(Che Guevara)
Dai rozzi rimestatori / falsi paladini, / e spiriti fini e blandi e vili, / dalla feccia che sazia / la sua canagliocrazia / prendendosi gioco della gloria, la vita, l’onore, / dal pugnale di grazia, liberaci o signore!
(Rubén Darìo. Dalle letture preferite del Che. Il “signore” cui si riferisce è Don Chisciotte)
Se il manichino Standa, vestito da maggiordomo di Barbie, è l’unico ministro degli esteri dell’Anonima Omicidi chiamata Comunità Internazionale che insisteva a puntellare prima Ben Ali e poi Mubaraq quando già l’energumeno Hillary Clinton (un “angelo” per il “manifesto” del 2008) aveva buttato a mare questi satrapi-ascari dell’Impero, non è solo perché lui e tutto il verminaio governativo sono degli oligofrenici, incompetenti se non su questioni di mafia e bordelli. Il dramma che vivono, al di là e al di sopra del casotto da trogloditi della politica, della morale e dell’estetica che stanno rappresentando, sfugge alla sinistra tutta, pure a quella dai nomi tautologici “sinistra ecologia e libertà”, “sinistra critica”, “sinistra popolare” e via arrabattandosi tra termini inediti che mascherino l’inanità del contenuto, come se “sinistra” non dovesse già contenere libertà, ecologia, critica e popolo.
E’ peggio, molto peggio, è decisivo, conclusivo. E’ quello dei gaglioffi zannuti che si sono logorati a spadroneggiare rozzamente e incontinentemente sui propri paesi e che, assaliti dalla marea montante della coscienza e della collera delle masse, si sentono d’un tratto sospesi a mezz’aria e poi precipitare: il filo che li appendeva ai burattinai dietro le quinte era stato tagliato dagli stessi burattinai, pronti a riannodarlo alla nuova marionetta, bella lucida e scattante, scovata nel retrobottega. Tutt’intorno al Mediterraneo, fino alle sue propaggini nel Mar Rosso, la rivoluzione covava (e questo nessuno lo racconta perchè darebbe altra profondità strategica alle “proteste per il pane e per la democrazia”) fin dai tempi del mercimonio di Sadat con Usraele, del rovesciamento del nazionalista Burghiba (Tunisia), della liquidazione del percorso di Boumedienne (Algeria), del golpe contro il presidente progressista Al Hamdi (Yemen), delle guerre o aggressioni Usraeliane a cuori e arti della nazione araba (Iraq, Libano, Siria), del genocidio in Palestina fino al megamarzabotto di Piombo Fuso, degli scorpioni secessionisti infiltrati in Sudan dai colonialisti già espulsi, insieme al loro terrorismo etichettato Al Qaida, sparso come alibi per l’ intervento imperialista dal Maghreb all’Asia.
Prima ancora che da bisogni economici, la rivolta è alimentata dal senso di frustrazione di una nazione che è pienamente e universalmente cosciente della sua identità, vocazione e del suo destino di unità, esigenza politica e culturale dell’animo e poi strumento necessario per contrastare il ritorno dei colonialisti e svolgere il ruolo dovuto a livello planetario. Un fantasma, quello dell’unità di mezzo miliardo di arabi, congiunti da lingua, costumi, storia, credo, volontà, che tanto terrorizzava l’Occidente imperialista da occultarne sistematicamente ragioni ed espressioni. Come le enormi manifestazioni che in tutti i paesi arabi rispondevano ai crimini dei necrocrati occidentali in Iraq, Palestina, Libano. Su questo tessuto di base si sono poi inseriti ricami come il disgusto-disprezzo per dirigenti predatori, inetti e asserviti al nemico ontologico, le spaventose condizioni di vita imposte dagli associati a delinquere del FMI e della Banca Mondiale che qui, nel quadro della globalizzazione, affondavano ancora più a fondo che da noi la ruspa del più feroce trasferimento di ricchezza dal basso in alto della storia umana.
E’ razzismo eurocentrico non riconoscere ai rivoluzionari di Tunisi, del Cairo, di Amman, Algeri e Sanaa la dignità di una visione politica e ideologica che alle rivendicazioni di pane, correttezza, trasparenza, diritti umani, fornisce le ali della visione di una nuova società. L’urlo “libertà”, che media e politicanti fantoccio restringono alla scopiazzatura delle truffaldine “libertà” delle nostre democrazie bancarie e dei nostri brogli elettorali indiretti (ma ormai anche scopertamente diretti), per questi giovani che, avendo nel cuore Nasser, Ben Bella, Saddam, Michel Aflak, Hamas e Hezbollah e perfino Averroé e il Saladino, è anzitutto libertà dall’oppressore straniero, secolare e attuale. Libertà da fame, esclusione, despotismo, divisione, come dettati dalla cricca mondialista al vassallo locale. Un vassallo che per forza deve essere delinquente, malfattore ricattato con mille scheletri tra armadio e salotto, tonnara e bordello, cassaforte e cimitero. Vedi l’afghano Karzai, l’iracheno (si fa per dire) Al Maliki, l’albanese Berisha, il kosovaro Hashim Thaci, il pachistano Zerdari, il libanese trombato Hariri, l’honduregno Pepe Lobo, il messicano Calderon…Scheletri da estrarre alla luce quando lo imponga la fase, come quella di un popolo che dice basta ma che si deve assolutamente mantenere nell’ordine imperiale costituito, facendo finta di condividerne le richieste. Quelle compatibili. E dunque, dopo Ben Ali, un suo sodale meno compromesso, dopo Mubaraq magari Mohammed El Baradei.
E i nostri faceti bavosi? Uguale. Dopo Andreotti, Craxi e dopo Craxi, oltre e contro la mannaia dei magistrati onesti di Mani Pulite, riflesso della nostra ultima volontà sovversiva prima del 14 dicembre e prima della Fiom (altro che consapevoli strumenti “giustizialisti” del gattopardo), Berlusconi. Si scaldano ai bordi del campo, osceni fiduciari come Fini, Casini, Montezemolo, Draghi, perfino Bersani. Evitato per ora il turbine epocale che sta scaraventando verso l’immondezzaio della storia i sodali d’oltremare, il rigurgito di fogna che ha saputo installarsi sulla carogna putrescente della prima repubblica sa comunque di avere i giorni contati alla Ben Ali e Mubaraq, alla Karzai e Abdallah, alla Buteflika e Mohammed VI e che alla dittatura mondiale vagheggiata dai necrocrati della cupola mafiocapitalista serve un nuovo, meno sputtanato argine allo tsunami della collera e della lucidità di popoli e classi.
li arma e manipola
Oggi la partita si gioca tra questi popoli-classe proletaria, la loro volontà di palingenesi, e le manovre di restaurazione operate attraverso l’infiltrazione, la manipolazione che facciano tutto cambiare senza che nulla cambi. I complottisti – questi, sì, autentici, altro che chi rivela il demonio sotto i paramenti del prelato che brandisce la croce dell’11 settembre - nel mondo arabo-islamico sono stati presi in contropiede. Con i finti Al Qaida sparsi da Cia e Mossad per ogni dove si voglia intervenire, massacrare e rubare, con le stragi dinamitarde contro copti e cristiani, con le operazioni secessioniste di Sud Sudan, Darfur, curdi, sciti, beluchi, bande drogatrafficanti di Myanmar, con la compravendita dei gaglioffi palestinesi, con i tribunali internazionali-truffa in Libano, Jugoslavia, Ruanda, Sudan, finalizzati a criminalizzare un settore sociale e innescare frantumazioni nazionali, l’associazione criminale “comunità internazionale” mira al divide et impera del recupero coloniale e del governo capitalista mondiale su quattro quinti dell’umanità polverizzati e imbelli. Ma, dopo quelli latinoamericani, ora anche i popoli della nazione araba, di colpo riunificata nell’insurrezione rivoluzionaria, si sono messi di traverso. C’è da sperare che prevalgano, lo faranno in ogni modo nel lungo termine. Hanno nella memoria collettiva la rivoluzioni vittoriose contro colonialisti e proconsoli di appena mezzo secolo fa. I loro combattenti hanno accettato il prezzo ineluttabile della rivoluzione, la morte. Noi abbiamo alle spalle il Risorgimento, rilanciato dalla guerra partigiana (anche quella tradita dal nostrano equivalente dell’ANP). Ma nella memoria collettiva non abbiamo che nebbie. Quanto al prezzo, per ora ci basta quello che serve a pagare un piatto di fettuccine.
Perché il titolo “Gelsomini’sta minchia”? Perché quella “dei gelsomini” emana il fetore delle rivoluzioni colorate, delle rose, dei gerani, di Ucraina, Georgia e via elencando le messinscena di imperialismo, oligarchie saprofite e plebi obnubilate. Sperano, infangando la rivoluzione con gli slogan dei “diritti umani” e della “democrazia”, dell’”innovazione” bertinottiana, dell’ecumenismo vendoliano e del pacifismo ONG, di recuperare i contenuti incompatibili appiccicandovi l’insegna del mercato delle patacche. La prima della fila? Giuliana Sgrena del “manifesto”. Quella che nella sua “narrazione” (termine-fuffa vendoliano) dei fatti di Tunisi o Algeri, non ha saputo fornirci uno straccio di analisi geopolitica, geoeconomica e geostrategica, preferendo baloccarsi con “rimpasti maghrebini”, la “riduzione della vendita di benzina per evitare suicidi” e l’ottimo Canadà “che userà tutti i mezzi a disposizione per cooperare con la comunità internazionale contro i membri dell’ex-regime”, impedendo, tra le altre cose, “il viaggio di Ben Ali e di sua moglie per assistere in Canadà al parto di una figlia”. Veri compagni, questi canadesi.
Si aprono le tombe, si levano i morti. Ci fosse tra loro pure Stefano Chiarini!