A
Martin si è rotto il cuore, all’Irlanda la speranza.
In
morte di Martin McGuinness, già comandante dell’IRA.
Con Martin McGuinness sul luogo di
Bloody Sunday
“Il modo più efficace per distruggere i popoli è negare
loro e cancellarne la comprensione della propria storia”. (George Orwell)
Erano le cinque della sera e anche in Irlanda
a quell’ora si finiva di morire. E iniziava l’inganno dei vivi, di quelli che
lo subirono, di quelli che lo inflissero. Erano le cinque della sera tra il 30
e il 31 gennaio 1972 e si era compiuta la mattanza di Derry, quella che poi
avremmo chiamato la Domenica di Sangue. Gli U2 ci avrebbero fatto una canzone,
Paul Greengrass ci avrebbe fatto un film che avrebbe perpetuato l’inganno
scaricando la mattanza ordinata dal governo di Sua Maestà su qualche militare
fuori di testa, Ci feci un film anch’io. Anzi, era il momento culminante di un film
che avevo iniziato a girare due anni prima e che dei “troubles”, dei guai, come chiamavano la guerra di liberazione
nordirlandese,.raccontava ciò che non è mai più stato raccontato. Me lo aveva
montato Marco Ferreri, nientemeno. Non c’è più, disperso nei caveau delle
polizie nordirlandese, irlandese e di Scotland Yard. che lo confiscarono. La
mia copia andò dispersa con il resto dell’archivio di Lotta Continua, quando
l’organizzazione fu uccisa dai suoi fondatori.
Alle cinque della sera gli spari del 1°
Reggimento Paracadutisti erano finiti. Camminando per i vicoli di Bogside, il
cuore del ghetto repubblicano, nazionalista, cattolico, irridentista, come lo
volete chiamare, si udivano lamenti e imprecazioni terribili. Ogni casa
trasudava il dolore per la perdita di un figlio, un padre, un marito, un
fratello, un amico. Da ogni casa usciva l’urlo della verità: 14 esseri umani,
inermi e innocenti, massacrati a freddo dai sicari in divisa di chi a Londra
aveva ordinato che alle manifestazioni, alle proteste, agli scontri con sassi e
molotov, andava posto fine. O questi “bastardi
fenians” (antica definizione ingiuriosa della minoranza autoctona) si
sarebbero lasciati intimidire, terrorizzare e l’avrebbero smessa di rivendicare
parità con i coloni protestanti, unionisti con la Corona, classe dirigente,
classe ricca. Ma anche un proletariato e sottoproletariato altrettanto escluso,
ma fanatizzato dall’illusione di essere della stessa “razza” dei padroni, nel
giro nobile, comunque non quello degli ultimi. Destino tragicomico dei sudditi
operai dei signori colonialisti. Avrebbero, i cattolici, rinunciato a chiedere
lavoro, case che non fossero “match boxes”,
accesso alla pubblica amministrazione, alla sanità, a scuole decenti e non
britannizzate, la fine delle sevizie degli “Special
B”, il corpo di picchiatori della polizia, e quella degli incursori e
piromani unionisti dai quartieri dove sventolava l’Union Jack.
O, se non l’avessero capita, testa dura
quella degli irlandesi, in lotta contro
il colonizzatore da oltre due secoli, che lo scontro da civili contro le forze
d’occupazione si militarizzasse pure. Che tirassero fuori dalle vecchie pagine
di storia – ultima insurrezione dell’IIRA negli anni ’50 – la fanfaluca
dell’Irlanda unita e da sottoterra le vecchie spingarde. Per l’esercito di Sua
Maestà sarebbe stata un passeggiata e la simpatia del mondo verso chi brandiva
miseria, discriminazione, apartheid, repressione, volontà di riscatto, si
sarebbe tramutata in revulsione verso i “terroristi” dell’IRA. Vecchio trucco.
Che non funzionò, neanche dopo vent’anni, dato che era la lotta di un popolo.
Funzionò solo quando una delle due parti accettò di disarmare. La parte di
Martin McGuinness.
Alle cinque della sera stavo davanti a una tazza di tè, accanto a un
camino, in una “casa sicura”, nelle parti di Free Derry dove l’esercito di
occupazione non osava penetrare. Sullo schermo un Tg esibiva un tronfio e
arrogante generale, tronfio e arrogante come solo i generali sanno essere,
quelli anglosassoni poi… Generale Ford, comandante in capo delle forze
britanniche in Nordirlanda, cosa cazzo stai dicendo? Che a ignari e pacifici
parà i cecchini dell’IRA avevano sparato dai tetti (neanche un ferito tra i
militari) e che i parà a malincuore avevano dovuto difendersi, rispondere ai
terroristi? Che pare ci siano alcuni feriti…..
Dopo la mia esperienza di inviato di guerra
in Palestina, Guerra dei Sei Giorni del 1967, dove si raccontava di un popolo,
qui insediato dalla Bibbia, a rischio di essere gettato in mare da sbrindellate
armate arabe, mentre invece il suo esercito, il quarto al mondo, radeva al
suolo villaggi con i vivi dentro, pensavo di essermi corazzato rispetto alle verità
dei padroni. Ma qui la faccia tosta arrivava al sublime e ti insegnava che di
quelle “verità” non devi fidarti mai, che il padrone, il dominatore, il
capitalista mente sempre e sempre per la gola. La sua gola di antropofago.
.
McGuinness nei giorni in cui mi salvò
dai parà.
A quel punto era necessario salvare le mie
foto e registrazioni audio. Documentavano tutto, il corteo pacifico dei 20mila,
l’irruzione del battaglione parà sulla coda della marcia, dai primi agli ultimi
spari, il panico, la folla disperata o furibonda in fuga, le urla delle donne,
le bestemmie e gli insulti degli uomini. Le teste fracassate, le pance bucate,
i colori del viso che diventavano gialli e poi bianchi, il pilastro scheggiato
dalla pallottola sopra la mia testa, i buchi nella finestra mentre scattavo
foto e che erano la reazione della carabina Sterling di uno degli assassini.
C’era il parà che, ginocchio a terra, prende
la mira, il ragazzo di 16 anni, Jack Duddy, che fermo, a braccia aperte, come
inciso nell’aria, non ci credeva e la pallottola la becca nel cuore, crolla,
sbianca. Piovono raffiche, ma siamo tutti lì attorno a lui che scolora, a occhi
spalancati come attoniti, il prete eroico, l’infermiere eroico, un vecchietto
eroico, per soccorrere, indifferenti alla morte che stava loro addosso. Lo
sollevano, lo portano via a braccia, braccia penzoloni, curvi per schivare gli
spari che continuano. Io sparo scatti su scatti contro gli spari su spari. Su Jack
e poi su Barney, su Jim, su Patrick…..Oggi una di quelle foto ci saluta da una
facciata, quando entriamo a Derry, ancora “free”.
La radio militare, intercettata dai ragazzi
di un’IRA allora nascente a Derry, aveva ordinato di “arrestare quel fotografo
straniero, utilizzando qualsiasi mezzo necessario”. Mettere le mani sul materiale che avrebbe
potuto incriminare, non solo soldataglia abbrutita, ma un governo,
un’eccellenza dell’Occidente civile. La stampa internazionale, accorsa per la
manifestazione dei diritti civili più grande dall’inizio della rivolta, era
stata confinata nella cittadella protestante, dietro le barriere tirate su
dall’esercito. Non doveva vedere, raccontare. Ma noi giornalisti poveri abitavamo
tra le famiglie del ghetto, eravamo già al di qua della barriera, avevamo visto,
potevamo raccontare. Qualcosa di diverso di quanto blaterato dal generale Ford.
Dovevamo essere fermati, i materiali sequestrati.
Conoscevo Martin McGuinness, neanche
vent’anni, già capo della brigata di Derry dell’IRA Provisional. La serietà e l’allegria
di un combattente antico e giovane. Un carisma sconfinato. Era una notte buia e
tempestosa, consentitemi la citazione banale, ma appropriata. Per la nebbia non
si vedeva a tre metri dalla macchina. Una fortuna. Per vie secondarie,
carrarecce, tratturi, fendendo una nebbia che ci occultava ai britannici,
Martin mi portò alla vicina frontiera con la Repubblica, contea di Donegal.
Scambio di vetture e accompagnatori, efficienza che avrebbe mantenuto in piedi
la resistenza fino al 1998, Venerdì Santo, accordo del disarmo e della
“pacificazione”. E oltre. E così che, dai giornali e dalla tv di Dublino, una
verità altra, rispetto a quella del generale serial- e masskiller, potè
raggiungere il mondo e far capire, a chi a capire era disposto, “di che lacrime
grondi e di che sangue” il monopolio della forza dei padroni che si proclamano
Stato. Il loro.
Nel corso della mia lunga frequentazione di quel
popolo indomito, la più lunga lotta anticoloniale della storia umana, Martin
McGuinness l’ho incontrato tante volte. Mi informava, mi faceva conoscere cose,
aspetti, compagni partigiani, il capo di Stato Maggiore a Dublino, allora
McStiofain, la sua bellissima mamma che mi cucinava l’arrosto di agnello. Mi ha
onorato della sua fiducia. Gli ho voluto bene anche dopo che le scelte, più del
gran capo Gerry Adams che sue, avevano contrapposto la sua visione su ciò che
sarebbe stato bene, per la sua comunità e per l’Irlanda tutta, alla mia e a
quella di coloro che ritennero di
mantenere fede al giuramento di liberazione, al poeta combattente Bobby Sands e
ai suoi dieci compagni, morti, avvolti in coperte luride, dopo due mesi di
sciopero della fame, per non essersi fatti travestire e degradare da criminali
comuni. Come alle migliaia di martiri dell’unità, dell’identità, della libertà.
Bobby Sands e Nelson Mandela
Un quarto di secolo di lotte, dopo due secoli
di lotte, dopo la carestia – “disastro naturale” come i tanti manovrati dai
potenti - a metà dell’800, che aveva dimezzato, tra morti ed emigranti, la popolazione
d’Irlanda perché abbandonata al morbo delle patate, mentre i latifondisti
inglesi si arricchivano con l’esportazione di ogni bene irlandese. Dopo la
mutilazione della nazione, con la negazione dell’indipendenza alle sei contee
del Nord. Dopo Bobby Sands e i suoi compagni assassinati da Margaret Thatcher.
Dopo una storia infinita di sogni e sangue, di sopportazione al limite del
sovrumano, non poteva finire così. Con un governo provinciale fantoccio a
Belfast, comandato a distanza da Londra e in cui gli schiavisti d’antan e di
sempre dividono un potere vernacolare con gli schiavizzati di ieri e di sempre.
Perché nelle condizioni di vita, nelle privazioni sociali, nella subalternità
politica, nello spadroneggiare degli unionisti (a cui non si è chiesto di
disarmare!) nulla è cambiato.
Qualche serie di casette a schiera in più. Un
posto da subalterno in polizia, o nell’amministrazione. Le strade rattoppate. I
pub riverniciati. Le scuole alla pari. Ma sempre, come ribadiscono episodi che
ricorrono oggi come ieri, a rischio di teppisti unionisti armati.
Martin McGuiness ne era diventato il
co-premier accanto ai proconsoli di Londra, gli unionisti orangisti,
dichiaratamente fascisti, di Ian Paisley. Se il cuore di un combattente
temprato come lui non ha retto, a soli 66 anni, penso di poter immaginare che
sia stato anche per quella resa, per quell’Irlanda verde e unita sparita dall’orizzonte,
per quell’inchino alla regina, per la rabbia di tanti, per i sogni di gioventù,
per dover affrontare nella sua Derry gli sguardi di dolore e di sgomento dei
suoi, di coloro di cui a vent’anni aveva impersonato la dignità e la certezza
della vittoria. Per dover collaborare, con padroni e nemici di una vita, alla
persecuzione e repressione di quanti, nel Nord, soffrono esattamene come prima
e di coloro, suoi compagni d’un tempo, che insistono a non arrendersi e
continuano a chiamarsi IRA, Real IRA,
Continuity IRA, come nei secoli.
Gerry Adams se ne è andato al Sud, nella
Repubblica. Sinn Fein, il partito che si diceva braccio politico dell’IRA, è
diventato braccio politico di una tenue socialdemocrazia sud- irlandese che,
irritata dalla Brexit, sogna di proseguire un boom, che è tutto del capitale e
delle multinazionali, restando nell’UE, nelle fauci di chi macina nazioni e
classi subalterne..
Il 24 gennaio 2013 moriva Dolours Price.
Militante repubblicana, non era ancora una volontaria dell’IRA Provisional
quando la portai in Italia, per un giro di conferenze nelle università. Lei e
la sorella Marian, nel 1973, misero bombe al palazzo di giustizia di Londra,
l’Old Bailey. Un atto simbolico, non ci rimase nessuno. Ma furono condannate
all’ergastolo, poi ridotto a vent’anni. Accusò Adams di tradimento, di aver
addirittura negato di essere stato capo di stato maggiore dell’IRA. Per questo,
denunciò, fu minacciata da elementi del Sinn Fein. Morì per un eccesso di
barbiturici, senza aver mai dato segni di volontà di morte, combattiva più che
mai. Non ci furono indagini.
Se oggi giri per i quartieri delle opposte
comunità, trovi che non è cambiato niente. A Falls Road di Belfast come a
Derry, repubblicani, a Shankill Road come a Coleraine, unionisti, gli stessi
murales, gli stessi vessilli, le stesse invocazioni di giustizia, le stesse
accuse di repubblicanesimo, gli stessi simboli e ricordi di guerra. Hai voglia
a parlare dell’accordo del Venerdì Santo 1998, Good Friday, qui in sostanza non è cambiato niente. Ci sono
ricapitato l’anno scorso, per deporre all’ennesima inchiesta su Bloody Sunday,
stavolta condotta dalla polizia nordirlandese, figurarsi. Già i militari della
strage si sono rifiutati di deporre e nessuno li condannerà mai. Tanto meno i
mandanti. Il mio avvocato e grande amico, Ciaran, che è anche il legale di
molti prigionieri repubblicani e di coloro che dai filo- britannici sono stati
offesi, mi ha portato in giro per tutta
Belfast. Pareva il 1970, o 80, o 90.
A Derry ci sono tornato per il 45° anniversario
della Domenica di Sangue. C’ero stato, invitato dal Comitato delle Famiglie
delle vittime, nel 1992, al ventesimo anniversario. Al 30° no. Niente invito,
c’era stata la “pacificazione” e uno come me, che agli inglesi, nuovi partner,
le palle le aveva rotto parecchio, avrebbe stonato nell’atmosfera della
pacificazione. Stavolta sono stato
invitato dai “dissidenti”, gli “Artisti di Bogside”, Tom Kelly, suo fratello
William (morto da poco) e Kevin Hasson. Sono gli autori dei più bei murales di
Derry, compreso quello tratto dalla mia foto di Jack Duddy. Vanno in giro per
il mondo a far raccontare ai muri dolori e onori degli oppressi, infamie e
ottusità degli oppressori.
Anche a Derry non è cambiato niente. La
povertà è la stessa di allora, la gente più malmessa, il corteo della
ricorrenza ancora combattivo, ma senza sorrisi. La brutta, la tragica novità è
la spaccatura all’interno di una comunità che era rimasta compatta a dispetto
di tutto. I cambiamenti, le svolte, le “innovazioni” di Gerry Adams non sono
passati. Non nella maggioranza. Così Adams la sua cerimonia l’ha fatta quasi da
solo, davanti all’ingresso di “Free Derry”, attorniato da pochi. Nel corteo per
il solito percorso, dal verde della collina di Creggan alla valle delle casette
“match box” di Bogside, c’erano tutti
gli altri, con le bandiere dell’Irlanda unita.
Solo la mattina, davanti al cippo con i nomi
delle vittime, s’è vista un po’ di unità. Gli stanchi, gli irriducibili. E qui
c’era anche Martin McGuinness. Si era dimesso dal governo di Stormont (così si
chiama il palazzo a Belfast), un po’ perché gravemente sofferente di cuore, ma
anche perché la collega, co-premier della destra-ultrà unionista, era rimasta
coinvolta in uno scandalo immobiliare e non si voleva dimettere. E forse,
ancora, per cose più profonde. Che quella mattina segnavano il suo viso
pallido.
Ci siamo visti e, mentre venivano pronunciati
dal cippo i nomi dei 14 caduti, ci siamo abbracciati. Ho abbracciato il ragazzo
che difendeva Derry. Anche quella volta in cui salvò me e la documentazione della
strage di Stato. Un ragazzo che oggi non ce la faceva più, sotto il peso di
tante cose. Gli ho detto, sapendo di come il tempo passa sopra le fisionomie: “Sono
Fulvio”. E lui: “Ma so bene chi sei, lo saprei anche fra cent’anni”. “Come
stai?” “Mica tanto bene, vieni a casa più tardi?” Non ci fu il tempo. Ero con
dei ragazzi di Roma che giravano un documentario sui murales, su Derry, su me
testimone.
Sono contento di averlo rivisto, Martin, e mi
prende una stretta mentre lo scrivo. Ha tenuto duro per tanti anni. Per tanti
anni è stato una bandiera. Non ha mai né rinnegato, né occultato il suo ruolo
di combattente. Questo, più che altro, resterà di lui a Derry, in Irlanda,
accanto a James Connelly, a Bobby Sands. Chi sono io per non condividere un
frammento del dolore che ha portato a spezzarsi il suo cuore?