martedì 15 luglio 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- Terroristi i partigiani quando sono palestinesi? --- MEDIORIENTE, CARTA VINCE CARTA PERDE

 



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Non solo RAI, La7, Mediaset

La BBC, magistra informationis, che mi avviò, con notevole rigore e ricchezza di istruzioni, al mestiere che da quegli anni ’60 cerco di praticare, quanto meno con integrità, è sotto schiaffo. Uno schiaffone non da poco, somministrato nientemeno che da oltre un centinaio di suoi giornalisti, alcuni tra i più prestigiosi e da più di 300 professionisti del reparto audiovisivo. Il documento, pubblicato su tutti i media, denuncia dell’augusta “Auntie” (zia, come la si chiama da sempre) le indecenti manipolazioni, falsità, distorsioni, gli occultamenti. Il tutto sotto il titolo “Disinformazione sistematica dell’informazione BBC sul conflitto israelo-palestinese e, specificamente, su Gaza”.

I rimproveri, a volte dure proteste, mirati personalmente al direttore generale Tim Davie e che chiedono le dimissioni di Sir Robbie Gibb, Consiglier d’Amministrazione e già capo delle Comunicazioni del governo tory di Theresa May, parlano di strutturale faziosità filo-israeliana e filoccidentale, di censure editoriali, pressioni interne e silenziamento delle voci fuori dal coro, con minacce di rappresaglie a chi non sta agli “ordini di servizio”.

Ci hanno negato il nostro lavoro di giornalisti. Ci hanno censurato articoli critici di Israele. Si pretende da noi una neutralità che in realtà si traduce nell’invisibilizzazione della sofferenza dei palestinesi e della loro resistenza”, dichiara il testo. Con particolare indignazione viene poi menzionata la cancellazione del documentario “Medici sotto attacco”, che documenta le distruzioni e stragi israeliane di tutti gli ospedali di Gaza.

Il documento, che solo un’allucinazione potrebbe immaginare ripetuto dai giornalisti e dipendenti del nostro servizio pubblico e magari indirizzato anche a Enrico Mentana, così conclude: “Siamo collassati in termini dei nostri tradizionali standard deontologici. Non stiamo informando con correttezza e contesto, né rappresentando le vittime palestinesi con umanità. Si priorizza la protezione di Israele da qualsiasi critica piuttosto che riferire la verità”. E, con riferimento alle differenze di valutazione degli eventi d’Ucraina rispetto a quelli in Palestina:” Perché utilizziamo termini come “massacro” o “crimine di guerra” per gli uni e non per gli altri? Perché la voce dei palestinesi viene sistematicamente presentata come sospetta?

Attingendo alle stesse fonti e formulando interpretazioni basate sulla stessa linea politico-editoriale, si può estendere la denuncia della narrazione BBC su Gaza a quasi tutta l’informazione generalista in Europa e nell’Occidente politico. Basti pensare che Hamas, movimento di liberazione, è sulla lista delle organizzazioni terroristiche. Israele no. E neppure gli USA. E neppure i fascisti italiani. Con, tuttavia, elementi in controtendenza che si sono potuti manifestare e, in alcune occasioni, anche imporre, grazie alla sicumera editoriale dei disinformatori, che gli ha fatto commettere peccati di avventatezza e faciloneria.

Il vero e il falso delle Mille e una giornate mediorientali

E’ il caso, ancora poco evidenziato, della Resistenza delle organizzazioni militanti e combattenti in Cisgiordania e, soprattutto, a Gaza, ma anche dei missili che a Israele arrivano dallo Yemen, e che colpiscono porti e complessi industriali, e dei colpi a mercantili diretti a Israele (vedi qui l’affondamento del cargo greco “Magic Seas” nei giorni scorsi, di cui gli yemeniti hanno poi tratto in salvo l’equipaggio).

Ma è soprattutto il caso della “guerra dei 12 giorni” di Trump e Netaniahu, trasformata da debacle strategica in epopea sion-statunitense. Le iniziali narrazioni, diffuse a trombe spiegate più dal bimbominchia Trump che dal suo più cauto ed esperto compare di Tel Aviv, a costante rischio di sputtanamento agli occhi di una popolazione insofferente, sono già state rosicchiate da risonanti voci dal sen fuggite e pubblicate da media impertinenti qua e là.

Vale la pena riassumere in un breve elenco quanto tra immagini satellitari, media israeliani come “Times of Israel”, o “Haaretz”, autorevoli quotidiani pur nettamente filo-atlantici e filo-israeliani, come “The Telegraph”, ammissioni dei Servizi Segreti del Pentagono (DIA) e persino la rete Starlink, hanno documentato, a dispetto del divieto di fotografare e riprendere, che il governo di Netanayahu impone ai cronisti. Del resto, perfino lo stesso Donald Trump aveva parlato “di danni senza precedenti inflitti a Israele”.

E’ lo stesso Trump che, peraltro, aveva scrupolosamente taciuto su quanto i missili iraniani avevano fatto alla più grande base USA in Medioriente, Al Udeid, in Qatar. Immagini satellitari, diffuse anche da Associated Press, hanno rilevato la scomparsa di una cupola geodesica (adibita allo studio delle modificazioni della crosta terrestre) subito dopo il raid. Al posto della struttura, chiamata Radome, che conteneva il cuore dei sistemi di comunicazioni militari utilizzati dalle forze statunitensi, i satelliti rilevavano uno spiazzo vuoto.

E, come ciliegina sulla torta è arrivato il racconto del Pulitzer, Seymour Hersh, su ciò che effettivamente era stato fatto alle centrali nucleari iraniane, per le quali già la DIA, su dati ottenuti dal CENTCOM, Comando Centrale delle FFAA USA, aveva ammesso che nessuna distruzione completa era riuscita. E Hersh è quello, inoppugnabile, del massacro di Mi Lay in Vietnam e del Nord Stream fatto saltare dagli USA nel Baltico (altro che “Panfilo ucraino”!).

Detto ciò che hanno subito le tre centrali iraniane di Fordow, Natanz e Isfahan, dove, secondo DIA e Hersh e ovviamente gli iraniani, nessuna delle celebrate Bunkerbusters, sganciate dai superbombardieri B-2 Spirit è riuscita a perforare la roccia fino alla profondità utile di 80 metri e quindi a distruggere le centrifughe e i reattori adibiti all’arricchimento dell’uranio. Uranio che, a detta ormai di tutti, era stato allontanato e messo al sicuro nelle settimane precedenti ai raid. Secondo Hersh, il programma nucleare iraniano non è stato annientato, ma soltanto ritardato nel tempo.

Va precisato che tale programma, in tutti gli anni dal 2018, quando Trump rescisse l’accordo USA-Iran sull’arricchimento dell’uranio a fini civili, non aveva mai previsto l’arricchimento oltre la soglia del 60%, quando per la bomba atomica, del resto bandita in perpetuo dalla massima autorità iraniana, ne occorre il 90%. A questo proposito va ricordata un’altra fenomenale sola a demolizione della credibilità del premier israeliano. Ne parliamo dopo.

Cosa i missili iraniani hanno colpito in Israele

Secondo le fonti citate sopra, confermate dalle immagini satellitari, questi i più rilevanti obiettivi distrutti o danneggiati durante i 10 giorni di lanci di missili e droni iraniani, in gran parte passati attraverso le difese antiaeree israeliane e USA di Patriot e Iron Dome.

-       Il complesso militare e dell’intelligence di Kirya, detto il “Pentagono israeliano”.

-       L’Istituto Weizman delle Scienze, che partecipa al programma nucleare.

-       Il Quartiere Generale dell’Intelligence Militare a Herzliya, con i centri di spionaggio delle unità d’élite 2800, 504 e 9900.

-       Il quartiere generale operativo del Mossad.

-       Le basi aeree di Nevatim e Tel Nof, che ospitano gli F-15 e gli F-35 e i centri di comando delle Forze di Difesa Israliana a Tel Aviv e Haifa.

-       La raffineria di Bazan a Haifa, il più grande centro di trattamento di carburanti del paese.

-       Una megacentrale elettrica ad Ashdod

-       Il complesso Rafael di Sistemi di Difesa Avanzati, a nord di Haifa.

-       La zona industriale di Kiryat Gat, centro di produzione di microprocessori e di equipaggiamento militare ad alta tecnologia.

-       Il Parco Tecnologico Avanzato di Gav-Yam, nei pressi di Beersheba.

Nel corso di questi attacchi non sono morte che 28 persone, mentre i bombardamenti israeliani sull’Iran hanno determinato 600 vittime, oltre a quelle a cui si è mirato direttamente a livello di dirigenze scientifiche e militari.

A Gaza il mese più letale per Israele

Se giugno è stato uno dei mesi più nefasti per Israele, lo è stato anche per la letalità sofferta a Gaza negli scontri con i combattenti di Hamas e della Jihad Islamica. Tra gli episodi più recenti quelli di un ordigno esploso in una casa a Khan Yunis perquisita dall’IDF i cui 6 soldati israeliani sono morti e altri 14 sono rimasti feriti e, il 23 giugno, l’attacco di un singolo combattente palestinese a un blindato israeliano sul quale è salito e vi ha introdotto una granata che avrebbe ucciso l’intero equipaggio di 7. Ce ne occupiamo dopo.

L’informazione palestinese sugli episodi di guerra combattuta è carente. Per ragioni diverse, sia in patria, che nella diaspora. In quest’ultima si preferisce evidenziare lo sterminio e le atrocità subite dalla popolazione civile, elementi tragici ritenuti più propizi alla formazione di solidarietà per le vittime e della condanna dello Stato occupante. Per notizie sulla guerra combattuta valgono testimonianze dirette, la prestigiosa agenzia araba in Libano Al Mayadeen, parzialmente Al Jazeera del Qatar e la piattaforma internazionale “Resumen” che opera dall’Argentina. Oltre a fonti mediatiche israeliane, residui di democrazia, che non si attengono rigorosamente ai diktat di discrezione.

E’ rigido costume dell’informazione politica israeliana minimizzare perdite, carenze, danni subiti, arretramenti. Serve a mantenere alto il morale di una popolazione che, a forza di missili iraniani, libanesi, yemeniti, iracheni e da Gaza, sono anni che deve rifugiarsi nei bunker al suono delle sirene e, dunque, vivere in condizioni di insicurezza sistematica. E quanto possa essere destabilizzante psicologicamente il ricorrente urlo delle sirene, me lo ricordo bene dalle esperienze tra il 1940 e il 1945.

E se lo ricordano i 10.000 israeliani emigrati in Grecia a partire dal 7 ottobre della mattanza IDF e gli altri 80.000 partiti per rientri nei vari paesi d’origine.

Una cifra fornita dall’IDF prima del mese di giugno, parlava di 438 tra soldati e ufficiali caduti a Gaza. Osservatori che si basano su varie fonti, mediatiche, di intelligence, anche famigliari, calcolavano in un migliaio le vittime israeliane a partire dal 7 ottobre 2023, non comprese quelle morte quel giorno, civili e militari, a causa del fuoco incrociato nel caotico e improvvisato intervento di carri armati ed elicotteri contro gli incursori palestinesi e a seguito dell’adozione della “Dottrina Hannibal” da parte dell’IDF.

Carta perde carta vince?

Carta perde, carta vince. E’ il giochino che praticavano qualche decennio fa, in piazza e vicino alle stazioni, gruppetti di imbroglioni. Chi mescolava e disponeva le carte, chi si fingeva passante e, ovviamente, vinceva indovinando la carta giusta. Oggi il mescolamento e la disposizione dell’informazione, con particolare e cinica perizia sui conflitti, ripete precisamente quel trucco. E chi solleva le carte dell’informazione perde sistematicamente. Non più soldi, ma la realtà.

Poi però ci sono le crepe. Le apre l’eccesso di zelo, la consolidata affermazione di impunità e irresponsabilità che rende disattenti, il formicolio di rifiuto e rivolta che si verifica anche nelle società più blindate sul piano mediatico e del controllo sociopolitico.

Prendiamo l’esempio di colui che vorrebbe essere considerato il più astuto e impunibile di tutti: Benjamin Netanyahu. La tracotanza del trentennale premier della colonizzazione forzata e genocida, simbolo e rompighiaccio del declino di Israele nel momento in cui ha provato ad esprimere la massima potenza espansiva bellica, si fa uccidere dal ridicolo.

Un ridicolo attenuato solo dalla disponibilità mediatica a dimenticare e far dimenticare. Cosa rimane di credibile, rispettabile, accettabile di un personaggio, leader tra i grandi, che, scoprendosi ciarlatano e imbonitore, si è espresso così nel tempo?

1995 a CBS, L’Iran saprà produrre bombe nucleari entro tre, massimo cinque anni (numeri magici, ora attualizzati per la minaccia di attacco russo). 1996, in Parlamento, Il tempo sta per scadere. 2006 su Headline Prime: L’Iran può costruire 25 bombe atomiche l’anno, tra 10 anni ne potrà possedere 250. 2012, ITB Times, L’Iran c’è molto vicino. Tra sei mesi possederà uranio arricchito al 90% con cui produrre bombe nucleari. 20212, 67ma Assemblea generale dell’ONU, Netaniahu disegna una bomba e dice che l’Iran sta passando dal 70% al 90% di arricchimento dell’uranio, necessario per costruire la bomba. 2015, Tra poche settimane l’Iran avrà il materiale necessario per creare un arsenale di bombe nucleari. 2018, CNN, Hanno le competenze per produrre armi nucleari in pochissimo tempo.

Per tutto quest’arco di trent’anni di bomba atomica imminente, l’Iran, certificato dall’AIEA, che conduceva periodiche ispezioni in tutti i centri di ricerca e produzione nucleare, non arricchiva l’uranio oltre al 3,5%, per salire al 20% in virtù del trattato concluso con gli USA di Obama e, poi, al 60% , dopo che Trump aveva annullato il trattato e né USA né l’UE avevano sospeso le sanzioni. Arricchimenti utili alla produzione di isotopi per la radioterapia del cancro e di energia elettrica.

Queste certificazioni dell’agenzia ONU per l’energia atomica venivano rilasciate quando direttore generale era l’egiziano Mohamed El Baradei, persona corretta e integra. Il suo successore dal 2019, l’argentino Rafael Grossi, che ha avuto la stessa libertà di ispezione dei siti e che Tehran ha cacciato dal paese nei giorni scorsi, si è invece prestato. Il 6 giugno, con intervento chiaramente propedeutico all’attacco di 4 giorni dopo, senza che nulla fosse mutato nella ricerca nucleare iraniana, ha ventilato: in Iran “in effetti, si sarebbe vicini all’arricchimento per la produzione della bomba atomica”. Netanyahu e Trump ringraziano.

E’ genocidio, ma anche guerra con due contendenti

Un qualsiasi cronista, analista, osservatore, commentatore che sappia dove mettere il  naso e buttare lo sguardo, fuori dal terreno inquinato dell’informazione atlantica, per sapere cosa sta succedendo in Medioriente (ma vale anche per il conflitto USA-Russia in Ucraina), sa che a Gaza si tratta, sì, di genocidio, ma non solo. E, a veder quante notizie siano disponibili sulle attività militari della Resistenza palestinese nelle sue varie articolazioni, si chiede quanto debbano essere colmi i cestini nelle redazioni di coloro che quelle notizie non danno.

E’ una domanda che mi posi quando, inviato di Liberazione a Baghdad durante e dopo l’aggressione del 2003, confrontai l’uragano di denunce che si abbatterono su noi per dirci delle armi di informazioni di massa e poi dei trionfi militari riferiti dagli embedded, e l’assoluto silenzio, sia sul campo di sterminio in cui l’Iraq andava mutandosi, sia sulla massiccia e capillare battaglia dei resistenti iracheni. Che si protrasse per almeno otto anni e inflisse agli occupanti perdite e danni mai resi pubblici. Dopo il 2011 gli USA, coadiuvati da Israele e da turchi e sauditi, inventarono e allevarono l’ISIS, o Stato Islamico. Fecero finta di avversarlo, ma lo sostennero con rifornimenti, per aver la scusa di distruggere nodi strategici, città e infrastrutture in Iraq e Siria. Vedi le due grandi città in posizioni strategiche, Raqqa e Mosul.

A proposito di Mosul e di Kirkuk, centri della regione petrolifera irachena, furono polverizzati dai bombardamenti USA per assegnarne le macerie ai vassalli curdi, a garanzia di futuri sfruttamenti. Allora si fece di tutto per oscurare e poi eliminare dalla Storia quella mai sopita resistenza irachena che si era poi concretizzata nelle Unità di Mobilitazione Popolare, settore iracheno dell’Asse della Resistenza patrocinato dall’Iran e comprendente, oltre a Hamas, gli yemeniti e gli Hezbollah. Furono le UMP, e solo queste, più tardi incorporate nell’esercito iracheno, a liberare Mosul

Così capita con i combattenti e i combattimenti della Resistenza palestinese, a Gaza e, in misura ancora immatura (anche perchè minata dal collaborazionismo operativo dell’ANP) in Cisgiordania. Operazioni quotidiane, imboscate, eliminazione con ordigni esplosivi lungo i percorsi, martellamento con mortai, scontri a fuoco, eliminazione di carri armati e blindati, tra Gaza City e Rafah, passando per Khan Yunis e Bei Hanoun, di cui nessuna fonte a ovest di Cipro dà conto.

Casualmente, anche da media israeliani indisciplinati come Haaretz, o Hadashot Bezman, o Canale 12, o Yedioth Ahronoth (che parla di “prezzo troppo alto in vite di soldati, pagato per risultati mancati), balza all’occhio attento la notizia di 60 soldati israeliani caduti a Gaza negli ultimi due mesi (Haaretz); o dei 40 militari uccisi o feriti quando l’edificio che avevano occupato saltò per aria nel quartiere di Al Sheyaiya a Gaza City; o del tank Merkava dato alle fiamme a Khan Yunis; dei cinque soldati uccisi e dei 14 feriti, del Battaglione Netzah Yehuda, a Beit Hanoun; del soldato morto e dei tre feriti della Brigata Corazzata Revohot, a nord di Gaza, ammessi dallo stesso esercito; dei video girati dalla Brigata Al Qassam a Ma’an, a sud di Khan Yunis, che illustrano l’imboscata a una colonna di veicoli blindati trasporto truppe e del successivo arrivo di elicotteri a prelevare morti e feriti.

A fine giugno, il comando israeliano ammise 438 caduti a Gaza, tra ufficiali e truppa. Cifra riduttiva secondo la stampa di Tel Aviv.

Queste, alcune delle operazioni condotte dalla Resistenza nelle due settimane tra fine giugno e inizio luglio. E l’elenco potrebbe continuare. E forse giustificare anche i 1.300 suicidi di militari israeliani, denunciati dalla pubblicazione Hadashot Bezman e i rifiuti opposti al reclutamento da centinaia di riservisti.

In questo gioco del nascondino rispetto alle perdite subite e rispetto al fallimento strategico di una guerra dell’esercito più potente della regione, contro alcune migliaia di guerriglieri, su un’area di 40x12km, che non ha raggiunto nessuno degli scopi prefissati: conquista del territorio, cancellazione della Resistenza, svuotamento della Striscia, svolge un ruolo decisivo l’immagine. Quella di una forza onnipotente, invincibile da 80 anni, moralmente e materialmente superiore a tutti, di cui non dovrebbe essere possibile immaginare una sconfitta, il fallimento del progetto. Guai! Guai, anche per la continuità di un soccorso esterno diplomatico, tattico, strategico, propagandistico, politico, che potrebbe venir meno alla vista che, dopotutto, non ne vale la candela.

Terroristi i partigiani quando sono palestinesi?

E finchè, nel mondo che osserva e in qualche modo partecipa, si aderisce a questo modulo e si occulta una lotta di liberazione anticoloniale, antifascista, antirazzista, che dovrebbe vederci tutti a fianco, sotto la spaventevole montagna di vittime e sul fondo di un oceano di sangue, Israele e i suoi complici sono soddisfatti. E’ vero che hanno ammazzato i giornalisti di Gaza a centinaia, ma le immagini delle vittime, sconvolgenti, ma anche paralizzanti, le hanno fatte passare. E pour cause: meglio vittime che combattenti. Chi le vede, si netta la coscienza compatendo e anche genuinamente soffrendo. E manifesta. Contro il genocidio. Mai per chi lo combatte.  Come insegnano gli espulsi dalle università, i convegnisti cui si nega la sala, i blogger “terroristi” che parlano di Hamas, l’assenza di cartelli per Hamas nelle manifestazioni, è rischioso.

Da noi qualcuno è venuto da fuori, è stato definito liberatore e ha sostituito un’occupazione con un'altra. Ma il riscatto  lo dobbiamo ai partigiani, quando gli italiani  hanno cessato di essere vittime. Ce lo siamo dimenticato? Ogni singolo israeliano che si riconosca nello Stato dell’Apartheid è un occupante. Terroristi i partigiani quando sono palestinesi?

Al contrario della metafora di cui sopra, dei biscazzieri della “carta vince carta perde”, la domanda su chi in questa congiuntura, tra Israele, Palestina, Iran, Usa, mondo, ha vinto e ha perso, merita una risposta chiara. Ha perso chi si era proposto certi risultati e non li ha ottenuti (ricordate? Hamas, Gaza, palestinesi, tutti via, giù il regime degli Ayatollah, distruzione del potenziale nucleare e missilistico, frantumazione dell’unità nazionale). Vince chi quei risultati li ha sventati. Poi c’è il piano morale. E lì non c’è nemmeno discussione.

Disse il Napoleone degli inizi: “La religione è quella cosa che impedisce ai poveri di assassinare i ricchi”. Per il tema che abbiamo trattato, qualcun altro ha detto: “La non-violenza integrale è il disarmo unilaterale che impedisce agli schiavi di liberarsi dagli schiavisti”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 8 luglio 2025

Fulvio Grimaldi per L’Antidiplomatico --- 7 luglio 1960-7 LUGLIO 2025, Morti di Reggio Emilia --- LA REPUBBLICA DELLE NOSTALGIE

 


 

…Di nuovo a Reggio Emilia

Di nuovo là in Sicilia

Sono morti dei compagni per mano dei fascisti

Di nuovo come un tempo

Sopra l’Italia intera

Fischia il vento e infuria la bufera…

Sono morti sui vent’anni

Per il nostro domani

Son morti come vecchi partigiani

 

Lunedì sera, 7 luglio, a Reggio Emilia, riuniti dalla Costituente contro la Guerra e il Riarmo, da tutte le realtà antifasciste e resistenziali, abbiamo ricordato quanto lo Stato, già allora di Polizia, aveva commesso in termini di violenza sulla vita e sulla coscienza civile democratica.

1960, 7 luglio, Reggio Emilia, 5 lavoratori, che manifestavano pacificamente, sono trucidati da forze dell’ordine, nei secoli fedeli al potere e, in questo caso al governo Tambroni, il primo dalla liberazione e dalla Costituzione antifascista che si regge grazie ai fascisti in maggioranza. Nessun potere atlantico lo disturba. Solo operai e contadini. Il Potere Atlantico interverrà solo per rimuovere Aldo Moro, uomo dell’unità nazionale. Per il resto, tutto a posto. Grazie a Gladio, Anello, P2, Servizi, mafie, governanti obbedienti e, ora, di nuovo fascisti.

1960, 5 luglio, Licata, le forze dell'ordine reprimono nel sangue una manifestazione unitaria di braccianti e operai, sparando contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli. Ci sarà un morto, Vincenzo Napoli, la prima vittima del "luglio della memoria"

1968, 2 dicembre, Avola, Sicilia, due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, vengono uccisi durante uno sciopero di braccianti, e altri 48 rimangono feriti, in seguito  all’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine 

1943. 28 dicembre, Reggio Emilia, i fratelli Cervi, 7, partigiani, fucilati dai repubblichini.

2025, 7 luglio. Reggio Emilia, ricorrenza di un eccidio che se ne tira dietro un altro, entrambi di stampo fascista. Presenti autorità dello Stato, consuetudine liturgica fissa alle cerimonie dei lutti nazionali? Nessuna.

2025, 1.luglio, Roma, la Corte di Cassazione condanna all’ergastolo per la strage P2-Stato-fascisti di Bologna, Paolo Bellini. Altri fascisti condannati all’ergastolo per lo stesso crimine, ma in parte in libera circolazione: Fioravanti, Mambro, Ciavardini, Cavallini. Stefano Delle Chiaie (MSI, Avanguardia Nazionale), spunta in varie stragi degli ultimi 50 anni, addirittura nelle più recenti, comprese quelle di Capaci e Via D’Amelio.

Per anni sono stati, su mandato CIA, le forze d’urto dei vari piduisti a capo dei Servizi, Miceli, Maletti, Santovito, Pelosi, Grassini, il micidiale Federico Umberto D’Amato. Il terreno dal quale sono germogliati questi strumenti della governance atlantica non ha mai perso il suo rigoglio. Lo conferma, con entusiastico vigore, a questo punto addirittura bellico, l’aria che tira oggi.

Visto che ci si deve armare contro nemici inventati e lungamente coltivati con tutti gli apparati di persuasione a disposizione, e visto che prospettive di guerre fondate sul trasferimento di denaro da esigenze sociali a missili e mine antiuomo, si scontrano con la riottosità del popolo, ecco che per il disciplinamento di queste masse riottose occorre quel personale lì. Il solito. Quello col busto di Mussolini sull’altarino. Quello che può star lì grazie a quanto, nell’ombra di Forte Braschi e, prima, a Langley, si decide per il bene degli USA e rispettivi ragazzi di bottega.

Ecco cosa c’entra l’ultima data sopra citata con quelle precedenti. Ci spiega la continuità di uno Stato che il colonialismo ha liberato dal fascismo storico per affidarlo al fascismo 2.0.

Torniamo a capo. Reggio Emilia diventa protagonista della Resistenza antifascista e antitedesca nascente. Protagonista ne è una famiglia di contadini. I Cervi ospitano nella loro cascina partigiani e combattenti di ogni nazionalità. I repubblichini della sede locale di Salò, riconoscono nel gruppo dei fratelli il primo vero nemico organizzato. I militi della Guardia Nazionale Repubblicana assediano l’abitazione in piena campagna reggiana e, incendiato il complesso di costruzioni, con donne e bambini, stalle e magazzini comprese, costringono alla resa il gruppo partigiano e i soldati alleati che vi si erano uniti. Un mese dopo l’esecuzione.

L’evento segnerà in profondità la storia del reggiano e la coscienza rivoluzionaria delle successive generazioni.

Nei tumulti successivi all’inserimento nella maggioranza di governo del DC Fernando Tambroni del partito neofascista (Movimento Sociale Italiano, segretario Giorgio Almirante, ministro repubblichino noto come “il fucilatore”), fino ad allora almeno formalmente tenuto fuori dall’”Arco Costituzionale”, l’anima resistenziale di Reggio Emilia si fa nuovamente protagonista.

In quei giorni il vostro cronista si trova a Genova, altra Medaglia d’Oro della Resistenza. Lì la sfida del regime verniciato di nero si manifesta con l’autorizzazione al MSI a tenere proprio lì il suo congresso nazionale, nella città martirizzata da fascisti e Wehrmacht. Ho ancora vivissime le immagini dei camalli, lavoratori del porto, che affrontano i caroselli della Celere a mani nude, tirano fuori i poliziotti dalle loro camionette e li buttano a prendere il fresco nella fontana di Piazza De Ferrari, al centro della città.

Oggi quei camalli, nella versione dei loro figli ed eredi, sono sotto denuncia per aver impedito, come i portuali di altre città mediterranee, l’imbarco, o l’avvio, di armi destinate a Israele. Continuità, i fronti restano gli stessi.

Rivediamo ciò che ai nostri assenteisti nella rievocazione della strage poliziesca di Reggio sembra sfuggire. La sera del 6 luglio la Camera del Lavoro proclama per l’indomani uno sciopero generale provinciale in seguito ai gravi fatti avvenuti in Sicilia e a Roma. La prefettura nega il comizio all’aperto in piazza della Libertà (oggi Piazza della Vittoria). Si forma comunque un corteo di 20.000 manifestanti e un gruppo di 300 operai presidia il monumento ai Caduti. Il tutto nella massima tranquillità

A freddo, alle 16.45, parte una carica di 350 poliziotti e un reparto di carabinieri. Sui manifestanti, presi in mezzo e senza vie di fuga, si rovesciano caroselli, lacrimogeni, getti d’acqua. Ci si prova a difendersi rifugiandosi nei vicoli e proteggendosi con sedie, assi di legno, tavolini dei bar. Le forze dell’”Ordine” rispondono aprendo il fuoco ad altezza d’uomo. L’aveva fatto il ministro degli Interni Scelba, nei primi anni ’50, lo rifà il ministro di Tambroni.

L’attuale ministro Piantedosi si è, per ora, limitato a rompere teste e arti a chi manifesta contro il genocidio in Palestina e contro le guerre d’aggressione alle quali l’Italia partecipa, in maniera più o meno visibile. Se poi 10.000 operai metalmeccanici a rischio di licenziamento occupano una tangenziale, il rinvio a processo è assicurato. E pure la condanna ad anni di carcere. Per ora non sparano.

Sotto il fuoco del primo governo con fascisti tornati al comando, cadono Lauro Farioli, operaio, 22 anni, Ovidio Franchi, operaio, 19 anni, Marino Serri, operaio, 41 anni, ex-partigiano, Afro Tondelli, operaio, 36 anni, ex-partigiano, Emilio Reverberi, operaio 39 anni ex-partigiano. Ai cinque assassinati, si aggiungono 21 feriti da arma da fuoco. Vengono sparati 182 colpi di mitra, 14 di fucile, 39 di pistola. Altri feriti non si presentano in ospedale, sicuri dell’arresto. Le retate non rispettano l’inviolabilità sancita dalle convenzioni.

E, a proposito di ininterrotta continuità, fu una cautela suggerita anche a me da un medico compagno, esperto di queste cose, ben 17 anni dopo, in piena “restaurazione democratica”, quando un candelotto lacrimogeno ad altezza d’uomo mi aveva ridotto il ginocchio a cocomero. A Roma un comizio per la conferma del divorzio, in Piazza Navona, viene attaccato dalla polizia e finsce in episodio di guerra civile che coinvolge mezzo centro storico e culmina con decine di feriti e l’uccisione di una diciassettenne, Giorgiana Masi, accanto a me sul Ponte Garibaldi. A sparare sono i “Falchi”, agenti travestiti da manifestanti, inventati dall’allora ministro, Francesco Cossiga.

La strage di Reggio Emilia fu documentata da un reperto prezioso. Una registrazione audio di 35 minuti che dava concretezza alla decisione di dare una lezione: spari, urla di rabbia e spavento, lamenti, sirene di ambulanze e camionette. Prova di una fredda carneficina.

Anche di questo evento vissi personalmente una ripetizione, a dimostrazione del consunto detto “tutto il mondo è paese”. Domenica di Sangue, Derry, Irlanda del Nord, 30 gennaio 1972, un battaglione di paracadutisti armati spara contro una folla di pacifici manifestanti per i diritti civili. 14 morti, un centinaio di feriti, mezz’ora di strage. Ho macchine fotografiche, ne ricavo immagini di morti e feriti. Ma chi gli ha sparato? Ho anche un registratore, che lavora ininterrottamente, dall’inizio alla fine: ogni singolo sparo proviene dallo stesso tipo di arma, carabina Sterling, in dotazione ai parà del Primo Battaglione. Prova alla base di qualche condanna di timide successive inchieste ufficiali. Continuità nel tempo, ma anche nello spazio.

Per la strage di Reggio Emilia vengono processati 61 dimostranti e due poliziotti, un vicequestore e un agente. La sentenza, tre anni dopo, scagiona tutti i manifestanti, ma assolve il vicequestore con formula piena e l’agente, fotografato mentre, inginocchiato, mira e spara, con formula dubitativa.

A Reggio, della verità resta la magnifica testimonianza del cantautore Fausto Amodei.

Per la continuità, oltre ai curricula degli assenti a Reggio Emilia lunedì scorso, da rintracciare non tanto negli atti parlamentari, quanto, diciamo, nel deep web di quanto si sa, risulta, ma non si dice. Ma che è implicito in tutto quello che combina questo manipolo di governo, nei suo linguaggio, nelle sue espressioni, nella cultura punitiva manifestata a ogni piè sospinto. Verticalizzazione del potere, insofferenza e ostilità ai contrappesi e controlli, disdegno di ogni correttezza istituzionale e costituzionale, occupazione sfrontata e capillare di ogni presidio del potere, dalla poltronissima allo sgabello.

Rivedetevi l’esibizione di Meloni, ad Atreiu, da menade fuori controllo e in preda a convulsioni violente, quando le capita di riferirsi a chi non da segni di conformità.

Epitome di tutto questo è il Decreto Sicurezza che, per aver scavalcato abusivamente il parlamento e contenere nefandezze legali e sociali di ogni genere e portata, ha dovuto subire l’affronto, non di un rifiuto di firma quirinalizia, figurati, ma di una condanna perentoria, senza attenuanti, implicitamente indignata, del nostro massimo tribunale.

Accanto alla repressione, da monarchia assoluta, di ogni gesto di opposizione e rivendicazione rispetto a un potere ”per grazia di dio” (e voto cavato agli elettori), coincidente con i residui barlumi di democrazia, alla luce di quanto ha segnato col crimine e col sangue la nostra storia repubblicana, va evidenziato un provvedimento.

Se il RearmEurope, come anche i traffici con Stati genocidi, che dei protetti dal lobbista Crosetto, dandogli l’incarico di fare guerre agli altri, fa la massima potenza finanziaria del paese, c’è nello Stato chi può, ora all’aperto e impunito, associarsi a mafie e terroristi per portare a termine la guerra a noi. Non più solo associarsi infiltrandosi, come è stata pratica costante della Repubblica a celebrazione del mai morto fascismo, ma organizzando e dirigendo. Così dice il Decreto, autorizzando i Servizi ad assumersi direttamente il comando di terrorismi e mafie.

Basta? Non basta. Nel tema rientra, con vigore e coerenza, il dispositivo che avvicina il potenziale dell’azione repressiva delle cosiddette Forze dell’Ordine a quello messo in atto in occasione dei fatti di Reggio Emilia. E non solo. Una forma evidente e robusta di immunità è garantita a poliziotti e carabinieri, già abbondantemente protetti dal reato di resistenza a pubblico ufficiale, ora diventata anche resistenza passiva, dalla non iscrizione nel registro degli indagati di agenti apparentemente colpevoli di abusi. Questo, per una settimana. Cosa che parrebbe voler offrire agli eventuali colpevoli ampie vie di fuga sotto forma di prove rimosse, testimoni subornati, colleghi coinvolti in versioni di comodo.

Basta come viaggio verso lo Stato di Polizia? Infiltrarsi sembra essere il mantra. Ovunque e sempre. Abbiamo appena deglutito a forza i cinque studenti appena matricole e già spie della polizia. Non basta ancora. E’ pronto il testo per l’ennesimo decreto da sparare sopra le teste dei parlamentari. Questa volta per la creazione di un nuovo servizio segreto. Non bastavano, per farci sentire addosso, ognuno di noi, in qualunque posizione o circostanza, lo sguardo e il fiato dello Stato AISE, AISI, NIC, GOM, Copasir, servizi militari, servizi della Finanza, consorterie spionistiche private. Tutta roba messa su, sotto lo sguardo benevolo del regime, da ex-agenti dei servizi, ex-poliziotti, ex-carabinieri, con tanto di software Graphite incistata nel cellulare su licenza israeliana Paragon.

Il nuovo Servizio Segreto opererà nelle carceri e sarà lo strumento operativo della Polizia Penitenziaria, oggi in grande spolvero, i cui uomini potranno fingersi detenuti ed infiltrarsi nelle celle per carpire ciò che conviene carpire, magari a beneficio delle trattative Stato-mafia, Stato-terrorismo. Ovviamente, come per gli altri operatori sotto copertura che vanno tracimando nell’attuale transizione democratica della Repubblica, ci sarà l’immunità Chi l’ha fatta, questa bella pensata? Ma è ovvio, il sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Chi sennò.

Tutto questo servirà ad alleviare le vessazioni da sovraffollamento e il primato di 91 suicidi nel solo 2024, 15 ogni 10mila detenuti (7,2 in Europa).

Spappolata l’Italia con l’Autonomia Differenziata e datala in mano ai fidati cacicchi locali, consolidato il verticismo totalitario della cricca cameratesca con l’imminente Premierato, ecco che s’è trovata la soluzione per una convergenza di criminalità organizzata e criminalità politica sotto l’attenta cura dei Servizi Segreti, arma fine democrazia e fine sovranità popolare.

Fine di tutto, se non ci muoviamo.

 

L’annuncio dell’evento di lunedì a Reggio Emilia era accompagnato da questo testo.

La Costituente contro la Guerra e il Riarmo presenta "7 LUGLIO 1960: GUERRA E LIBERTÀ". A partire dai tragici fatti del 7 luglio 1960 nella piazza di Reggio Emilia, pagati col prezzo della vita, mettiamo in prospettiva la repressione del dissenso, oggi tornata prepotentemente d'attualità con l'approvazione del ddl 1660, poi Decreto Sicurezza, nel contesto dei conflitti globali di oggi. Sessantacinque anni di storia intrecciati alle dinamiche di politica internazionale che parlano al presente con una terza guerra mondiale alle porte, se non già in corso a pezzi.
Lunedì 7 luglio ore 21 Centro sociale Tricolore (zona ex Reggiane) con l'adesione dei Comitati Emiliani Antifascisti, Multipopolare, Notti Rosse, Montagna Antifascista, Comitato Autonomo Mirabello, La Fionda, L'Indispensabile, Patria Socialista.
Introduce Alessandro Fontanesi.
Ingresso libero con offerta consapevole.