A Collodi
Se c’è un borgo che rappresenta l’Italia
in quella che dei fantocci cartonati, fantaccini del mondialismo azzeratore,
deridono o stigmatizzano come identità, dileggiando l’opera sinergica di natura
ed esseri viventi nel corso di migliaia d’anni, per me è Collodi, in collina
sopra Pistoia. Un borgo che si conquista risalendolo e che si perde scendendo.
Non per nulla è da un paese così che è nata una delle più grandi opere della
letteratura mondiale. Non per nulla il suo creatore, Carlo Lorenzini, s’è dato
il nome d’autore di quel paese.
Un libro, Pinocchio, che, come succede per i capolavori assoluti, ogni volta che lo rileggo vi trovo un nuovo strato dell’edificio della conoscenza. Come succede con le vette più vicine all’Olimpo, meglio, al cielo, più dentro al cosmo: Omero, il teatro dei greci, di Shakespeare, di Pirandello, la Divina Commedia, il Faust, La figlia di Jorio. Da quel genio del profondo e difficilmente visibile che era, Carmelo Bene ha fatto Pinocchio a teatro, dando a questo supremo romanzo di formazione l’introspezione necessaria a tirarne fuori le verità scomode, occultate dalle verità comode di superficie. Facendo della solita fatina buona e maestrina, la madre megera che si agita nel nostro inconscio fin dai lontani millenni del matriarcato. Quella anche di Haensel e Gretel.
Un libro, Pinocchio, che, come succede per i capolavori assoluti, ogni volta che lo rileggo vi trovo un nuovo strato dell’edificio della conoscenza. Come succede con le vette più vicine all’Olimpo, meglio, al cielo, più dentro al cosmo: Omero, il teatro dei greci, di Shakespeare, di Pirandello, la Divina Commedia, il Faust, La figlia di Jorio. Da quel genio del profondo e difficilmente visibile che era, Carmelo Bene ha fatto Pinocchio a teatro, dando a questo supremo romanzo di formazione l’introspezione necessaria a tirarne fuori le verità scomode, occultate dalle verità comode di superficie. Facendo della solita fatina buona e maestrina, la madre megera che si agita nel nostro inconscio fin dai lontani millenni del matriarcato. Quella anche di Haensel e Gretel.
Quando dal paese dei balocchi si esce somari
Questo ampio preludio vuole rendere
omaggio a un personaggio, burattino, diversamente da tutti noi, solo di se
stesso, che da sempre mi insegna a gettare abbecedari in testa al politicamente
corretto. Ma apre anche a un mio sacrilegio nei confronti di Collodi, quando mi
permetto di sostituire a una sua allegoria un’altra, che mi pare più consona.
Nel Paese dei balocchi, dove sollecitato dall’infiltrato liberista Lucignolo e
trasportato dal pusher Omino di burro, a forza di giochi, coca e assenza di
scuole, i ragazzi diventano tutti ciuchini. Animale malscelto. Il ciuco è
politicamente scorrettissimo e fa di testa sua più di qualsiasi quadrupede. Un
po’ come il bassotto rispetto agli altri cani. Se proprio avesse voluto rappresentare
l’azzeramento della maturazione dei ragazzi
con simboli animali, cosa mai rispettosa nei confronti di animali che,
per l'intelligenza nello stare in armonia con il loro habitat, ci superano tutti
quanti, avrebbe potuto usare i polli. Meglio,trattandosi di regressione, si
potevano, che so, trasformare i piccoli homines sapientes in homines erecti. La successiva catastrofica involuzione del sapiens – come illustrata nell’immagine - il buon Collodi non la poteva immaginare. Con
Pinocchio alla macina, s’era fermato al lavoro salariato.
Un lungo sproloquio per dire che qui
ci prendono per somari nel paese dei balocchi. Anzi, come metaforizzato nella
correzione al maestro, per homines neanche
erecti. Ma ci va anche peggio. Molti
di noi, quasi il 38%, si stava dando da fare per regredire allo stato di homo salvinianus, ulteriore
degenerazione del homo pidinus, che
già era la fase involutiva del homo (demo)christianus.
Paese dei balocchi quel Trastevere
zeppo di Lucignoli e omini di burro. Noi, ciuchi a cui rifilare le girandole scoppiettanti
dei due balordi con pugnale, del pusher invisibile, dell’intermediario che per
l’intera notte intrattiene rapporti fisici e telefonici con l’apparato d’intervento
dei CC. I quali, con ben quattro pattuglie mobili e vari appiedati in zona, girano
a vuoto per mezza nottata nel bailamme della movida tra Trastevere e Prati. Ma
all’appuntamento decisivo con i malviventi si presentano, uno senza la pistola,
“dimenticata” nell’armadietto, l’altro, sì, con la pistola, ma congelata nella
fondina, mentre al collega vengono inferte uno, due, tre, quattro, cinque, sei,
sette, otto, nove, dieci, undici coltellate. E ora arriva anche il dubbio, davvero sconcertante, che i due non fossero neanche in servizio. Cosa ci facevano lì? Neanche uno sparo in aria. Il collega avrebbe rischiato l’incriminazione, ci hanno detto... E allora che il povero
vicebrigadiere si facesse assistere da San Michele.
Ci asteniamo dal trarre conclusioni.
Nel giro di minuti i giornaloni dell’odio e del rancore ci attribuirebbero la “dodicesima
pugnalata” al povero Cerciello. Ci
accontentiamo delle parole del procuratore Prestipino: “… Ma dire che a distanza di tre giorni che non ci siano ancora
aspetti oscuri, sarebbe quantomeno precipitoso”. Oscuri come la notte. Di Trastevere e della
Repubblica.
Peggio dei somarizzati del paese dei
balocchi, forse alla stregua del ciuchino Pinocchio alla mercè del direttore di
un circo che, a forza di frustate, lo fa ballare, saltare il cerchio e
inginocchiare (la fatina dai capelli turchi sta a guardare. “Le avventure di Pinocchio”, cap. 33), ci
considerano quelli che fanno passare per progresso una ferrovia semivuota, che sventra
valli, comunità e montagne, concepita alla fine del secolo scorso e che i
partner francesi, avendone sul loro territorio due terzi, ma pagandone un
terzo, finiranno alla metà del secolo in corso. Quando ci sarà più poco da
trasportare, dato che le stampanti tridimensionali fabbricheranno tutto in casa
e le masse previste viaggiare, chissà perchè, da Torino a Lione, saranno state
decimate dai volo low cost, se non dal calo demografico, dallo scioglimento dei
ghiacciai che avranno inondato le valli alpine con tutti i loro binari e, se
non basta, dalle stragi elettromagnetiche del 5G. Ecchissenefrega, non vogliamo
mettercelo? L’Italia nel mondo passa da qui. Col passaporto ‘ndrangheta che,
finchè dura la globalizzazione capitalista, vale dappertutto.
Sicurezza decchè?
Ci sarebbe da dire del Sicurezza
Bis, binomio di cui ha una certa aderenza alla realtà solo il secondo termine,
visto come siamo messi in fatto di sicurezza nell’era del ministro di polizia e
di tutto. Se di sicurezza si deve parlare, preoccupiamoci di quella degli
africani, arabi, afghani, palestinesi, ai quali la sicurezza l’hanno rubata i
parenti serpenti di Salvini, mentre ciò a cui li consegnano i partner dei
barconisti è la sicurezza del caporale compatriota che ti spolpa per due euro
all’ora, o del boss compatriota che ti fa picciotto della quarta mafia, quella
nigeriana. Mi scaldano poco coloro, detti progressisti o sinistri, che
inveiscono contro le misure indirizzate contro la neo-tratta degli schiavi,
mentre nulla eccepiscono sulle misure che renderanno la partecipazione alle
manifestazioni di studenti, pensionati, pastori, disoccupati, insegnanti,
badanti, operai, a rischio di lazzaretto e carcere. Mi scaldano poco i
provvedimenti, prima dissuasivi e poi punitivi, previsti per chi collabora al
nuovo colonialismo inteso come strumento di dominio, predazione, alienazione,
interne ed esterne, e finalizzato a rimpolpare la bulimica accumulazione dello
0,01% e dei suoi sicofanti. Sarà eterogenesi dei fini, rispetto all’allergia
che i leghisti nel decreto esprimono per i neri, ma ben venga. Come non
pensarci, a scoprire che la giustiziera della Grecia, madrina dei secessionisti
lombardo-veneti, Merkel, era la sponsor e finanziatrice dell’eroina Rackete?
Pirandello e D’Annunzio? Alla colonna infame!
Ancora due temi. Anni fa mi scontrai
duramente con un amico comunista, accanito studioso di Hegel e instancabile
divulgatore di marxismo-leninismo. Degno di ogni rispetto, fino a quando la
conversazione non sbattè contro una montagna sulla quale io stavo assiso e che lui
intendeva spianare: Luigi Pirandello. Dimentico del pur amato Gramsci che, contro
un burocrate sprovveduto che ne aveva sparlato da un palco a Mosca, aveva
difeso il valore eversivo e il talento innovatore del mirabolante creativo Filippo Tommaso Marinetti,
il cui futurismo ebbe seguaci geniali soprattutto nella prima URSS, il compagno
si accanì contro “quel venduto fascista
con la camicia nera che inneggiava a Mussolini”. Essendosi messo la camicia
nera, non valeva niente. Punto.
Pirandello, avrà pure messo la
camicia nera, ma quella parte del cervello che non vi era implicata, cioè il 90
per cento, in quanto generatrice della più spietata, coraggiosa e profonda
critica della degenerazione borghese dell’uomo, era più ontologicamente
antifascista di quanto il compagno duro e puro potesse mai sognare di essere.
Il ricordo di quella disputa mi
porta a Trieste, dove una autentica torma di belluini indignati si oppone all’erezione
in piazza di una statua di Gabriele d’Annunzio. Anatema, in primis perché il Vate flirtava con Mussolini, anzi ne era l’ispiratore;
in secundis, perché l’evento si
voleva collegare alla ricorrenza della presa di Fiume guidata dal Comandante.
Tutto visto, come da quel mio amico del Pirandello abietto fascista, nell’ottica
striminzita, antistorica, settaria di un antifascismo dai toni totalitari e
ottusi.
Cosa resta nel tempo di D’Annunzio?
Il suo pavoneggiarsi nei salotti romani, i suoi tonitruanti manifesti
interventisti, i suoi amori, certe prose turgide e perdute nelle irrilevanze? O
una cultura vastissima che ci ha riavvicinato ai classici e alla letteratura
mondiale moderna? O l’inventore della comunicazione di massa e di strumenti
della modernità? O opere sfrondate dalla retorica del tempo, di indiscutibile
valore e di toccante sincerità, in poesia come in prosa e in teatro. Come “La
figlia di Jorio”, in cui il movimento delle donne dovrebbe vedere una prima rivendicazione
di libertà ed emancipazione dopo l’archetipo Antigone.
Un uomo dei suoi tempi, nel bene e
nel male, ma che li ha trascesi per restare nella Storia. Anche con l’impresa
di Fiume che, se permettete, va vista sullo sfondo di città con diverso hinterland
etnico-linguistico, ma con secoli e secoli di presenza italiana e costruzione
culturale italiana. Sia detto senza l’ombra di un revanscismo territoriale, o
di indulgenza contro le violenze successivamente inflitte ad altri titolari di
quelle terre, ma contro l’unilateralità di chi si attesta su posizioni che
impongono alla realtà storica ex-post rivisitazioni nel nome di ammende che
spettano esclusivamente ai fascisti e al loro tempo.
D’Annunzio arrivò prima. E arrivò
contro la soperchieria e l’arbitrio delle grandi potenze che pretendevano di
imporre, allora come oggi, al nostro paese il destino a loro conveniente.
Quello di Fiume, oltre a comprendere la redazione di un documento
costituzionale, la Carta del Carnaro, che compete con quello della Repubblica
Romana per istanze democratiche e sociali, fu un atto antimperialista, in
difesa di una realtà storica che datava da mezzo millennio. A dir poco. Dunque
D’Annunzio, poeta e protagonista della Storia nazionale, in piazza a Trieste ci
sta benissimo. Gramsci lo gradirebbe. Non era di quelli stolti dell’acqua col
bambino.
Bibbiano? C’è di peggio.
Chiudo con un breve riferimento alla
scellerata vicenda di Bibbiano, dove energumeni dal cinismo subumano si autoinvestivano
del diritto di disporre di vite indifese, fragili, inermi, sulla base del solo
criterio del profitto per sé e i compari, magari sentendosi anche un po’ dio,
come i chierici del potere temporale. Nulla da aggiungere su quanto denunciato
e deprecato. Solo che, ancora una volta, ci rendiamo grandi e incomparabili per
ipocrisia e autocompiacimento. Dove sono le grida di disgusto, rabbia,
indignazione, repulsione, a buona ragione lanciate su questa orripilante vicenda
di dominio sadico, dove sono i pedagoghi, sociologhi, giuristi, educatori,
moralisti, quando sui nostri schermi appaiono, senza remora e senza
interruzione, bambini uguali a quelli manipolati e manomessi, manipolati e
manomessi alla stessa stregua per pubblicizzare un qualche prodotto, perlopiù
truffaldino, o superfluo, o nocivo. Ma anche se fosse la Sacra Sindone!
Che qualifica dare a coloro,
genitori in prima linea, e poi il turpe branco dei pubblicitari, produttori,
mediatori, agenti, confezionatori, grafici, copywriter, dirigenti di TV, che
impongono a bambini senza difese intellettuali e provvisti solo di indebita
fiducia negli adulti, la menzogna, la finzione, la recitazione, il dire ciò che
gli impongono e che ripetono senza poterci credere. Si tratta di violenza senza
limiti. Si tratta di abuso. Si tratta di prostituzione, si tratta di mercimonio.
Insegnano a mentire. Oggi sulla merendina all’olio di palma, o sulla macchina scalda
pianeta. Domani sul Tav. Ci fa schifo la classe dirigente che abbiamo, quando
da piccoli venivano tirati su a forza di ipocrisia, esibizionismo, vanità, con
i loro genitori che li incitavano a dire cose che non pensavano, a sorridere
quando non se la sentivano, a obbedire a venditori di menzogne, insomma a
fingere anziché essere autentici, onesti, veritieri!
Tutti coloro che si sono tanto
spesi, in lacrime, opere e parole per i bambini sui gommoni, nei presunti lager
libici, tra le macerie siriane (solo quelle nelle zone occupate da jihadisti o
curdi), nei traffici di Bibbiano, dove cazzo sono?