“Poi i governanti
inventeranno basse bugie per dare la colpa al paese attaccato e ognuno sarà
felice di queste falsità che placano la coscienza, le studierà diligentemente e
rifiuterà di esaminare qualsiasi prova contraria. Così, un po’ per volta,
convincerà se stesso che la guerra è giusta
e ringrazierà Dio per l’ottimo sonno di cui godrà dopo questo processo
di grottesco auto-inganno”. (Mark Twain)
Prosegue la discesa agli inferi dei popoli cubano e greco. Qui, col
terzo memorandum della Troika, il sicario locale conduce a termine sul suo
paese la stessa missione che venne ordinata agli sgherri della Diaz a Genova, o
ai narcopresidenti in Messico. Come Menem in Argentina, prima del default, si
vende anche i cimiteri. quelli nei quali finiranno anzitempo i pensionati al
minimo a cui, dopo il companatico s’è tagliato anche il pane. Chi pensate abbia
comprato i 14 aeroporti greci? Ovvio, i concittadini di Merkel e Schaeuble,
quelli che a forza di vendite di armamenti, imposti dalla Nato, hanno
contribuito a creare lo smisurato debito greco. Fico, no? Da quando principi, papi e re si sono indebitati con le banche, che da
lì in poi hanno prosperato fino al dominio planetario, per finanziare crociate
predatorie, debito, banche e guerre vanno di pari passo. E se qualcuno non
dovesse aver capito la lezione, tipo tutti quei greci in piedi che hanno votato
No alla Troika, si convincerà, forse, a vedere affondare le proprie isole (in
vendita quando saranno sgombre), e la propria terraferma, sotto uno tsunami di
migranti. Vengono sradicati dalla Siria e dall’Afghanistan non solo per
sgomberare quei luoghi e quelle risorse da popolazioni superflue, ma anche per scaricarne il peso su quei pezzi d’Europa
che già non ce la fanno più, risultano zavorra e su cui non sta bene, per ora, scaricare
bombe o califfi.
Là, mentre a Guantanamo un prigioniero
yemenita, Tariq Ba Odah, in sciopero della fame dal 2007, ma mantenuto in vita
con la tortura dell’alimentazione forzata nasale, se ne sta andando all’altro
mondo perché il suo corpo non è più in grado di assorbire nutrimento, per le
vie e dai balconi della vicina Santiago e della lontana Avana, folle salutano la visita del “valoroso veterano del Vietnam” (!), John
Kerry, inebriandosi dello sventolio di bandiere a stelle e strisce. Lui ha
appena pilotato, per interposta persona s’intende, il cacciabombardiere che ha
frantumato una festa matrimoniale a Kandahar e il drone che, “fallendo” il
bersaglio Isis, ha sventrato un ospedale siriano. Ha anche da poco fatto
arrivare qualche decina di milioni a terroristi venezuelani perché preparino
gli Usa alla difesa da quella che per Obama “è la rara e straordinaria minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti”.
Loro, le folle, sembrano proprio quelle che a milionate incontravamo il 1.
Maggio, fazzoletto rosso al collo, ad ascoltare Fidel e a gridare “Patria o
muerte”, “Socialismo o muerte”, “Hasta la victoria siempre”. In greco si chiama
di·sto·pì·a, la dislocazione di un viscere o di un tessuto dalla sua normale sede.
Oggi, però, ci occupiamo dell’Iran, terzo soggetto
nella trilogia dei suonatori e suonati. Quello per il quale non tutti i giochi
sembrano ancora fatti, diversamente da Cuba scintillante di stelle e strisce e
dalla Grecia dove, però, da un spiraglio, almeno si vedono stelle e strisce
bruciate in piazza. Hai visto mai. Ma partiamo dalla periferia della potenza
regionale, là dove i propilei della Persia vengono investiti dal controcanto heavy metal di un imperialismo che a
Tehran flauta la melodia della diplomazia e del disgelo. Nella scenetta
obamiana del poliziotto cattivo e di quello buono, Siria, Iraq, Libano, Yemen,
stanno all’Iran esattamente come Venezuela, Ecuador, Argentina, Bolivia,
Nicaragua, stanno a Cuba. Lì si stupra, qui si minchiona. Politica del sorriso
verso gli uni, desertificazione del quadro di solidarietà e amicizia nel quale
questi sono collocati. Ti offro un bicchiere d’acqua, ma ti taglio
l’acquedotto. E c’è chi ci casca.