire è meglio che curare. In ogni modo ci saranno eventualmente gli stadi e il modello bushiano di sequestro, tortura e sparizione degli incomodi, stadi di cui il Venerabile minacciatore di stragi ha guadagnato ampia padronanza in Argentina e in Cile. Tanto che ancora adesso, dopo la fattiva esperienza del collega Delle Chiaie in quel continente, i fascisti pro-Usa della Bolivia ricorrono per i massacri (18 contadini indios sostenitori di Evo Morales) al collega successore Diodato. Insomma, o questa insurrezione collettiva di “facinorosi” si fa spegnere a forza di maldicenze e menzogne, infiltrazioni, minacce e stanchezza, o si ricorre alla fase risolutrice: la militarizzazione dello scontro. Funzionò negli anni’70-80, funzionò (non tanto) con il movimento nordirlandese. Cossiga dixit.

Incidentalmente, c’è voluto Grillo a farci un ritrattino conciso ma agghiacciante del Venerabile, dopo che “il manifesto”, in un quarto di pagina, era riuscito a raccontare l’enorme indecenza del malfattore-conduttore, senza l’ombra di un riferimento ai suoi trascorsi criminali e di strategia politica reazionaria e senza neanche un accenno alla piena implementazione del “Piano di Rinascita” da parte degli eredi dello zombie aretino.

Passiamo a quello che tutti ancora trattano, frantumandoci i testicoli, come l’importantissimo, decisivissimo voto presidenziale statunitense. Tanto da rimbecillirci da settimane con la rappresentazione, ornata di indigene elucubrazioni, del vuoto incartato che rimbalza tra McCain e Obama, accompagnato occasionalmente dalle stelle filanti delle castronerie o infamità che spurgano dai loro succedanei, Biden e Palin, in rissa per chi sa mitragliare meglio alci dagli elicotteri e, all’occorrenza, altro materiale semovente. Ci credono in troppi che in Usa ci sia il suffragio universale, massima conquista di civiltà, e parteggiano pure, inclusi alcuni nostri compagni, per l’una o per l’altra delle facce di questo gabbamondo bifronte. Invece il suffragio universale è un po’ che non c’è. Se mai c’è stato, vista la potenza di fuoco praticamente monopolistica esercitata in continua escalation sui mezzi di comunicazione-informazione-formazione dai poteri costituiti. Chè, secondo voi i fan di “Amici”, Fede, “Isola dei Famosi”, Vespa, hanno potuto conservare il libero arbitrio? Già fanno fatica in Italia poiché cattolici. Chè, secondo voi nell’Ucraina arancione si è votato correttamente? O nella Georgia del gangster Saakashvili? O Nell’Iraq dei fantocci addestrati in Iran? Possiamo star sicuri che là dove quel nido di zecche dell’OSCE ha convalidato risultati elettorali, ci siano stati dolo, estorsione, intimidazione, falsificazione, pirateria, frode. Mentre dove alzava il sopracciglio della riprovazione, probabilmente le cose sono andate come si deve. Basta pensare a Venezuela, Bolivia, Bielorussia, Cecenia… .

Noi, come al solito, ci coprimmo di ridicolo come meglio non avrebbe potuto fare Totò con le sue vittime. Elezioni 2006, sotto il ferreo controllo del ministro Pisanu, già socio del noto Flavio Carbone (“Suicidio” Calvi, Banda della Magliana), i voti affluiscono molto lentamente. Pare il Gabon, non la settima potenza industriale mondiale. Poi, in mezzo alla notte, inspiegabilmente si fermano per un bel po’. La macchina perfetta finisce come un giochino dell’uovo Kinder. Sul luogo dell’incantesimo, che ha alle spalle sondaggi di gran lunga favorevoli al Prodi del secondo “Centrosinistra”, si precipita un bonzo diessino, credo Fassino. Dopo qualche chissacchè, il flusso riprende. Chissà che non fosse sbagliato per difetto il calcolo di quanti voti bisognasse spostare da un campo all’altro, o che lo spostamento non fosse stato vanificato da quell’irruzione. In ogni caso un bel 52-53% berlusconide preordinato si ridusse a qualcosa come il 49,9% Ma i consanguinei moderati vinsero per un pelo e non per quel 6-8% di vantaggio che gli era stato assegnato. Anestizzato e passivizzato da un quarto di secolo di civiltà reganian-berlusconide-bertinottesca,

il pubblico assiste alla commedia degli inganni tra il sonnolento e l'incredulo. Voci isolate gridano nel buio delle coscienze. Ma quelle stanno ancora lì a guardare il sipario calato.

Nelle pagine di estenuante cronaca sui cristianodementi dell’Utah, come sui trogloditi in stivali texani, o sulla vispa vipperia di Manhattan, non s’è trovato granchè circa la vera natura del baraccone che da sessant’anni cambia solo insegna o cameriere e mai gestione. Basta far incontrare uno dei 45 milioni di esclusi dalla sanità con i loro nonni, o qualche coreano con un iracheno. Ci hanno costretto a rimirare il vertiginoso rimescolio di una pappa idiota e immonda nel’intento di farne sorgere una ricca e luminosa maionese. Ma è maionese impazzita, le uove erano marce. Parlar di elezioni regolari negli Usa e come parlarne nel Paese dei Balocchi. L’omino di Burro, che guida il carro degli infinocchiati, risiede a Wall Street, ai due candidati festanti si addicono i panni di Pinocchio e Lucignolo, asini destinati a rafforzare il traino della carrozza.

E da mo’ che negli Usa le elezioni sono una farsa. E una latrina. Nel 1964 Lyndon Johnson fregò il rivale repubblicano Barry Goldwater, innestando un suo agente Cia, Edward Hunt, nel Comitato Democratico Nazionale, in funzione di spionaggio su ogni mossa del rivale e di sabotaggio. Nel 1972 Nixon effettuò varie attività criminali, furti, intercettazioni, inclusa l’irruzione nel palazzo Watergate, per distruggere il concorrente. George H.W.Bush vinse nel 1988 per essere riuscito a demolire il “liberal” Dukakis inventandosi un suo rapporto con uno stupratore assassino nel Massachusetts. Lo imitò il figlio caprone, al primo turno, costruendo addosso al rivale John McCain (toh, chi si rivede) il ruolo del cinico padre segreto di una bimbetta nera (che, a giochi fatti, McCain provò essere la figlia Bridget, adottata in Bangladesh) e il consorte di una tossicodipendente.

La tecnologia avanza e perfeziona la sciarada snodata ogni quattro anni davanti agli occhi ammirati del mondo (la dalemiana “Grande Democrazia”, il natzingheriano “Modello etico del mondo”). In Florida, Stato del mafioterrorismo cubano, da tutti ritenuto responsabile dell’uccisione di Kennedy, governatore Jebb-fratellino minore-Bush, un conteggio chiesto da Al Gore nel 2000 lo mette alla pari nazionale con Dabeliu Bush. La Corte suprema vieta i riconteggi, e foderata di soggetti scelti dal papà ex-capo Cia, assegna ex cathedra la vittoria a George. Quanto alla tecnologia, è stata abilissima, seppure ancora artigianale, a lasciare penzoloni dalle schede elettorali perforate frammenti di carta: voto invalido. Voto nero, voto povero, sempre quello. Il mondo, incosciente come sempre, rise. Fidel e altri gridarono al vento. Rimanemmo ascari, complici di un cretino usurpatore e del sistema che continuamente si sgrava di tali soggetti. Quattro anni dopo, tra intimidazioni a elettori sospetti (basta una multa e si sa come sono indisciplinati i neri e i conducenti di carcasse) e conseguenti registrazioni nelle liste elettorali negate, conteggi adulterati da fiduciari di partito, quintalate di schede rinvenute nei fossi e nelle discariche (è successo anche da noi), registrazioni di voto con macchina elettronica adulterata, o il cui flusso è stato manomesso in corsa, centomila voti dell’Ohio (dove chi decide chi deve votare è uno sgherro del governatore repubblicano) e quanti bastava in Florida, spostarono la vittoria da Kerry, premiato dai sondaggi anche lui, allo psicolabile palo dell’”Operazione 11 settembre”. Chi forniva e gestiva le macchine elettorali era la società Diebold, amica e finanziatrice di repubblicani. Lubrificò questo travaso Bush, trovando 16 presunti testimoni di un Kerry millantatore e mentitore quanto ai suoi premiati eroismi vietnamiti. Risultò che il testimone era uno solo, il quale ritrattò. Troppo tardi.

Oggi abbiamo due famelici guerrafondai colonialisti, uno puntato per ora su Iraq e Palestina, l’altro su Afghanistan-Pakistan-Palestina che, nel delirio dei loro pubblici o invasati o rintronati, si lanciano secchiate di merda. Il risultato, credo, lo deciderà chi ha in mano la macchina, cioè la ciurma attuale. Probabilmente con minore imperizia del noto Pisanu, non per nulla mai confermato. Uno dei due ha già fatto la sua parte governando, in combutta con lo stragista cubano Posada Carriles, il traffico dollari-cocaina-armi all’Iran che alimentò le bande Contras in Centroamerica. Ma il rattrapito McCain non è sazio dei 20mila nicaraguensi ammazzati allora. L’altro, che per il primo, nel segno della correttezza, non è che un terrorista islamico, lo ha bruciato con l’esibizione della più untuosa piaggeria sionista e con le ben più solide (grazie al rinnovato entusiaasmo internazionale) prospettive per gli sponsor dei cannoni, dell’agrobusiness, delle banche. Entrambi sono ignoranti, incompetenti, cinici e brutali. Entrambi ci confermano che capitalismo e democrazia sono antagonisti. Fin da quando 530 Grandi Elettori, fior fiore della corruzione-concussione di regime, hanno avuto per legge la prevalenza sul voto di milioni. E ce lo confermano anche le nuove macchine elettroniche Diebold che in televisione abbiamo visto già spassarsela: premi il tasto “Barack Obama” ed esce il tasto “John McCain”. In Ohio basta che succeda qualche centinaio di volte. E noi, lì, a parlare di democrazia. One solution, revolution.