mercoledì 31 gennaio 2018

Intervista con un economista contro - VLADIMIRO GIACCHE’: L’EURO, L’UE, LA GERMANIA, LA GRECIA, IL LAVORO, LA DEMOCRAZIA, LA SOVRANITA’, I MIGRANTI…..


Vladimiro Giacchè, della cui amicizia mi onoro da lunga data, è uno dei più autorevoli economisti europei. Ha svolto i suoi studi universitari a Pisa e a Bochum, in Germania, è laureato in filosofia alla Normale ed è presidente del Centro Europa Ricerche.  In Italia e in Germania è considerato una delle voci più critiche dell’assetto istituzionale europeo e dell’ordinamento finanziario basato sull’euro, con particolare riferimento al ruolo della Germania, specialmente nei confronti del Sud d’Europa. Dell’intervista che mi ha concesso alcuni brani sono inseriti nel mio nuovo docufilm “O la Troika o la Vita – Epicentro Sud – Non si uccidono così anche i paesi?” E a proposito di paesi, popoli, nazioni, culture da uccidere, ho trovato che uno dei libri più drammaticamente istruttivi su come la classe dirigente tedesca, nelle sue varie espressioni politico-partitiche, ha devastato e vampirizzato la parte del suo popolo riunito nella DDR, Repubblica Democratica Tedesca, sia l’irrinunciabile “Anschluss”, pubblicato da Imprimatur nel 2013. Se ne possono trarre ampie indicazioni su cosa Berlino, il suo retroterra atlantico e i suoi strumenti finanziari abbiano riservato alla Grecia e stiano riservando all’Italia.

FG   Popolari, Ligresti, Monte dei Paschi…Siamo al collasso del sistema bancario italiano?
VG  Sicuramente la situazione attuale, la nuova normativa della cosiddetta Unione Bancaria Europea è qualcosa che ha paralizzato in misura molto drastica il nostro sistema. In particolare, i tedeschi sono riusciti nel capolavoro di tenere fuori dalla Vigilanza Europea la gran parte delle loro banche che fanno credito alle imprese. La Germania, per dire solo una cifra, ha dato 259 miliardi di euro alle sue banche. Noi praticamente niente. Tutti gestiscono le loro crisi e le risolvono con fortissimi aiuti di Stato. Noi no. Gli altri fanno il loro gioco, noi non facciamo il nostro.

C’è questa idea dell’Europa per cui ogni passo ulteriore verso l’integrazione è una cosa positiva (gli “Stati Uniti d’Europa” dell’ultrà atlantico-sionista Bonino, dopo il richiamo-ingerenza del commissario UE Moscovici, divenuto obiettivo imprescindibile anche per il già dissidente Renzi. N.d.r.). IN realtà, se le regole non sono simmetriche, se non valgono allo stesso modo per tutti e aumentano gli squilibri all’interno dell’Europa, quel tipo di integrazione no  si vede perché la dovremmo accettare.

FG  Questo ci porta direttamente alla Grecia e all’annichilimento che è stato inflitto a quel paese.
VG  Si tratta di una crisi che deriva dal fatto che a un certo punto i paesi del Centro Europa prestavano agli altri, in particolare a quelli della periferia e non prestavano per fare beneficienza. Prestavano perché i tassi erano più alti, così guadagnavano un po’ di più  e potevano reinvestire i profitti esportando nelle periferie. Se uno va a vedere, le esportazioni tedesche sono enormemente cresciute a partire dall’introduzione dell’euro. Ci dicevano che tutto questo era una cosa fantastica, che dimostrava come l’euro fosse la più grande invenzione del secolo. Monti è arrivato a dire che la Grecia rappresentava il più grande successo dell’euro.

In realtà, cosa andava succedendo. C’era una serie di paesi che importavano di più grazie alla moneta unica perché questa abbatte un po’ i costi delle transazioni. Ma i paesi importatori ne traevano uno squilibrio sempre maggiore della loro bilancia commerciale. E anche un aumento del debito pubblico. In questo senso noi siamo molto vicini alla Grecia.

FG  Secondo te, dietro a tutta questa operazione, culminata con quanto abbiamo visto in Grecia e che si affaccia anche all’orizzonte nostro, quale potrebbe essere la strategia, quale l’obiettivo?
VG  Non so se c’è un disegno. Sicuramente c’è un’architettura che ha come perno la moneta unica. Questo è un punto fondamentale di cui quasi tutti si sono accorti molto in ritardo. Mandel, che ha anche vinto un Nobel  su questa roba ha detto una cosa un po’ più violenta: ha detto l’euro è Reagan in Europa. La moneta unica, per come è configurata, fa sì che tu non abbia più gli aggiustamenti del cambio possibili. Quindi potrai ricuperare competitività solo in due mondi: facendo più investimenti, che è un modo buono, oppure svalutando il lavoro, pagandolo di meno.

FG  Che è la procedura vigente.
VG  Che è la procedura vigente. Con un’aggravante. Quando si entra in questa mistificazione per cui è il debito pubblico la causa di tutto, agli Stati si impedisce di fare investimenti pubblici. Da noi è successo esattamente il contrario: si è chiesto di fare manovre restrittive precisamente quando avresti dovuto fare quelle espansive. Il risultato, non intuitivo solo per chi non capisce niente di economia, anche se ha studiato e insegnato alla Bocconi, è molto semplice: alla fine di questo processo tu avrai  impoverimento e maggiore debito di prima.

Così la competitività su cosa avviene? Avviene sulla svalutazione salariale, sul dumping sociale e sul dumping fiscale, sul fatto che le imprese pagano sempre meno tasse, e poi c’è quello che ne fa pagare ancora meno di te. E nel frattempo cosa succede? Per attaccare il debito cosa faccio? Riduco i servizi sociale, faccio mandare la gente in pensione sempre più tardi.

Il nostro paese ha componente molto forte di domanda interna nell’aggregato generale. Succede che questa domanda crolla e succede che tutti i produttori che producevano solo per l’interno vanno a chiudere. Di fatto abbiamo subito una distruzione di capacità produttiva, in particolare dell’industria, che si aggira sul 20%.

FG  Come spesso, noi siamo stati un laboratorio. Fin dal 1992, epoca dell’attacco di Soros alla lira, di Mario Draghi al Tesoro e della successiva svendita progressiva del nostro patrimonio industriale sotto Amato, Prodi, D’Alema…Si può uscire da questa situazione abbandonando l’euro, o ci sono altre ipotesi di sopravvivenza?


VG  O cambia il contesto, o tutta l’Europa si trasformerà in una grande Germania, cioè in una serie di paesi che hanno una domanda interna molto debole e che puntano tutto sulle esportazioni. Cosa che storicamente fa la Germania, però a scapito degli altri che non possono reggere il confronto.

FG  Cambiare il contesto vuol dire basta con l’austerity, con la distruzione del lavoro, il precariato, i minijob alla tedesca, la moneta unica…
Non è vero quello che spesso si sente dire, che una moneta è solo una moneta. Una moneta non è mai solo una moneta. Una moneta è l’espressione di determinati rapporti giuridici. L’euro è l’espressione dei rapporti giuridici che sono iscritti nei trattati europei e che ci dicono che il valore supremo è la stabilità dei prezzi. Ma ciò è una cosa non solo diversa, ma opposta, incompatibile, con quello che ci dice la Costituzione della Repubblica italiana. Cioè che il valore è il diritto al lavoro. Secondo i trattati europei questo valore deve essere subordinato alla stabilità dei prezzi. Allora, se per tenere bassi i prezzi io devo avere un disoccupazione all’11%, nel contesto dei trattati europei va bene così. Una configurazione di questo tipo dei trattati è una gabbia mortale.


FG   Questo significa che i discorsi di certi personaggi, tipo Varoufakis e tutti quelli che parlano di una UE riformabile e riformata, su un riscatto che ci verrebbe da un’altra Europa, non rappresentano altro che una tenaglia utopica. Inoltre, quali spazi di democrazia possono rimanere in una configurazione del genere?
VG  Sono sempre più esigui, lo stiamo vedendo in concreto. Alla Grecia è stato impedito di fare un referendum quando c’era Papandreu. Poi gli è stato concesso di farlo , ma tre giorni dopo il referendum il governo ha dovuto rinnegare quanto il voto gli aveva detto. Tra le cose su cui hanno capitolato c’è la privatizzazione massiccia di tutto l’apparato pubblico greco (quello che da npoi sta nei programmi enunciati di Berlusconi come di Calenda e Padoan. N.d.r.).

Io credo che invece si tratta di fare una cosa diversa- Di fare sì che il settore pubblico, lo Stato si riappropri dei propri diritti e anche del diritto di porre dei vincoli ai mercati. Ciò però comporterebbe di stracciare i trattati europei e non credo si tratti di ipotesi realistica, dato che per ogni minima modifica ci vuole l’unanimità dei paesi.

FG  Cambiando argomento: cosa c’è dietro a questo fenomeno cosiddetto epocale, la migrazione di massa che l’Europa e il maestro delle destabilizzazioni imperiali, Soros, ci impongono di accogliere? Oltre a tutto in maniera iniquamente sbilanciata a sfavore dell’Italia. Credo che ci sia motivo per sospettare di una vera e propria filiera criminale che incomincia con lo svuotamento dei paesi del Sud delle generazioni che dovrebbero costruirne il futuro.

VG   Si, questo è sicuramente un elemento fondante. Le cause e i fini sono diversi. Tra questi c’è stata la distruzione della Libi., inizio della devastazione e ricolonizzazione dell’Africa. Quanto a noi, un’immigrazione incontrollata non è gestibile politicamente, socialmente, economicamente. Mi sembra di dire delle cose un po’ banali e vedo che le persone sgranano gli occhi: oddio, è razzista. Proprio per niente. Ma uno ha il compito di impedire che la sua società vada in pezzi. Ancora una volta la situazione è di una profonda asimmetria nell’Unione europea. L’Italia e la Grecia sono lasciate a gestire da sole un fenomeno gravissimo e di dimensioni imponenti. Non gli è permesso neanche il controllo delle frontiere. Sta succedendo che all’interno dell’Europa alcuni Stati, alcune classi, alcuni poteri aumentano la propria forza e altri vedono diminuire la loro. C’è una dialettica sia di classe, sia di nazioni e di molti processi europei si deve dire che si tratta di atti criminosi.
Io credo che si tratti di ricuperare determinati interessi di classe e altri interessi che oggi vengono sacrificati nello scontro tra potenze, tra forti e meno forti. Il tutto mascherato e avvolto in questa bandiera blù con le sue 12 stelle. Bandiera che in realtà è la copertura della prepotenza di alcune potenze forti contro altre che si stanno dimostrando, per loro colpa, molto più deboli.

FG  Toccherebbe perciò stracciarla, quella bandiera….
VG  La mia opinione l’ho espressa in varie occasioni e i titoli dicono tutto.





venerdì 26 gennaio 2018

LA CORRAZZATA FAKE NEWS, RUSSIAGATE IL CARBURANTE, REGENI L’ADDITIVO, BOLDRINI LA POLENA SULLA PRUA, SOROS AL TIMONE

Al link qui sotto trovate un’ intervista fattami da Tatiana Santi, corrispondente da Roma dell’ottima agenzia di notizie ed emittente radiofonica russa “Sputnik”. Tema del colloquio, dalla madre di tutte le false notizie, il Russiagate, lo strumento con il quale la doppia piovra anglosionista-neocon dello Stato Profondo (Cia, NSA, FBI) e del Governo Ombra (le lobby finanzcapitaliste, Big Oil, Big Pharma, Big Agro, Big Bank, ecc.) cerca di condizionare la politica estera di Usa, UE e aggregati, fino alle effettive, costanti e decisive interferenze Usa nella vita politica italiana. C’è qualche refuso nel testo, come quando si parla di soldati italiani sbarcati in Sicilia. Evidentemente si parla di “soldati americani”.

https://it.sputniknews.com/opinioni/201801245556545-le-continue-ingerenze-usa-in-italia/

Dalla megaproduzione di fake news sulle farlocche ingerenze di Putin, affidata all’Intelligence, ormai centro di potere svincolato da ogni ordinamento istituzionale, ai grandi media, cane posto a guardia degli interessi dell’élite (non per nulla recentemente esaltati dal lavoro del fiduciario numero 1 a Hollywood, Spielberg), il salto alle modalità con cui i regimi Usa storicamente e infallibilmente si interessano della politiche ed elezioni altrui è stato automatico. E dovuto. Per cui nell’intervista nessuno si sorprenderà dell’accenno a un elenco di ingerenze statunitensi negli affari degli altri paesi del mondo che, per assicurarsi esiti politici, economici, elettorali in sintonia con gli obiettivi di dominio dei due gemelli-canaglia, Usa e Israele, si dota di varie opzioni. Si va dallo strangolamento mediante sanzioni, alla rieducazione con la maieutica delle bombe, dal finanziamento ai partiti graditi alle rivoluzioni colorate e ai colpi di Stato, fino all’incistamento di terroristi fascisti (Piazza Fontana e segg.) o jihadisti, finti o veri, (Charlie Hebdo, mercatino berlinese). Alla luce della sovranità con tanta dignità difesa dai nostri governanti, da noi basta e avanza un’ indicazione dell’ambasciatore Usa o, addirittura, il fischio di un qualche sozzone burocrate che fa il commissario UE.

Quanto alle Fake News, commissionate dagli illimitati poteri dell’1% ricco come conditio sine qua non per mantenersi al comando, essendone titolari la quasi totalità dei mezzi d’informazione in Occidente, giocoforza questi devono addebitare notizie false, imbrogli, inganni, truffe, raggiri, fregature, ai quattro gatti che all’elettrochock della menzogna lobotomizzante oppongono il modello di chi volò sul nido del cuculo, memorabile film ci avvertì di come si rischia di andare a finire. Del resto, chi campa di cospirazioni e complotti, e tale pratica incombe a quelli che in pochi devono governare nel proprio interesse contro quello dei tanti, i suoi stratagemmi li deve attribuire a chi i complotti prova a svelarli. Un apparato senza uguali per pervasività e impunità riesce tranquillamente a dinamitare piano dopo piano tre enormi grattacieli, tra i più controllati del mondo, poi spedisce missili travestiti da Boeing a fargli punture di spillo simultaneamente all’innesco a distanza delle cariche.. Poi dà dei dietrologi, maniaci dei complotti a chi si meraviglia come quattro sfigati arabi, incapaci di volare perfino in parapendio, abbiano potuto, con un po’ di kerosene, dar fuoco e incenerire quelle torri, una addirittura senza averla neanche colpita.



Quella volta l’hanno fatto troppo grossa per cui ha iniziato a germogliare tutta una scuola di “complottisti” che è andata a spulciare tra le gigantesche falle ricorrenti immancabilmente nelle vulgate ufficiali di ogni attentato. Srotola il filo del cappuccio di ogni terrorista e vai a finire sistematicamente su un gomitolo che sta a Washington, Tel Aviv e nelle dependances europee. Con risultati non disprezzabili, alla luce di quante eccellenze tecnico-scientifiche si sono manifestate fuori da quell’1% che campa di bugie e caviale. Si è reso necessario dargli la caccia sollevando un’enorme offensiva anti-fake news che, come le guerre scatenate sotto il pretesto della cacciata di dittatori, ha agevolato provvedimenti risolutivi ai danni di Stati disobbedienti. Nel caso di Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia, si è avuta l’accortezza democratica di far pronunciare gli organi legislativi e decretando così per legge che le armi-fine-del-mondo create dai vari Zuckerberg, Tim Cook, Bill Gates, Steve Jobs, Larry Page (Google) potevano, anzi dovevano, essere adoperate per rimuovere dal web, sentina di ogni nequizia, tutto ciò che risulta difforme da quanto è gradito all’1% ( allo scopo massimo e ultimo di mantenere la stessa ricchezza del restante 99% e che vanta 80 licantropi con più ricchezza di 3,7 miliardi di esseri umani veri). Armi-fine-del-mondo che, nel plauso di innovatori della specie che considera il cancro un’innovazione utile agli sfoltimenti di eccedenze umane, vanno innestandosi sempre più nelle università, scuole, imprese, menti degli italiani.



Noi altri, nel regno dell’unanimità di nani, briganti, streghe cattive impegnati a trattenere sotto vetro la bella addormentata nel bosco, di tali procedure omaggio alle apparenze democratiche ne facciamo allegramente a meno. A noi bastano una Boldrini e un Minniti qualunque per tagliare il nodo gordiano delle verità sgradite. La prima, fiammeggiante polena sulla nave cocchiera, presidenta dalla desinenza imbecille ma politically correct, non più appesantita dagli oneri parlamentari (che affrontava con la ghigliottina quando intemperanti pentastellati provavano a impedire un regalo di oltre 7 miliardi alle banche) è precipitata su un liceo romano con tanto di decalogo mosaico per come individuare e scoprire le infami fake news. Ovviamente tutte quelle di internet, mentre giornali e tv sono il riflesso delle verità evangeliche (che è tutto dire). Al progressivo decadimento di questo personaggio alla luce della sua conduzione disciplinare e faziosa della Camera dei deputati e del suo impegno per un’Europa ancora peggiore dell’attuale, poi arriva tempestivo il soccorso di quei ballilotti di Salvini che, bruciandone l’effigie, le consentono di riemergere con l’aureola della martire. Classica finta opposizione, quella della Lega, ed effettiva stampella del regime.

Se quel decalogo puzzava ancora un po’ di normativa, in qualche modo derivante da qualcosa di istituzionale, il ministro degli interni non si è fatto attardare neppure da quella remora. Con addirittura il braccio destro legato dietro alla schiena, ha raso al suolo ogni tentativo di dissentire dall’establishment istituendo il Ministero della Verità (George Orwell, “1984”). Ministero tanto irrinunciabile caposaldo del nostro futuro globalizzato che non c’è voluto manco la firma del Capo dello Stato. Anche perché la scelta di una cinquantina di poliziotti, ovviamente di elevatissima cultura sistemica, per un commissariato annidato in rete e incaricato di sceverare il vero dal falso e annichilire gli autori del secondo, a quali menti, mani e manette migliori avrebbe potuto essere mai affidato?



Di tutto questo s’è fatto subito forte lo schieramento trasversale destra-finta sinistra, unanime come sempre nei casi di rilevanza globale, celebrando in una ventina di città e su oceaniche pagine di giornali (“manifesto” ovviamente in testa) e telegiornali la giornata della memoria. No, non di quella memoria, che pure s’è celebrata, tra l’altro con l’ottimo effetto collaterale di sviare dai 55 milioni di morti ammazzati che una ricerca ha attribuito dal 1945 agli Usa, alle loro guerre e operazioni sporche tuttora in corso. Di quell’altra, di Giulio Regeni, trovato morto e torturato al Cairo due anni fa. Visto che per Socrate come per Brecht anche il silenzio in certi casi deve essere classificato menzogna, affermata la verità unanimistica di un giovane ricercatore idealista andato in Egitto per vedere come stavano messi i sindacati all’ombra della Sfinge, chissà se quei 50 gendarmi del Ministero della Verità si sono posti un quesito in più. Eccolo.



Di Regeni si sa che ha lavorato per un anno per la multinazionale dello spionaggio industriale e geopolitico “Oxford Analytica”, diretta da pendagli da forca come lo specialista degli squadroni della morte John Negroponte, dall’ex-capo del Mi6 Colin McColl e dal complice dello spionaggio Watergate David Young; si sa che al Cairo ha fatto base presso quell’eccellenza dell’infiltrazione Usa che è l’Università Americana; si sa che la sua tutor a Cambridge è una signora vicina ai Fratelli Musulmani, forza politica che sta cercando di rovesciare il governo di Al Sisi a forza di una spaventosa guerra terroristica; si sa che la missione assegnata a Regeni era di andare a sfrucugliare i sindacati egiziani disposti a partecipare alla lotta contro il governo; si sa che a un dirigente di uno di quei sindacati, da Regeni ritenuto oppositore, ma in effetti sostenitore del governo, il “ricercatore” ha proposto il bel gruzzolo di 10mila dollari purchè gli presentasse un “progetto”; si sa che, avendo il sindacalista patriota filmato di nascosto le offerte di Regeni per un “progetto” evidentemente eversivo e avendone reso edotte le autorità, il giovane disturbatore era stato “bruciato” e a eventuali mandanti conveniva toglierlo di mezzo, possibilmente facendone cadere la responsabilità sul regime.

Tanto più che mettere in imbarazzo il Cairo, nel momento in cui si concludevano grossi accordi energetici con Roma, avrebbe comportato il beneficio dell’eliminazione di un concorrente per il gas egiziano e della messa in crisi uno Stato che s’impicciava troppo della Libia, faceva giri di valzer con Putin, non si schierava contro Assad. Crisi che con tutti i loro sforzi, tanto apprezzati dagli odiatori di un Egitto libero e laico, dalla Cia al “manifesto”, i tagliateste dell’Isis non erano riusciti a far precipitare.

Sapranno, le 50 guardie del Ministero della Verità, individuare e punire le menzogne da omissione sul caso Regeni che tanto hanno inciso sul quadro geopolitico del Mediterraneo, sugli interessi nazionali dell’Italia e che tante Fake News hanno generato tra amici del giaguaro e utili idioti?

Soros, come può mancare quando si tratta di fake news, fake solidarietà, fake Ong?
Finiamo con un personaggio che pare entrarci proprio con tutto quello che succede vicino e lontano, che sembra avere le mani in pasta da Kiev ai barconi in mare e agli oltre 200 europarlamentari di cui vanta l’obbedienza (tra cui Cofferati, Pitella, Spinelli). I nostri 50 segugi delle balle in rete (a proteggere quelle su schermo o in edicola ci pensa l’AGCOM,.come quando rampogna chi ha fatto dire a Orietta Berti che vota Cinque Stelle e si compiace quando l’elegante Santoro definisce “giornalisti da vomito” quelli candidati dallo stesso Movimento), cosa avranno individuato e eliminato in quanto delittuose fake news? O piuttosto e peggio, come linguaggio dell’odio, che pure, secondo Boldrini, rientra nelle competenze dei novelli Torquemada? Quelle di chi dà del razzista, xenofobo, fascista a quanti pensano che le migrazioni di massa non siano un bene per l’umanità e, tanto meno, per chi migra e chi riceve? O quelle di coloro secondo cui razzista, xenofobo, fascista e pure colonialista è chi trova giusto e benefico strappare i popoli dalle loro terre e culture, per porli a disposizione di predatori e distruttori?

domenica 21 gennaio 2018

SIRIA: Mission accomplished, o mission impossible? Curdi santi subito. Come al solito trattasi di farabutti.


E’ da qualche tempo che la Siria è ai margini delle cronache e analisi, salvo che per i fissati, in buona, ma più spesso in malafede, del popolo curdo santo subito. Qualsiasi costo comporti quella santificazione: pulizie etniche, distruzione di integrità nazionali, invasione e occupazione di padrini coloniali, rafforzamento ed espansione di Israele, ulteriori devastazioni, lutti, sangue. Coloro che si sentono dalla parte dell’ennesimo paese che la “comunità internazionale” (Nato, Israele, UE e Usa) sbatte al muro per cibarsi poi dei suoi frammenti, pensano che un’assidua attenzione e un irriducibile sostegno alla causa della Siria unita, laica, sovrana, multiconfessionale e multietnica, antimperialista, antisionista, progressista, non siano poi più tanto urgenti, “visto che si è vinto”. Una vittoria che, però, ad altri rischia di suonare come l’illusorio “mission accomplished” di Bush il Fesso sulla nave USS Abraham Lincoln. Come è noto, al proclama di missione compiuta seguirono, ad oggi, 17 anni di guerre e terrorismo, un genocidio strisciante di cui fanno parte, oltre ai 3 milioni di iracheni, oltre 5mila GIs americani.

Tout va bien, madame la Marquise
In effetti, a un giro d’orizzonte un po’ disinvolto il quadro potrebbe apparire discreto, sicuramente migliore di 6 anni fa, quando USraele, Turchia e principastri del Golfo disseminarono la Siria di terroristi jihadisti, rastrellati in Medioriente, Asia e tra gli immigrati in Europa (che il buonismo d’annata ritiene integrati ed assimilati), addestrati in Turchia e Giordania, riempiti di petrodollari e droghe stimolanti crocefissioni e squartamenti. Isis e Al Qaida (nelle sue varie riedizioni) cacciati da Mosul, da quasi tutto l’Iraq, da Aleppo, Raqqa e Deir Ez Zor. Assad tuttora al potere, sorretto dalle armi dei suoi patrioti ed alleati e, ancora più robustamente, dal sempre più ampio consenso del popolo. Buona parte dei 6 milioni di siriani sradicati, evacuati e rifugiati, che Soros, le Ong dei salvataggi e i volponi dell’accoglienza avevano sottratto alla difesa e ricostruzione del paese e destinato al sottolavoro sottopagato UE, sono rientrati, stanno rientrando, preparano il rientro. La questione della totale liberazione del territorio nazionale e, dunque, la ricostituzione della sua integrità e unità sarebbero state risolte una volta che i gruppi di terroristi, rintanati nelle zone di de-escalation concordate ad Astana, si sarebbero convertiti alla pacifica convivenza. Intanto i russi sarebbero riusciti a sedurre i curdi a mollare gli americani e ritirarsi in buon ordine nelle loro riserve originali, per la felicità di una Siria integra, pacificata, da avviare alla ricostruzione.

Allungando lo sguardo si traeva conforto dal fallimento di un’insurrezione in Iran che, partita dalla protesta contro la marcia indietro sul piano sociale che il “riformista” Rouhani  aveva inflitto a operai e contadini riscattati dal predecessore “conservatore” Ahmadinejad, i soliti infiltrati alla Otpor avevano tentato di colorare a stelle e strisce. La Siria avrebbe potuto continuare a valersi del sostegno del forte vicino e, accanto a esso, dei fratelli Hezbollah, cruciali sul terreno quanto i russi nell’aria.

Ma anche il quadro generale, planetario, diceva bene ai giusti e maluccio ai malvagi. Le mattane che il polentina della Casa Bianca andava combinando, o di suo, o perché sotto schiaffo del rettilario obamian-clintoniano, forte di Cia, FBI, Pentagono e della bufala Russiagate, si risolvevano in altrettante palle in buca dei suoi avversari. Per la prima volta la collaborazionista e sodomizzata dirigenza palestinese denunciava la fregatura di Oslo, quegli accordi che, per l’espansionismo genocida di Israele, avevano costituito l’ Iron Dome (sistema antimissile) contro ogni prospettiva di Stato palestinese. L’apocalisse nucleare fatta brandire a Trump contro il nanetto nordcoreano da un’industria in fregola di produzione e ammodernamento, prometteva di ridursi in zolfanello grazie al riavvicinamento delle due Coree come consacrato dall’unificazione olimpica. E perfino in Venezuela, le polveri da sparo della controrivoluzione e della  destabilizzazione Usa, prima economica, poi terroristica, poi politica, venivano bagnate da una successione di vittorie elettorali di Maduro e da una finalmente più rigorosa e coerente risposta agli sguatteri di Washington, istituzionale, sociale, finanziaria, militare.


Uno sguardo senza le lenti del trionfalismo
Tutto ciò se insistiamo a voler guardare le cose attraverso le lenti dell’ottimismo e della fiducia incondizionata a coloro dalla cui parte ci schieriamo. Togliendoci quegli occhiali e assumendo una posizione, diciamo, più laica, lo scenario rivela zone piuttosto oscure. Mentre gli israeliani sono alla centesima, più o meno, incursione su obiettivi militari e civili siriani, fatti passare per rifornimenti iraniani a Hezbollah (e anche se fosse), senza che nessuno fiati e denunci gli evidentissimi crimini di guerra dello Stato più canaglia della regione, i loro alleati più stretti dopo gli Usa, capeggiati dal golpista Capitan Fracassa di Riyad, concludono, seppure a fatica, l’eliminazione dalla faccia della Terra del popolo yemenita. Sta bene a Israele e agli Usa e anche qui non c’è nessuno che fiati o denunci crimini contro l’umanità che, tra i tanti paralleli imperialisti e colonialisti, trovano, per proporzioni tra vita e morte, quello più azzeccato nei 20 milioni di congolesi fatti fuori da re Leopoldo del Belgio.

Distogliendo le sue migliori truppe dalla linea rossa dell’Eufrate a nord-est, evidentemente subita come insuperabile da un concerto russo-statunitense (alla faccia dell’integrità territoriale), i reparti d’élite “Tigre”, Damasco ha lanciato, con successo, l’offensiva contro l’enclave turco-Al Qaida (detta qui Esercito Libero Siriano) di Idlib, nel nord-ovest: Trattasi di una delle sei zone di ”riduzione del conflitto” decise ad Astana tra turchi, iraniani, siriani e russi. Il fatto che la Siria voglia riprendersela, come è suo sacrosanto diritto/dovere, come anche che abbia dovuto rinunciare alla pur annunciata riconquista della zona a est dell’Eufrate, potrebbe anche far sospettare qualche discrepanza tra Mosca e Damasco.

Chi spara droni sui russi? Chi deve intender intenda…
Per tutta risposta all’iniziativa siriana, condotta con il sostegno dei raid aerei russi (le sfaccettature e incongruenze della situazione sono infinite), la Turchia ha inviato massicci rinforzi nella regione, già da lei presidiata insieme ai suoi mercenari jihadisti, e qualcuno è saltato con vigore addosso alle basi russe a Hmeimim e Tartus. Si è trattato di un’incursione di 13 droni, tutti abbattuti o costretti all’atterraggio, diretti dall’alto da un pattugliatore Usa “Poseidon”, in volo a portata di comunicazione elettroniche. Droni  che, composti da truciolato, intendevano dare l’aria di ordigni confezionati da dilettanti (i ”ribelli”), ma che contenevano apparecchiature ed esplosivi high-tech. Del resto i “Poseidon” Usa vengono regolarmente impiegati per dirigere i droni di Kiev contro le repubbliche popolari del Donbas e il massimo esperto e utilizzatore di droni resta la CIA.

Putin si è affrettato a far intendere a chi deve di sapere perfettamente chi avesse allestito l’operazione. Il ministro degli Esteri, Lavrov, si è spinto più in là, con accenni agli Usa. Ma il decollo dei droni è avvenuto nell’area di Idlib dove comandano soltanto i turchi. Di Erdogan, considerato formalmente tanto amico di Mosca e tanto inviso agli Usa, pur sempre alleati e padroni Nato, è buona norma fidarsi meno delle Ong quando dicono che stanno lì per salvare i rifugiati. Non è mica tanto lontano il ricordo del Sukhoi russo abbattuto dai suoi caccia.

USA: noi in Siria per sempre. Erdogan: e a me?


Nella sua multidirezionalità, il Fratello Musulmano Erdogan, dal 2011 retroterra e fornitore di mercenariato terrorista per il mai abbandonato scopo di abbattere Assad (ma anche Al Sisi) e, come programmano da Usa, Israele e Saudia, spartirsi una Siria affidata a fiduciari tribali locali, ha inviato truppe, proiettili di cannone e minacce al confine di Afrin.  Afrin è il cantone curdo nel nordovest della Siria che i curdi del Rojava sperano di riunire a sè, con il solito aiuto dei boss nordamericani.

Sembrerebbe, però, che a Erdogan, più che saltare addosso al piccolo ridotto curdo di Afrin, interessi mandare un avvertimento agli Usa. Quegli Usa che, a fronte del più volte annunciato ritiro delle truppe di Mosca, se ne sono ora usciti (Tillerson al Brookings Institute) con assoluta tracotanza dichiarando che in Siria ci stanno per restarci. Come del resto è loro costume strategico: vedi Afghanistan, Iraq, Somalia, Haiti, Honduras Guantanamo, ma anche Giappone, Germania, Italia, Kosovo….

E, allo scopo, stanno allestendo la “Border Security Force” (BSF), la forza di sicurezza per il confine, composta da 30milla uomini, ovviamente “proxies”, come chiamano i mercenari, eminentemente ascari curdi già collaudati nella pulizia etnica delle popolazioni arabo-siriane titolari del vastissimo territorio di cui l’YPG si è appropriato grazie ai bombardieri e alla Forze Speciali Usa.

Affermano, Trump e Tillerson, che la guerra contro l’Isis è vinta, onde per cui logica rende necessaria una forza militare, senza precedenti per numeri e armamenti, che garantisca la sicurezza del confine tra Siria, Turchia e Iraq. Garantisca contro chi, visto che l’Isis è sconfitta? Cosa sulla quale concorda anche Mosca, ma non Tehran e non Damasco. Che, come Mosca, sanno benissimo come stanno le cose e lo dicono anche. La sconfitta vera il jihadismo, incistato in Medioriente, Africa, Asia, in tutti i paesi che imperialismo-sionismo-Golfo intendono sconvolgere, sembra averla subita solo in Iraq, per merito di una forza nazionale militare ricostruita e, soprattutto, delle milizie popolari patriottiche scite-sunnite, anche qui con il concorso di Hezbollah e di reparti iraniani.

Isis sconfitta, o integrata?

Israele e curdi uniti nella  lotta

Quanto alla Siria, numerose e inconfutabili sono le prove video e testimoniali della collaborazione tra l’Isis, Stati Uniti e SDF, i mercenari curdi delle sedicenti Forze Democratiche Siriane che, soltanto una propagandista delle vulgate imperiali come Chiara Cruciati del “manifesto” riesce ancora a far passare per aggregato multinazionale democratico di assiri, turcomanni, arabi, circassi, vattelappesca e…curdi. Migliaia di combattenti Isis sono stati prima prelevati da Raqqa con tanto di colonne ed elicotteri Usa, per essere subito dirottati a Deir Ez Zor. Poi, in procinto di essere liberata dai siriani anche questa città, ecco un’altra operazione di salvataggio, con inserimento finale dei jihadisti nelle formazioni curde a comando usa che costituiranno i 30mila delle famose forze di sicurezza. Altri ne serviranno per accendere un po’ di fuochi dove, fallita la conquista, deve valere la strategia del caos.

Carta vince, carta perde. Quale carta? Non credo che,. al momento, sia quella data dai russi. Non credo nemmeno che sia Erdogan a dare le carte. Semmai bluffa. Con i russi, ma non troppo. Con gli Usa, ma anche contro. Contro i curdi, ma senza spingere. L’enorme territorio ora invaso dai curdi potrebbe venire buono per accogliere i curdi che un giorno o l’altro Erdogan caccerà definitivamente dalla Turchia. Del resto gli andava benissimo che i suoi curdi scappassero nel Kurdistan iracheno del socio contrabbandiere Barzani (ora felicemente svaporato, e non per merito di Turchia o Usa).

Quello che a Erdogan, il neo-ottomano torna sgradevole accettare è che la Siria venga fatta a pezzi senza che ne rimanga una fetta a lui che, pure, per tanti anni si è speso per quell’obiettivo. Obiettivo che sicuramente non ha mai abbandonato. Solo che la partita non sta volgendo a suo favore e siamo vicini a una goleada dei nemici più potenti di Assad: Usa, Israele, Sauditi e tirannelli annessi che ora, chi più chi meno. Costoro, con grande tempismo, hanno risolto di sostituire lo sputtanatissimo e irrecuperabile mercenariato Isis-Al Qaida con quello, meno sanguinario, ma moralmente ancora più miserabile, dei curdi. Così Erdogan rimane l’unico che ancora pensa di avvalersi di ascari jihadisti, da lui detti Libero Esercito Siriano, anche perché sarebbe un controsenso mettere al proprio servizio i curdi, soldataglia che va bene a americani e israeliani.


Del cinico, opportunista e inaffidabilissimo sultano si conosce la strategia, ma se ne possono prevedere a fatica le mosse tattiche, dettate magari anche dall’improvvisazione. Chi mostra ancora di credergli, e forse non ha altra scelta a dispetto dei dubbi di Tehran e Damasco (che ha promesso di abbattere aerei turchi che si affacciassero sul territorio siriano di Afrin), sono i russi. Tanto che gira la notizia che le loro forze presenti in Afrin, dove tentavano di mantenersi buoni i curdi, pensate!, avrebbero iniziato il ritiro di fronte alla pressione turca. Che per ora rimane quella, una pressione: roboanti minacce, ammassamento di truppe al confine, cannoneggiamenti e altrettanto roboanti promesse dell’YPG di fare di Afrin la tomba di tutti i turchi.

Turchia-Usa: un pezzo a me un pezzo a te.
Passiamo a conclusioni relativamente fondate. Il territorio di Afrin che i turchi minacciano di invadere non è un cantone curdo, come i ragazzi di bottega degli Usa nel “manifesto” vorrebbero far credere. La regione intorno a questa città contiene solo una minoranza di curdi, divenuta ora, con l’arrivo di 400mila profughi arabi siriani dai vari fronti, una minoranza infima. Forse Erdogan, di fronte a una presenza di migliaia di soldati Usa e alle loro ormai consolidate dieci basi, zeppe di reclute curde e Isis, si è rassegnato ad accettare un protettorato Usa su un’ampia area siriana amministrata dai curdi. In cambio non rinuncia a sua volta a una presenza turca nel nord della Siria, finalizzata, quanto quella Usa-curda, a mantenere in Siria focolai di guerre e destabilizzazione. Con circa un quarto della Siria sotto controllo permanente di due potenze votate alla distruzione di quella nazione, c’è proprio da chiedersi come si faccia a cantare vittoria. O c’è chi pensa che a tutto questo rimedieranno i russi affrontando in campo aperto sia gli uni che gli altri?

Vi sembra fuori di mano pensare che il sultano ottomano pensi di acchiappare anche Afrin che è appena a nordest di Idlib, unirla a quest’ultima provincia e assicurarsi in tal modo una vasta zona del territorio nazionale siriano, da cui continuare a lanciare sabotaggi contro Damasco?  Probabilmente confida che tra l’enorme zona araba che gli Usa hanno sottratto alla Siria a nordest e affidato alle istituzioni di proconsoli curdi e l’area Afrin-Idlib sotto controllo turco e presidiata dai surrogati jihadisti, a un passo da Aleppo, si possa addivenire a una composizione, benedetta dalla comune alleanza Nato e dal comune intento di liquidare Assad e squartare la Siria tra se stessi e proconsoli vari. Come progettato dagli Usa fin dagli anni’50 e come pianificato da Israele nel Piano Yinon del 1982. Insomma, tu, Usa, ti assicuri una fetta di Siria a cavallo del confine iracheno, che contiene i più ricchi giacimenti di petrolio e tieni sotto controllo i curdi e io, Turchia, mi prendo l’altra fetta. Insieme strappiamo al detestato arco scita il ponte Siria-Libano-Iran e magari anche un buon tratto della nuova via della seta cinese.

Saremo a una specie di Corea spaccata in due dopo il 1952, o, meglio, a una Germania del dopoguerra: State ora entrando nella zona americana… britannica… francese… russa…” Siria divisa est”., come volevasi fare.

Il rispettabilissimo ministro degli esteri russo, Lavrov, ha esternato il sospetto che nelle zone di cui abbiamo trattato si vogliano istituire delle autorità autonome dal governo centrale e che ciò farebbe pensare a una spartizione della Siria. Si direbbe vagamente scaturito. O forse no, visto che Mosca è stata la prima a parlare, l’anno scorso, di Siria federata. Riseppellendo poi tale concetto di fronte alle vivissime rimostranze di Damasco e Tehran. Che sanno bene di cosa parlano. Forse a Mosca si sono detti: un altro Afghanistan, un altro pantano? Magari è meglio accordarsi ognuno sui propri interessi e sulle proprie basi.

Vogliamo parlare di vittoria? Insistiamo pure, ma limitiamoci ad attribuirla al fatto che un popolo, nonostante sia stato maciullato, deportato e attirato lontano dai cialtroni dell’”accoglienza”, resta in piedi, unito e combattivo e che Bashar el Assad, il migliore governante del Medioriente e uno dei migliori del pianeta, stia ancora al suo posto. Chissà, forse a dispetto delle Grandi Manovre dei Grandi, i siriani rimasti sotto il gioco dei suoi nemici e dei relativi burattini, non ci vorranno stare. Chissà ,forse il caos sotto ai piedi degli invasori riuscirà meglio che quello sotto il palazzo di Assad.


Resta solo da dire che, tra tutti gli attori in scena, quello che “il manifesto”, in perfetta unanimità con i carnefici imperialisti, ha esaltato come “forza democratica, partecipativa, pluralista, femminista, ecologica”, cioè i curdi dell’invasione del cosiddetto Rojava, impegnati a sostituire a un paese moderno, laico, emancipato, progressista, libero, un cadavere sminuzzato, affidato a quanto di più necrofago e reazionario esiste al mondo, rappresentano la presenza più abietta e sporca..










lunedì 15 gennaio 2018

Da Belgrado a Hollywood, da Oprah a Catherine DONNE IN NERO


Le Donne in Nero incominciarono a gironzolare in aree di conflitto alla fine degli anni’80. Furono fondate, in piena prima Intifada, da un gruppetto di bene intenzionate donne israeliane che ritennero di superare  lo scontro tra palestinesi in lotta di liberazione e invasori ebrei in fregola di colonizzazione, promuovendo iniziative congiunte di pace e riconciliazione. L’operazione aveva un vizio che ne minava ogni possibilità di risultato positivo: l’utopia che tra dominanti e dominati si potesse arrivare alla pacifica convivenza, rimandando a un qualche roseo futuro la soluzione del problema. Che, invece, in questo modo, veniva sottratta a chi aveva i titoli per richiederla “con tutti i mezzi”, come prescrive la Carta dell’ONU, a sua disposizione. Tuttavia, diversamente da altre epifanie di donne in nero, mirate con ogni evidenza ad annacquare le giuste lotte in un paralizzante volemose bene a prescindere e a sabotarle condividendo i pretesti del carnefice (“democrazia”, “diritti umani”, “donne imprigionate nel velo”, “dittatori”), quella in Palestina ha avuto l’indubbio merito di diffondere conoscenze sulle nequizie dei genocidi sionisti.

Cosa che molto meno si verificò in relazione ai crimini dell’occupazione britannica, sempre nel nome della pace e sempre con “donne per la pace”, a metà degli anni ’70 in Irlanda del Nord. Anche qui, basta con la lotta di popolo contro coloni ed esercito di occupazione, specie se armata, e, solo di riflesso, basta anche con la repressione delle truppe britanniche e dei loro surrogati massonico-fascisti dell’unionismo protestante. Visto che, come tra i repubblicani, anche tra gli unionisti c’erano operai, che si unissero  e lasciassero perdere l’anacronistico mito “nazionalista” della riunificazione.
 
Alla fine del giorno, la lotta di liberazione era scomparsa e Londra era tornata a regnare. E’ successo così sempre e ovunque, tanto da far pensare male, ma da prenderci: che questo pacifismo, tanto più prestigioso perché di donne, non l’abbiano inventato quelli che con la repressione non ne venivano a capo? Un’arma di distrazione di massa? Le due iniziatrici del movimento, Betty Williams e Mairead Corrigan, vennero insignite del Nobel per la pace. Quelli di Oslo sanno bene chi premiare. Chiunque risparmi danni allo stato di cose esistenti e ne rafforzi la presa sui subalterni. Vedi, Rabin, Kissinger,  Obama, Gorbaciov. Il trucco sta nel mettere sullo stesso piano le parti in conflitto, di solito un carnefice che gli dà giù e una vittima che non ci sta. Privata delle sue armi la vittima, il rapporto di forze così sancito stabilisce l’esito del confronto. In Irlanda come in Palestina come in Serbia, come dappertutto.

Donne nere per Clinton a Belgrado
Personalmente ho visto la maschera delle Donne in nero schiantarsi clamorosamente tra le macerie di Belgrado durante l’aggressione Nato del 1999. Lì la lenzuolata nera è andata a coprire nientemeno che la quinta colonna degli squartatori della Jugoslavia. Sommessamente meno bombe, ok, ma prima ancora e a piena voce meno “dittatore Milosevic”, meno “ultranazionalisti fascisti serbi”, meno repressione di bravi pacifisti come i sorosiani  di Radio B-92 (gemellata, ricordiamocelo, con le tutine bianche di Casarini e Radio Sherwood) e di Otpor, formazione di nonviolenti finanziata da Washington e Berlino e addestrata da un generale dei Marines a Budapest. Rischiarono il Nobel della pace anche queste nere belgradesi quando, a Jugoslavia distrutta e Serbia presa alle spalle, insistettero a servire i boia del loro paese e a esonerarli dei loro crimini, propalando l’inganno della pulizia etnica serba a  Sarajevo e del ”genocidio” serbo a Srebrenica.

Belgrado. Donne in nero contro il “genocidio di Srebrenica”

L’obiettivo solennemente dichiarato è sempre la fine delle violenze. E, guarda caso, senza eccezione questo nobile intento delle sante donne si manifesta nel momento in cui un tipo di violenza, quello dell’aggressore o del potere costituito, attraversa una fase di maggiore difficoltà, mentre l’altro, quello di chi si difende o lotta per liberarsi da una condizione di sottomissione, vede balenare all’orizzonte una prospettiva di vittoria. Ultimamente i fautori di una soluzione non violenta della crisi siriana si sono materializzati nel preciso momento in cui al mercenariato jihadista delle potenze attaccanti le forze patriottiche imponevano la ritirata. Di solito, quando donne in nero e affini riescono a far passare il discorso della pacificazione attraverso la nonviolenza, grazie a Premi Nobel, manipolazione dell’opinione pubblica e supporto mediatico, la parte che lo prende in quel posto sono i giusti, mentre il prevaricatore (ri)stabilisce il proprio ordine. 

La vera funzione delle Donne in nero è quella di tagliare le gambe alle forme di lotta che al padrone fanno male, a dispetto delle parecchie attiviste, prede di dabbenaggine e pie illusioni, che ne costituiscono l’inconsapevole, ma poco autocritica e molto autocompiaciuta, truppa. Tutto questo con vista, tra le pieghe delle palandrane nere, sulle macerie fumanti e le distese di cadaveri in Iraq, Libia, Siria, tutte attribuibili a chi su guerre, conquiste, genocidi fonda profitto e potere, ma tutte attribuite alla “violenza” in quanto tale, categoria dello spirito inventata con l’unico scopo di spargere nebbia su torti e ragioni e offuscare soprattutto le seconde. 

Dalla nonviolenza ad Al Qaida
Da sotto quei panneggi che pretendono di spargere il lutto su ogni violenza, riuscì addirittura a sbucare Al Qaida. Fu quando l’Assopace, associazione di Luisa Morgantini, se ne usci con un’incredibile analisi in cui, sulla falsariga di quanto Obama andava cianciando sui ribelli “moderati” in Siria, di Al Qaida si elogiava la capacità di amministrare comunità, il sostegno delle popolazioni e, tutto sommato, una possibile scelta per il futuro della regione alternativa ai cattivi dell’Isis.. Meglio Al Qaida, protagonista, al soldo delle potenze occidentali e di Israele, di efferatezze senza uguali tra Medioriente e resto del mondo, che il “sanguinario dittatore Assad”. E a dimostrazione che l’ordine di servizio per questa rivalutazione promanava dalla solita centrale, ecco che anche in Siria germogliavano donne in nero e caschi bianchi a perorare il superamento della violenza attraverso il dialogo. Dialogo tra Davide e Golia. Con Golia che restava quello che è, ma con Davide senza la fionda.



Pornografia in nero
C’è un filo rosso, anzi nero, nerissimo (in senso cromatico e morale), che unisce le donne in nero, quelle apparse per calmierare insurrezioni, rivoluzioni e resistenze, alle ciabattone hollywoodiane della recente kermesse in nero anti-molestie. Eroine della più manipolata e manipolante industria subculturale del mondo, merce avariata  di un postribolo dove tutto – salvo le eccezioni necessarie alle apparenze -  è prostituzione agli interessi di una criminalità storica organizzatasi in élite politica, finanziaria, militare, mondialista. Il filo nero è quello del tessuto che, anche in occasione dei Golden Globe, ha occultato, sotto il nero di una nobile solidarietà, i fini abietti dell’establishment. Il tutto in una perfetta continuità degli strumenti ideologici con cui l’establishment persegue quei fini: puritanesimo e ipocrisia.

Puritanesimo delle originali Donne in nero, integraliste della nonviolenza e tanto accecate dalla purezza dei propri intenti, dalla propria superiorità morale rispetto alle parti in causa, da non avvedersi come sistematicamente la loro equidistanza si risolveva in una fregatura per le vittime e in un vantaggio per i carnefici. Come storicamente dimostrato dalla Palestina all’Irlanda, dalla Serbia alla non ancora del tutto normalizzata Siria, dato che lì la resistenza delle forze armate e del popolo non si è fatta convincere che a stendere la mano ai tagliatori di teste, interposte teste di legno dei necrofori USraeliani, sauditi, turchi, qatarioti, ci si sarebbe trovati a consumare tutti quanti uniti tarallucci e vino su una tavolata fatta di salme.

Lotta di classe o lotta di genere?
L’ipocrisia  è quella che accompagna il consolidamento e l’espansione di profitto  e potere ovunque una minoranza infima si fa élite oligarchica e, pretendendosi portatrice di valori superiori alle plebi razzolanti nell’ignoranza e nell’egoismo. Nel caso di Usa e Israele (che non si sa se dei primi sia padrino o figlioccio), ci si è autoassegnati  il “manifesto destino” di un’eccezionalità conferita da dio e che legittima ogni prevaricazione, esonera da ogni crimine, rovescia il male in bene (di solito calcolabile con il proprio patrimonio in banca e il numero di creature inferiori soggiogate o tolte di mezzo).

Dalle suffragette alle Star di Hollywood
L’esibizione pornografica (dal greco πόρνη, porne,  meretrice) delle varie Mery Streep e Nicole Kidman ai Golden Globe era il coronamento di un’operazione di cui è difficile stabilire il punto di partenza. Sicuramente successivo al movimento delle suffragette di inizio secolo che rivendicavano la sacrosanta parità di diritti con gli uomini, a partire dal’elettorato attivo e passivo. Un seme se ne può forse individuare nei movimenti femministi del post ’68 che tra queste rivendicazioni storiche iniziarono a far balenare uno scontro femmine-maschi che oggettivamente non sempre si poneva a fianco della lotta di classe, ma finiva con il distrarre da essa, innescando in sua vece una guerra dei generi, paradigma fondamentale per un progetto di autocrazia mondiale che necessita della frantumazione di ogni coesione sociale, o nazionale (maschi-femmine, giovani-anziani, cristiani-musulmani, sciti-sunniti, curdi-arabi, migranti-autoctoni, ecc.).


A questo punto il sistema non se lo fece dire due volte e, operando sulla componente più negativamente mascolinizzata del movimento, un po’ per volta lo trasformò in lotta del matriarcato contro il patriarcato, con per posta la gestione dello stesso assetto capitalista, oligarchico, guerrafondaio.. Non gli parve vero di aver sottratto alla lotta degli oppressi e sfruttati questa sua componente cruciale. Epitome della corruzione della lotta delle donne per contribuire a liberare l’umanità dal gioco patriarcal-borghese-capitalista è stato lo scatenamento della rivolta femminista alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump. Due milioni di donne presero a pretesto alcuni borborigmi sessisti e razzisti di Trump e, indifferenti a quelli che, prima della sua presa in ostaggio da parte di Cia, Pentagono e Wall Street, erano i suoi propositi di riscatto operaio e di riconciliazione con Mosca, si rivoltarono sotto la guida e nel nome della sconfitta Hillary, corrotta beneficata da miliardi sauditi, sanguinaria assassina in Iraq e Libia, golpista in Honduras, dell’Obama delle sette guerre d’aggressione e del primato di vittime di sua mano rispetto a tutti i predecessori, e di George Soros, agente mondialista di genocidi e destabilizzazioni economiche e politiche.

Imperialismo contro sovranità nazionale = donne contro uomini
La guerra totale per la frantumazione della società occidentale (e non solo, vedi la versione desnuda della donne nere: Pussy Riot) tra donne e uomini, stavolta centrata, con ipocrisia ancora più esasperata, su una sessuofobia mascherata da “molestie”. La campagna molestie, peraltro unidirezionali degli uomini alle donne, sostitutrice delle ben più fondata denuncia dei femminicidi,  venne affidata a un mondo da sempre contiguo e succube al potere e portatore del suo Zeitgeist, spirito del tempo: quello dell’infotainment: cinema, televisione, media. Molestie che, classificati tali anche i tentativi di approccio, il corteggiamento, la seduzione, un polpastrello sul ginocchio (“Quando una donna dice no è no”.  Ma quando mai!), creava i presupposti per una separazione assoluta fondata, anziché sui naturali connotati di curiosità e attrazione, sul sospetto e ostilità a prescindere. Con ulteriore disistima per l’eterosessualità e la facilitazione delle sue divergenze.  Thomas Robert Malthus, il teorico della riduzione della popolazione, non avrebbe potuto inventarsi di meglio, dopo e oltre le cospirazioni dei mondialisti affidate a USraele.

Oprah e Weinstein
ImmaginatevI le levatrici e conduttrici delle più scurrili e culturalmente hard core trasmissioni della nostra tv, Maria de Filippi e Barbara d’Urso (l’avete presente, scosciata e salivante, che finge di intervistare Renzi o Berlusconi?), assurgere a simbolo della rivolta delle donne contro molestie e abusi del potere maschile? Noi non ci siamo arrivati, ancora. Il gineceo di Hollywood sì. L’equivalente delle due signore del basso impero televisivo nostrano è Oprah Winfrey, una miliardaria che a forza di salamelecchi all’eccezionalità americana, da conduttrice è diventata la tycoon di un impero mediatico. Intima, sodale, amica dai tempi più sospetti, del sessuomane farabutto, più orco di tutti, Harvey Weinstein, al quale una teoria sconfinata di scaturite imputa oscenità trent’anni dopo, urlando alla cafoneria in nero trasparente che trascinerà l’America all’orizzonte di una nuova alba, è assurta a portavoce dell’armata sconfinata che ha subito molestie. Anzi, la candideranno a presidente degli Stati Uniti. Eterogenesi dei fini? Macchè: omogenesi dei fini!  Dopo il duo Clinton, i due Bush, Obama, Trump, Bilderberg non poteva trovarsi marionetta migliore. Avesse mai detto una parolina di critica su quanto gli israeliani fanno in Palestina, o Obama e Clinton hanno fatto a mezzo mondo.

E che facciamo noi uomini. Beliamo in coro appresso a quelle che, inventate le categorie politiche contrapposte “uomini” e “donne” e fattesi categoria del bene, ci riducono compatti a categoria del male. Nel tripudio di maschi e femmine del progressismo liberal.
Ringraziamo con stima e affetto e grande ammirazione per il coraggio opposto alla torma urlante delle arpie progressiste di regime, Catherine Deneuve e le cento donne che con lei hanno rivendicato il diritto e la bellezza dei tentativi di seduzione,  così rivelandoci dove è custodita l’intelligenza delle donne. E, con essa, la vita della specie. “Il manifesto”, che ha trovato in Oprah la sua nuova Hillary, ha coperta la Deneuve di vituperi. Noi, con gli occhi lucidi, la ringraziamo per aver gradito quel fischio che le facemmo appresso quando  ci strizzò l’occhio dagli schermi.

Volete un’altra donna vera? Date un’occhiata a questo video: AhedTamimi, 16 anni, donna palestinese. https://www.youtube.com/watch?time_continue=26&v=MxhNRs-j6b4


Spielberg, Oprah

Per inciso. Omaggi e peana reciproci tra la nere donne di Hollywood e un santone della propaganda USraeliana, Steven Spielberg, da sempre regista di  abilmente confezionati polpettoni a sostegno delle intossicazioni, specialmente belliche, dell’establishment imperialista. L’occasione è l’ultimo suo lavoro “The Post” che, nel momento della sua massima decadenza deontologica da massimo portavoce, insieme al sionistissimo New York Times, delle fake news rigurgitate dallo Stato Profondo Usa, esalta il “Washington Post”, verniciandone le attuali oscenità con la celebrazione delle rivelazioni fatte al tempo del Vietnam.(I “Pentagon Papers”). E chi è il padrone di questo modello mediatico di intossicazioni di regime? Jeff Bezos, lo schiavista di Amazon. Il cerchio si chiude.