“Se insisti a concedere scuse, finisci col
dare la tua benedizione al campo degli schiavi, alle forze della codardia, a
giustizieri organizzati, al cinismo dei grandi mostri politici. Alla fine
consegni i tuoi fratelli”. (Albert Camus)
“Stati conquistati abituati alla libertà e
al governo delle proprie leggi possono essere dominati dal conquistatore in tre
modi diversi. Il primo, è distruggerli; il secondo è che il conquistatore ci
vada e vi risieda personalmente; il terzo è di consentirgli di continuare sotto
le proprie leggi, assoggettati ai tributi e di crearvi un governo dei pochi che
mantengano l’amicizia con il conquistatore”. (Nicolò Machiavelli)
La trimurti
del terrore in Medioriente, Israele-Turchia-Arabia Saudita, sta alla triplice
del dominio mondiale, USA, UE, sionismo, come il papa sta alla SS Trinità.
Nella strategia, la prima obbedisce alla seconda, nella tattica ogni tanto ne
diverge. Quello che sta succedendo in questi giorni in Medioriente va
inquadrato nella prima ipotesi, o nella seconda? Questo è il problema. A loro
volta le due triadi sono gli strumenti del Grande Inganno Planetario, noto
anche come Dollaro, l’entità suprema che, nel nostro piccolo, negli anni ’70
delle stragi e del terrorismo di Stato, avevamo definito il Grande Vecchio. Il
cataclisma innescato dai mostriciattoli di Riyad e che minaccia l’apocalisse
rispetto alla quale quella di San Giovanni potrebbe sembrarci una scaramuccia,
è iniziativa propria, autoctona, o esegue un mandato superiore? Ce lo diranno gli sviluppi.
Intanto
atteniamoci ai fatti sul terreno. La decapitazione e crocefissione del massimo
clerico scita in Arabia Saudita, insieme a quella di altri oppositori della
petrodittatura, fatti passare per Al Qaida che, poi, paradossalmente, è una
creatura spurgata dal grembo tossico dello stesso regno in concorso con Cia e
Mossad, è in prima istanza un’operazione diretta a sventare il poker d’assi
calato sul campo da Putin. Il progetto di riordino del Medioriente, formulato
dall’israeliano Oded Yinon nel 1981 per sventare la minaccia di una Nazione
Araba che, riunendo i vari Stati liberatisi dal colonialismo, ponesse sulla
scena mondiale un nuovo, formidabile attore, dotato di numeri, volontà,
petrolio e paradigma sociale alternativo, risponde certamente agli obiettivi
comuni dei soggetti sopra elencati. E’ sul metodo che divergono. Se sia meglio
il fosforo bianco che incenerisce subito, o l’uranio che uccide nel tempo.
Cuba e Iran,
come affrontati da Obama nella fase terminale del suo mandato, rappresentano il
metodo soft, quello in cui certi poteri economici si ripromettono il dominio
globale attraverso la corruzione e l’addomesticamento di avversari gradualmente
omologati al proprio modello. Israele, Arabia Saudita, Turchia e altri poteri
economici USA-UE, come il complesso militarindustriale, di cui sono espressione
politica i neocon (Hillary compresa), puntano all’annientamento tout court. Nel
loro caso prevale anche un’altra considerazione: l’urgente necessità di
liquidare un dissenso interno gravido di potenziale insurrezionale: palestinesi
qua e oppositori interni là. Come anche
di superare una crescente crisi economica. La soluzione di questa è
vista nel controllo del petrolio tutto, ovunque si trovi, sangue che fa battere
il cuore del capitalismo imperialista. Alla faccia della farsa allestita a
Parigi, con i fuochi fatui del COP21, e della stessa sopravvivenza di tutti
quanti (tanto, per i furbi della negazione del mutamento climatico, il rischio
non esiste e, se esistesse, lo superano i miracoli tecnologici delle
geo-ingegneria).
Perché la
riduzione forzata del prezzo del petrolio, se era diretta inizialmente a
sfiancare protagonisti energetici
concorrenti, come Russia, Iran e Venezuela, a lungo andare ha minato
anche la tenuta sociale, economica e dunque politica, di chi l’ha promossa. Ed
ecco che chi molto petrolio ce l’ha, come i sauditi e annessi subalterni del
Golfo, chi non ne ha, ma se lo fa pompare dai vassalli curdi, nel caso di
Turchia e Israele, ha preso l’abbrivio ed è partito alla conquista del resto.
Grazie all’Isis, forse oggi più saudita-turco-israeliano che statunitense (gli
Usa vantano l’autosufficienza energetica), in Iraq, secondo detentore mondiale
di riserve, Libia, terzo, e Siria, produttore minore, ma strategicamente
irrinunciabile per le vie del petrolio, le cose si stavano mettendo bene. Prima
che arrivassero i russi .
Poi c’è
l’Iran, per la trimurti mediorientale nemico pubblico numero uno. Washington e
Tehran hanno trovato un modus vivendi che si pensa possa favorire gli Usa nel
loro tentativo di isolare ed assediare la Russia e, al tempo stesso, consentire,
grazie all’attuale presidenza di Rouhani, espressione dei ceti altoborghesi
filoccidentali, la penetrazione e manomissione delle multinazionali
nordamericane. L’Iran, come Cuba, mette in gioco quanto il predecessore di
Rouhani, Ahmadinejad, aveva realizzato a
favore di un’equa distribuzione della ricchezza, della crescita politica e
sociale delle classi popolari, del ruolo geopolitico. Ma per Arabia Saudita e Israele, che da anni
strepitano contro l’accordo sul nucleare, e per la Turchia, che è arrivata
addirittura alle mani con la Russia, abbattendo il cacciabombardiere Su-24, è lampante che un
Iran rientrato nei giochi rappresenta l’inizio di un possibile processo di
marginalizzazione del proprio potere contrattuale rispetto al resto del mondo.
Il gioco è d’azzardo, ma confida nel
fatto che, alla resa dei conti riuscirà perché, nella scelta, gli Usa e i
poteri che ne fanno uso militare, escatologicamente, non avranno… scelta.
La
sanguinaria impennata dei sauditi, oltretutto in crescente difficoltà in Yemen
dove, nonostante gli stermini bombaroli e l‘affamamento di tutto un popolo,
nononstante l’impiego di mercenari Blackwater colombiani, americani e francesi,
non riescono ad aver ragione delle forze patriottiche a egemonia Houthi (sciti),
punta a portare alle estreme conseguenze lo scontro confessionale tra sciti e
sunniti. Lo schieramento scita di Iran, Iraq, Siria, Yemen, Hezbollah, con le
popolazioni scite insofferenti e sempre più insorgenti in Bahrein e nella
stessa Arabia Saudita, grazie all’intervento russo si è collocato stabilmente nella metà campo
dell’avversario. Al quale non è rimasto che puntare ai rigori. Sperando di
poter far tirare dal dischetto anche il contravanti statunitense, convinto dal
dato oggettivo di giocare in una squadra da sempre amica, piuttosto che
trasferirsi in una in cui non può essere certo di essere bene accolto. Hai
visto mai che torni Ahmadinejad, o uno come lui.
Insomma
siamo al redde rationem. Sauditi,
turchi e israeliani vogliono giocarsi il tutto per tutto e forzare gli Usa e
i padroni del dollaro a rinsaldare, nell’Armageddon, gli antichi e comprovati
vincoli. Il passo è lungo. E definitivo. Più lungo, forse, della gamba. Resta da
vedere quanta carica antimperialista resta nell’Iran di Rouhani, quanta
determinazione e tenuta avranno i russi, se il gioco sunniti contro sciti
riuscirà a coinvolgere masse sufficienti per un rogo generale, ora che Baghdad,
Damasco e i loro alleati stanno riducendo l’incendio Isis a grigliata sotto la
pioggia.. E resta da vedere a quale dei suoi referenti in alto, ai suoi
burattinai, darà retta Obama.
Chiudo con
una nota su quanto vanno farneticando certi gazzettieri, dall’abisso della loro
ignoranza, o allineamento alla vulgata del divide et impera, sul presunto,
storico e ontologico, conflitto sciti-sunniti. Prima che il colonialismo nel
mondo arabo e, più recentemente, il generale Petraeus in Iraq, cospirassero per
suscitare quella divisione, sciti e sunniti, sui documenti di identità, nei certificati
di nascita e matrimoniali e nell’anima, non avevano scritto la confessione.
C’era solo scritto iracheno, siriano, arabo. Tutt’al più musulmano.