venerdì 24 ottobre 2025

“Spunti di riflessione” –--- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- --- IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

 

“Spunti di riflessione” – Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

https://youtu.be/hyZdcIC_urM

 

 

 

Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista. Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.

Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico,  Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non  si sono sognati di levare il dito dal grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.

La questione del momento ci fa però deviare da un piano di pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati. I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico, morale, umano  Trattasi della proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.

Cioè una roba che ha visto confluire da quelle parti, nel segno del colonialismo dai colonialisti rilanciato dopo la debacle subita a metà del secolo scorso e con la scusa di un olocausto inflitto a una parte di loro, un flusso di persone provenienti da ogni pizzo. Persone a cui si riconosceva di essere, non solo vittime (il che le rendeva intoccabili), ma anche popolo eletto, migliore di tutti gli altri e dunque impunito e insindacabile, titolare di una terra con la quale non ha avuto nessun rapporto né storico, né culturale, né linguistico, ma che aveva ogni diritto di sottrarre a chi ci stava da sempre.

Tutto questo delirio di onnipotenza sembra però aver fatto perdere la testa al regime di Tel Aviv. E non solo, visto che i sondaggi continuano a ripeterci che dietro a Netanyahu e ai suoi macelli ci sta un 75-80% della popolazione. Infatti, a saltare sulla sedia all’ennesimo eccesso di violazione di ogni accordo e legge, non è stata quella società che pure aveva manifestato contro Netanyahu sulla questione dei prigionieri in mano a Hamas, ma il partner e foraggiatore Trump. Uno, cioè, che tiene in piedi la baracca sionista, Il suo stop all’annessione della Cisgiordania votata dal Knesset segue l’incazzatura per il bombardamento dell’alleato stretto Qatar, con tanto di imposizione di umilianti scuse all’emiro.

Siccome l’unico risultato della fase uno del bombastico piano di pace sembra essere stata, a parte lo scambio dei prigionieri, la concessione a Israele di tenersi un 53% della Striscia, quello meno devastato e sfruttabile, dal quale continuare a uccidere chiunque si avvicinasse a un’invisibile linea gialla, le prospettive di una fase due sembrerebbero  ora coperte da una fitta nebbia.

La famosa forza di stabilizzazione composta da paesi arabi amici e da chissà chi altro, rimane in grembo a Giove, mentre le formazioni della Resistenza, Hamas, Jihad e Fronte Popolare, non hanno dato il minimo segno di essere disposti a consegnare le armi. Quelle armi con le quali hanno impedito per oltre due anni a Israele di divorare la Striscia. E ne hanno fatto barcollare, non solo la strategia Grande Israele, per ora arenatasi nel divieto trumpiano di israelizzare la Cisgiordania, ma addirittura il ruolo colonialista assegnatogli 150 anni fa da Balfour.

Non esagero. L’operazione Alluvione di Al Aqsa, che ha preso di sorpresa tutte le capacità di intelligence, sorveglianza, difesa, di Israele, ricorda un’altra situazione nella quale lo Stato ebraico si è trovato a braghe calate. Nei primi cinque giorni della guerra del Kippur, anche quella non prevista dai suoi infallibili servizi, Israele, prima di recuperare grazie agli USA, aveva rasentato la disfatta. E, secondo Moshe Dayan, addirittura l’esistenza. Tanto che il ministro della Difesa aveva ipotizzato, in un disperato Consiglio di guerra, il ricorso all’arma atomica.

E’ vero che nei 24 mesi di guerra Israele ha potuto compiere un genocidio, ma se l’obiettivo era, dicendo di voler eliminare Hamas, quello di eliminare due milioni e passa di palestinesi, uccidendoli tutti, o costringendoli a un esodo da qualche parte dopo aver reso invivibile la loro terra, quel risultato è stato mancato. Lo ha reso evidente quella stupefacente marcia di ritorno, di centinaia di migliaia dei dieci volte sfollati, alle loro case in macerie a Gaza. E quel piano di pace che, certamente risolutivo di niente, l’armiere di Israele ha dovuto imporre ai soci che non stavano andando da nessuna parte.

Da nessuna parte se non in quel deserto politico e morale in cui oggi Israele appare paralizzato, a dispetto di affannose e scriteriate fughe in avanti, come l’annessione della Cisgiordania, tosto bloccate da chi sembra avere il mestolo in mano,

Dall’inizio dell’anno Israele registra la perdita di 40.000 unità del suo personale di colonizzazione. Dal 7 ottobre 2023 sarebbero 200.000. Mentre si è seccato da tempo il flusso degli arrivi. Israele si è vista colpire dall’Iran, con efficacia occultata dalle voci ufficiali, e viene bersagliata quotidianamente dai droni e missile degli irriducibili yemeniti, con conseguente blocco di porti e aeroporti e di altre infrastrutture logistiche. Una popolazione, che la questione degli “ostaggi” ha profondamente lacerato minandone la fiducia nella propria classe politica e che si trova costretta ogni due per tre a rifugiarsi nei bunker, non può alimentare grande voglia di restare, né costituire richiamo per nuove immigrazioni.

L’isolamento e la presa di distanza da parte di una collettività internazionale che, riconoscendo lo Stato di Palestina, ha provocato conseguenze materiali pesanti anche sul piano economico. Sulla saldezza della società israeliana si abbattono la crisi nei rapporti accademici, i boicottaggi dei prodotti di consumo, le proteste contro la consegna di armi, i disinvestimenti perfino nel campo della tecnologia, già messo in crisi da trasferimento di migliaia di giovani dai laboratori alle unità di combattimento. Queste, poi, sono pesantemente indebolite dalla perdita sul campo di centinaia di soldati e dal rifiuto e dalla diserzione di migliaia di riservisti.

In questo contesto c’è da verificare fino a che punto il tradizionale appoggio e soccorso fornito allo Stato ebraico dai correligionari della finanza statunitense e internazionale non stia manifestando riserve rispetto al radicalismo di Netanyahu e dei suoi sostenitori-condizionatori ultrà. Come c’è da verificare se la truffa-fuffa di pace di un oligarcha immobiliarista che sconcerta tutti nel suo alternarsi tra carezze e cazzotti, riesca a rilanciare la formula di Abramo, ad allargarla e includere nei suoi vagamente onirici progetti tutta la carovana del Golfo, Egitto e Giordania compresi.

Monarchie assolute e dal bagno di sangue facile che, tra l’altro, rischiano di doversela vedere, presto o tardi, con una base popolare di arrabbiati, insoddisfatti, e con un’idea del conflitto in Palestina dissimile da quello di chi li tiene sotto il tacco.

Le incognite e variabili, anche se sfuggono a molti, sono tante e si faranno sentire.

martedì 21 ottobre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico --- Usa – Venezuela – Palestina JOKER IN AZIONE

 



https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__usa_venezuela__palestina_joker_in_azione/58662_63164/

 

Basato sulla figura del pagliaccio malefico, Joker è uno dei supercriminali più famosi della storia dei fumetti, nonché la nemesi del Cavaliere Oscuro[5]. Presentato come uno psicopatico con un senso dell'umorismo contorto e sadico. Così la presentazione del personaggio su Wikipedia. E’ la personificazione di Donald Trump.

Da ragazzini uscivamo dai film di grandi personaggi positivi, di eroi medievali, immaginandoci tali anche noi. Eravamo, a seconda dei gusti, dei Robin Hood, dei Cavallo Pazzo, dei D’Artagnan, dei Sandokan. Personalmente mi rifacevo a Widukind, o Vitichindo, re dei Sassoni pagani e per questo genocidati da Carlo Magno, un altro che ammazzava in onore del suo dio. Queste fantasticherie duravano finchè, all’urto con la realtà, non venivano drasticamente demensionate a livello di impiegato di banca, operatore ecologico, vigile urbano, medico della mutua, operaio alla catena, start up con IVA.

Con Donald Trump, personaggio eccessivo in senso fisico e metafisico, dall’onda gialla in capo, votato al disdegno di ogni minima regola del vivere civile in omaggio al principio Forza su Diritto, il copia e incolla è stato immediato. Qui, tra supereroi e supermalfattori, che nella supercultura del superuomo hanno dominato l’immaginario americano, dal generale Custer a Jesse James e ad Al Capone, l’adolescente The Donald si è immediatamente riconosciuto nel più affine: Joker.

E se la Nuova Frontiera di Bibi Netaniahu è quel Grande Israel le cui fondamenta si reggono su strati multipli di ossa cementate dall’IDF, come non poteva non accorrere in suo soccorso The Donald-Joker? Soccorso alla disperata, vista la sorte che allo Stato ebraico stava approntando lo tsunami della rabbia e della sollevazione di tante genti in Gotham City. Soccorso just in time di uno che, anche da Joker, si porta dentro e impone fuori morale, metodi, strumenti e valori di quell’altro genocidio, quello dei “palestinesi” delle Americhe, detti indiani e indios. Esattamente ciò che è previsto per Gaza e per tutti i luoghi dove formicolino quei non umani che si ostinano a brucare la dove dal dio degli ebrei la terra e i suoi frutti sono stati riservati al popolo eletto e ai suoi armenti e greggi.

Joker contro USA

Non è che il Joker dai capelli a pannocchia tratti i suoi concittadini – sudditi che osano manifestare contro il sovrano sotto lo slogan “No kings!”, nessun re – molto diversamente dei non umani di Gaza. Qualche settimana fa aveva rivolto ad alcune centinaia di suoi generali e ammiragli un tonante appello a prepararsi a occupare decine di città statunitensi, ricorrendo a migliaia di soldati, per “neutralizzare i nemici domestici”. Che sarebbero non umani, pari ai gazawi, perché come quelli si oppongono ai suoi ordini esecutivi. Detto fatto. Resta una leggera sproporzione nel confronto tra Joker e i cittadini di Gotham City: Sabato scorso ben 7 milioni di quest’ultimi hanno ribadito “No Kings”. Per risposta, l’intelligenza artificiale di Joker, marchiatili tutti di “Antifa”, li ha bombardati con tonnellate di merda. Chi ha fatto la figura migliore?

Le città statunitensi, soprattutto quelle a governo dei Democratici, definiti “radicali di estrema sinistra”, si sono viste invadere e occupare da truppe federali e dalla Guardia Nazionale, senza che le relative autorità statali l’avessero richiesto, o consentito. Si parla di Chicago, Los Angeles, New York, Portland o San Francisco. Poi scontri protofisici con magistrati che denunciavano queste offese alla Costituzione, tumulti da rastrellamenti di manifestanti pro-Palestina e di qualunque persona che desse l’’idea di essere un immigrato nè anglosassone, né bianco. Postilla di Joker: “Dovremmo utilizzare alcune di queste pericolose città, sotto assedio degli Antifa e di altri terroristi interni, come campi di addestramento dei nostri militari”.

Dopo che un Giudice Federale aveva proibito l’uso della Guardia Nazionale nell’Oregon, Joker gli mandò contro la Guardia Nazionale della California e del Texas. Di fronte al rinnovato divieto del magistrato, Joker-Trump minacciò di ricorrere alla Legge Anti-Insurrezione del 1807, legge impolverata ma che consente al presidente di proclamare un’emergenza e impiegare truppe sul suolo degli Stati Uniti. Legge che ha permesso al nostro campione di democrazia alla Gotham City di militarizzare zone del paese con oltre 35.000 soldati federali, dell’aeronautica, della marina e dell’esercito.

Commento di Hina Shamsi, direttrice del Progetto di Sicurezza Nazionale nell’Unione Americana delle Libertà Civili: “Quando forze militari impongono misure di polizia ai cittadini, ci troviamo di fronte a un’intollerabile minaccia alle nostre libertà individuali e ai valori fondamentali di questo paese. Sarebbe dittatura”.

Tutto questo non ha impedito al Pentagono, recentemente rinominato, con consapevole coerenza, Ministero della Guerra e al suo neoministro, l’impomatato Pete Hegseth di catechizzare il fior fiore dei comandi USA, perché adotti uno spirito più muscolarmente guerresco. Spirito con cui affrontare anche il nemico interno, quella nebulosa di variopinti oppositori che Trump ha battezzato “Antifa”.

Dell’attacco al Primo Emendamento, al diritto di cittadinanza per nascita e alla libertà di parola, danno poi testimonianze le più prestigiose Università americane, da Harvard a Columbia. Scuole e atenei sollecitati a non accettare studenti e contributi stranieri, redarguiti e puniti, quando non privati dei dovuti finanziamenti, per non aver soppresso manifestazioni, o attività di informazione sulle stragi israeliane in Palestina.

Puntando l’indice contro l’ennesimo nemico terrorista – categoria inventata da Bush dopo l’11 settembre e adottata come viatico al genocidio da Netanyahu in occasione del 7 ottobre – questa volta individuato nel Venezuela (ne parliamo qualche riga più giù), il nostro Joker ha dato via libera alla CIA e a tutte le 14 agenzie dell’intelligence statunitense per “azioni segrete esterne al quadro della legalità”. Cioè ha ufficializzato ciò che questi aggregati hanno sempre fatto, ma con meno clamore e senza il sigillo dell’investitura formale.

E qui si ribadisce quanto la nostra “Donna, madre, cristiana” abbia in comune con colui che ispira moltissime delle azioni sue e del suo regimetto. Pensate al recente Decreto Sicurezza. Un provvedimento che, tra le altre facezie alla Joker, consente ai servizi segreti (quelli spuntati in ognuna delle stragi che sono costate all’Italia centinaia di morti e regressioni spaventose) di “organizzare e perfino dirigere organizzazioni criminali e terroristiche…”.

Non vogliamo chiamarli Stati di polizia? Guardate che gli assomigliano molto.

Joker contro il Venezuela

Avete presente Catwoman, la donna gatto, quella che, al pari di Joker, imperversa a Gotham City rubando, truffando, picchiando, scassinando, rapinando e, soprattutto, travestendosi nell’opposto: onesta, democratica, rispettosa della legge? Proprio come Maria Corina Machado, la quale, da Catwoman in associazione con Joker, sta provvedendo, dopo decenni di tentativi andati a vuoto, a preparare il terreno al compare-padrino per lo scasso del suo paese, il Venezuela. Anch’essa travestita e da noi riconosciuta combattente della libertà e della democrazia. E ha dunque per prediletti riferimenti politici Benjamin Netaniahu e Javier Milei, ai quali riserva complimenti e auguri e dai quali trae suggerimenti.

Con l’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il Comitato NATO norvegese, mimetizzato da Comitato del Nobel per la Pace, ha messo in mano a Joker-Trump una carta che si spera decisiva. Mezzo mondo, quello amerikkkano, lo ha festeggiato come l’asso per vincere una partita che Gotham City-Washington sta giocando e perdendo dal 1998, quando Ugo Chavez vinse democraticamente le elezioni presidenziali e pose fine a secoli di colonialismo spagnolo e yankee.

Ci siamo sfiorati, Catwoman e io, a Caracas nel 2002, giorni del primo golpe a cui diede il suo contributo una giovane donna scaturita dall’oligarchia spodestata. Il golpista Pedro Carmona, presidente della Confindustria venezuelana, si era autoproclamato presidente del Venezuela ed aveva emanato il famigerato “Decreto Carmona”. Un decreto con il quale  si instaurava la dittatura tramite lo scioglimento di tutte le istituzioni democratiche venezuelane, come codificate nella nuova Costituzione bolivariana votata dopo la vittoria di Chavez.

Chavez era stato sequestrato da un gruppo di ufficiali che, minoranza infima delle forze armate, avevano aderito al golpe ed era stato rinchiuso in una base dell’esercito. Immediata è stata la mobilitazione della popolazione. Sul grande vialone che dal centro di Caracas porta a Palazzo Miraflores, sede della presidenza, decine di migliaia di cittadini da tutto il paese si muovevano per cacciare l’usurpatore e imporre il ritorno del presidente legittimo. Nelle immediate vicinanze del palazzo, un cavalcavia sovrastava questa strada. Ero lìssù con la telecamera a filmare lo sconfinato fluire di gente incazzata che invocava “Chavez presidente”. Ma sullo stesso cavalcavia, affacciati sul percorso dei manifestanti, si erano riuniti sostenitori del golpe. Erano armati di pistole e sparavano sulla folla in basso. Tra loro, ad animarli e incitarli, una menade scatenata: Maria Corina Machado. Lo si può rivedere nel mio docufilm “Americas Reaparecidas”.

Tutto finì molto presto. Nel giro di poche ore, in un paese paralizzato dai sostenitori della rivoluzione bolivariana, militari fedeli alla Costituzione avevano liberato e riportato a Miraflores Ugo Chavez. La rivoluzione bolivariana sarebbe continuata. Alla faccia dei tentativi di sabotarla con altri colpi di Stato, rivoluzioni colorate, sanzioni micidiali, sabotaggi, attentati, incursioni di mercenari dalla vicina Colombia, allora sotto il regime del proconsole USA, Alvaro Uribe e delle sue bande paramilitari AUC.

Per il suo ruolo nel golpe del 2002, la Machado venne condannata a 28 anni e privata dei diritti politici. Un’amnistia concessa da Chavez la rimise a piede libero, ma non le spense l’impegno controrivoluzionario e gli stretti rapporti, anche finanziari, con le centrali del regime change di Washington, dalla CIA alla NED (National Endowment for Democracy) e a USAID.

La Catwoman-Premio Nobel dovrebbe aver fornito agli USA, dopo tanti tentativi andati a vuoto grazie alla coesione sociale e politica del popolo venezuelano, impegnato a difendere il proprio riscatto e la propria autodeterminazione, l’assist per trasformare le recenti provocazioni militari in azione diretta sul territorio venezuelano.

Preceduta da un indurimento delle sanzioni che, dalla prima vittoria di Chavez, hanno vessato la popolazione provocando profonde crisi economiche e sociali (si parla di 40.000 morti dovuti all’embargo) e da un’ininterrotta serie di quasi golpe, con Joker -Trump e Catwoman - Machado, pare si voglia arrivare alla resa dei conti. Come insegnano Iraq, Libia, Siria, Gaza, neanche in Latinoamerica deve esistere un paese che custodisca e gestisca a favore dei propri cittadini una della più grandi ricchezze di idrocarburi del mondo. Sottraendole al monopolio dell’energia e delle relative forniture che Washington spera di condividere con i suoi clientes del Golfo. E fornendo al subcontinente un intollerabile modello di vera giustizia sociale e sovranità.

La Machado si è adoperata instancabilmente perché questo assunto si realizasse. A tutte le elezioni in Venezuela, che osservatori indipendenti regolarmente definivano “le più corrette e trasparenti del mondo”, seguivano le “guarimbas”, tumulti, violenze con la specialità democratica dei cavi stesi attraverso la strada per decapitare poliziotti in moto. Il tutto accompagnato da alti lai internazionali del giro NATO sulla repressione dello Stato autocratico e a glorificazione della Machado. Alla quale, tuttavia, non è mai stata vietata la libera circolazione, a dispetto di violazioni della legge e della Costituzione quali l’invocazione di interventi militari statunitensi contro i propri concittadini, di sanzioni che colpisseero in modo letale la popolazione.

Nel 2019 fu la sostenitrice più in vista del colpo di Stato commissionato da Washington al presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidò. Un golpe presto tramutatosi in patetica farsa e spreco di centinaia di milioni di dollari arrivati a sostegno, indovinate da chi: dal nostro Joker, al suo primo mandato. Una mobilitazione di controrivoluzionari al confine con la Colombia, con grande spreco di altoparlanti e carrozzoni di teppisti, si spense da sola. Il tentativo di innescare una sedizione militare si risolse nel penoso spettacolo di Guaidò che arringava una cinquantina di militari di truppa..

Trump sta minacciando Caracas di sfracelli. Ha proclamato il presidente Maduro boss di un inesistente “Cartel de los soles” e il Venezuela Primo Narcostato dell’America Latina, responsabile degli stupefacenti che, sotto gli occhi della DEA, inondano il mercato USA e i caveau delle sue banche. Il dato che l’ONU e il suo stesso ex-vicepresidente e responsabile del capitolo droga, Pino Arlacchi, affermano che nessuna coltivazione e nessun traffico di droga esistono in Venezuela, non hanno impedito al Joker di Washington di lanciare una vera e propria apertura di ostilità. E’ la concentrazione, al largo della costa caraibica del Venezuela, di una flotta cosiddetta anti-narcotraffico, composta di incrociatori, sommergibili nucleari, corvette e navi da sbarco con sopra qualche centinaio di Marines. Apparato che si è subito reso responsabile dell’affondamento di cinque imbarcazioni civili e di 11 vittime assolutamente estranee al narcotraffico.

Adesso si tratta di vedere se anche il Nobel assegnato a Catwoman porterà a risultati come quelli conseguiti dai suoi predecessori, tipo Kissinger (1973, Pinochet), Obama (7 guerre), Begin (terrorista Irgun) e agevolerà un’aggressione vera e propria. Il Nobel allo strumento della CIA lo farebbe temere. Ma invasione e occupazione risultano problematiche dati un territorio immenso e una popolazione mobilitata e addestrato alla difesa in sinergia con il suo esercito. Il Joker in questione potrebbe limitarsi alla creazione del caos mediante bombardamenti e infiltrazione di mercenari.

Joker contro la Palestina

Qui Joker sé messo a fare il gioco delle tre carte. Carta perde, carta vince, dov’è la carta della pace? E tu provi, riprovi, provi ancora e sbagli sempre e la carta della pace non la scopri mai. Che non ci sia? Che il tappetaro di Gotham City l’abbia inventata per gabbare lo santo e i suoi fedeli? Ma no, e come se esiste!  Non c’è forse il compare, finto passante, quello con la kippa, che ci scommette che c’è e, infatti, la scopre e vince i soldi? Sempre solo lui, però.

E qui, cari amici, basta metafora. Al confronto con la coppia di malviventi in carne e ossa, il sadico eroe dei fumetti diventa un boyscout. La realtà ci dice che uno scaltro e squinternato yankee, pompato e tenuto in pugno dalla finanza ebraica. come impersonata dalla miliardaria ebrea Miriam Adelson (abbracciata e decorata alla Knesset), ha pagato pegno correndo in soccorso a Israele quando questa era rimasta in mutande a Gaza e del tutto nuda davanti alle genti del mondo (ricordate la favola di Andersen e il re scoperto nudo dal ragazzino?). Il suo finto piano di pace, che oblitera ogni prospettiva di un riconoscimento della Palestina, negandone la resistenza, il diritto alla statualità e al risarcimento degli immensi torti subiti (Il corrotto naziregime di Kiev viene ovviamente risarcito dei danni di guerra dai fondi russi congelati in Belgio) e ignorandone la stessa esistenza, non è che una fuga in avanti.

Fuga in avanti sostenuta, lungo la strada, da posti di ristoro che forniscono sostegno sotto forma di avallo mediatico alla megatruffa di una pace che lascia il 53% di Gaza in mano all’IDF, con licenza di sparare a chiunque si avvicini all’invisibile “Linea Gialla” (licenza che ultimamente ha permesso di seccare gli 11 membri di una famiglia che passava da lì in autobus). Fuga in avanti che lascia ai lati del percorso le sistematiche violazioni israeliane di ogni presunta tregua, con la prosecuzione dei massacri e dell’arma della fame fino all’ultimo palestinese. Che poi un Netanyahu, non più tanto lucido, ha provato a far passare per “violazione della tregua da parte di Hamas”.  

Gli ci è voluto un razzo finto-Hamas per rimettere a posto il cosiddetto Piano di Pace, come era facile aspettarsi dal ghigno con cui i dioscuri del genocidio fino all’ultimo palestinese, Ben Gvir e Smotrich, avevano accompagnato – e irriso - l’annuncio del Piano di Pace.

Fuga in avanti il cui effetto collaterale è l’abbandono, nel fosso lungo la strada, di una Palestina che consista almeno della Cisgiordania. Fuga in avanti che prova a scampare dall’inseguimento di un’umanità che, con Flotille e sollevazioni di popolo, costringendo i propri governanti a fare atto di riconoscimento, ha dimostrato di avere un passo più lungo di ogni cospirazione colonialista.

E fuga in avanti a ostacoli che la sfiancheranno perché sono l’esplosione di contraddizioni irrimediabili, insite nella dialettica tra forza e diritto, tra colonialismo e libertà. Tra i pochi e i tanti. Tra umanità e anti-umanità. Chi ha marciato nelle colonne in stracci con addosso fagotti contenenti i resti di casa e vita, armate solo di consapevolezza, volontà e fiducia, che ritornavano alla terra sotto le macerie di Gaza City, lo sa. Sono la postguardia dei marciatori ripartiti un secolo fa da una terra loro da millenni e che nessuno riuscirà mai a fermare. Neanche Joker, neanche con quel fedifrago antropofago di massa che gli fa da gendarme della “pace” continuando a uccidere con il pretesto che non gli ridanno subito dei corpi polverizzati dalle sue stesse bombe (ma è prodigo di restituzioni di centinaia corpi insaccati senza nomi, bastonati a morte, torturati, giustiziati a freddo con colpi tra gli occhi, e privati di organi utili per trapianti. Come piace a Joker).

martedì 14 ottobre 2025

Stato palestinese, dove? “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

 

Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico

 Stato palestinese, dove?

 “PIANO DI PACE”: GAZA A ME, CISGIORDANIA A TE?

 https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__stato_palestinese_dove__piano_di_pace_gaza_a_me_cisgiordania_a_te/58662_63025/

 


“Tu ucciderai tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i bambini, tutte le bestie” (Libro di Giosuè 6:21, relativamente a Gerico, oggi Cisgiordania)

Va premesso un dato incontrovertibile. Quello della misura in cui alla sedicente comunità internazionale festante (celebrano un deserto e lo chiamano pace) gliene freghi del popolo palestinese. Lo dimostra la grottesca e oscena farsa di un Piano di Pace che quel popolo di 15 milioni non lo prende minimamente in considerazione. Primo, con riguardo all’irrisolto peccato d’origine dello Stato ebraico, stragista, espropriatore, razzista, che ne esce rafforzato; secondo, per la totale cancellazione dalla scena della Cisgiordania, con i suoi 2,5 milioni, e dei cinque milioni di profughi. Ciò che resta sono: un frammento di Palestina dalle grandi prospettive immobiliariste e petrolifere, affidato a Trump, Blair e BP; e un altro frammento, premio di consolazione allo Stato ebraico che ne faccia la base di partenza per il Grande Israele.

 

Primum, inventarsi qualcosa che tolga di mezzo flottiglie e milioni in piazza

 

9 ottobre, sono passati tre giorni dalla proclamazione della” pace” a Gaza e, a detta di Trump, in tutta la regione. Pace in primis per tagliare le gambe a quella che, con flottiglie, milioni in piazza e riemersione dello Stato Palestinese, era diventata un intralcio di portata mondiale. Pace, peraltro, celebrata da Israele con la continuità delle bombe e della fame e che trova una sua particolare interpretazione anche in Cisgiordania. Per esempio, con quei coloni che il 9 ottobre scendono dal loro insediamento, come tutti i sacrosanti giorni dal 1967, per praticare la convivenza con chi c’era prima e ancora insiste a star lì. A forza di devastazioni, incendi, omicidi.

 

Essendo, secondo Trump e i suoi corifei, giunto il tempo della pace per i palestinesi, questo 9 ottobre la pace la si pratica dalle parti del villaggio di Deir Jarir. Alla fine della pacificazione c’è un villaggio distrutto, alcune case in fiamme, uliveti sradicati, fili elettrici tagliati, l’acquedotto spaccato, una scuola bucherellata dalle raffiche, Jihad Mohammed Ajaj, 26 anni, ucciso con una pallottola in testa e tre suoi famigliari feriti e poi ricoverati nel presidio medico della Mezzaluna rossa a Ramallah. Qui giunti dopo ore in fin di vita poiché le strade sterrate riservate ai palestinesi sono costellate di arcigni posti di blocco e interrotte dalle grandi strade a due carreggiate riservate ai coloni.

 

E’ uno di dozzine di episodi che si succedono senza soluzione di continuità da quando i padri di Israele, Ben Gurion, Golda Meir, Benachem Begin, utilizzando gli irregolari delle bande Stern, Irgun e Haganah, adottarono il terrorismo come metodo di controllo – e riduzione - delle popolazioni autoctone. Metodo che ha subito un formidabile crescendo dal giorno 7 ottobre, quando Hamas ha fatto riapparire la Palestina sul proscenio del mondo. Metodo, anche, che in questo frammento di Palestina non pare frenato dall’ola di pace lanciata dallo studio ovale, né messo in discussione dai vaticinatori dello Stato di Palestina.

 

Amici, avete tenuto testa, anche appigliandovi a qualche fortuita ciambella di verità (ho provato a lanciarne una anch’io da questa piattaforma) nell’onda anomala lanciata dal maremoto propagandistico israeliano sull’epocale evento del 7 ottobre? Siete riusciti a uscire indenni dalla narrazione neobiblica su quello sterminio di innocenti ebrei (quasi tutti uccisi da fuoco amico, metà erano militari IDF) da parte di sanguinari terroristi, stupratori e friggitori di neonati decapitati? Veleno anche più tossico perchè condiviso da laboratori, detti “alternativi” o “antagonisti”, dei quali eravamo abituati a fidarci? Tutti a sostegno del mantra che il genocidio era dovuto e giustificato, o almeno da comprendere, in risposta alle atrocità del 7 ottobre.

 

Del resto la chiave è sempre il “cui bono”, a chi è convenuto. E qui, però, le risposte sono due e in contrasto fra loro. Per l’una, grandi vantaggi ne hanno tratto Netanyahu e la sua compagine di psicopatici: il via libera, da tempo pianificato, allo sterminio di tutti i palestinesi, tutti chiamati Hamas, con tanto di tacito, esplicito, o a mezza bocca, consenso della maggioranza dei governi e media, ora coronato da un Piano di Pace che non sarebbe che la resa incondizionata di quel popolo e della sua resistenza. Per l’altra, tutto il contrario: col genocidio Israele ha tirato troppo la corda, ha perso l’incondizionato sostegno del mondo, da vittima si è rivelato carnefice, è precipitato in una lacerante crisi interna, viene isolato economicamente e politicamente, insomma s’è scavato la fossa.

 

Dopo Gaza, Cisgiordania (ciò che ne rimane)

 

Ora toccherebbe a quell’ultimo frammento di Palestina sparpagliato e schiacciato tra le nuove città che ospitano 900.000 coloni, ribattezzato, in vista dell’annessione definitiva come da dettato biblico, Giudea e Samaria. Il cosiddetto “Piano di pace” di Trump non prevede nei suoi 21 punti, che ne fanno il piano di ricolonizzazione anglosassone di Gaza, nessun accenno alla Cisgiordania. Forse che, nel disegno degli immobiliaristi, lasciare alla mercè dei coloni, di Netaniahu, Ben Gvir e Smotrich, la “Giudea e Samaria” con quei suoi quattro ulivi, sia la moneta con cui a Israele il consorzio Trump-Blair-Kushner paga la molto più appetibile “Riviera di Gaza”, con il gas miliardario al largo assicurato alla BP tramite Tony Blair? Che su questo baratto possano aver dato il loro consenso al Piano i governi arabi, in qualche modo fruitori del raccolto a venire?

 

Sebbene per quanto si va facendo alla Cisgiordania non si sia ancora addotto nessun presunto massacro di “innocenti civili”, tipo quello del Nova Rave di giovani allegri, piazzato proprio in vista del - e dal - campo di concentramento “Gaza”, bene in vista dei carcerati e morituri. Ma diamo tempo al tempo. Per ora, sulla criminalizzazione di quegli altri frammenti sparpagliati di residui palestinesi, prevale la tattica del silenzio. Che serva alla ripetizione, su quello straccio già insanguinato di Palestina, di quanto è stato fatto a Gaza? E ad evitare che le uova nel paniere di Trump, Netaniahu e Blair vengano rotte da un nuovo concorso, in terra e in mare, di popolo imbandierato di Palestina?

 

Nella guerra dei 6 Giorni del 1967, Israele aveva occupato tutta la Minipalestina che una squilibrata assemblea generale dell’ONU aveva strappato ai conquistadores sionisti. 26 anni dopo, gli Accordi di Oslo. La Minipalestina occupata e già frastagliata in isolotti incomunicanti da una proliferazione di insediamenti dichiarati illegali dall’ONU, è ulteriormente frantumata in tre aree ad amministrazioni distinte. Ne parliamo dopo.

 

Yitzak Rabin, il premier che una certa narrazione ci presenta come l’eccezione includente rispetto ai governi della cancellazione tout court dei palestinesi, invitava i soldati israeliani a “spezzare le ossa” ai ragazzini palestinesi che lanciavano sassi nella prima Intifada. Ha poi fatto tanto il conciliatore da produrre, con sodali internazionali vari, gli accordi-truffa di Oslo, chiodo nella bara dello Stato Palestinese. Accordi sottoscritti anche da uno stanco Arafat che si riteneva soddisfatto del grazioso riconoscimento dell’OLP come interlocutore e della costituzione di una cosiddetta Autorità Nazionale con bandierina palestinese sul palazzo della Muqata’a a Ramallah.

 

Corre una certa somiglianza tra i tripudi suscitati allora da questa “sistemazione” del conflitto israelo-palestinese e gli osanna oggi dedicati alla farsa pacifista di Trump che, come gli illusionisti di Oslo, evita accuratamente di sfiorare il nocciolo della questione.

 

Stroncata la seconda Intifada, ricupero di coscienza e combattività del popolo espropriato e colonizzato, diretta da Fatah con Marwan Barghuti segretario, l’ANP finisce in mano al più classico dei Quisling, Mahmud Abbas-Abu Mazen, e alla sua cricca di burocrati collaborazionisti, voraci e ladri. Si crea un condominio dell’intelligence e della repressione israelo-palestinese, impegnato a sopprimere sul nascere ogni singulto di resistenza. Condominio che subisce qualche crepa quando il Partito Hamas, emerso negli anni ‘80 come alternativa politica a detto condominio, vince a larga maggioranza le elezioni nei territori occupati del 2006. Sconfitto un tentativo di golpe di Fatah, assume il governo della striscia di Gaza, ma il potere in Cisgiordania gli viene negato dall’opposizione militare e poliziesca congiunta dell’ANP e di Israele.

 

Un’altra spartizione farlocca

 

Si consolida la grande mistificazione del cammino verso la graduale costituzione dello Stato di Palestina, come deliberata ripetutamente dall’ONU, con il diritto al ritorno dei profughi della Nakba e del 1967 e col divieto di costruzione di colonie che iniziano a frantumare la continuità del previsto Stato. Lo strumento sono Oslo e quell’architettura del territorio diviso in zone da una conduzione tricefala: l’A, sotto controllo dell’Autorità palestinese, la B sotto una surreale amministrazione congiunta palestino-israeliana, la C, area delle colonie, sotto esclusivo controllo israeliano. Nella C ricade una larga striscia di territorio lungo il fiume Giordano, che costituisce anche il confine con la Giordania, concorre a chiudere l’assedio ai territori del presunto futuro Stato e assicura a Israele il controllo sulle acque del fiume e su vaste zone irrigabili e coltivabili.

 

E’ anche una presa di possesso finalizzata a garantire a Israele la sicurezza rispetto a incursioni da Libano o Giordania. Incursioni anche recenti di Hezbollah e, più lontane nel tempo, quelle dei Fedayin dalle loro basi in Giordania, delle quali fui partecipe anch’io, assumendo la figura composita del cronista e del combattente.

 

Il grande equivoco delle tre zone, in cui solo nella A si poteva tirare qualche momento di sollievo da un’occupazione invasiva e spietata, presi tra le vessazioni delle incursioni militari e degli infiniti controlli ai posti di blocco, intesi a compromettere la vita civile, quella economica, gli spostamenti. Mi ricordo la blindatura del valico di Qalandiya, tra Ramallah, zona A, e l’area di Gerusalemme, divisa tra B e C, scientemente destinato a interrompere il flusso di lavoratori e cittadini verso scuole, ospedali, uffici amministrativi, posti di lavoro. Provocava file sterminate di viaggiatori esasperati, a piedi o su mezzi. L’intenzione punitiva era esaltata dal blocco, a fine di controlli e perquisizioni, delle ambulanze con a bordo malati, incidentati, o altri con ragioni d’urgenza. Per non essere potuti giungere in tempo a destinazione, molti pazienti morivano, donne partorivano nell’ambulanza. C’è tutto nel mio documentario “Fino all’ultima Kefiah!”.

 

Quanto alla zona sotto “esclusivo” controllo palestinese (che non evitava incursioni delle forze di sicurezza israeliane), di come fosse rispettata, mi ricordo per qualcosa che mi porto dentro ancora oggi, un quarto di secolo dopo. Nella zona A, da Ramallah, la sede dell’ANP, bastava spostarsi di poche centinaia di metri per ritrovarsi in una specie di terra di nessuno, formalmente A, ma di cui l’esercito se ne infischiava. Giorno dopo giorno vi si rinnovava la contesa tra chi doveva sottomettersi e chi sottometteva, i primi con i sassi, i secondi con lacrimogeni e, a volte, pallottole.

 

Fui testimone di uno di questi episodi dalla cadenza quotidiana. Blindati dell’esercito occupante penetrano nell’area A, li fronteggiano nugoli di ragazzi e ragazze, spuntati come funghi, mobilitati da un’organizzazione invisibile. Ho negli occhi l’immagine di una donna anziana, dalle vesti lunghe e col velo, che riempie di sassi un secchio, lo mette a disposizione dei giovani lanciatori. Poi, impazientita, li raccoglie da terra e li lancia lei stessa. I blindati, a circa 50 metri, dopo qualche lacrimogeno, rispondono col fuoco. Per l’oretta che rimango lì, ne vengono colpite tre ragazze. Le recuperano ambulanze comparse dal nulla. Non ho sentito un lamento.

 

Un altro giorno si tratta di eliminare un posto di blocco, con tanto di massi di cemento e torretta di sorveglianza, che impedisce il passaggio degli studenti verso la loro università, Bir Zeit. Ai palestinesi ci uniamo noi, un gruppo di solidali europei. Niente armi da fuoco dai blindati sulla collina, stavolta, ma un bombardamento a tappeto di gas CS, detto lacrimogeno, ma proibito per la sua tossicità dalla Convenzione di Ginevra. Vomitiamo in tanti, c’è chi perde i sensi. La mia mai sopita bronchite cronica, e chissà quante altre, venne innescata quel giorno. Per contrappasso, mi è stata curata, durante ripetute visite nella regione, anche da pneumologi arabi.

 

Hebron, insediamenti tombali

 

A Hebron la doppia gestione era concepita dagli israeliani in modo da innestare nel cuore della comunità araba un nugolo di coloni di estrazione statunitense, virulentamente anti-arabi e di fanatico impegno millenarista. 500 subito, ora migliaia, per i quali erano stati fulmineamente eretti enormi palazzoni su terreni della città vecchia della quale erano state rase al suolo le prestigiose testimonianze storiche risalenti al Medioevo. Dei genocidi elemento costitutivo è la cancellazione delle identità radicate nella Storia. Si pensi a cosa ha fatto a Palmira, in Siria, l’ISIS, mercenariato dei turchi e della NATO, dopo aver ucciso il suo custode, l’archeologo Khaled al-Asaad, per non avere rivelato agli attaccanti dove erano conservati i reperti più preziosi.

 

Incontro un medico che ha studiato in Italia. I militari gli hanno preso e occupato la casa in centro. Cacciati In mezzo a una strada anche i suoi bambini. Lui, davanti al portone, ci racconta. Loro, sui tetti, ci gratificano di sberleffi, poi sparano alle case al di là della piazza. Accorrono dei ragazzi e ci mostrano proiettili di mitra rimbalzati dai muri. Che lo si racconti in Italia…

 

Ogni due per tre, i soliti lanciatori di pietre ed erettori di barricate da dare alle fiamme all’arrivo dei militari, cercano di ricordare a se stessi e al mondo che quella è la loro terra, fin da quei secoli che le macerie dell’antico mercato non possono più rievocare. Tutto finisce poi come a Ramallah e Bir Zeit. Ma riprende. Non ha mai cessato di riprendere. Con o senza Hamas. Barricata di traverso alla strada principale di Hebron, fiamme, blindati arrivano e sparano. Ce la caviamo in un androne. Dai muri partono schegge. Incontriamo dei carabinieri italiani. Stanno lì nel ruolo di peace-keepers, o qualcosa del genere. Compilano rapporti. Non fanno né caldo, né freddo a nessuno.

 

Quelle di allora erano definite scaramucce, eufemismo per mezzo secolo di brutale e feroce tirannia e indefessa rivolta. A partire dal 7 ottobre dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa” e della relativa risposta “Hannibal” (tecnica militare che non guarda in faccia a nessuno, con il risultato di 250 coloni fatti prigionieri e un numero imprecisato di civili e soldati uccisi nel fuoco incrociato), la Cisgiordania diventa terreno di guerra vera e propria. Soprattutto di vendetta sanguinaria, contro genti relativamente inermi, per quanto a Israele viene inflitto dalla Resistenza a Gaza. A Jenin e in altri campi profughi e centri abitati, da varie matrici storiche, nasce l’organizzazione combattente “Tana di leoni”.

 

C’era una volta Jenin

 

La violenza repressiva delle forze armate, anche aeree, dello Stato sionista, è sostenuta da incursioni di coloni armati e le sostiene Si abbatte su centri abitati palestinesi, che si tratti di città, villaggi e soprattutto campi profughi, o coltivazioni, fondamentali per la sussistenza: uliveti, vigneti, frutteti. Si arriva a tagliare reti elettriche, sabotare presidi sanitari, contaminare acquedotti. E di pochi giorni fa l’assassinio di uno dei realizzatori del documentario “No other land”, drammatica testimonianza di una vita resistente sulla terra che è sua, ma che è diventata impraticabile, a partire dalle vie di comunicazione vietate e a finire con gli ulivi sradicati.

 

Va ricordato, a disonore dell’ANP che, per mantenere la del tutto fantasmatica rappresentanza di un popolo che collettivamente la disconosce, agevola i pogrom di coloni e IDF con preventivi interventi della sua polizia, mirati a individuare elementi e nidi di una crescente resistenza e trasmettere informazioni ai colleghi con la stella di David. Resistenza animata oltre che da Hamas, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dalla fazione dissidente di Fatah e da comitati locali. Gli assalti di coloni, supportati dall’IDF da terra e con elicotteri dal cielo, devastano città come Nablus, Jenin campo di profughi della Nakba, vivace centro culturale, raso al suolo E poi Tulkarem, Nur Shams, Tubas. Ne risultano decine di migliaia di sfollati allo sbando.

 

Intanto Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e caporione dei coloni, annuncia l’imminente annessione di Giudea e Samaria, cioè di quanto, persa Gaza mutata in “giacimento d’oro immobiliarista” (sempre Smotrich), resta della Palestina possibile.

 

Traggo da fonti recenti e da un dettagliato rapporto diffuso dall’Associazione Palestinesi in Italia (API) una serie di dati.

 

Dal 7 ottobre 2023 in Cisgiordania esercito, polizia e coloni israeliani hanno effettuato 38.359 attacchi a terre, proprietà e vite palestinesi. I coloni hanno creato 114 nuovi insediamenti, cacciando dai loro centri abitati 33 comunità autoctone. Sono stati sequestrati circa 5.500 ettari di terreno agricolo di cui 2000 costituenti riserva naturale. Vi sono state costruite strade riservate agli ebrei, torrette militari, zone militari cuscinetto attorno alle colonie. Sono in corso di costruzione per coloni 37.415 nuove unità abitative. Il totale dei posti di blocco e barriere sale a 916, delle quali 243 eretti dal 7 ottobre 2023.

In quello stesso periodo i coloni hanno appiccato 767 incendi su terreni agricoli, effettuato 1.014 demolizioni con la distruzione di 3.679 strutture palestinesi. A inizio settembre i palestinesi uccisi sono 1.079, i feriti 8.015, gli arrestati 22.633, le case distrutte 7.712, i luoghi sacri violati 1.034, gli attacchi a personale medico 314. 10.945 strade di comunicazione sono state sbarrate, 73.000 sono gli sfollati, il 90% dei campi profughi è stato obliterato.

Al regista palestinese Basel Adra coloni e soldati hanno distrutto il villaggio, Masafer Yatta, di cui ci racconta nel suo “No other Land”, premiato con l’Oscar. Sono sue le ultime parole su questo lembo di Palestina, frantumato in mille pezzetti, ma che vogliono che sia il primo passo dello scarpone chiodato sionista verso il Grande Israele. Nel mondo si festeggia la “pace”.

“L’occupazione continua, più brutale che mai. Il cessate il fuoco non è la fine, Gaza è distrutta… In Cisgiordania, solo negli ultimi giorni, hanno ucciso 15 persone e nemmeno uno di loro è in carcere. Bruciano villaggi e i palestinesi devono lasciare le loro comunità, 40 villaggi si sono spopolati e la costruzione di avamposti e di insediamenti è incessante. Trump e il suo governo sono favorevoli ai coloni e agli insediamenti… L’attenzione è tutta su Gaza e su questo cessate il fuoco. Ma dovrebbe essere sul popolo palestinese, sui nostri diritti… L’Autorità palestinese non ha alcun potere e non ho fiducia nei paesi del Golfo. Sia il governo, sia l’opposizione hanno votato che non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.

Così stanno le cose. C’è da celebrare? Ai palestinesi non rimane che la loro Resistenza. Unita alle piazze del mondo.

”Spunti di riflessione” Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- --- DALLA PALESTINA AL VENEZUELA LA PAX TRUMPIANA

 

.”Spunti di riflessione” Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

DALLA PALESTINA AL VENEZUELA LA PAX TRUMPIANA

https://youtu.be/eMfwwhEVnOA

 

L'espressione "Fanno il deserto e lo chiamano pace" (Solitudinem faciunt, pacem appellant) è attribuita dallo storico romano Tacito al capo britanno Calgaco. Qui, parafrasando, si può dire: “Consacrano un genocidio e lo chiamano Piano di Pace”, o “Creano una golpista e le danno il Nobel della Pace”. Le due cose vanno di pari passo, hanno la stessa matrice e puntano allo stesso risultato. In primis a salvarsi le chiappe. Come cerchiamo di spiegare nella chiacchierata.

Nella Knesset dalla standing ovation a getto continuo, abbiamo visto il rivoltante spettacolo di un Netaniahu che, col linguaggio delle parole e del corpo, si strusciava sui piedi del salvatore della patria assiso sul trono. Abbiamo assistito all’esibizione abietta di una canaglia genocida che, nell’atteggiamento detto del ciclista, pesta verso il basso e piega la schiena verso l’alto. Il “basso” essendo Gaza rasa al suolo con dentro 2 milioni di palestinesi. l’alto, colui che lo ha tratto in salvo a un centimetro dall’abisso, insieme a tutta la sua compagnia da manicomio criminale. Questa immonda esibizione, poi allargata ai partecipanti di Sharm el Sheikh accorsi a nettarsi, con una pace di fuffa e di truffa, della propria complicità o ignavia.  

Analogamente dall’altra parte del mondo e, guardacaso, in perfetta sintonia di intenti, abbiamo visto l’investitura a Nobel della Pace di un collaudato arnese dei servizi sporchi a imperialismo e colonialismo. Ringalluzzita dalle trasfusioni di onorabilità concessole da uno dei più grotteschi premi Nobel mai concessi dal dipartimento NATO norvegese, Maria Corina Machado s’è fatta polena della flotta militare che va assediando il Venezuela e promettendo sfracelli alla nazione bolivariana.

Pace “eterna” in Medioriente grazie all’obliterazione dei palestinesi e del loro Stato e al via libera al nazisionismo per il Nuovo Ordine in quella regione secondo i termini del Grande Israele. “Remontada” yankee in America Latina, a partire dalla disgregazione del paese portabandiera del riscatto di quel continente e ricorrendo, per l’ennesima volta, dal primo golpe del 2002, al proprio agente a Caracas. Una fomentatrice ultraventennale di regime change, invocatrice di sanzioni e interventi militari contro il proprio popolo, ora dal Premio Nobel irrobustita e resa internazionalmente punta di lancia della restaurazione “democratica” del cortile di casa.

Maria Corina Machado si è meritata il riconoscimento, quanto Netanyahu la salvezza. Il taumaturgo Trump ha assicurato ad entrambi quanto meno un lasso di sopravvivenza, possibilmente della durata del suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Quello a cui lo hanno chiamato l’aggregato di Deep State, finanza ebraica, Big Tech, Big Armi, e i piccoli ras europei inguaiati dalla propria crisi e a rischio di suicidarsi con una guerra contro la Russia.

Tutto questo succede senza che entrino in scena né la verità, né l’onesta, né la democrazia, né i popoli, la cui autodeterminazione è proclamata obsoleta. La Flotilla, i milioni nelle strade del mondo che hanno costretto le mafie politiche a mettersi in ghingheri di pace, si ricordano di Pier Capponi: “"Voi sonerete le vostre trombe, noi soneremo le nostre campane!"

mercoledì 8 ottobre 2025

“Spunti di riflessione”: Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- PIANO DI PACE, PIANO DI RESA, O PIANO DELLA DISPERAZIONE?

 

“Spunti di riflessione”: Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

PIANO DI PACE, PIANO DI RESA,

O PIANO DELLA DISPERAZIONE?

 

 


https://www.youtube.com/watch?v=0e-Ihl2BeO4

https://youtu.be/0e-Ihl2BeO4

Nel video inquadrature alternative alla vulgata sul Piano di Pace

 

L’etichetta che invita a comprare è “Piano di pace”, la sostanza dentro all’involucro è  “Piano di resa incondizionata”, il nocciolo della proposta è “Piano della disperazione”.

Hamas e le altre componenti della Resistenza hanno ovviamente dato disponibilità al “Piano di Pace”. Non farlo avrebbe potuto far pensare che il loro è un cinico accanimento sulla guerra a spese dell’olocausto in atto del loro popolo. E’ palese, con Hamas, l’esistenza di una formazione bicefala, con una dirigenza, da anni a Doha, incline a ascoltare con attenzione gli indirizzi dell’emiro che la ospita, e i più autonomi successori di Hanijeh e Sinwar sul campo di battaglia a Gaza (presenti con minore evidenza anche in Cisgiordania). Consapevoli, questi ultimi, di essere il fattore determinante perchè il piano sia stato innescato, se non dalla disperazione, da un’urgenza di sopravvivenza del progetto sionista, con relative ripercussioni sul futuro del Grande Israele e, più in là, della restaurazione colonialista nell’area e in generale.

Il piano del trinomio Trump-Netanyahu-Blair arriva a poca distanza da quando, secondo la delicata definizione euro-atlantica, Israele stava terminando il “lavoro sporco” a Gaza e in giro per il Medioriente. Lavoro sporco che sarebbe stato completato con “l’inferno” da scatenare nel caso di rifiuto. Un colpo finale, tuttavia, che ha suscitato un inatteso contraccolpo dalle proporzioni inattese, enormi.

Le operazioni “Spade di Ferro”, prima, seguita da quella chiamata “Carri di Gedeone” (a fini di adattamento biblico), si arenavano entrambe a Gaza City, con avanzamenti dell’IDF verso sud e successive ritirate. Le perdite israeliane si avvicinavano ai 2000 caduti e a decine di migliaia di feriti, confermando lo scetticismo dei riottosi comandi militari e dei servizi segreti, via via decapitati. Israele doveva iniziare a leccarsi ferite sempre più profonde.

Breve elenco. Lacerazione confessionale e politica del tessuto sociale, determinata non solo dalla disponibilità di Netanyahu a sacrificare i prigionieri del 7 ottobre; crisi che si riverberava anche tra le file dell’esercito, con il crescente rifiuto dei riservisti a farsi arruolare, con l’incremento delle diserzioni, dei sucidi dei combattenti, dei casi di stress postraumatico (da curare magari nelle Marche o in Sardegna); una popolazione che i droni e missili yemeniti costringevano a continue corse nei bunker e che i missili iraniani avevano rivelato preoccupantemente vulnerabile; il diseccarsi dell’immigrazione a vantaggio di un flusso di ritorno nei paesi d’origine; l’intiepidirsi, fino al congelamento, dei rapporti economici, commerciali e accademici con il resto del mondo…

Tutto questo a guardare dentro casa. Ma, gettando lo sguardo fuori, si percepiva la nuvolaglia nera farsi nubifragio. La grandinata di riconoscimenti dello Stato Palestinese, che vedevano una lista lunga quanto tre quarti dei paesi del pianeta, 157 su 193 e che, pur carichi di ambiguità, erano imposti per tenere il passo con la pressione delle proprie società. Facevano sì che Palestina fosse diventata la parola politica più pronunciata al mondo. Cosa disdicevole per chi si era adoperato per decenni a sopire, troncare, reprimere, seppellire, l’intera questione. assistito dal collaborazionismo ANP.

Riconoscimenti dettati da un’ola di indignazione mondiale per cosa si sta infliggendo a milioni di civili innocenti di qualsiasi torto, che non fosse la rivendicazione spesso solo della nuda vita. Mercenari che attirano bambini affamati con lo sbrilluccichio di qualcosa da mangiare per poi seccarli con una fucilata. Credo che questo sia stato, nell’oceano di orrori senza precedenti, il suono del gong che ha fatto tremare le mura del tempio di Salomone. E che ha disperso nel vento, come coriandoli alla fine della festa, le parole dette o scritte per convincerci che l’unica cosa buona in Medioriente fosse Israele. 

E allora ecco l’uragano. Quello che ha fatto volare verso Gaza le vele delle flottiglie, quello che ha fatto delle strade del mondo, più di tutte quelle italiane, per una volta avanguardia, una forza incontenibile, un esercito in marcia senza armi. Anzi, con le armi micidiali della coscienza, della compassione, della rabbia e della solidarietà. Un esercito diventato capace di elevare a universale la giustizia, il diritto, l’equità, che si tratti di Palestina, in primis, ma ormai anche delle consanguinee vittime delle diseguaglianze, dei decreti sicurezza, delle bugie a fine di prevaricazione e predazione, dell’esclusione sociale o razziale.

Si capisce perché il mostro bicefalo Trump-Netanyahu abbia dovuto ricorrere ai ripari. Malamente, peraltro Illudendosi che la mega-falsificazione di quanto è accaduto il 7 ottobre, giorno di “Hannibal”, cioè del fuoco israeliano indistinto su nemico e amico, potesse far passare l’inversione vittima-carnefice e tirarle dietro ancora una volta una complicità, attiva o passiva, che però l’uragano nelle vele della flottiglia ha spazzato via per sempre.

A Sharm el Sheikh, una cosca di palazzinari pratici di costruire con mattoni fatti di ossa e cementati col sangue, pensa di poter sistemare 15 milioni di palestinesi, ognuno dei quali aveva, o ha scoperto ora, di essere portatore e diffusore di una pandemia. Il virus si chiama libertà.