“Caleido, il mondo da angolazioni diverse”. Francesco
Capo intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=q8vD9QyZ1KA
https://youtu.be/q8vD9QyZ1KA
Fulvio Grimaldi in “Mondocane…punto”. Martedì e
venerdì alle 20.00.
https://www.quiradiolondra.tv/live/
A parte la posizione sulla pandemia e relativi parafernalia,
in cui Trump si ritrova su posizioni negativiste diffuse in gran parte del
mondo scientifico e dell’opinione pensante, di buono c’è poco più che la vaga
prospettiva della fine del ricatto bellico USA-NATO a Europa e Ucraina, con
prospettiva seria di Terza Guerra mondiale, insieme alle lodevoli riserve sul
disciplinamento sociale e politica tramite mega-raggiro climatico.
Il disastro vero è il personale di levatura
melonian-salviniana di cui si va circondando nella formazione del suo circolo
politico intimo, uniformandosi ai livelli etici (perfino estetici, poiché
ognuno diventa quello che è) e ai Q.I. delle classi politiche che abbiamo sul
gobbo da mezzo secolo, di qua e di là dall’oceano.
Sulla Palestina, che è il nervo scoperto del mondo, sta con
quella sezione dei mille miliardari USA che dormono con la kippa in testa e
impegnano i loro dollari per collocare la Menora sugli altari di banche e Fondi
d’investimento, oltrechè sugli altarini dei rispettivi chierichietti mediatici.
Tutto questo ci preoccupa quel tanto che il pessimismo della
ragione ci impone. Ma siccome disponiamo, in misura crescente da qualche tempo,
anche dell’ottimismo della ragione (in aggiunta a quello della volontà), non ci
facciamo spaventare troppo. Abbiamo forti sostegni a cui appoggiarci.
Pensate dall’altro lato del fosso c’è un omino che ha
rimesso in piedi, in meno di 10 anni, il più grande paese del mondo, dopo un
ruzzolone rispetto al quale l’impero bizantino spianato dagli ottomani è una
brezza nella tempesta della Storia. Un paese che, caduto il muro di protezione
da provocatori e epidemie sociali varie, era stato ridotto a rapportarsi al suo
glorioso passato come una scatola di fiammiferi caduta nella pozzanghera sta
alla temperatura del sole nel momento dell’esplosione (sole che ogni tanto fa
variare la nostra di temperatura dando l’estro alle nuove zecche green di
cambiare i capillari da cui nutrirsi).
In 10 anni quest’uomo ha sottratto ai predatori i bocconi
che già stavano masticando, in termini di economia, coesione sociale, fiducia
in se stessi di 150 milioni di persone dall’invitto passato. Riuscite ad
immaginare l’impresa avendo contro i sabotatori, traditori, rapinatori,
congiurati e spettatori passivi, perché attoniti, di mezzo mondo e passa?
Ora quest’uomo, e i compagni che ha raccolto e gli
ex-vampiri che ha saputo ridurre a obbedienza e collaborazione, ha fatto un bel
discorso. E’ stato la scorsa settimana in occasione dell’incontro del Valdai
International Discussion Club. Un discorso epocale, a dir poco. Nel senso
che ce lo ricorderemo come un discorso che ha cambiato il mondo, sottraendolo a
un destino che qualcuno aveva intitolato “la fine della Storia”. Per cui non se
ne è minimamente accennato nei nostri media.
Bei discorsi, fondati su bei pensieri e auspici li sanno
fare tanti. E’ che qui il bel discorso è fondato non solo su bei pensieri e auspici,
ma sulle robuste basi di un concerto in cui alcuni miliardi di strumenti hanno
suonato la stessa musica. Vladimir Putin l’ha chiamato “polifonia”. Che è
l’opposto della monofonia e anche del policentrismo, nel senso che di centri,
che si arrogano di esserlo, non se ne vuole più sapere. Né di egemonie, né di
imperi, né di globalismi unipolari. Né soprattutto di colonialismo.
Chi a Putin ha dato la forza per esprimere questa sicurezza
sono i BRICS che, scopertisi, sullo spunto dato dai quattro paesi fondatori,
con alle spalle una lunga storia di aggressioni subite e colonialismi sofferti,
diversi tra loro per tante variazioni di tono e timbro, su una melodia hanno
trovato il modo di armonizzare: mai più colonialismi. Né conseguente commercio
di schiavi, o, oggi, manodopera schiavizzata, deportata con le buone o con le
cattive, onde annichilirne identità, nome, storia, futuro e amalgamarla in
zuppa o pan bagnato con altri, pure espropriati di nome, terra, comunità e
futuro. Tutto a unico vantaggio del monocentrista monofonico.
Sentendo un vento che, piuttosto di gonfiarle, minaccia di
abbattere le vele imperiali c’è chi vuole mettere a remare un po’ di gente
ancora convinta che un po’ più in là c’è il paese dei balocchi. Scansata la
metafora, la procedura è quella di chi s’impegna a disgregare, separare,
isolare, diminuire (autonomie differenziate, ricordate?). Non più ex
pluribus unum, come si è riusciti a combinare nell’era della scoperta e
della fabbrica delle nazioni, ma il suo dannato contrario. Il corollario dovendo
essere un mondo di dispari, con ognuno che tira fuori il peggio di sé per
sopraffare l’altro. Competizione, scontro, guerra, sopraffazione.
Il mondo che alla volontà diffusa di identità e polifonia
emersa nel convegno dei BRICS , ormai avviati a formare la maggioranza sul
pianeta, è proprio il mondo che, decretando dopo mezzo millennio la fine del
colonialismo, ha avuto da Putin il manuale delle istruzioni. Leggetevi quel
discorso. Sarà una forzatura, ma per me è anche una postfazione al testamento
di Yahya Sinwar, martire palestinese.
Da noi, a dispetto di quanto si va comprendendo e preparando
al di là della cortina che da di ferro è diventata di bugia e deformazione,
regna ancora il cialtronesco e il miserabile. Può non essere condannata a
essere ingoiata e poi espulsa dalla realtà e dalla Storia un governo che
deporta le vittime del suo colonialismo straccione in un paese prostituitosi
nel ruolo di carceriere? E che poi si ritrova, buttato un miliardo al
mendicante sul marciapiede, a dover trasformare la discarica albanese in
grottesco carosello di escursioni da weekend di quattro poveracci a bordo di una
nave da guerra. Un andirivieni da bari d’azzardo che si ripromettevano che a
Bruxelles non se ne sarebbero accorti.
E neanche i nostri giudici, quelli resistenti in una
magistratura che, siccome ha il compito costituzionale di controllare e
impedire o punire le violazioni, è in aperta collisione con chi campa in virtù
della pratica dell’abuso, del malaffare, dell’impiccio, della trovata
canagliesca e per questo, oltre che a Russia e Palestina, ha dichiarato guerra
ai giudici.
Ma poi, in tutto questo bailamme di paesi sicuri o insicuri
(oltre tutto definiti tali spesso sulla base di criteri più di affinità o
contrarietà politica), vogliamo chiederci se poi noi, Italia, potremmo
definirci paese sicuro? Noi a cui stanno
levando il diritto di opporci alle malefatte di padroni, speculatori,
generaloni. Noi che compiamo reati quando ci opponiamo con la disarmata forza
della voce e del corpo, a prepotenze e ingiustizie. Noi che, da quando siamo
Repubblica, ci siamo prostituiti a un padrone straniero dagli irrimediabili
caratteri criminali. Noi che ci hanno tenuto in riga a forza di stragi di
Stato, di mafia e di fascisti (con ancora ieri loro celebrazioni a Bologna,
zona stazione).
Noi di Gladio, di P2-3-4 e di altissime cariche dello Stato
con il busto di Mussolini sul comodino. Noi che ci sveniamo per armare aguzzini
e genocidi. Noi che ci facciamo occupare da 90 basi extraterritoriali ed
extrasovranità, in cui sono annidati coloro che ci fanno fare guerre agli
altri, e, così, a noi ci rendono potenziali e legittimi bersagli.
Noi con primi ministri e ministri condannati perché al soldo
della mafia, o con la mafia al soldo loro. Noi con la democrazia che è come una
coperta sbrindellata e lisa, buona da rifugio per ratti e topi con i colletti
bianchi. Noi il cui capo più venerato, un volgare puttaniere, corruttore di
giudici, ufficiale pagatore della mafia, evasore del fisco a spese del
contribuente è stato onorato dal Capo dello Stato nella figura della figlia,
beneficiaria delle sue ruberie. E gli hanno pure fatto un francobollo, come a
Garibaldi. E gli hanno nominato un aeroporto, come a Pertini.
Noi quelli del lockdown, del green pass, del futuro
pandemico e digitale e del ministro del lockdown che si conferma per quello che
è girando, in tempo di elezioni altrui, con un grande cartello “KAMALA”. Sul
retro, in inchiostro simpatico, firmato dalla stessa, c’è scritto: “W il Genocidio”.
Si chiama Roberto Speranza. E lo fanno passare per uno dei buoni.
E, per completare l’idilliaco quadro, noi siamo quelli ai
quali uno qualunque, l’uomo più ricco del mondo, statunitense, fascistoide e
perciò intimo di Giorgia Meloni, in virtù di tale intimità si può permettere di
determinare cosa è giusto e cosa no nel nostro paese, in barba a una
magistratura a ciò deputata dalla Costituzione voluta da noi, e di disporre che
i giudici che disturbano la marcia sull’Italia della sua amica vanno cacciati.