Murales di Siquieros Fuoco e ferita
Sempre lì, nel mio Puerto Escondito rinato in Yucatan come Puerto Morelos, in quel pomeriggio di primo autunno ventilato dai soffi di un Golfo il cui carico di morte da petrolio e solventi chimici obamian-BP qui viene occultato, oltreché dalle balle consolatrici di quel binomio tossicogenico, da una barriera corallina che, sgretolandosi nella difesa dall’assalto delle scorie dello sviluppismo yankee, ci salvaguarda qualche striscia di mare cristallino. Un bicchierone di ghiaccio con due gocce di caipirinha me l’ha posato accortamente tra le gambe, stese sul parapetto del “Pelicano” , uno dei 17 camerieri che fluttuano intorno a quattro clienti. A forza di fluttuare e sorridere, stasera forse si riportano a casa cinquanta pesos di mancia, tre euro, quelli giornalieri di due quarti dei messicani. Un altro quarto porta meno o niente. L’ultimo quarto ruba. Il ghiaccio accende e rilancia il riflesso di una forte striatura rosa, la coda a strascico del sole che se ne scende maestoso oltre l’orizzonte. Rispetto ai cenci neri che si addensano in alto e mandano emissari a testare la tenuta della trincea rosa, questa striatura si potrebbe interpretarla come una sanguinosa lacerazione del cielo, o, invece, come l’anticipo di un grande incendio. Il dubbio me lo hanno risolto le donne di Chihuaha e di Ciudad Juarez. Quel rosa alla cucitura di cielo e mare è entrambe le cose, fuoco e ferita. Di donne.
A Città del Messico due sponsor confortano il visitatore nell’illusione del paese di Cielito Lindo, dei Mariachi, canterini onnipresenti in borchie e megasombreri, delle piramidi del mayatour, di Acapulco o, male che vada, del megagalattico Marcos. Uno lo incontri sulla collina che, incoronato di guglie, torri e cupole, più statuona di Woytila, guarda la città dall’alto in basso. E’ la cattedrale della Madonna di Guadalupe, patrona del Messico, fatta apparire dai conquistatori agli indigeni per rimpiazzare una divinità pagana femminile che incitava alla resistenza. Le passano sotto su nastro scorrevole, col naso in su e gli occhi spalancati al miracolo, fiumane di fedeli e curiosi. L’immenso caveau di questo centro commerciale della fede, scintillante di pacchiane lussuosità, imprigiona davanti a un tonante cerimoniere della superstizione qualche migliaio di inconsapevoli negatori della ragione. Ce ne sono diversi che entrano strisciando in ginocchio. Condizione preferita dai corifei dell’idolo che, più sotto, benedicono dai palazzi dell’accoppiata dell’apocalisse: potere secolare e potere ecclesiastico.
Lungo lo stradone intitolato alla “Riforma”, giustappunto alla separazione tra Chiesa e Stato decretata un secolo e mezzo fa da Benito Juarez, a restaurare sul lato militare la trinità Dio, Patria, Famiglia, si snoda una muraglia dietro cui batte il cuore pulsante dell’identità nazionale modellata dai potenti: il quartier generale dell’esercito. Di quell’esercito che, superata la battuta d’arresto del decennio rivoluzionario, 1910-1920 , ha servito il paese con colpi di Stato, caudillos, oligarchie, massacri, sempre d’intesa patriottica con il paterno vicino che al Messico aveva sottratto a fuoco e sangue, a metà Ottocento, il 52% del territorio nazionale. Quel muro lungo tale presidio della nazione è coperto fitto fitto da immagini edificanti e confortanti: militari che soccorrono alluvionati, soldatesse che coccolano bimbetti, giovanotti in camice che fanno evolvere il paese trafficando con tecnologie informatiche, generaloni che decorano petti-in-fuori per le prodezze compiute in Iraq… Una glorificazione dello Stato rilanciata lì vicino, nell’enorme zocalo, dallo sventolio crepitante di mille e mille bandiere nazionali, l’aquila che morde il serpente, luminarie, festoni tricolori, ritratti dei padri fondatori. Orgia di retorica iconografica che vorrebbe incatenare nella fittizia unità nazionale di classe un popolo sottoposto a disintegrazione sociale, culturale, politica. Un popolo decimato giorno dopo giorno, come nessun altro al mondo, da una cosca dirigente che ha fatto del crimine arte di governo. Un popolo tirato per i capelli a celebrare il bicentenario della sua indipendenza da mostruosi burattini manovrati da un burattinaio non soddisfatto di essersi già divorato mezzo Messico. Che impressionante analogia: nel nostro centenario di Stato nazione, indipendenza e unità, esattamente come in questo Messico, la festa è solo di una manica di ladroni, malviventi, terroristi, del tutto analoga alla banda Calderon e a tutte le masnade installate dall’Impero, che l’indipendenza l’hanno venduta, lo Stato appaltato alla mafia, l’unità frantumata e del ricavato di queste spoglie hanno fatto marmi per sé e armi contro i renitenti. E c’è un’altra analogia.
All’uragano di collera e bellezza che, nella seconda metà del secolo scorso, sollevò verso i campi elisi della giustizia e della libertà il nostro paese, la cosca partorita dall’avvoltoio a stelle e strisce reagì con le bombe dell’unità mafia legale-mafia illegale, fino all’attuale trionfo della criminalità su questa comunità di calpesti e derisi. In Messico, laboratorio dell’Impero, si è così risposto a
quanto il retaggio di Benito Juarez ed Emiliano Zapata aveva suscitato nei decenni a cavallo del millennio sotto forma di lotta di classe per autogoverno, rinascita indigena, rivendicazione sociale, uguaglianza, onestà, nuova legalità. Risposta qui corredata dalla stessa criminalizzazione di vertice, con il valore aggiunto dell’assassinio di massa. 30mila uccisi dal giorno dell’insediamento di Calderon, gennaio 2007, al 2010. Un Terrore che ha depravato quello, ben mirato, degli eterni
calpesti e derisi della rivoluzione francese in strumento dei padroni, per una decimazione indiscriminata.
Statua di Pancho Villa a Chihuahua
Emorragie
Chihuahua, capitale dello Stato omonimo confinante con gli Usa, 1500 km a nord della capitale. Quando arriviamo, primi d'ottobre, sono state ammazzate 335 donne dall'inizio dell'anno. Di notte quei sorridenti soldatini da mutuo soccorso, scesi dalle gigantografie di Avenida de la Reforma e rivestiti da terminator spaziali, fanno il vuoto nella città di 750mila abitanti. Nelle strade dal centro storico, chino davanti alla statua di uno scatenato Pancho Villa lanciato al galoppo con la pistola puntata, come in quelle di una periferia divisa tra McDonalds e maquiladoras, le fabbriche Usa della schiavitù femminile, si alternano reparti blindati dalla mitraglia puntata. Scorribande di blindati dell’esercito, poliziotti, paramilitari autorizzati chiamati “Sicurezza privata”, paramilitari tollerati organizzati in bande di sicari e Narco-SUV dai vetri affumicati e dalla scorta di sicari in colonna. E’ la coalizione che, da queste strade desertificate di umanità un minuto dopo il tramonto, attraverso polizia, esercito e magistratura assoldati o perlomeno piegati alla narcodittatura, su su fino a Los Pinos, residenza del capo dello Stato, da dieci anni tiene in pugno il paese e, dal 2006, truffa elettorale di Calderon, quel pugno lo va stringendo al collo del popolo.
Ci accompagnano due giovani temerari, Juanito e Alejandro, ai quali ci hanno affidato Norma e
Irene, dirigenti di Justicia para nuestras Hijas, associazione di donne che, per figlie, madri, moglie, sorelle, vittime tutte, lottano contro le articolazioni del narcostato delle stragi in una città raggelata nella paura. Sopravvive, come in un’iperbarica che vorrebbe essere vetrina della normalità, il mercado al centro della città, con famiglie a spasso, suonatori di musica nordestena, caffé e botteghe affollati, bancarelle di tortillas e tarocco. Questo nelle ore diurne. La notte è di resa dei conti tra cartelli, quello di Sinaloa, dell’invincibile Chapo Guzman, da tutti saputo braccio del regime, contro quelli di Ciudad Juarez, Los Carillo, Los Artistas, Los Zetas, Los Aztecas, dei quali tutti i padrini Usa si dividono i ricavi da droga ricevuta e armi fornite (4 su cinque arrivano da oltreconfine). Dall’alto del belvedere Mirador lo sguardo fa fatica ad abbracciare l’immensa piana, folgorante di luci, della città stesa tra una corona di monti che ricordano la colonna hemingwayana degli “elefanti bianchi”. In lontananza, verso l’uscita dalla città, uno frego più nero: il ponte al quale erano appesi, giorni fa, sei cadaveri con la testa mozzata. Poi un grosso grumo, uno di quei carceri da cui il direttore manda a sparare i suoi detenuti, nell’interesse loro, o suo. E’ successo anche nei giorni del nostro viaggio. La direttrice li aveva addirittura armati. Sono rientrati tranquilli, dopo le esecuzioni. La distrazione del locale pubblico ministero è assicurata.
Una visione di silenzio e pace, quassù non sfrangiata dalle raffiche che, nelle zone oscure tra le luci, uccidono, con disinvoltura che sa di gusto, vittime cercate e vittime casuali. Per poi ritrovarsi euforici da sangue, droga, denaro (rende, l’esecuzione, al sicario adolescente, estratto da miseria, ignoranza e disoccupazione, 30 dollari da scambiare con donne, alcol, coca, abiti vistosi e macchina) in uno di questi antros. Sono discoteche, nelle quali si esibiscono i gruppi con cappello texano dei narcocorridos, le trucide canzoni che inneggiano alla bella e sanguinaria vita dei trafficanti e, con abbigliamento, comportamenti, ambizioni degli eroi narcos diventano costume di molta parte dei giovani sfibrati da miseria e vuoto di futuro. E un affollamento incredibile di ragazze in vesti succinte, giovanotti palestrasti, energumeni attillati nell’abito firmato, tra il sicario e il boss, giganteschi gipponi blindati e oscurati di cui mi metto a riprendere le targhe. Alejandro mi ha spiegato che quelli senza targa, e qui pullulano, appartengono ai fuorilegge. Nessuno se ne da pensiero e se talora vengono fermati, basta un rapido e generoso gesto dal finestrino al poliziotti e la corsa riprende. Arrivare in un tribunale, per un auto senza targa o un corpo senza vita, significa nove volte su dieci essere rispediti all’aperto con tante scuse. Toghe nere. Su me invece si precipita giù dalla scala che conduce al piano in penombra dei gozzovigli dei poderosos, inaccessibile agli altri, un cranio rasato tipo scorta di Berlusconi. “Sono turisti, gli interessano i nostri modelli fuoristrada”, mi cava d’impiccio lo svelto Alejandro. Ma poi ci arriva un saluto che sa di avvertimento: “Buenas noches a los amigos italianos que se encuentran aquì”. Ripetuto varie volte dal cantante dei narcocorridos. Senza sorridere...
Il patio del palazzo di governo è affrescato tutt’intorno da grandi murales di Siquieros e di altri maestri messicani, a narrazione dei trionfi storici di un popolo che ha saputo dare al mondo la prima rivoluzione del ‘900. Un ossimoro se visto nel contesto di ciò che da questo palazzo viene inflitto a quel popolo. Come urla la contraddizione tra questo palazzo e, sull’altro lato della strada, il sacrario di foto, stracci insanguinati, chiodi da crocefissione, che le donne di Chihuahua hanno eretto in faccia ai loro aguzzini. Accusatrici implacabili, le madri de las hijas uccise e poi buttate tra gli sterpi, prelevate all’uscita dalla scuola e massacrate nei riti necrofili dei festini narcos, sacrificate alla depravazione dei fruitori dei video snuff, giustiziate per aver alzato la testa contro lo schiavismo nelle fabbriche dell’assemblaggio Usa, sono ancora una volta giunte in corteo a questo monumento della disperazione e della rabbia senz’armi. Anche agitatrici politiche, oltreché combattenti per la vita e per la giustizia, oggi protestano contro la manipolazione, decisa dal parlamento locale, della Legge della Trasparenza e dell’Accesso all’Informazione Pubblica. In sostanza, una modifica che, berlusconianamente, mette i potenti, i complici nelle istituzioni, al riparo dal diritto democratico della società di conoscere connivenze, abusi, corruzione. Una corruzione che, scendendo per li rami, infetta il paese come una peste bubbonica.
Le Maquiladoras sono complessi di fabbriche, quasi sempre allineate in prima periferia, architettonicamente curate e tra accattivanti prati inglesi. Sono perlopiù statunitensi e assemblano per il prodotto finito, da vendere negli Usa e nel mondo, computer, cellulari, apparecchiature spaziali, automobili, tessuti, utensili, robotistica e altro. Il nostro tentativo di superare la barriera delle siepi fiorite, degli eleganti cartelli con i logo, dei gabbiotti con sentinelle, si infrange contro lo stupore e la diffidenza di chi non si fa capace che qualcuno possa chiedere di mettere naso e telecamera lì dentro. Perché l’interno è un inferno che alle filande ottocentesche narrate da Dickens sta come i tuguri di Teresa di Calcutta stanno a una clinica svizzera (quelle in cui la “santa” andava a curarsi). Luoghi entrambi di abuso, violenza, estrazione di plusvalore, ma i primi con arredi puliti, cessi moderni, aria ventilata che, qui però, si impegna a diffondere in ogni angolo i fumi tossici della produzione, come gli scarichi sversano del tutto impunemente veleni di scarto nei corsi d’acqua che alimentano la popolazione. Ciò che ne fa una riedizione degli orrori di Dickens e della santa albanese è lo sfruttamento alla morte di ogni fibra dell’essere umano, quasi sempre donna, che li è incatenato per 60 euro alla settimana di sei giorni lavorativi, 15 ore di turno (più due di trasporto con le navette della ditta, più il resto per la famiglia e la casa, più nulla), niente malattia, niente ferie, niente sindacati, ritmi da far invecchiare di dieci anni in due, disponibilità alle voglie predatrici di capi e amici dei capi, espulsione alla minima richiesta, protesta, infrazione, magari con conclusione letale se la preda non si presta a un’alternativa dettata dai narcos: spaccio, sesso, prostituzione. E’ il legato del trattato di libero commercio, NAFTA, concluso nel 1994 tra Usa e Messico e la cui estensione all’intera America Latina fu sventata da Hugo Chavez, Lula, Kirchner, al vertice del 2005. Colonne e colonne di vecchi autobus nordamericani, al cambio di turno delle 15, scaricano sulle piastrelle degli ingressi centinaia di donne in spolverino blù, quasi tutte tra i 15 e i trent’anni, che evitano microfoni e telecamere con un fastidio dal sapore di paura. Vanno di corsa. Un minuto di ritardo e il bonus di 100 pesos settimanali, 6 euro, svapora.
Donne a Ciudad JuarezNella sede dell’associazione di Norma, con le pareti trasformate dalle foto delle ragazze sequestrate, scomparse, uccise, in un memorial di olocausto, Eloisa Montez, mamma di Irene, ci racconta dieci anni di
maquila. Ma non ce la fa ad andare molto avanti in questa sua storia di angherie, soperchierie, privazioni, umiliazioni, punizioni, ansia da rinnovo del contratto di mese in mese, combinati al sequestro di una figlia di 14 anni, appena fuori scuola e che nei pomeriggi puliva la fabbrica, mai più ritrovata. Così mi consegna un quaderno con in copertina tre trichechi che ridono. La scrittura, regolare, pulita, da bella delle elementari, racconta quei suoi dieci anni, episodio per episodio, sopruso per sopruso, paga per paga, insieme a profitto per profitto dell’impresa, scovati chissà dove. Così si esprime la coscienza di questa ex-contadina diventata operaia, esemplare di una forza politica e sociale tutta rosa, delle donne che, fin dalla recente resistenza al golpe in Honduras, ho visto guidare la lotta latinoamericana per il riscatto che verrà. “
Nell’informazione finanziaria di tutto il mondo non si parla dei nostri salari di fame, della schiavitù, si parla delle migliaia di milioni di utili netti che le imprese ricavano per lo sviluppo, per la crescita del PIL. E si parla di quanta parte di questi utili siano generosamente investiti nei paesi poveri, ma non si dice che quegli investimenti creeranno altri schiavi come noi. Il sessennio del governatore Patricio Martinez si è caratterizzato per un ulteriore indurimento delle leggi sul lavoro. La Giunta di Conciliazione e Arbitraggio, che dovrebbe comporre i contrasti tra lavoratori e padroni non ha mai dato ascolto alla nostra voce. Permetteva che operai andati solo a chiedere che ne fosse stato dei loro diritti fossero cacciati seduta stante. Di che conciliazione si parla?Così scrisse Eloisa Montez Pinuelas, cinquantacinque anni, combattente di Justicia para nuestras hijas.
Croci rosa a Ciudad Juarez
Il mattatoio dell’impero
Ciudad Juarez è divisa in due dal furto Usa di mezzo Messico: Texas, Arizona, California, Utah, Nuovo Messico. Camminiamo lungo il ”muro” di sei metri eretto da Bush e foderato da Obama con migliaia tra militari, Guardia Nazionale, poliziotti, fucilatori autoconvocati. Un serpente d’acciaio che vorrebbe impedire il passaggio dei sopravvissuti alla spoliazione imperialista dell’America Latina, ma che è di maglie larghissime per il passaggio della droga e dei relativi capitali. Tanto che, di là da questa barriera spacca-umanità di natura israeliana, di là dal Rio Bravo, nel quale vengono freddati trasmigratori a nuoto, di là dal ponte accessibile a frontalieri e trafficanti con licenza, nel quartiere El Paso diventato città degli Stati Uniti, lo squallore modernista degli stradoni urbani a sei corsie e dei falansteri per uffici finanziari vanta più banche e più negozi di armamentario da omicidio di quante jeanserie ospiti il Corso. Negli alberghi da cinque stelle e piscine sul terrazzo, i boss del narcotraffico se la godono indisturbati. Gli Usa sono un santuario. Anche per i condannati a vent’anni in Messico che, estradati, qui vengono rimessi in circolazione dopo un paio d’anni e anche meno. Remember Posada Carriles, terrorista, pluriomicida, a spasso per Miami?
Noi stiamo da questa parte, in un albergo appena ai margini del poligono di tiro che è il centro città e nel quale si esercitano a ogni ora del giorno e della notte i killer dei cartelli, i soci della polizia e di un esercito che qui, per condurre “la guerra al narcotraffico”, cioè a favore di uno o dell’altro dei cartelli e per una partecipazione agli utili, ha occupato la città, facendone una specie di Baghdad, più prolifica di morti di quella. Passando da quelle parti conviene abbassarsi sul fondo della vettura e accontentarsi di registrare i fischi e le detonazioni. Stiamo in un alberghetto ai margini, ma non tanto, visto che una mattina, dal supermercato di fronte al quale avevamo cenato la sera prima, sentiamo le raffiche che fanno fuori sette persone. Per gli investigatori, tutti “legati alla criminalità”. Per la verità, tre donne e quattro uomini innocui, impegnati a far la spesa. A Ciudad Juarez si ammazza per la competizione tra cartelli, per disfarsi di donne usate, per divertimento, per pratica alla “Gomorra”, per togliere di mezzo investigatori scomodi, per, e questo è l’obiettivo strategico, terrorizzare e recidere alla radice qualunque germoglio di antagonismo politico, sociale, culturale. E si uccidono in prima linea le donne. Danno il massimo di effetto intimidazione. 500 dal 1993 quando siamo arrivati, ormai 600. Un’altra mattina la radio “Minuto per minuto” riferisce di 28 corpi raccattati in giro nella notte. E’ più o meno la cadenza quotidiana. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati, senza che si saprà mai da chi e perché, sono 3.800: donne appunto, sicari, narcos, ragazzi delle padillas, passanti in gran numero, per caso o per terrorismo, medici, avvocati, poliziotti. E giornalisti. Dieci dall’inizio dell’anno. Ultimo un fotoreporter di 21 anni del Diario de Juarez, Luis Carlos Santiago. Il giornale è arrivato alla provocazione, nei confronti della Giustizia e della Politica, di chiedere alla delinquenza che cosa possa pubblicare e cosa no, affinchè i suoi giornalisti fossero risparmiati. Scandalo perfettamente speculare a quello suscitato dall’ammiraglio, comandante delle unità di Marina impegnate nella “guerra al narcotraffico”, quando ha pregato i narcos di “non esagerare nei giorni delle celebrazioni del bicentenario”, di “rispettare il pubblico festante”. Ovviamente l’altissima autorità dello Stato questa oscenità l’ha detta con le mutande alle caviglie e le mani in pasta. Eravamo lì e ora riprendiamo solo da dietro i vetri oscurati della macchina messaci a disposizione da Marisela che, alla faccia di tutto questo, dirige il nucleo d’assalto dell’antagonismo femminile: Nuestra Hijaas de Regreso a Casa. Dalla città della morte sono scappate 700mila persone su 1,7 milioni. Nelle casupole a cubetto della periferia di sterpi e sabbia, decine e decine tirate su per immigrati prima che la crisi svenasse anche il sistema maquiladoras, molte delle quali emigrate in Cina, si arrabattono gli ultimi laceri e cenciosi candidati al reclutamento dei narcos, senza neppure i pesos per la corriera della fuga.
Il sindaco uscente, José Reyes Ferriz, che fa la spola tra casa a El Paso e il municipio in Ciudad Juarez e sta per viversi la pensione a Washington, getta la spugna: “A quién pedir justicia? Quando van a acabar con tanta impunita? Por qué no detienen a los culpables de todos los
asesinatos?” Ma le sue domande a chi chiedere giustizia, sul perchè di tanta impunità per gli assassini, le ha poste Maria Avida, piccola donna in piccola casa nel quartiere insurgente di Villas de Salvarca, con i muri affrescati di volti “terminati”, scomparsi, di scritte di denuncia e di resistenza, del Che Guevara, con addirittura una piccola biblioteca popolare messa su da Julian Contreras, marxista, squattrinato laureato in lettere e filosofia, dai capelli sulle spalle e la camminata tra un Clint Eastwood e un hippy di San Francisco. A Maria, che ci sorride perfino quando gli angoli della bocca le frenano la discesa delle lacrime, pochi mesi fa hanno ammazzato i due unici figli, insieme ad altri 15 ragazzi riuniti da quelle parti per festeggiare diploma e un compleanno. Fu una delle poche mattanze che potè insinuarsi nelle colonne della stampa internazionale e addirittura nel palazzo presidenziale. Calderon, al solito compare di merende, liquidò la faccenda come “
scontro tra bande criminali”. Ma l’indignazione questa volta si estese da Villa de Salvarca a mezza città e impose al caudillo di presentarsi agli abitanti mobilitati da Maria, Marisela, Julian e da tutte le donne delle associazioni. Alla faccia dei cartelli della droga e dei loro soci istituzionali. Al presidente assiso sul palco, Maria gridò la sua verità, la sua vergogna per la complice menzogna, l’urlo di tutti gli innocenti senza giustizia, massacrati in questa città, buco nero dell’umanità. Gli impose di chiedere scusa. Ora su quartiere e città sventola una bandiera che nessuno osa ammainare. E’ questa piccola donna in quella piccola casa.
Marisela Ortiz insegna nella scuola “
Juarez Nuevo”, elementari, medie, superiori. La scuola è blindata, non entrano neppure i genitori, è allarme rosso. Ben sapendo, il potere criminale, come in quel che rimane del sistema scolastico disastrato, peggio che da noi, dai presidenti del PAN, si annidi, tra insegnanti e giovani, come a Oaxaca, la punta di diamante dell’antagonismo pensante, il giorno prima una scuola vicina era stata minacciata di fuoco e sterminio da sicari che hanno fatto irruzione grazie alla scomparsa delle consuete forze di sicurezza. O si sarebbe versato un pizzo, inimmaginabile per le condizioni dell’istruzione messicana, o ci si sarebbe trovati sull’uscio bambini sgozzati. Ma nella “
Juarez Nuevo” il lavoro prosegue tra lezioni, interventi di assistenti volontari dall’università, giochi, lezioni di musica e danza, sport. E il direttore, Gilberto Oliveros, circondato dai suoi professori, artisti, sociologhi, ci spiega come sia il degrado nell’incultura, nel modello della competizione-prevaricazione, nella mitologia volgare dell’effimero, dell’inutile, del superfluo, il nemico quotidiano da affrontare e battere con la civiltà della solidarietà, della responsabilità, del rispetto, dell’amore. Incredibile come, in un simile oceano di disfacimento, reggano questi insegnanti, questi scolari e studenti, quali festanti nel salutarci, quali che ci coinvolgono in un’ilare scambio di pallonate, gridando “Totti, Totti”, quali in fila con la tromba appoggiata al muro per imparare a esercitare più forza nel soffio. Appunto: Juarez Nuova.
Marisela ce l’ha indicate, sparse qua e là sul territorio dove il cemento e le lamiere delle ultime casupole inerpicate sui contrafforti del deserto si riempiono della prima sabbia. Sono le croci del dolore e della sfida che le donne di Ciudad Juarez erigono alle loro sorelle perdute. Se ne trovano dall’ingresso sud della città, a contrasto con un grossolano arco trionfale, fino ai piedi della muraglia di esclusione, odio e razzismo eretto dai
gringos. I partecipi del terrorismo di Stato e crimine le vanno a sradicare, bruciare, disperdere. Ma le croci sempre rinascono, come la più selvaggia e irriducibile delle gramigne. Sono croci rosa. E ci mandano, oltre i mari della distanza e della menzogna, fiori di coraggio e di verità.