L’ERA DEI QUISLING
Da Oslo a Ramallah, passando per Kiev e Roma:
quando il colonialismo si fa furbo
di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico
La Cisgiordania, a forza dai suoi pulitori etnici e
relativa banda musicale mediatica oscurata dietro alle nuvole nere degli
sconquassi geopolitici che Trump va provocando in Europa e a Gaza, del processo
colonialista di quislinghizzazione offre un modello esemplare. Dopo anni,
decenni, di mistificazione, Abu Mazen-Mahmud Abbas, tuttora dichiarato, pur
senza legittimazione democratica, rappresentante della propria gente, convinto
al passaggio alla forza bruta del suo dante causa esterno, ha gettato la maschera.
Da Quisling dalle buone maniere, con bandierina palestinese sul bavero, a
sicario.
La
Cisgiordania, con Gerusalemme cuore della Palestina, sta venendo rasa al suolo
ed è iniziato lo svuotamento alla Trump”, Clean that thing out”. Già
40.000 abitanti sono stati espulsi dalle loro case dall’IDF e dalle razzie dei
fascisti coloni. Abu Mazen ha preparato il terreno.
La vicenda si dipana dagli inizi del colonialismo moderno,
XVI secolo, ma ha anche suoi precursori nei potentati locali a cui Roma
affidava, in nome e nell’interesse suo, la gestione degli affari, Parti,
iberici, Traci, giudei, o altri. Meno affidabili i celti e i germani.
Altalenante il rapporto con gli etruschi, dove capitava che i ruoli di Quisling
e di dominus se scambiassero.
Al tempo del colonialismo europeo degli ultimi due, tre
secoli, governo, controllo, indirizzi sociali, economici e culturali, erano
affidati alle capacità persuasive e predatrici del governatore. Di solito un
membro dell’élite colonialista. Mi limito a ricordarne l’epigono in India, Lord Louis
Francis Albert Victor Nicholas Mountbatten, I° conte Mountbatten di
Birmania, nato principe Louis di Battenberg. Un tedesco, come tutti i
recenti reali d’Inghilterra, al quale il fulgore di morte del colonialismo
d’antan assegnò addirittura il titolo di Vicerè delle Indie. Concluse la
carriera partecipando alla repressione colonialista in Irlanda e, nel 1979, sul
suo panfilo al largo di Mullaghmore, fu fatto saltare in aria dall’IRA.
Fine di governatori e vicerè spediti dalla “madrepatria”. Si
passa alla delega. Dal rappresentante di lontane corone e poteri al membro
della comunità colonizzata, finto governante ed effettivo mandatario del vero
potere, di solito oltremare. Sicur
Nel 1940, a Oslo, fu Vidkun Quisiling. Nome e poi qualifica.
Capo di un movimento fascista norvegese, viene per meriti extra-patriottici (ma
forse ci credeva) installato dagli invasori tedeschi premier del governo, sotto
tutela diretta del General Nikolaus von Falkenhorst. . Giustiziato a fine
guerra. Come lui, stessa fase, Pierre Laval, 4 volte presidente del consiglio
francese negli anni Trenta, Vicepremier nel 1940, fucilato nel 1945, nominato
dagli occupanti tedeschi insieme al presidente del Consiglio, generale Philippe
Petain, non giustiziato per meriti conseguiti nella prima guerra mondiale.
Per quel che riguarda l’America Latina post-scoperta di
Colombo (recentemente celebrata in TV da Aldo Cazzullo con la chiosa che, “per
ringraziarci, gli americani ci hanno poi liberato dal nazifascismo e dal
comunismo” (sic), si è sempre passati per le spicce: colpi di Stato e Quisling
scopertamente dittatori. Il metodo kissingeriano è stato poi ammodernato
promuovendo (USAID, NED, propagandisti “umanitari” vari) soggetti locali
attraverso processi “democratici” che mantenessero le apparenze.
E qui il dominio oligarchico sui media, conseguito in
Occidente a partire dalla fine del secolo scorso, in combutta con le ONG degli
“aiuti”, hanno consolidato il metodo. La strategia del teatrante locale con
souffleur nel pozzo e ventriloquo nel palazzo imperiale, scelto dal popolo
auto(ma etero)determinato, ha avuto un successo tale, da essere ormai la
costante nell’Occidente politico e in buona parte di quello che si definisce il
Sud globale. Quanto meno la parte non ancora nell’orizzonte BRICS.
Tutto questo per capire come si possa essere arrivati al
vero e proprio apice del quislinghismo contemporaneo nel tempo che stava
perfezionando la liquidazione di una presenza umana storicamente determinata.
Liquidazione tramite genocidio. Genocidio prima strisciante, poi risolutivo,
politicamente e materialmente agevolato da rappresentanti formali degli stessi
giustiziandi. Davvero il top del quislinghismo.
Permettetemi un ricordo personale che, però, coincide con un
momento di svolta nella storia della Palestina espropriata e avviata al
disfacimento. Svolta verso una resistenza da vetrina con manichini, dopo mezzo
secolo di lotte fondate sulla coscienza limpida dell’ingiustizia subita e del
diritto, prevalente su tutto (anche sulle ubbie dei nonviolenti da balcone), a
lottare con tutti i mezzi per libertà, sovranità e ricupero della propria
terra. Resistenza, allora, con il robusto retroterra politico, diplomatico,
finanziario, dei grandi paesi arabi: Iraq, Egitto, Siria, Libia (non per nulla
smantellati nella fase propedeutica al genocidio, come indicato nel 1982 dal
consulente del premier Sharon, Oded Yinon e confermato a Washington nel 2001
con i famosi “6 Stati arabi da eliminare”).
Ricordo che lasciando Baghdad, aprile 2003, con gli
americani che, con una cannonata, avevano bucato il mio albergo (il mitico
“Palestine”) e ucciso due colleghi spagnoli, il mio taxi si fermò a un posto di
ristoro sulla via di Amman. Lì mi capito di prendere un tè con due autisti
iracheni che, su ordine del proprio governo, nella capitale già occupata, con
il loro pullmino portavano aiuti e i soliti 10.000 dollari per ogni famiglia
palestinese che avesse avuto un martire, o perso una casa.
E furono le rivolte dei villaggi, i mille episodi
dell’insubordinazione sassaiola, i dirottamenti del FPLP, gli attentati
suicidi, la prima e la seconda intifada, la riconquista di Gaza liberata dai
coloni, il trionfo elettorale di Hamas (poi ignorato per vent’anni) in tutti i
territori occupati. Ma anche, a smorzare la realtà, l’espediente cosmetico di
Camp David (fuori l’Egitto) e poi l’altro maquillage tossico di Oslo (fuori
tutti gli arabi e mezza dirigenza palestinese).
E’ nel valico tra i due secoli che succede il fenomeno
stellare di una nuova sollevazione di popolo che non si lascia intimidire dalla
prosopopea antiterrorista di un potere che più terrorista non si può. E che
vede nel moltiplicarsi dei coloni e nella relativa perdita di spazi, la
minaccia più letale dal tempo delle pulizie etniche della Nakba. Sollevazione
guidata dai giovanissimi reduci della prima Intifada (anni ’80), spesso
laureati a Bir Zeit, Gaza, o all’estero e che stava incendiando anche le zone, come
la Valle del Giordano, che Israele pensava di aver normalizzato. Una nuova
atmosfera, agevolata anche dal fatto che Russia, al netto dei suoi rapporti,
mai troppo interpretabili, con Israele, e Cina, ricevevano e condividevano
delegazione palestinese su delegazione palestrinese, spesso guidate da Arafat.
In un precedente articolo per L’Antidiplomatico, ho provato
a raccontare lo scontro che si verificò tra la nuova generazione scaturita
dalla prima Intifada e la vecchia guardia, protetta da Tel Aviv e dal
riferimento a un Arafat tanto mitico, quanto insenilito. Gruppo vecchio e
corrotto, abbarbicato a Oslo e alla compiacenza dei sionisti che gli
assicuravano guarantige e ruolo formale. Ne fui testimone a Ramallah, nel fuoco
degli scontri della fase più acuta, primavera del 2002, in due occasioni
significative. Un’assemblea dei dirigenti dell’Intifada con Marwan Barghuti,
segretario di Al Fatah e parlamentare dell’ANP, e Zakaria Zubeidi, testè
liberato dopo anni di carcere alternati a brevi periodi di libertà, che guidava
le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, formazione militare di Fatah.
Occasione in cui si ribadì il diritto di un popolo
espropriato e oppresso di lottare con tutti i mezzi, garantiti dalla Carta
dell’ONU, contro il colonizzatore e, al tempo stesso, la necessità della
convivenza di ebrei e palestinesi sullo stesso territorio, senza che i primi
prevaricassero sui secondi e sul loro diritto al ritorno e a costituirsi in
Stato. Ovviamente liberi da insediamenti coloniali.
L’altro è stato l’intervista con Barghuti, prima di un
incontro tra popolazione e dirigenza OLP-ANP nel teatro di Ramallah. Qui la
cesura tra le due opzioni politiche e militari era resa evidente
dall’allestimento: un palco con al centro il podio di un Arafat balbettante e
smarrito e, ai due lati rispettivamente, i vecchi burocrati plaudenti e il
gruppo dei giovani impegnati nella radicalizzazione della lotta di liberazione
e che manifestavano un evidente sconcerto alla sempiterna ripetizione
arafattiana del ritornello della “pace in Terra Santa”.
Zakaria ha avuto madre e mezza famiglia martirizzata in
assassinii dell’IDF. Nel 2006, prendendo in mano e dirigendo la straordinaria
esperienza del “Teatro della Libertà” nel campo profughi di Jenin, esperienza
pagata con incursioni, distruzioni, arresti e omicidi di Israele, era diventato
l’amatissima figura-simbolo dell’identità e vitalità palestinese anche sul
piano culturale. Il titolo di Che Guevara della Palestina, che in
quell’occasione, gli ho visto dedicato sulle magliette dei giovani, spettava sia
a lui che a Marwan (5 ergastoli e 20 anni per “complicità col terrorismo”).
Dopo aver provocato la più pesante crisi sociale, economica
e politica vissuta da Israele, prima dell’attuale, l’Intifada fu sconfitta
militarmente, la sua dirigenza sterminata con carcere e uccisioni. Israele
aveva creato una pianura sgombra per l’imporsi, a dispetto della vittoria
elettorale di Hamas nel 2006 in tutta la Palestina occupata (ultima elezione
consentita dal quasi nonagenario Mahmud Abbas), del Quisling palestinese e del
suo collaborazionismo incondizionato.
Sbandierando l’ipocrita formula della “Palestina laica”, del
“processo politico e diplomatico”, della nonviolenza, dell’antiterrorismo
mutuato direttamente dal Knesset e dai suoi governanti (ed entusiasticamente
ripreso da ogni mezzo dì informazione italo-occidentale), Abbas s’impegna a
tenere a bada ogni singulto di reazione militante tramite gli 80.000 poliziotti
concessigli e un apparato di intelligence intrecciato a quelli di Mossad, Shin
Bet e CIA. Le condizioni sono idonee perché, nel dicembre 2024, il Quisling
palestinese, o piuttosto la sua cricca, venga chiamato in campo a preparare la
gazificazione della Cisgiordania.
Un mese di interventi repressivi nei centri dove si
trovavano, o sospettavano, embrioni di formazioni della resistenza armata,
Jenin campo e città, Tulkarem campo e città, Nablus, Hebron, Al Faraa, Valle
del Giordano, dovevano approntare le condizioni per l’inizio della pulizia
etnica, prodromo dell’annessione. Vengono arrestati decine di militanti, o
semplici abitanti ritenuti implicati, uccisioni che superano le centinaia, ma
non sono degne di calcolo, o di comunicazione. Le resistenze ci sono, ma data
la calma piatta degli anni precedenti, risultano improvvisate. Per ora.
Il 21 gennaio, il gabinetto nazifascista di Netaniahu,
incoraggiato dal “più grande amico di Israele” e dal suo lancio dello sgombero
di Gaza a fini palazzinari, trova il terreno sufficientemente preparato. E ci
si avventa. I risultati, in corso, potrebbero essere sotto gli occhi di tutti,
se non ci imbambolassero con il tiraemolla dei negoziati di tregua, con gli
sbalordimenti dell’Europa sotto i guantoni di Trump, succeduti ai guantini di
Biden e Obama che nascondevano gli artigli.
Invece, sotto gli occhi del mondo, che assiste in platea,
dopo Gaza, la Palestina dell’esilio, ecco che Israele e Quisling si dedicano
alla Cisgiordania, la Palestina di Gerusalemme, quella dal fiume al mare. Che
non se ne parli mai più. Deve diventare Giudea e Samaria, come dettato dalla
Bibbia, che detta pure gli ulteriori territori. Se ne occupano “L’Esercito più
morale” del mondo, tuttora d’intesa con le truppe quislinghiane, e 800.000
colonj armati e più belluini di qualsiasi brigatista nero in una sede di
socialisti del ‘22, Sarà per questo che Meloni tace.
Così un presidente palestinese, Quisling dei più
abietti nella storia di questi figuri da Giudecca, si è fatto carico delle
centinaia di vittime delle incursioni di carri armati, artiglieria, droni
kamikaze, cacciabombardieri e…ruspe. Case abbattute a centinaia, insieme alle
reti elettriche, alle canalizzazioni dell’acqua, alle botteghe degli
alimentari, nuove strade riservate a militari e coloni, strade ostruire o
cancellate tra gli abitati palestinesi. Scuole e ospedali demoliti, corsi e
trattamenti azzerati. Come a Gaza, si conta sull’invivibilità. Non ci deve più
essere società, più connessione, più territorio. Né passato, né presente, né
futuro.
Aspettando Hamas.
Pensate che il fenomeno dei Quisling si sia andato
confinando da quelle parti, altre, lontane da noi? Perché a sgovernare,
reprimere, truffare il proprio popolo e paese a vantaggio e secondo ordini
altrui, dalle nostre parti non ci sarebbe nessuno? E Zelensky non lo vogliamo
far gareggiare con Abu Mazen per il primo posto nei ghiacci della Giudecca?
E Meloni e tutti i capi e sottocapi UE, tranne un paio, dove
li manda Dante secondo voi?
PS
I traditori della patria sono una categoria di dannati
che Dante e
Virgilio incontrano il pomeriggio del 9 aprile nel IX cerchio dell’Inferno (Inf.
XXXII e XXXIII). Puniti nella II zona (l’Antenora),
sono colpevoli di aver tradito, per somme di denaro o altre concessioni, la
loro patria o la loro parte politica; per questo sono immersi sino all’anca nel
lago ghiacciato Cocito, con la testa eretta e piangendo nel mentre, per il
dolore che provano, le loro lacrime si congelano all’istante, provocando
un’ulteriore sofferenza.